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(Racconto surreale)
So bene che magari lei non ci crederà. Mi prenderà per mitomane: e sfido io, chi potrebbe affermare il contrario se oltre ai segni continui di inquietudine ne dò di altri anche peggiori come sostenere di avere visto e fotografato Dio. Eppure qualche buon voto in pagella mi si deve pur dare se posso dare le prove di ciò che vado dicendo in giro, come ad esempio l’intervista rilasciatami mentre seduti sotto un porticato di Palais Royal a consumare pane e biscotti intinti nella tazza di latte lui mi parla di sé.
Mi ricordo tremante, e non solo perché siamo d’inverno e il vento soffia a scompigliare capelli e concetti. In effetti faccio fatica a seguirlo, prendere appunti. Per scaldarmi accendo una sigaretta dietro l’altra con intervalli così brevi da non riuscire a consumare tutto il tabacco della precedente. Lui mi scruta, mi osserva, così almeno mi sembra di leggere nei suoi occhi. Raramente guarda al giardino, più spesso sono le finestre e gli abbaini ad attrarre la sua attenzione quasi volesse entrare in quelle mansarde per leggerci qualche pagina di storia. Intanto però divaga, passa dai nouveaux philosophes alle baulieu in fiamme. Non lo dice con sufficienza ma pretende di aver capito tutto. C’era da aspettarselo. Il bubbone stava crescendo a dismisura senza che nessuno se ne accorgesse. Lui l’aveva anche predicato: tutto fumo ai quattro venti. Adesso si cercavano gli idranti ma non era facile trovarne. Tutti arrugginiti infatti per il mancato uso da cent’anni a questa parte.
Chi mi parlava così era André Malraux sul finire dei suoi anni (da qui l’uso di nutrirsi di caffelatte, biscotti e pane raffermo perché meglio si presta a lasciarsi inzuppare). Non era stato facile istituire il contatto. Ancora più difficile scoprire dove andava a sedersi per rinfrescarsi le idee, e ciò in quanto soleva uscire da casa in ore antelucane. Per di più calcava un cappello di lana fin sopra gli occhi e vestiva un tabarro. Mi ero appostato. Per avere e potere dare la prova che si trattava di lui avevo montato sulla mia macchina fotografica uno zoom lungo circa un metro, scatti da un millesimo a quarantacinque secondi se ci si fosse trovati in piena oscurità. Poi, il colpo di fortuna. Ancora una volta la sua destinazione è il Palais Royal al fine di passeggiare sotto i portici sia per farsi venire l’appetito in vista della tazza di latte ipervitaminizzato sia per lasciare scorrere il tempo fino a quando non avrà sentito alitare il genio. Se non sbaglio è così che lui ha parlato spesso di se stesso. In preda al deliquio da onnipotenza gli veniva facile tracciare le coordinate di Cartesio, tirare le somme. Non passerà molto e la Francia ritornerà ad essere fuoco e fiamme.
Bella previsione, davvero bella. Presago di sciagure l’André. Da cosa gli venisse tale sicumera non è dato sapere, l’ha sempre celato. La maldicenza vuole che egli si proiettasse nel futuro, lo cavalcasse, in qualche caso lo spronasse. Sono gli occhi del dopo, mica del pria, a vedere meglio, ad avere la riprova di ciò che si dice. È per tale motivo che egli si era spogliato di quelli datigli dalla natura ed aveva inforcato le lenti focali: per potere distinguere in anticipo i confini della marea e delle sommosse.
Ma lasciamo stare il Malraux e ritorniamo alla mia tanto osteggiata mitomania per la quale da anni vado a caccia mica di allodole bensì di gente strana. Non che guardandosi in giro non se ne trovino; è che se vuoi qualcosa di speciale, del quale scrivere, lo devi cercare col lumicino. Io fin qui di lumicini non ne avevo avuto né avrei saputo dove trovarne uno che facesse al mio caso. Quello di Malraux infatti era dovuto al caso: nessuna prefigurazione di ciò che sarebbe potuto accadere mi fossi diretto e seduto su una panchina nel giardino di Palais Royal per quindi – sbirciando – accorgermi che c’è un signore intabarrato (presumibilmente per il freddo invernale che gela la punta del naso e quelle delle dita). Non mi lascio sfuggire l’occasione di ritrarlo.
Sfodero la mia Canon; punto l’obiettivo su di lui: metto a fuoco. Non l’avessi mai fatto. Non appena vado a sedermi accanto a lui ecco che prende l’abbrivio proprio partendo dalla mia messa a fuoco per blaterare contro la Gioventù Bruciata, quella del ’68, tutta Nantes e Sorbonne. Sorvoliamo però, gli dico con un soffio di voce per non irritarlo; passiamo ad altro e passammo rapidamente ad altro: a quando con la nurse andava a cavallo (nel senso di giostra) chi sulle automobiline di plastica chi appunto su destrieri a dir poco desiderosi di essere cavalcati da guerrieri.
Il Malraux (mi dice con sufficienza) già allora, da bambino, aveva la grinta di un guerriero.; non conosceva pericoli ed infatti poco male – o niente male – se cadeva da cavallo. Ecco allora arrivare la nurse trafelata a sgridarlo ma lui niente: è già pronto a guidare la battaglia solo che ancora non sa se da capofila del gruppo di indemoniati oppure nelle retrovie a prendere appunti per scriverci sopra uno dei più succulenti racconti sul Movimento Studentesco.
Ne è passato di tempo da allora, per non dire di acqua sotto i ponti. Le memorie si sono attutite, sfaldate. Per avere contezza bisogna ricorrere alle pagine (ingiallite) dei giornali oppure alla miriade di libri che su quel fenomeno epocale si sono scritti. Alcuni di quei reperti sono dovuti proprio a lui, benché firmati con uno pseudonimo sicché nessuno crede alla sua paternità (in verità non si chiama nemmeno Malraux tant’è che lo si accusa di falso, e gli articoli dovuti non si sa a chi). È quello che voglio scoprire e perciò indago col fiuto di un vero detective: e ben vero sono un detective della Suretè. Mi hanno incaricato di scoprire la vera identità del falso Malraux. Questo è pane per i miei denti, dico ai miei superiori.
Mi affidano l’incarico. Mi dotano di tutto il necessario tra cui il suo DNA. Lo esamino, lo giro, lo rigiro e cosa scopro? Che suo padre era un commerciante di sapone da lui stesso prodotto con olio e liscivia (roba da scarto); sua madre se la intendeva con l’Intendente di Finanza e da qui le regalie che facevano la gioia della famiglia. Lui, il vecchio col quale sono alle prese, ha la vocazione del reporter ma gli mancano i franchi per comprare il taccuino e la penna. Per rimediare tiene tutto a memoria: mai visto nient’altro, a memoria d’uomo. Insomma, bussa alle redazioni dei giornali e nessuno lo prende sul serio. Detta a questo o quel curioso di turno una storia secondo lui veritiera quando invece è sicuramente millantata. Andò così di anno in anno finché fu troppo vecchio per potere insistere. Finì sotto il portico di Palais Royal quasi a chiedere l’elemosina di un ascolto. Gli diedi ciò che voleva. Morì soddisfatto di avere lasciato una traccia della sua esistenza, sebbene del tutto apocrifa.