I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Pazze allimprovviso (istruzioni non incluse)
Massimo era un giovane uomo con animo gentile, sempre cortese e pronto a regalare un sguardo di simpatia a tutti. Anzi, forse era proprio il suo essere così garbato ad averlo fatto finire in un mare di guai: si era innamorato, contemporaneamente, di quattro splendide donne, Rossella, Gaia, Letizia e Flora. Ciascuna con un temperamento diverso, ma unite da una grazia e da un’educazione che lui adorava. Rossella era una raffinata musicista che suonava il violino con una dolcezza che incantava chiunque l’ascoltasse. Gaia, invece, era una pittrice eccentrica, sempre con un pennello in mano e un sorriso contagioso. Letizia era la più riservata, un’amante dei libri e delle serate tranquille al lume di candela, mentre Flora era una giardiniera con un tocco quasi magico per le piante, che si sentivano protette solo a starle vicino. Per un po’, Massimo riuscì a destreggiarsi, assicurandosi di passare il giusto tempo con ciascuna senza mai lasciar trapelare nulla alle altre. Le donne, ognuna nel proprio mondo, sembravano perfettamente felici. Fino a che… un giorno, per una strana coincidenza, tutte e quattro si incontrarono in un piccolo bar, alla ricerca di Massimo. All’inizio, l’atmosfera era amichevole. Rossella elogiava le melodie di Gaia, Gaia lodava i fiori di Flora, e Flora e Letizia condividevano consigli su letture e giardinaggio. Ma poi qualcosa cambiò. “Allora - iniziò Rossella con un sorrisetto - che ne pensate di Massimo? Un uomo d’altri tempi, non trovate?” Gaia sorrise, annuendo. “Massimo è davvero speciale… il mio tesoro.” Al suono di “mio”, Letizia alzò un sopracciglio. “Il tuo? Beh, mi pare un tantino possessivo, Gaia… Massimo è un uomo libero, e direi che abbiamo una connessione profonda.” Flora, finora in silenzio, aggiunse con tono fermo: “Massimo apprezza la semplicità della mia vita tra i fiori. Non so se capirebbe un mondo tanto… complesso.” E da quel momento, fu il caos. Rossella difendeva la “superiorità” della musica sull’arte visiva, Gaia replicava che i suoi quadri catturavano l’essenza dell’anima molto più delle note, Letizia insisteva che solo una donna di cultura potesse conquistare veramente il cuore di Massimo, mentre Flora, con occhi spiritati, dichiarava che le sue rose erano più poetiche di qualunque sonetto. Quella che era iniziata come una pacata conversazione si trasformò in una lite animata, con ognuna che rivendicava il proprio “diritto” su Massimo. In mezzo al chiasso, lui arrivò al bar e rimase a osservare quella scena surreale, incredulo e terrorizzato. Tutti gli sguardi si spostarono sull’ambito spasimante. Rossella lo fissava con gli occhi di chi era pronta a fare qualunque cosa pur di tenerlo con sé, Gaia gli mostrava una tela su cui aveva dipinto il suo viso con tratti così accesi che sembrava un campo di battaglia, Letizia brandiva un libro d’amore come fosse una spada, e Flora… beh, Flora gli avvicinava minacciosamente un vaso di rose con spine più lunghe del normale. Massimo, preso dal panico, balbettò qualcosa su un appuntamento importante e si ritirò di corsa, lasciandole lì a litigare. Da quel giorno, decise che nessuna donna, per quanto educata e affascinante, valeva il rischio di finire ostaggio di un certame di gelosia così folle. La sua soluzione? Lasciare Rossella, Gaia, Letizia e Flora, e farsi una lunga vacanza… da solo. E così fece, concludendo che, almeno per un po’, preferiva l’adorabile compagnia della pace. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5823 Data: 14/11/2024 10:47:49
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Il cielo di Dio senza guerra
Il cielo sopra la città era di un azzurro inquietante, limpido e sereno, come se ignorasse completamente il caos che divorava le strade sottostanti. Rebecca si aggrappava al bordo della finestra, guardando verso l’alto, cercando disperatamente un segno che potesse darle conforto. Quel cielo, così perfetto e indifferente, sembrava non appartenere più al mondo di sotto. Le bombe erano cadute senza preavviso, come pioggia velenosa. Tutto era accaduto in una manciata di giorni, e il paesaggio familiare si era trasformato in un inferno di macerie. Il fragore dei colpi d’artiglieria riempiva le notti, ma era il silenzio che seguiva a incutere maggiore paura. Un’assenza di suoni fatta di morti, di attesa, di vite sospese tra il prima e l’ignoto. Rebecca strinse tra le mani una vecchia fotografia sbiadita: lei, il marito Elia, e la loro bambina Aurora, sorridenti in un giorno di sole, in un parco che adesso era solo cenere. Lui era partito per il fronte appena era scoppiata la guerra. Non l’aveva più sentito, e da settimane il suo nome non compariva nelle liste dei vivi né in quelle dei caduti. Restava così, sospeso in un limbo, come un fantasma di cui non si poteva rammaricare né sperare. La loro figlia, invece, non c’era più. Aveva solo otto anni, quando un missile aveva colpito il palazzo accanto. Era successo di notte, e Rebecca aveva dovuto scavare tra le macerie con le mani nude, ma era stato inutile. Il corpo della sua piccolina era diventato polvere insieme a tutto il resto. In quei momenti, quando l’afflizione sembrava volerla risucchiare, Rebecca guardava il cielo. Si chiedeva perché Dio non intervenisse. Si domandava se lassù, in quel luogo perfetto e lontano, ci fosse ancora spazio per la pace, la giustizia, e una mano tesa verso chi, come lei, più nulla aveva da perdere. Una volta, sua madre le aveva detto che il cielo di Dio era senza guerra. “Non c’è posto per il dolore, lassù”, proferendolo con voce calma, “Dio non lascia che la sofferenza macchi quel regno. Quello è un luogo di pace, dove tutto ciò che si spezza sulla terra, viene riparato”. Ma Rebecca aveva smesso di crederci. Non riusciva a pensare all’esistenza di un Dio che permettesse tutto questo. Se il Suo cielo era privo di guerra, allora cosa era successo a quello degli uomini? Era forse stato abbandonato, lasciato marcire in un mondo che non aveva più senso, mentre in alto continuava a splendere un’innocenza distante e intatta? Un rumore sordo la distolse dai suoi pensieri. Dall’altra parte della strada, un gruppo di uomini in divisa trascinava via un giovane, forse un disertore. Lui urlava, ma nessuno interveniva. In quella città devastata, la paura era diventata l’unica legge rimasta. Rebecca si allontanò dalla finestra, incapace di sopportare l’ennesima scena di violenza. Si sedette sul pavimento della cucina, circondata dalle ombre del crepuscolo. Era da lì che sua madre la vide per l’ultima volta, dicendole addio prima di essere evacuata con un convoglio umanitario. Rebecca si era rifiutata di andarsene, avendo promesso a Elia che sarebbe rimasta, per tenere al sicuro Aurora. Ma quel giuramento si era sgretolato, come tutto il resto. Le ore passarono lente. Il buio calò, portando con sé il solito coro di esplosioni in lontananza. Eppure qualcosa di diverso si stava preannunciando, nella notte. Un surreale mutismo avvolgeva la città, come una coperta pesante. Rebecca aprì di nuovo la finestra e alzò lo sguardo verso il cielo. Le stelle brillavano, fredde e distanti. Nessun rumore, nessun bagliore di missili. Solo una misteriosa quiete. Improvvisamente, una lacrima solitaria le rigò il volto. Perché proprio ora? Perché in quel momento, dopo tutto quel dolore, il cielo appariva così tranquillo, come se niente fosse mai accaduto? Forse Dio aveva davvero un altro cielo, senza conflitti di fuoco. Magari, pensò Rebecca, quella sarebbe stata la pacifica realtà che un giorno avrebbe ritrovato, insieme a Elia e Aurora. Ma non ora. Non qui. Rebecca chiuse la finestra e, per la prima volta dopo molto tempo, si concesse il lusso di piangere. Non per disperazione, ma a causa di quel cielo che, almeno per una notte, sembrava aver restituito alla terra un frammento di infrangibile serenità. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5811 Data: 24/10/2024 18:56:41
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A qualcuno piace caldo
