Anna cammina e continua a voltarsi, l’angoscia la opprime alle spalle, sente una presenza invisibile e costante.
In lontananza, l’eco di un canto dall’antica parvenza. La ragazza si tende ad ascoltare, immobile, con sguardo estatico e occhi persi, fissa un punto lontanissimo e irraggiungibile. Poi cala ancora il silenzio.
Passano breve istanti, poi minuti, infine incalcolabili ore.
Anna continua a camminare, le fanno male le ossa, va avanti per inerzia, con stanchezza: la meta è ignota.
Cala il sole, gettandosi a capofitto nella linea insanguinata dell’orizzonte. Vorrebbe inabissarsi nella sua pace, non risalire mai più: il peso del mondo è per lui enorme, insostenibile.
Anna avverte un immenso senso di spaesamento, le tremano le mani e sente cedere le ginocchia sotto il caldo cocente, mentre attraversa un paese sconosciuto.
È stanca. Si sdraia su una panchina, con la mano accarezza dei ciuffi secchi d’erba.
Seguendo il movimento oscillante della mano, il corpo l’abbandona lentamente, cadendo in un pesante sogno di immobilità. Sola, la mente è vigile.
Infine si addormenta, come un piccolo e tremulo camaleonte nascosto in un angolo verdeggiante di una selva inesplorata.
Dove il tempo è un altro
Si sveglia.
Il sole batte sulle palpebre, la richiama alla vita, al suo imperscrutabile destino.
Non sa quanto abbia dormito o quanto sia passato dal suo arrivo, non conosce orario. Non ha incontrato nemmeno un orologio, un campanile o una chiesa sulla sua via.
Solo interminabili e soffocanti strade grigie. Ancora nessuna presenza umana.
Qui il tempo è un altro.
Non è il tempo di coloro che si affrettano, rincorrendo numeri e appuntamenti, nemmeno il tempo di coloro che vagano senza meta alla ricerca di chissà quale evanescente chimera, neanche il tempo dei vecchi: quello insieme finito ed infinito. O quello dei giovani, che è infinito e basta. E tuttavia non basta mai.
Qui è il tempo del silenzio, delle cose mute. È il tempo della solitudine, dell’abbandono dello spirito e dei sensi.
È il grande fiume del tempo, non misurabile, che scorre e inghiotte ogni cosa nella sua inarrestabile corsa verso l’eternità.
La virtù del nulla
D’un tratto ecco sorgere improvvisamente un incontrollato e fulmineo pensiero di Anna:
“La virtù del nulla è la pace”.
La libertà è un respiro
La ragazza vaga ormai da giorni in quella che ha scoperto essere una città abbandonata.
In ogni angolo vede ricordi di un altro: oggetti personali, mobili, orologi rotti, lettere sbiadite.
Ogni tanto le sembra di sentire delle voci, rumori di bambini che corrono per le strade.
Poi si volta e non c’è nulla.
Qui Anna respira per la prima volta la libertà.
La libertà autentica, smisurata, quella di colui che è privo di illusioni e false speranze.
Quella del solitario, dell’uomo chiuso nel suo doloroso e mistico silenzio.
La libertà è il respiro delle cose che Anna finalmente può sentire, una volta spenti i rumori dell’intera umanità.
Gli uomini fanno rumore e non se ne accorgono. Un rumore davvero insopportabile.
Spento l’uomo, la voce delle cose riprende la sua intensità.
Non da luoghi d’esilio
Il suo viaggio termina qui: tra le mute pietre e la luce spenta del sole.
Anna è indifferente alla vita come alla morte, trova la pace in questo posto che sembra sorto dal nulla e che nel nulla ricadrà con un pesante tonfo.
In questo paese sconosciuto, dove il tempo è un altro, in cui regna la virtù del nulla e la libertà è il respiro della terra, Anna ha trovato la sua patria.
Forse è ancora lì ora e tenta di chiamarci, ma non da altrove, non da luoghi d’esilio.
NB. Questo racconto, Giorni d’esilio, vuole essere un omaggio ad Anna Maria Ortese.
I titoli dei paragrafi corrispondono ai titoli dei capitoli di un’opera dell’autrice: Corpo celeste (1997, Adelphi); e sono stati proprio questi ultimi ad ispirarmi immagini che ho concretizzato attraverso la narrazione.