Era una di quelle giornate d’estate in cui l’asfalto sembrava liquefarsi sotto il sole cocente, e ogni respiro sembrava una sfida alla sopravvivenza. Amedeo, un tipo dall’incarnato pallido e amante dell’aria condizionata, sedeva sulla veranda di un bar. Osservava con invidia i turisti nordeuropei, tutti arrossati e felici, che camminavano in giro come se fossero appena sbarcati ai Tropici, cercando disperatamente di scurirsi la pelle con qualunque raggio di sole disponibile. “Ma come fanno?” borbottava tra sé, sorseggiando il suo caffè freddo. Lui, l’unica cosa calda che tollerava, era la cioccolata invernale, e pure quella solo sotto una coperta. Fu allora che arrivò Fulvio, il suo amico perennemente abbronzato e, cosa più importante, amante del caldo. “Oh, ma guarda chi c’è!” esclamò Fulvio, sistemando con eleganza gli occhiali da sole. “Scommetto che stai godendo di questo caldo infernale, eh?” Amedeo lo scrutò con l’espressione di chi sta per lanciare una maledizione. “Se per godere intendi evitare il colpo di calore, sì, è una giornata fantastica.” Fulvio rise. “Oh dai, il caldo è vita! Cosa c’è di meglio di una bella passeggiata sotto il sole delle tre del pomeriggio?” “Non lo so, Fulvio, forse un bagno nel ghiaccio, o una visita in Groenlandia.” Il sole continuava a picchiare senza pietà. Il barista, anche lui sudato, si avvicinò al tavolo. “Qualcosa di fresco per te, Amedeo?” “Un caffè freddo,” rispose Amedeo. “E per te, Fulvio?” chiese il barista. Fulvio si accese come un faro. “Un cappuccino bollente!” Amedeo lo fissò incredulo. “Ma sei pazzo? Un cappuccino? Con 40 gradi all’ombra?” Fulvio si limitò a sorridere. “A me piace caldo.” “Sei la prova vivente che l’essere umano si adatta alle condizioni più estreme,” sospirò Amedeo. Pochi minuti dopo, il barista tornò con il caffè freddo di Amedeo e il cappuccino fumante di Fulvio. Mentre Amedeo si rinfrescava con il suo bicchiere ghiacciato, Fulvio si godeva ogni sorso del suo cappuccino come se fosse in una baita in montagna. “Ecco il segreto della felicità,” disse Fulvio dopo aver assaporato un sorso. “Bisogna trovare piacere anche nelle piccole cose.” “Le piccole cose, come un colpo di calore,” commentò Amedeo, scettico. Fulvio rise di gusto. “Vedi, è tutta questione di prospettiva. Tu ti concentri sul caldo come una tortura, io lo vedo come un abbraccio della natura.” “Un abbraccio soffocante.” Mentre continuavano a discutere, una coppia di turisti scandinavi si avvicinò al bar, sudati ma felici. “Two cappuccinos, please!” esclamarono in un inglese perfetto. Amedeo si voltò verso Fulvio con un sorriso ironico. “Vedi? Non sei l’unico pazzo al mondo.” Fulvio annuì con aria solenne. “Il club degli amanti del caldo sta crescendo.” Alla fine, Amedeo alzò le mani in segno di resa. “Forse sono io quello fuori luogo. Magari il caldo ha i suoi fan segreti, e io semplicemente non sono invitato al club.” “Non è mai troppo tardi,” ribatté Fulvio, sollevando la sua tazza come in un brindisi. “A qualcuno piace caldo, dopotutto.” Amedeo scosse la testa ridendo, ma sapeva una cosa con certezza: il prossimo inverno, quando le temperature si sarebbero abbassate sotto lo zero, lui sarebbe stato quello col sorriso più grande. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5807 Data: 17/10/2024 06:28:27
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Guerra in casa
La casa era piccola, ma conteneva un campo di battaglia. Ogni stanza aveva visto episodi di lotte silenti, sebbene percepite, fatte di sguardi tesi, silenzi carichi e parole taglienti. Ivan e Clelia erano in procinto di divorziare, ma la separazione legale era nulla rispetto alla guerra matrimoniale che si consumava dentro quelle mura. Il soggiorno, una volta luogo di serate tranquille e film, ora era il teatro di scontri verbali. “Quello è il mio divano”, diceva Ivan con un tono che cercava di sembrare autoritario, ma che nascondeva una stanchezza profonda. Clelia, senza nemmeno guardarlo, rispondeva: “Quel divano lo abbiamo scelto insieme. Non è solo tuo”. Le divisioni materiali erano solo la punta dell’iceberg. Il vero conflitto si consumava su un piano più profondo, fatto di anni di rancori accumulati. Ogni decisione era diventata una trincea, ogni gesto una provocazione. Ivan lasciava le tazze sporche nel lavandino, Clelia rispondeva spostando tutte le sue camicie dall’armadio al divano, senza nemmeno piegarle. Il colpo di grazia arrivò una sera, quando Clelia, esasperata da un altro litigio per l’assegno di mantenimento, si alzò di scatto dalla sedia della cucina. “Sai cosa, Ivan? Voglio il cane”. Il cane, Leo, era stata l’unica creatura in quella dimora a non prendere posizione. Un labrador pacifico, che scodinzolava solo quando qualcuno gli dava attenzione. Ivan lo guardò, e per un attimo sembrò pentirsi di tutto. “Leo è mio”, disse, ma senza la solita sicurezza. Clelia rise amaramente. “Il cane è nostro. O meglio, lo era. Ora deciderà un giudice chi lo terrà. Spero che tu sia pronto a lottare anche per questo.” La disputa sul cane sembrava surreale, ma rappresentava la vera natura del loro conflitto. Non si trattava di chi avesse ragione o torto, ma di chi potesse dimostrare di avere il controllo su qualcosa, qualsiasi cosa. Mentre Ivan rimaneva seduto, Clelia si voltò e uscì dalla stanza, lasciandolo solo con Leo. La mattina dopo, Ivan trovò una lista sul tavolo della cucina. Era un inventario delle cose che Clelia voleva portare via con sé. L’elenco includeva oggetti banali: piatti, posate, una lampada rotta. Ma l’ultima voce fece vacillare Ivan: “L’ultimo Natale felice”. Ivan si fermò a leggere quelle parole diverse volte. Iniziò a ricordare quella sera di dicembre in cui, per un attimo, tutto sembrava ancora possibile. Si erano seduti sul sofà, con Leo ai loro piedi, e avevano riso per una sciocchezza vista in TV. Quel momento era stato breve, ma reale. Si rese conto che non avrebbe mai potuto vincere quella guerra. Non si trattava di oggetti, né di Leo. Era un combattimento contro i ricordi, contro ciò che avevano perso. E nessuno dei due avrebbe mai potuto reclamare la vittoria. Quella sera, Ivan prese una decisione. Mise in una scatola alcune delle sue cose, quelle che gli erano davvero care, e la lasciò sull’uscio. Quando Clelia rientrò, trovò la casa vuota e un biglietto sul tavolo: “Prendi il cane. Non posso combattere più. Meritiamo entrambi di essere felici, ognuno a modo suo.” Clelia si sedette sull’ottomana, con Leo che si arrampicava accanto a lei, e capì che il dissidio era finalmente terminato. Ma in quella fine, c’era un senso di pace che mai nessuno dei due avrebbe potuto prevedere. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5806 Data: 16/10/2024 06:32:49
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Il chiodo fisso
In una ridente cittadina della Val Brembana, viveva un uomo di nome Graziano, noto a tutti per il suo chiodo fisso. E no, non si trattava di qualche idea particolarmente brillante, né di un’ossessione per qualche hobby stravagante. Era proprio un chiodo, quello che sbucava dal muro della sua cucina, e che lui non riusciva a togliersi dalla testa. Tutto era iniziato un sabato pomeriggio. Graziano si era alzato dal divano per prendere un bicchiere d’acqua, quando aveva notato quel chiodo maledetto che sporgeva dal muro. “Perché proprio lì?” si era chiesto con fastidio. Non solo rovinava l’estetica della parete, ma Graziano era convinto che stesse crescendo ogni giorno di più. “Sarà mica vivo?” aveva pensato, scuotendo la testa. Da quel momento, non ebbe più pace. Ogni mattina si svegliava, andava in cucina e controllava se il chiodo fosse cresciuto. Poi, ogni sera, prima di andare a dormire, lo misurava di nuovo. Per farla breve, quel chiodo divenne il suo tormento quotidiano. Un giorno, decise che non poteva più sopportare la situazione. Prese una pinza, si avvicinò al chiodo con lo sguardo determinato di chi si appresta a combattere un drago, e… niente. Il chiodo non si muoveva di un millimetro. Allora tirò più forte, si mise di peso, persino chiamò un suo cugino, noto in famiglia per essere “l’uomo che smonta tutto”. Ma niente. Quel chiodo era incastrato come se avesse radici profonde fino al centro della terra. Deciso a non arrendersi, Graziano chiamò un muratore. “Ci penso io,” disse l’uomo. Dopo mezz’ora di martelli e scalpelli, il muratore si fermò, sconfitto. “Non ho mai visto niente del genere. Mi sa che devi chiamare un esorcista.” Graziano, esasperato, iniziò a chiedersi se il chiodo avesse una qualche proprietà magica. Forse, se lo avesse lasciato in pace, gli avrebbe portato fortuna? Ma la cosa peggiore arrivò quella notte, quando fece un sogno: il chiodo parlava! “Lasciami stare, sono qui per aiutarti,” gli diceva con voce metallica e rugginosa. Si risvegliò sudato, con la netta sensazione che forse… forse il chiodo avesse davvero qualcosa da dirgli. La mattina seguente, con occhi gonfi di sonno, decise di ignorare il chiodo per un giorno. E così fece. Non lo guardò nemmeno di sfuggita, e si accorse che, stranamente, la sua vita era un po’ più leggera senza quella preoccupazione. Andò avanti così per una settimana, poi due e ancor più, fino a quando trascorse un mese esatto. Quel giorno, mentre era a casa di un amico, raccontò la sua storia tra una risata e l’altra. “E alla fine, sai che c’è? Non ci penso più, quel chiodo può anche diventare il re della cucina per quanto mi riguarda!” E proprio in quel momento, una scintilla di intuizione attraversò la sua mente. Tornato a casa, Graziano si diresse verso il muro, prese un quadro che teneva in cantina e lo appese… proprio al chiodo fisso. Da quel giorno, ogni volta che lui guardava quel quadro, sorrideva. Non per l’opera in sé, ma per il ricordo di come un semplice chiodo avesse saputo regalargli una lezione di vita: a volte, quello che ci tormenta è solo una questione di prospettiva. E così, finalmente, visse più sereno e contento. E il chiodo? Beh, lui se ne stava lì, sereno come lo era sempre stato, ma finalmente con un vero scopo. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5805 Data: 14/10/2024 05:37:55
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Qualcuno fa bee
Carlo e Lucia frequentavano il medesimo virtual place, battezzato “La casa della penna d’oro”. Discutevano su molti argomenti, anche perché avevano differenti modi di approcciarsi e di interpretare le cose sotto una luce, spesso basata sulla loro esperienza, quindi poco obiettiva dal punto di vista oggettivo dei comportamenti e reazioni degli internauti, coi quali si rapportavano. Carlo era un ragazzo buono d’animo, aveva intelligenza acuta e un’immensa capacità di decodificare i messaggi subliminali presenti nei contenuti di un testo, ma sovente sfuggiti ad altri nel momento di una lettura superficiale, oppure fatta con scarsa attenzione. Benché venisse invidiato e criticato amaramente, la sua tranquillità interiore risiedeva nell’onestà e nella consapevolezza di trattare tutti con rispetto universale. Lucia era una marpiona, che adoperava le proprie grazie femminili, al fine di ricevere commenti a iosa. Bastava una manciata di poche parole mielose e qualche smanceria nelle risposte che le consentivano di sentirsi appagata per una relativa bravura scrittoria, abbastanza opinabile. Qualora le si facesse notare una gaffe, lei provvedeva a ricambiare con un celere pretesto, atteggiandosi a vittima e usando bugie freschissime, pescate dalla sua innata predisposizione alla falsità. Durante la loro navigazione avvenne qualcosa che incuriosì Carlo. Iniziarono a dialogare privatamente, come accadeva d’abitudine nel cosiddetto periodo morto del sito, entrambi scocciati dalla monotonia di non essere stimolati come avrebbero voluto. “Scusa Lucia, ma non capisco perché parli male di Vittorio, quell’autore che ha commentato i tuoi lavori con estrema gentilezza e disponibilità”. “Io parlerei male di lui? Ma fammi il santo piacere di stare zitto. Quello lì mi ha bloccato e non ci ho capito niente. Ma vallo a spiegare cosa passa nel cervello di certa gente. Mi sono sempre comportata bene ma non accetto che mi si chiuda la porta in faccia. Eppoi, perché bloccare? Me ne sto in pace a non dare fastidio a nessuno. Lo sai che mi vogliono tutti bene, anche nell’altro sito.” Maggiormente titubante della franchezza e limpidezza di Lucia, Carlo ribatté con tono pacato: “Appunto! Secondo me è successo qualcosa dall’altra parte. Non sto dando ragione a nessuno dei due, ma forse non vi siete capiti a fondo. Lo sai perfettamente che le parole hanno diversi significati, per come ognuno le valuta e le interpreta. Ma sei certa di non avergli fatto niente?” “Senti un po’ - rispose Lucia leggermente irrettita dalle domande del suo collega di scrittura - non è che uno ti può bloccare così, perché non vado a commentare e ringraziarlo del tempo passato a guardare la robaccia che pubblica. Lui ha sbagliato e basta. Ci siamo intesi?” “Veramente no - disse Carlo - per me, avendo capito che è una persona estremamente sensibile e corretta, gli ha dato fastidio il tuo ombreggiante modo di fare. Lo hai illuso in continuazione perché gli dicevi di non avere tempo, ma poi lui deve averti vista incollata al monitor su entrambi i siti e allora ha capito che non ti interessava niente della scrittura e nemmeno di dirgli grazie. Stai a fare gossip ogni volta che commenti i testi di Caio, Tizio e Sempronio. Scusami eh, pure io a un certo punto mi sarei rotto.” Con tono aspro e nervoso, Lucia rispose: “Ah sì? È un buon motivo per bloccarmi?” Carlo proferì: “No, però se tu continui a parlargli male nei commenti e fai finta di non averlo visto né di là, ma neanche qui, la gente mica è scema, lui ti legge e leggono tutti, anche quello che rispondono gli altri. Poi non lo so cosa sia accaduto tra voi, ma non siamo fatti tutti con uguale stampino. C’è gente che ho smesso di salutare perché neanche mi rispondeva e c’è chi crede di saper tutto di Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo, Giosuè Carducci, e chi ne ha più ne metta, ma se vai a fargli notare che sono saccenti e arroganti, ti offendono pubblicamente a spron battuto. Ci vuole un po’ di pazienza e capire che non si sa mai come ci si può trasformare nella vita. Magari si diventa peggio degli altri. Cosa credi, che la gente sia tutta schietta come lo è Vittorio? Chi lo sa? Gli sarà capitato di essere stato bloccato anche lui, ma a quanto pare non ho mai letto che abbia puntato il dito contro qualcuno o che si sia lamentato come stai facendo tu. Comunque, sei sicura di non aver sbagliato con lui?” “Apriti bene quelle grosse orecchie da cotoletta che hai, e fai l’uomo. Io sono una persona limpida. È chiaro?” - affermò Lucia, sicura del fatto suo. “Ah si? - esclamò Carlo, iniziandosi a stancare per le risposte provocatorie di Lucia - tu sei trasparente come i vetri della mia macchina, che si appannano quando piove. In tanti anni di navigazione e di soggiorno nei siti non hai ancora capito come comportarti? Non siamo al mercato del pesce o della frutta e neanche in una fattoria di animali, dove si parla della mucca, del bue, dell’asinello o della pecora. Ci sono persone che quando navigano vogliono distrarsi, trascorrere qualche ora di svago e che non sopportano sentire parlar male di questo, di quello o di loro. Hai preso “La casa della penna d’oro” per un pattume, o per un posto che ci offre l’occasione di scrivere sui sentimenti che ci dovrebbero accomunare, pure caratterialmente? La verità è che non te ne frega niente se gli altri stanno male, ma ti interessa fare la vittima. Il web è intriso di queste cose e a volte il mondo, là fuori, è peggio, perché qui almeno finiamo tutto con un logout.” “Davvero - dichiarò Lucia, aggiungendo- sai cosa ti dico? Visto che siamo in una fattoria, allora… bee!” Dopo l’esternazione di Lucia, Carlo, che tra gli altri pregi sapeva sdrammatizzare le situazioni, disse a se stesso: “chissà che diavolo mettono nei mangimi. Ecco perché gli animali hanno certi effetti collaterali.” Invero, non era contento dell’incomprensione tra lui e Lucia, la quale, malgrado l’accaduto, non si era resa conto di come avesse trattato Vittorio. Nell’udire lo sfogo di Carlo, però, Lucia se ne risentì, ma qualcosa l’aveva scossa dentro, avviandosi a capire, tardivamente, che purtroppo la sua reazione di screditare Vittorio nei commenti non era affatto stata un gesto pregevole. Avrebbe dovuto essere più prudente e valutare prima, la scelta di certe parole? D’altro canto, come si suole dire: “verba volant scripta manent”. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5803 Data: 11/10/2024 06:38:13
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Lezioni di culinar_IA
In cucina: “Guarda che il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi, e io ti ho scoperto: tu usi l’IA per scrivere” - disse con tono inquisitorio la padella alla pentola a pressione. “Ma senti chi parla… la padella che accusa la pentola d’essere nera” - ribatté con grande convinzione di sé, la pentola. “Non è mica proibito, sai?!” - replicò la padella - lo fanno tutti, cosa credevi, d’avere inventato l’acqua calda?” “Ma è onesto che nessuno lo dichiari apertamente?” - proferì la pentola alla padella. “Beh, forse hai ragione tu, ma io non posso riempirmi coi litri di parole che a te mettono dentro, prima di chiuderti con il tuo coperchio. Io sono bassa e larga, contengo fino a un certo punto e non sono ad alta pressione come te” - evidenziò la padella, proseguendo nel giustificarsi con la pentola. “Ottimo direi! Allora sai cosa facciamo? Non diciamolo mai a nessuno, così siamo sicure di essere pronte tutte e due, quando ci dovranno usare. Adesso, però, sbrighiamoci, altrimenti faremo tardi: c’è la carne sul fuoco che ci aspetta” - aggiunse la pentola. “Ah, dimenticavo: stai attenta al tempo che occorre per la bollitura, perché rischi di far sentire odore di bruciato. Ma tanto cosa importa, la gente mangia pure il cibo carbonizzato” - concluse il confronto la padella, contenta e soddisfatta di aver detto il vero.
Id: 5800 Data: 08/10/2024 08:50:41
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Un dolce intortare
Il giorno in cui cadde il mio compleanno, decisi di invitare un buon numero di amici a casa, ordinando una pizza a domicilio e pensando di preparare io stesso la classica torta margherita, per alcuni somigliante a quella di Pavia, legata alla tradizione e alla storia della città, detta invece paradiso. A base di pochi ingredienti, facilmente reperibili in casa, sono entrambe veloci da realizzare. Mi si presentò un problema con lo stampo rotondo, essendo di 24 cm di diametro, ossia per circa 8 persone, offrendo una giusta porzione a ogni singolo invitato. Ricevetti però un messaggio vocale che annunciava la crescita del numero dei partecipanti alla cena. Evitando di escludere altre persone, chiamai subito una vicina di casa per farmi aiutare dicendole cosa avevo bisogno. “Non preoccuparti Arcangelo. La faccio io un’altra torta, ho capito quello che ti serve”. Fui davvero sollevato, non immaginando minimamente la sorpresa che mi sarebbe capitata. Prima che giungesse il momento di condividere la festa e con tanto affetto, passione, benevolenza, mi ero ritagliato un adeguato tempo da dedicare al dolciume, onde evitare di essere in ritardo con l’organizzazione. Arrivò la vicina con un piatto in mano, sul quale era poggiata sopra la margherita. Uguale alla mia, nell’aspetto, sembrava fosse stata sfornata nel medesimo istante. La differenza era poco percepibile e stava nell’altezza, nonché ovviamente nel sapore, che avrebbe confermato il gradimento o il dissenso degli ospiti. Nel mangiarla, qualche palato attento affermò di trovare gustosa quella da me fatta, forse perché gli pareva più naturale, morbida, ben cotta, a differenza dell’altra, comunque buona ma dalla diversa sofficità. La serata finì con un regalo splendido per me, ricevendo un libro da leggere. Il seguente dì, riportai il piatto dalla vicina di casa per esprimerle gratitudine sincera, senza rivelarle il legittimo dubbio che nutrivo, avendo ascoltato le parole di chi l’avesse assaggiata. “Grazie di cuore”, dissi con aria soddisfatta. “Sei stata gentile e brava a farla; hai pure impiegato meno tempo di me”. Sorridendo, felice di essermi venuta incontro, lei mi rispose:”E che ci voleva! Sono andata al banco frigo del supermercato e ho comprato una busta della Cameo, scegliendo il preparato della “Torta Soffice Margherita pronta da infornare”. Ho imburrato lo stampo e l’ho versato tutto dentro, pronto da cuocere. Non ho sporcato neanche la cucina, solo un pochino le mani, usando il burro”. Restai in silenzio per qualche minuto, poi risposi:”Ma scusa, avresti potuto dirmelo?! Ecco perché qualcuno mi diceva di non sentirla “fresca” e poco convincente nel sapore”. Lei mi rispose seccata:”Che te ne frega, Arcangelo. L’hanno mangiata lo stesso e nessuno si è accorto della diversa qualità. Ora devo uscire, ma qualora ti dovesse succedere di avere bisogno di una torta, ci metto poco tempo a preparala, perché sono bravissima. Ciao, buona giornata”. La salutai velocemente, senza proferire altro, ma avevo capito la sua furberia che per lei stessa era assolutamente normale, ma per me, stava a indicare che non valeva un fico secco come pasticcera. N.d.A.: L’esperienza narrata mi è capitata davvero. Buona lettura.
Id: 5793 Data: 27/09/2024 06:26:39
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Quando unidea muore
Martino era un giovane intraprendente, sempre fiducioso nella gente. Credeva fermamente che, nonostante i difetti, ognuno avesse dentro di sé una scintilla di bontà, e questo lo guidava nelle sue scelte, nelle amicizie e persino nell’amore. Tra le persone che stimava di più c’era Amedeo, il suo migliore amico fin dall’infanzia. Avevano condiviso tutto: gioie, dolori, sogni e speranze. Per Martino, lui rappresentava la prova vivente che l’amicizia poteva superare ogni ostacolo. Un giorno, però, accadde un episodio che avrebbe cambiato per sempre la sua visione del mondo. Amedeo iniziò a comportarsi in modo strano. Martino lo notava più distante, meno sincero, ma cercava sempre di giustificare il suo comportamento. “Sta passando un brutto periodo”, si diceva, “forse ha solo bisogno di tempo”. Ma col passare dei mesi, la situazione peggiorava. Una sera, Martino scoprì che Amedeo, l’amico di una vita, aveva tradito la sua fiducia. Aveva parlato male di lui alle sue spalle, diffondendo falsità per ottenere vantaggi personali. Peggio ancora, Amedeo non sembrava minimamente dispiaciuto. Quando Martino lo affrontò, trovò davanti a sé una persona che non riconosceva più: fredda, calcolatrice, indifferente. In quell’istante, qualcosa si spezzò dentro Martino. Non era solo la delusione a ferirlo, bensì la consapevolezza che l’immagine idealizzata di Amedeo si era dissolta, come un castello di sabbia davanti a una marea impietosa. Non riusciva più a vedere in lui bontà, né alcuna scintilla positiva. La fiducia cieca che aveva sempre avuto negli altri si era trasformata in disillusione. Da quel momento, Martino mutò atteggiamento. Non era più il ragazzo ottimista e solare che tutti conoscevano. Divenne riservato, diffidente, sempre in guardia. Non credeva più nella bontà innata delle persone, ma pensava che dietro ogni gesto di gentilezza potesse celarsi un interesse nascosto. Si costruì un guscio attorno al cuore, evitando di legarsi troppo agli altri, temendo che prima o poi anche loro lo avrebbero tradito. Gli amici notarono il cambiamento, ma nessuno riusciva a raggiungerlo davvero. Martino si convinse che fosse stato meglio, non fidandosi troppo di nessuno, perché la delusione, alla fine, sarebbe stata inevitabile. Tuttavia, c’era una parte di lui, una piccola fiamma nascosta, che sperava ancora di sbagliarsi, risvegliando l’idea di poter ancora trovare qualcuno, capace di dimostrargli come non tutte le persone potessero essere così. Ma per ora, quell’aspettativa, rinchiusa nell’anima, restava accantonata, schiacciata dalla ferita che Amedeo gli aveva inferto. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5791 Data: 25/09/2024 20:06:25
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Il mistero del libro scomparso
In un piccolo villaggio avvolto dalle nebbie dell’autunno, si trovava una vecchia biblioteca dalle pareti di pietra, il cui tetto di tegole rosse sembrava essere stato dimenticato dal tempo. Era un luogo magico, pieno di storie dimenticate e polverosi tomi dalle copertine di pelle. In quel villaggio viveva Elisabeth, una ragazza di diciassette anni con un’insaziabile sete di avventure, sebbene fossero poche quelle che si potevano vivere tra le strade silenziose del suo paesino. La biblioteca era il suo rifugio preferito, un luogo dove si perdeva per ore tra le pagine dei libri, esplorando mondi lontani, incantesimi antichi e leggende perdute. Il bibliotecario, il vecchio signor Morris, era una figura misteriosa. Nessuno sapeva molto di lui, solo che aveva preso la custodia della biblioteca da giovane e non l’aveva mai lasciata. Una mattina, Elisabeth entrò nella biblioteca come sempre, ma percepì subito che c’era qualcosa di diverso. Le solite ombre danzanti sulle pareti sembravano più scure, e un silenzio inquietante aleggiava nell’aria. Si avvicinò al bancone del signor Morris, ma l’anziano bibliotecario non c’era. Invece, un foglio di carta ingiallito era stato lasciato lì con un messaggio scarno scritto in fretta: “Il libro è scomparso. Non c’è più tempo.” Elisabeth sentì un brivido percorrerle la schiena. Quale libro? E perché non c’era più tempo? Senza pensarci due volte, si diresse verso la sezione riservata della biblioteca, un’ala proibita dove solo il signor Morris poteva entrare. Era sempre stata curiosa di quel luogo, e ora sembrava avere un motivo per investigare. Appena varcata la soglia, una strana sensazione le avvolse i sensi. Le pareti sembravano pulsare di vita propria e l’aria era più pesante, come se stesse camminando attraverso un sogno. Al centro della stanza, una libreria enorme si stagliava maestosa, con scaffali pieni di volumi antichi. Uno di questi scaffali, però, era vuoto. Elisabeth si avvicinò, notando che mancava un libro, uno spazio vuoto nella polvere accumulata. Il suo cuore batteva forte. Mentre si chiedeva cosa potesse essere successo, una voce calma ma fredda riecheggiò alle sue spalle. “Stai cercando qualcosa?” Elisabeth si girò di scatto e vide un uomo avvolto in un mantello scuro. Non lo aveva mai visto prima, ma i suoi occhi brillavano di una luce innaturale. “Chi sei? E dove è andato il signor Morris?” “Lui non può più aiutarti,” rispose l’uomo. “Il libro che cerchi è molto più potente di quanto tu possa immaginare. È stato preso per una ragione, e ora sta a te decidere se vuoi scoprire quale.” Il cuore di Elisabeth sembrava quasi fermarsi. “Che cos’è questo libro?” L’uomo sorrise enigmatico. “Il libro racconta la storia di tutto ciò che non è ancora accaduto. Chi lo possiede, può controllare il futuro, riscrivere i destini. Ma ora è nelle mani sbagliate.” Elisabeth non sapeva cosa dire. L’idea che un libro potesse cambiare il futuro era assurda, eppure qualcosa dentro di lei le diceva che era tutto vero. “Dove si trova ora?” “Questo è il vero mistero,” disse l’uomo, “ma il tempo sta scadendo. Se il libro viene usato per scopi malvagi, nessuno potrà fermare ciò che sta per accadere.” Senza aspettare una risposta, l’uomo scomparve nell’ombra, lasciando Elisabeth da sola con mille domande e una crescente determinazione. Doveva ritrovare quel libro prima che fosse troppo tardi. Con il passare dei giorni, Elisabeth scoprì indizi nascosti nelle pagine dei libri più antichi della biblioteca, strani simboli e mappe celate tra le righe. Ogni scoperta la portava più vicina a una verità spaventosa: il libro non solo prediceva il futuro, ma influenzava chi lo possedeva, trasformando le loro intenzioni. Dopo settimane di ricerca, Elisabeth trovò infine la tana del ladro: una vecchia torre dimenticata ai margini del villaggio. Dentro, al centro di una stanza buia, il libro scomparso giaceva su un piedistallo di marmo. Ma prima che potesse raggiungerlo, una figura emerse dall’oscurità. Era il signor Morris, il viso pallido e segnato dalla stanchezza. “Non avrei mai voluto che tu lo trovassi,” disse con voce triste. “Non sono stato io a rubarlo, Elisabeth. Il libro mi ha scelto. Ma non posso più controllarlo.” Elisabeth capì in quel momento che il vecchio bibliotecario era stato sedotto dal potere del libro. “Devi lasciarlo andare,” disse, avanzando lentamente. “Il futuro non appartiene a nessuno di noi.” Morris esitò, poi, con un ultimo sguardo pieno di rimpianto, lasciò cadere il libro dalle sue mani. In quel momento, un vento improvviso riempì la stanza, e le pagine del libro cominciarono a bruciare, svanendo nell’aria come cenere al vento. Il mistero del libro scomparso era risolto, ma Elisabeth sapeva che alcune storie non hanno mai una fine vera e propria. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5790 Data: 23/09/2024 06:34:36
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Regina di diamanti
C’era una volta, in un regno lontano, una maga di nome Elara, famosa per i suoi straordinari poteri e per l’animo gentile. Non abitava in un castello dorato, né in una torre di pietra, ma in una piccola casa fatta di cristallo, nascosta tra le vette di brillanti catene rocciose. Le montagne erano ricche di pietre preziose, ma Elara era interessata solo ai diamanti, perché possedevano una magia antica e potente. Aveva scoperto, fin da giovane, che tali gemme non erano solo gioielli splendenti, bensì contenevano al loro interno la capacità di canalizzare l’energia del mondo. Più puro era il cuore della persona che li usava, maggiore era la malia che potevano creare. Così, Elara si dedicò alla missione di trovare solo brillanti puri, giammai per ricchezza o gloria, al fine di aiutare chi ne avesse più bisogno. Ogni giorno, si allontanava dalla sua dimora e viaggiava nei villaggi del reame, portando con sé piccoli diamanti incastonati nel suo bastone magico. Ognuno di essi era legato a un incantesimo diverso, capace di trasformare le vite di chiunque lo toccasse. Quando arrivava in un borgo, la sua presenza era preceduta da una luce soffusa che sembrava danzare nell’aria, come se le stelle stesse la seguissero. Un dì, giunse in un luogo particolarmente povero. Le case erano fatte di fango e paglia, i campi aridi, e la gente si nutriva di ciò che poteva raccogliere. I bambini correvano scalzi per le strade, con i vestiti logori e gli occhi che brillavano di una triste speranza. La maga, vedendo la sofferenza, prese un diamante dal suo bastone e lo sollevò verso il cielo. Pronunciò parole antiche, sussurrate dal vento, e la pietra iniziò a rifulgere di un’intensa luce. In un istante, l’intero villaggio fu avvolto da una pioggia di polvere luminosa. La terra, secca e dura, divenne fertile, i campi si riempirono di frutti e fiori, e l’acqua sgorgò dalle rocce. Le abitazioni si rafforzarono e le persone sentirono una nuova energia attraversarle. I loro cuori si riempirono di gratitudine e i fanciulli, dapprima tristi e stanchi, iniziarono a sorridere e giocare felici. Ma i buoni sortilegi di Elara non finivano lì. A ciascuno che incontrava, lasciava un piccolo diamante, dicendo: “Questo è il dono della speranza. Non può essere venduto, né tenuto per sé. Ogni volta che qualcuno ne avrà bisogno, stringilo nel palmo della mano e l’incantesimo risponderà al tuo desiderio.” Per anni, ella viaggiò in lungo e in largo, portando benedizioni e conforto a chiunque incontrasse. E mentre i diamanti luccicavano nelle mani di chi ne aveva bisogno, l’intero regno cominciò a prosperare, non solo nella ricchezza materiale, ma soprattutto nello spirito. La leggenda di Elara, “Regina di diamanti”, si diffuse in tutto il mondo. Ma lei, modesta e silenziosa, proseguì il proprio cammino, sapendo che il vero potere non risiedeva nell’alta preziosità delle gemme, piuttosto nelle virtù di chi sceglieva di usarle per il bene. Così, in tutti angoli del mondo conosciuto, si racconta ancora oggi la storia di colei che usava i diamanti, non per sé, ma per aiutare gli altri a scoprire il loro stesso incanto. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5786 Data: 21/09/2024 04:09:04
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Etea
Sotto il cielo azzurro e limpido dell’antica Grecia, dove il vento diffondeva il profumo del mare e delle olive, viveva una giovane donna, chiamata Etea, che non apparteneva a un mito, ma ne avrebbe creato uno. I suoi capelli, lunghi e neri come la notte più profonda, ondeggiavano nell’aria mentre camminava tra le colonne di marmo del tempio di Atena. I suoi occhi, verdi come le colline circostanti, scrutavano l’orizzonte con un misto di determinazione e malinconia. Lei era la figlia del sacerdote del tempio, cresciuta tra i racconti degli dèi e le antiche profezie. Fin da bambina, aveva mostrato una connessione speciale con la natura: gli animali le si avvicinavano senza timore, e le piante sembravano fiorire al suo tocco. Gli abitanti del villaggio dicevano che la stessa Artemide, dea della caccia e della natura selvaggia, l’avesse benedetta. Ma Etea sentiva che il suo destino era legato a qualcosa di più grande. Da anni, ogni notte, sognava un grande leone dorato che vagava per le colline di Etea, la regione che portava un nome simile al suo. Nessuno osava avventurarsi oltre quelle terre: si diceva che quella feroce fiera fosse stata inviata dagli dèi per punire gli uomini, un mostro che nessuno era mai riuscito a sconfiggere. I guerrieri più valorosi erano caduti sotto i suoi artigli, e l’intera regione viveva nel terrore. Un dì, mentre la fanciulla raccoglieva erbe medicinali vicino al sacro luogo, udì un rumore tra i cespugli. Si voltò di scatto, pronta a difendersi, ma quello che vide la lasciò senza parole. Davanti a lei, il leone dorato delle sue visioni oniriche apparve in tutta la sua maestosità. Gli occhi della belva brillavano come fiamme e un potente ruggito fece tremare la terra sotto i suoi piedi. Ma invece di fuggire o gridare, Etea si inginocchiò. C’era qualcosa di familiare in quell’animale. Percepiva una connessione profonda, come se non fosse un’orribile creatura, ma un messaggero delle divinità. “Chi sei?” mormorò Etea, con il cuore che le batteva forte. “Perché mi appari nei sogni?” Il leone si avvicinò, abbassando la testa. In quel momento, Etea capì che non era venuto per ucciderla, ma per chiedere il suo aiuto. Udì una voce nell’anima, spiegarle che la bestia era stata maledetta da Era, la regina degli dèi, per aver disobbedito alle sue volontà. L’unica speranza di riacquistare la libertà era quella di trovare un mortale che lo comprendesse, qualcuno con il cuore puro e il coraggio necessario per spezzare l’incantesimo. Etea si alzò in piedi, avvicinandosi lentamente. Non aveva armi, né forza fisica, ma possedeva qualcosa di più straordinario: la compassione e il proprio legame con la natura. Posò la mano sul manto dorato del felino e chiuse gli occhi. Sentì il calore della sua pelliccia e il battito regolare. Allorché, un’ondata di energia la attraversò, e in quell’istante sapeva perfettamente cosa fare. Con un mormorio appena percettibile, iniziò a recitare una preghiera ad Artemide. Invocò il suo aiuto, chiedendone la protezione e la magia per spezzare la maledizione. Le parole uscivano dalle labbra di Etea come un canto antico, mentre lo Zefiro si alzava intorno a loro. Dopo quello che sembrò un’eternità, il leone tremò. Un aureo bagliore avvolse la creatura che, in un istante, si trasformò in un uomo. Alto, con occhi luminosi come il sole e una maestosa presenza, egli le si prostrò davanti. “Grazie,” disse con voce squillante. “Mi hai liberato dal maleficio che mi imprigionava. Io sono Leo, il guardiano delle terre selvagge, e ti sarò per sempre debitore.” Etea lo guardò con un misto di stupore e gratitudine. Aveva compiuto l’impossibile, eppure non si sentiva una semplice mortale. Intuiva che il legame con gli dèi era più intenso che mai, seppure il suo destino non fosse ancora compiuto. Da quel giorno, divenne leggenda, non solo come figlia di un sacerdote, ma persino protettrice delle terre selvatiche, da tutti venerata. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5782 Data: 19/09/2024 13:50:03
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Nodi al pettine
In un piccolo comune italiano, lavoravano due impiegati, Marcello e Federico. Il primo era conosciuto per la sua dedizione e precisione. Ogni mattina arrivava in ufficio puntuale, controllava le pratiche con attenzione e cercava sempre di risolvere i problemi dei cittadini con cortesia e pazienza. Se c’era un documento da consegnare entro una scadenza, potevi stare sicuro che Marcello lo avrebbe fatto con anticipo. Federico, invece, era il contrario. Arrivava spesso in ritardo, si prendeva pause prolungate e passava la maggior parte del tempo a chiacchierare con i colleghi o a fare il minimo indispensabile per non essere rimproverato. Era astuto, sapeva come evitare i lavori più impegnativi e come delegarli ad altri, fingendo di essere sempre molto impegnato. Con il tempo, i cittadini iniziarono a notare la differenza. Quando si rivolgevano a Marcello, sapevano che avrebbero ottenuto un servizio rapido e preciso. Quando toccava a Federico, spesso le pratiche si accumulavano, e le persone dovevano aspettare più del dovuto. Questo portò a delle lamentele da parte degli abitanti del paese, ma Federico, con il suo fare furbo, riusciva sempre a scaricare la colpa su qualcun altro. Un giorno, però, arrivò una grande ispezione da parte di un ente governativo. Gli ispettori volevano verificare l’efficienza del comune e la gestione delle pratiche. Marcello, con la sua abitudine di mantenere tutto in ordine, si trovò perfettamente preparato: ogni documento era al suo posto e tutte le pratiche completata in tempo. Federico, al contrario, si ritrovò in difficoltà. I suoi atti amministrativi erano incompleti, i documenti disorganizzati e, peggio ancora, alcuni di essi erano stati completamente dimenticati. Cercò di trovare scuse, ma questa volta non vi fu modo di nascondere la verità. Alla fine dell’ispezione, Marcello venne lodato e ricevette una promozione per la sua efficienza e dedizione. Federico, al contrario, fu richiamato e gli vennero affidate più responsabilità, affinché imparasse a svolgere il suo lavoro correttamente. Tuttavia, la sua reputazione ormai era rovinata, e molti cittadini preferirono evitare di rivolgersi a lui. Morale per Marcello: chi lavora con impegno e onestà alla lunga viene sempre riconosciuto e premiato. Morale per Federico: la furbizia può aiutare nel breve termine, ma alla fine l’incompetenza e la pigrizia vengono sempre scoperte, portando conseguenze negative. Spero che questo racconto vi sia piaciuto, ricordandoci che ciascuno, deve fare la propria parte. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5780 Data: 16/09/2024 16:52:43
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Tempo di emozioni
In una piccola città di mare, viveva una giovane donna di nome Clara. Il suo mondo interiore sembrava scorrere come le onde che lambivano la spiaggia: regolare, prevedibile, ma senza sorprese. Lavorava come impiegata in un ufficio, con giornate scandite da orari fissi e doveri che si ripetevano ciclicamente. Aveva sempre l’impressione di non disporre del tempo a sufficienza per fare quello che davvero la rendeva felice, e spesso si trovava a rimandare quei momenti in cui avrebbe voluto semplicemente soffermarsi per godersi la vita. Un mercoledì pomeriggio, mentre passeggiava lungo il molo, incontrò un anziano marinaio di nome Sebastiano che aveva passato l’intera esistenza in mare; la sua pelle portava i segni del sole e del vento. Vi era qualcosa di magnetico nel suo sguardo, un senso di pace e saggezza che incuriosì Clara. “Ragazza, perché sembri così pensierosa?” le chiese l’uomo con voce calma. Ella sospirò e si sedette accanto a lui. “Mi sembra di non avere mai abbastanza tempo. Corro tutto il santo giorno, ma mi sfugge la sensazione di vivere davvero. È come se non riuscissi ad assaporare le cose importanti.” Sebastiano le sorrise e rispose: “Sai, il tempo è una cosa strana. Non puoi afferrarlo o fermarlo, ma puoi decidere come scandagliarlo. La chiave sta nel modo in cui si affrontano le emozioni. Se lasci che ti scivolino addosso senza sentirle davvero, tutto brucerà in fretta. Ma se impari a fermarti, ad avvertirle in profondità, scoprirai che il tempo diventa più ricco e sorprendente.” Clara rifletté su tali parole per giorni, continuando però a sentirsi intrappolata nel suo ritmo frenetico. Poi, un lunedì mattina, si svegliò con una sensazione diversa. Decise di prendersi una giornata per sé, lontana dalle scadenze e dagli impegni. Si recò sulla scogliera, dove amava da sempre osservare il mare. Seduta lì, sentì il vento accarezzarle il viso e il sole riscaldarle il corpo. Iniziò a concentrarsi su ciò che stava provando, un mix di serenità, nostalgia e gratitudine per quel gioioso istante che pregustava come se fosse un aperitivo di bellissime e straordinarie sensazioni. Lasciò che tutto quel benessere la attraversasse, senza tentare di scacciarlo o di analizzarlo minuziosamente. Da quel dì, Clara iniziò a vivere diversamente i suoi attimi. Non cambiò lavoro e neppure stile di vita, radicalmente, bensì mutò il suo atteggiamento di approcciare il tempo. Quotidianamente, coglieva l’opportunità di ritagliarsi una pausa per sé, assaporando totalmente la gamma di percezioni che le invadevano la mente e l’anima, donandole gioia o nostalgia. Smetteva di rimandare le piccole cose che la rendevano contenta: una camminata al tramonto, un caffè con un’amica, una pagina di un libro e altro. Con l’andare avanti, si accorse che anche se le sue giornate erano fitte di impegni, non le sentiva prive di significato, vuote o frenetiche. Era come se avesse imparato a dilatare l’orologio e lo spazio attorno alla propria routine, semplicemente respirando ogni secondo con intensità e presenza. Soprattutto, si era resa conto che le sue emozioni, qualora vissute fino in fondo, le restituivano una soddisfazione interiore che nulla poteva sostituire. Finalmente, Clara capì che il vero segreto per vivere bene non era avere più tempo, ma saper vivere meglio quello che si ha. Con il cuore colmo di tranquillità, continuò la sua strada, consapevole che ogni giorno poteva essere un’occasione per sentirsi pienamente realizzata. Visse appagata, avendo appreso a valorizzare il tempo e, con esso, le sue eccitanti emozioni. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5778 Data: 15/09/2024 07:31:03
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Finnicella
In un tempo lontano, ormai dimenticato, esisteva un regno, immerso tra fitte foreste e valli incantate, dove nacque una fata, di nome Finnicella. La sua venuta al mondo fu celebrata con gioia da straordinarie creature che vivevano nei boschi, in quanto era dotata di un raro potere, ovvero la capacità di prevedere il futuro. Crescendo, la sua beltà era pari solo alla magia posseduta, ma a differenza di molte fate sparse in ogni angolo della terra, persisteva qualcosa di oscuro nei suoi occhi, come un mistero irrisolto che sembrava attenderla al varco. Viveva in perfetta armonia con la natura e le altre come lei, usando gli incantesimi per aiutare gli animali feriti e per mantenere l’equilibrio nella foresta. Tuttavia, man mano che le stagioni della vita passavano, Finnicella si sentiva sempre più distante da quella realtà. Una strana inquietudine la tormentava di notte, e visioni terribili la inseguivano nei sogni: un uomo dalle ombre scure, dagli occhi fiammeggianti e dal sorriso crudele, le parlava sottovoce, promettendole poteri e conoscenze oltre l’immaginazione. Ogni notte, questo sogno si faceva più nitido, più evidente. Un dì, spinta dalla curiosità e dal desio di scoprire altro di se stessa, Finnicella si avventurò nel centro della selva, ove si diceva che solo le anime corrotte osassero entrare. E lì, ad attenderla, trovò la tenebrosa figura che popolava i suoi sogni, il Diavolo in persona. Non era l’essere spaventoso che le avevano raccontato, bensì un signore affascinante, dotato di un carisma che la soggiogava. Il Diavolo la chiamò per nome, come se l’avesse conosciuta da sempre. “Finnicella”, disse con voce suadente, “tu non sei come le altre fanciulle. Sei destinata a cavalcare il vento e raggiungere le alte vette. I doni che possiedi sono solo un frammento di ciò che potresti ottenere. Con me al tuo fianco, comanderai qualunque spirito e tutte le creature soprannaturali”. Finnicella era combattuta. Adorava l’intera natura e la radura dove si riuniva spesso con le sue consorelle, ma l’offerta del Diavolo le sussurrava nelle vene come un fuoco irresistibile. Bramava sconfinare al di là della surreale dimensione in cui era immersa, al fine di smascherare la ragione per la quale il destino le avesse riservato l’incontro con il Principe del male. Con un sorriso tentatore, il Diavolo la prese per mano e la condusse nei reami dell’oscurità. Ogni passo che faceva accanto a lui, Finnicella sentiva il cuore allontanarsi per sempre dalla purezza della sua vita precedente. Insieme, intrapresero un cammino di assoluto dominio, e presto ella divenne una delle streghe più temute di tutto il regno. Malgrado il Diavolo la ricoprisse di forze straordinarie e cupi misteri, Finnicella si rese conto che non c’era felicità vera, in quello stato. Il suo operare prodigioso, una volta così puro e luminoso, era ora alimentato da forze occulte. L’aspetto le divenne particolarmente accattivante, ma al contempo inquietante, poiché chiunque la incontrasse restava intrappolato dal suo sguardo, incapace di resistere a un siffatto magnetismo. Eppure, nel suo profondo, Finnicella sapeva che qualcosa di prezioso le era stato tolto: la libertà. Essere l’amante del Diavolo le aveva donato immense capacità, ma con quale scotto da pagare? Ogni singola notte il legame con lui si faceva più stretto, intimo, allorché nei lunghi istanti consumati in compagnia, la giovane perdeva parte della propria anima. Inaspettatamente, dopo anni di terrore e dominio, Finnicella decise di affrontarlo. “Ho visto il futuro,” disse con voce ferma, “e la mia sorte non è quella di rimanere uniti per l’eternità.” Il Diavolo rise nell’udire quella dichiarazione, ma Finnicella, con la saggezza acquisita, aveva imparato che c’era ancora una via d’uscita. La verdeggiante malìa, quella che lei aveva una volta protetto, poteva ancora salvarla, sebbene a caro prezzo. Con l’aiuto delle fate che aveva tradito, riuscì a spezzare il patto con il Demonio. Tuttavia, l’intenso buio che l’aveva avvolta non poteva essere cancellato completamente. Come punizione per i suoi errori, venne esiliata in una terra irraggiungibile, dove avrebbe vissuto segregata, in bilico tra luce e ombra. Ancora oggi, si dice che nei boschi più remoti, durante le notti di luna piena, si possa intravedere la figura di Finnicella, una fata perduta tra due mondi, perennemente condannata a vagare, nella consapevolezza di quello che avrebbe potuto essere e che invece è diventata. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5776 Data: 10/09/2024 19:20:38
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Le rondini sono partite
Era una di quelle sere di fine estate, quando l’aria è ancora tiepida ma comincia a portare il profumo dell’autunno. Nel piccolo villaggio di collina, le rondini si preparavano al loro lungo viaggio verso sud, salutando con un volo elegante i tetti rossi e le torri antiche. Era la stagione in cui il sole si abbassava presto all’orizzonte, regalando tramonti che sembravano dipinti sulla tela del cielo. Elisa amava rimirarli, specialmente dalla cima del colle dietro la casa dei suoi nonni. Da lì, si poteva vedere l’intero villaggio, con le viuzze strette e le finestre fiorite. Ogni sera, si sedeva sul prato, abbracciando le ginocchia, e guardava il cielo tingersi di rosa e arancione, sentendo un dolce senso di malinconia. Quel giorno, però, c’era qualcosa di diverso nell’aria. Forse erano le rondini che, più numerose del solito, sfrecciavano rapide sopra di lei, oppure il profumo di pino che sembrava più intenso, eppure sentiva una strana inquietudine crescere dentro di lei. Avvertiva qualcosa di insolito, come se quell’estate fosse l’ultima di un capitolo della sua vita. Omar era appena tornato da Milano. Spesso trascorreva il periodo estivo dai nonni, ma quell’anno era arrivato più tardi, e si era perso buona parte della stagione. Ora, con il primo fresco della sera, aveva deciso di fare una passeggiata fino alla collina, dove ricordava di aver passato pomeriggi interi da bambino a correre dietro ai grilli e a giocare con gli altri ragazzi del villaggio. Quando raggiunse la punta più alta, vide Elisa seduta nel campo. Il cuore gli batté più forte. L’aveva vista crescere, anno dopo anno, da quando erano piccoli, ma si rese conto di una trasformazione avvenuta in lei. Non era più la ragazzina che ricordava, ma una giovane donna, la cui naturale bellezza lo colpiva come una folata di vento fresco. Elisa si voltò, sentendo i passi leggeri sull’erba. Appena vide Omar, il volto le si illuminò in un sorriso sincero. Da molto tempo non lo incontrava, e per un attimo il suo cuore si strinse, come se avesse temuto di perderlo per sempre. “Omar, sei tornato!” disse, alzandosi in piedi. “Si, sono tornato” rispose lui, cercando di nascondere l’emozione nella voce. “Non potevo perdermi l’ultimo tramonto dell’estate.” Si sedettero insieme, e per un po’ rimasero in silenzio, osservando il cielo che, poco a poco, si tingeva di sfumature più scure. Il borgo sotto di loro sembrava addormentarsi lentamente, avvolto in un manto dorato. “Ogni anno è sempre più difficile partire,” disse Elisa dopo un po’, rompendo il silenzio. Omar si voltò verso di lei, curioso. “Partire per dove?” “Per la città, per l’università,” rispose lei. “Ogni qualvolta torno qui, mi sembra di ritrovare una parte di me che lasciavo indietro. Ma poi devo riandarmene, ed è come se abbandonassi qualcosa di prezioso.” Omar annuì. “Capisco cosa intendi. Anche io ho provato la stessa cosa. Milano è grande, piena di opportunità, ma in questo luogo mi sento a casa in un modo che nessun altro posto riesce a darmi.” Elisa lo guardò, avvolta da una meravigliosa sintonia, come se, in quell’istante, fossero legati da un sentimento più profondo di una semplice amicizia. Una percezione che non aveva mai provato prima, ma che la faceva sentire al sicuro, avendo finalmente trovato qualcuno capace di capirla veramente. “Le rondini sono partite oggi,” lei disse, dirottando su un altro argomento. “È sempre triste vederle andare via. Mi chiedo se anche loro provano la stessa nostalgia che proviamo noi quando lasciamo questa terra natia.” “Forse,” rispose Omar, guardando l’orizzonte dove le ultime rondini si perdevano nel crepuscolo. “Ma torneranno. Le rondini tornano sempre. È una promessa che il tempo fa a questo luogo, e a noi.” Scese nuovamente il silenzio, ma stavolta era pieno di significati non proferiti. Elisa ascoltava il cuore palpitare forte, e si chiese se Omar provasse lo stesso. Improvvisamente, spinta da un coraggio inatteso, la fanciulla allungò la mano e intrecciò le sue dita a quelle del ragazzo. Lui la guardò, sorpreso, ma poi romanticamente sorrise, stringendo il palmo della sua mano in una presa dolce e rassicurante. “Omar, tu tornerai?” chiese lei, con un filo di voce, temendo la risposta. Lui la guardò negli occhi, e per un momento il mondo sembrò fermarsi. “Tornerò, Elisa. Tornerò per te.” Nell’istante in cui il cielo si faceva sempre più scuro e le prime stelle apparivano, Elisa e Omar rimasero lì, mano nella mano, con la promessa di un ritorno, di un amore che sarebbe sbocciato al prossimo appuntamento. E mentre le rondini abbandonavano i loro nidi, trascinando con sé l’estate, una nuova stagione cominciava nei cuori dei due innamorati. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5774 Data: 09/09/2024 07:23:57
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Un caldo sms
Sabrina camminava a rilento per le strade del centro, mentre il caldo di luglio avvolgeva tutto come una coperta soffocante. Il crepuscolo tingeva il cielo di arancione, ma lei non riusciva a godersi quel tramonto, distratta dal suo telefono che, da ore, restava muto. Da mesi la sua vita era segnata da quei messaggi, che all’inizio erano solo scambi occasionali tra colleghi di lavoro. Nicolò era affascinante e spiritoso, sempre con la battuta pronta, e piano piano i loro dialoghi si erano spostati dai progetti collaborativi a chiacchierate più approfondite, fatte di confidenze notturne e battute leggere, eppure intriganti, in quanto stuzzicavano piacevolmente, la fantasia di entrambi. Quel giorno, però, tutto era diverso. Nicolò non le aveva scritto nulla. Sabrina sentiva crescere dentro di sé un insolito dubbio, accompagnato da una perplessità che non riusciva a spiegarsi. L’attesa la rendeva inquieta. Seduta su una panchina davanti a una piccola fontana, guardava il telefono, sperando di veder comparire il nome di Nicolò sullo schermo. Le loro conversazioni erano diventate il punto fisso della sua giornata, anche se non si era mai spinta a confessargli i suoi veri sentimenti, al di là dell’ardore emotivo che, oramai, contraddistingueva il contenuto di una interazione scritta, apparentemente scontata. C’era qualcosa di non detto, un filo sottile di tensione che nessuno dei due aveva ancora avuto il coraggio di rompere. All’improvviso, il cellulare vibrò e il cuore di Sabrina fece un balzo. Era Nicolò: un messaggio breve che la scaldò come un abbraccio sotto il sole cocente. “Posso vederti stasera? Ho voglia di assaggiarti”. Sabrina rimase a fissare lo schermo per qualche secondo, in preda a un forte battito. Era quello che desiderava da settimane, forse mesi. Ma le parole le si fermarono in gola. Doveva rispondere? E se poi non fosse stato come lo aveva immaginato? E se tutto si fosse ridotto a un’illusione? Respirò profondamente e, con le mani che le tremavano leggermente, scrisse: “Certo, quando e dove?” Non passò neanche un minuto che arrivò la risposta: “Tra mezz’ora, al bar sotto casa tua.” Sabrina si alzò di scatto dalla panchina, sentendo un’ondata di intenso turbamento mischiato a un timore legittimo, facente parte di una spontanea eccitazione, fortemente comprensibile, perché umana. Era davvero arrivato quel momento? Corse a casa, si diede un rapido sguardo allo specchio e, dopo essersi sistemata i capelli, uscì di nuovo, con un desiderio che gli batteva forte dentro. Arrivò al bar e lo trovò lì, seduto a un tavolo all’aperto, con un sorriso accattivante, ma gli occhi che celavano qualcosa di più intenso e non completamente espresso. Quando la vide, si alzò e la salutò con una stretta di mano, in modo da farla sentire protetta e compresa. “Sono felice che tu sia venuta”, disse Nicolò, spostando lo sguardo sulla scollatura di lei che metteva in risalto un seno invitante. “Non potevo evitare di venire”, rispose Sabrina con un sorriso timido ma felice di chi aveva davanti a sé. Si sedettero e ordinarono qualcosa di fresco da bere, ma ambedue sapevano che quella serata non sarebbe stata come le altre. Con frequenti occhiate si incrociavano più spesso del solito, e tra una parola e l’altra, i silenzi sembravano rivelare molto altro rispetto ai vari discorsi. Dopo un’ora di conversazione leggera, Nicolò prese l’iniziativa. Si sporse leggermente verso di lei e, abbassando la voce, le sussurrò: “Sai, i messaggi e certi pensieri che ci rivolgiamo… per me sono diventati più di un’abitudine. Non so se lo senti anche tu, ma c’è qualcosa tra noi che non riesco più a ignorare.” Sabrina si sentì rapita da una meravigliosa sensazione fatta di cerebrale soddisfazione. Si mordeva il labbro, cercando di trovare le parole giuste, ma Nicolò la precedette. “Non volevo dirlo così, ma oggi, in assenza dei tuoi messaggi, mi sono reso conto di quanto manchi alla mia quotidianità il leggerti, per gustare l’ebbrezza di sogni lascivi e voluttuosi. È bellissimo parlare e scherzare con te, di tutto; ma è il modo disinibito in cui mi vuoi che mi esorta a condividere ogni attimo di calda passione, pronta a esplodere per te”. Sabrina rimase impressionata dalle esternazioni verbali di Nicolò che le risuonavano nella testa come un’occasione allettante, da non lasciarsi sfuggire. Invero, pure lei provava simpatia tenace e attrazione potente per lui. Allorché, senza pensarci troppo, allungò una mano e la posò sulla sua come segno rassicurante. “Lo stesso è per me, mi sei mancato”, disse piano. “Non ho risposto subito perché avevo paura… di questo.” Nicolò sorrise, stringendole quella mano divenuta complice di una silente approvazione e che emotivamente lo rinvigoriva. “Non dobbiamo essere titubanti. Ascoltiamo ciò che sentiamo dentro e lasciamo andare fluidamente le nostre esibizioni epidemiche. Afferriamo il tempo giusto per iniziare qualcosa di straordinariamente indimenticabile. L’eros non conosce confini e l’intimità è la via d’accesso alla pienezza emotiva, quando si trova la persona appropriata”. L’estate della sera avvolgeva tutto, ma a Sabrina sembrava che esistesse un unico falò da alimentare, da mantenere vivo e luminoso perché lì, giaceva la canicola di qualcosa di assai profondo, vero, privo di falsi pudori e uguale al suo temperamento. Intanto che la città si spegneva gradualmente, sotto le luci soffuse del bar, quel semplice sms aveva acceso un nuovo capitolo nelle loro vite. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5771 Data: 06/09/2024 08:53:44
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Inconfessabile tormento
C’era una volta un uomo di nome Giacomo, cresciuto in un piccolo villaggio, immerso tra colline verdi e chiese antiche. La sua famiglia, modesta e devota, nutriva grandi speranze per lui. Sin da bambino, gli venne detto che il sacerdozio era la via più nobile per un giovane, la strada per conquistarsi un posto rispettabile nel mondo. Giacomo, tuttavia, non provava una vera chiamata. La sua fede era tenue, un mormorio lontano, soffocato dalle ambizioni e dai desideri più terreni. A vent’anni, con poche prospettive davanti a sé, decise quindi di seguire il consiglio della sua famiglia e intraprendere la via del sacerdozio. Non lo fece per amore di Dio, ma per paura della povertà, per garantirsi un futuro sicuro. Sapeva che un prete godeva di rispetto, cibo assicurato e una vita lontana dalle fatiche del lavoro manuale. Dunque, senza esitare, entrò in seminario. Gli anni passarono, e Giacomo si adattò facilmente alla vita religiosa, pur senza mai sentirsi profondamente connesso alla sua missione. Recitava le preghiere, amministrava i sacramenti e predicava alla comunità, ma ogni parola che usciva dalla sua bocca gli sembrava vuota. La fede era solo un abito che indossava, una maschera dietro la quale si nascondeva. Gli abitanti del luogo quasi lo veneravano, vedendo in lui un pastore gentile e premuroso, ma Giacomo si sentiva sempre più soffocato. Ogni domenica, quando saliva sull’altare, un senso di inadeguatezza lo divorava. Si chiedeva spesso cosa sarebbe successo se avesse scelto un’altro percorso, ascoltando quel piccolo barlume di verità che ancora resisteva nel suo cuore. Una sera d’inverno, dopo aver celebrato una funzione liturgica, rimase solo in chiesa. Le candele si stavano spegnendo e l’eco delle sue parole risuonava ancora tra le mura di pietra. Si inginocchiò davanti al crocifisso, ma non riusciva a proferire alcuna orazione. Le mani erano fredde, il cuore pesante. Dopo tanti anni di menzogna, sentì di non poter più andare avanti. Le lacrime iniziarono a scendere lentamente sul viso, trasportate da un’emozione silenziosa, ma talmente profonda da fargli capire in quel momento che non aveva mai trovato il Signore perché non lo aveva cercato davvero in piena sincerità. Aveva solamente ottenuto il conforto di una facile quotidianità sicura, il calore dell’approvazione altrui, ma aveva perso la propria anima lungo il cammino. Decise di abbandonare quel sentiero spirituale appena fosse sopraggiunta la notte. Non per egoismo, bensì perché impossibilitato a convivere con un’amara menzogna, restando imprigionato in un ruolo sociale privo di autentica coscienza. Andò via senza dire addio, lasciando dietro di sé una vita costruita su basi fragili, consapevole che avrebbe dovuto affrontare l’incertezza, la solitudine e forse anche il disprezzo di chi lo aveva visto come un esempio. Il paese non lo vide più, e di lui si parlò a lungo, ma nessuno seppe mai la vera storia di quell’uomo che aveva indossato la tonaca senza giammai sentire il richiamo della fede, certamente non per colpa sua. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5770 Data: 05/09/2024 19:49:43
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Custode dei numeri
In un regno lontano, nascosto tra le montagne avvolte dalla nebbia e circondato da foreste antiche, esisteva un villaggio chiamato Numeria. I suoi abitanti erano un popolo saggio e rispettato, conosciuto per la straordinaria conoscenza dei numeri e delle loro misteriose proprietà magiche. Tra tutti, ve n’era uno considerato sacro: la Sequenza di Leonardo, più conosciuta come la sequenza di Fibonacci. Essa non era solo un semplice insieme di numeri, ma un vero e proprio incantesimo che, se utilizzato correttamente, poteva cambiare il corso degli eventi, alterare il tempo e persino aprire porte verso mondi sconosciuti. La sequenza iniziava con 0 e 1, e da lì in poi ogni numero era la somma dei due precedenti: 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21… I sapienti di Numeria avevano scoperto che queste cifre potevano essere trovate ovunque: nelle spirali delle conchiglie, nella disposizione dei petali dei fiori e persino nel movimento delle stelle. In quel villaggio viveva una giovane ragazza di nome Lidia. Figlia di un umile falegname, era dotata di un talento naturale per la matematica. Fin da piccola, amava giocare con le cifre, creando schemi intricati che sembravano danzare davanti ai suoi occhi. Ma ciò che la rendeva veramente speciale era la sua capacità di vedere la magia nascosta dietro di essi. Un giorno, mentre passeggiava lungo un sentiero di montagna, Lidia trovò una piccola pietra lucente che sembrava emanare una luce calda e dorata. La raccolse e notò che sulla sua superficie erano incisi i primi numeri della sequenza di Fibonacci. Non appena le sue dita sfiorarono la pietra, una voce antica risuonò nella sua mente. “Custode dei numeri, tu sei stata scelta,” disse la voce, “per risolvere l’enigma che da secoli affligge il nostro regno. La sequenza di Leonardo contiene la chiave per aprire il portale del tempo, ma solo chi comprende il suo vero significato può utilizzarla.” Lidia, inizialmente spaventata, sentì il coraggio crescere dentro di sé. Sapeva che la voce aveva ragione: era lei la prescelta. Tornata al villaggio, consultò i testi antichi e parlò con i saggi, ma nessuno poteva darle ulteriori risposte. Doveva contare solo sulla sua intuizione. Passarono giorni e notti, e Lidia studiò senza sosta. Scoprì che la sequenza di Fibonacci non era solo una serie di numeri, ma rappresentava l’ordine stesso della natura, l’armonia dell’universo. Capì che per aprire il portale del tempo, doveva ricreare la sequenza con la stessa precisione con cui era presente nella natura. Una notte, sotto la luce della luna piena, si recò in una radura segreta. Con la pietra magica in mano, iniziò a tracciare sulla terra i numeri della sequenza, uno dopo l’altro. Ogni cifra risplendeva di una luce sempre più intensa, fino a quando l’aria intorno a lei cominciò a vibrare e un antico portale si aprì davanti ai suoi occhi. Senza esitazione, varcò la soglia. Si ritrovò in un mondo dove il tempo non aveva significato, un luogo sospeso tra passato e futuro. Lì, incontrò un anziano uomo con una lunga barba bianca, che la accolse con un sorriso gentile. “Benvenuta, Lidia,” disse l’uomo, “Io sono Leonardo Fibonacci. Ho atteso a lungo il tuo arrivo.” Leonardo le spiegò che la sequenza era molto più di una formula matematica: era la musica dell’universo, il battito stesso della creazione. Le rivelò i segreti più profondi dei numeri e le insegnò come usarli per riportare equilibrio nel mondo. Dopo aver appreso tutto ciò che poteva, Lidia tornò al suo tempo. Con la saggezza acquisita, guidò il suo popolo attraverso tempi difficili, utilizzando la magia dei numeri per risolvere problemi, guarire malattie e portare prosperità a Numeria. Da quel giorno, la Sequenza di Fibonacci divenne il cuore pulsante della vita a Numeria, e Lidia fu ricordata come la Custode dei Numeri, colei che aveva svelato i segreti dell’universo attraverso la magia della matematica. E così, il piccolo villaggio di Numeria prosperò, tenendo vivo il mistero dei numeri magici e della sequenza di Leonardo Fibonacci, ricordando a tutti che l’armonia dell’universo poteva essere trovata anche nelle cose più semplici e apparentemente ordinarie. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5769 Data: 05/09/2024 08:44:29
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Troppa TV fa male
C’era una volta un ragazzo di nome Adriano, noto tra i suoi amici come “Tele-Adriano”. Non perché lavorasse in televisione, ma in quanto passava ogni singolo minuto libero davanti a uno schermo, sprofondato nel divano come se fosse stato fuso con esso. Lui non faceva altro che guardare serie tv, programmi di cucina, telegiornali, documentari sui pinguini dell’Antartide e perfino le televendite. Per Adriano, il telecomando era diventato un’estensione del braccio, tanto che a volte lo usava per cambiare canale anche mentre dormiva. Un dì, dopo una maratona di 24 ore non-stop della sua serie preferita “I Sopravvissuti del Divano”, sentì qualcosa di strano. Si guardò intorno, accorgendosi stranamente che, il mondo attorno, stava cambiando. Le persone che vedeva fuori dalla finestra erano tutte in HD, le nuvole sembravano aver aumentato la risoluzione e persino il suo gatto sembrava avere una colonna sonora drammatica, ogni volta che si muoveva. Inizialmente, trovò la cosa fantastica. “Wow, è come vivere in un film!”, pensò. Ma presto, le cose presero una piega insolita e alquanto inaspettata. Quando provò a rispondere al telefono, invece di parlare, si accorse di essere in uno spot pubblicitario, vendendo una nuova marca di cereali. Poi, durante un tentativo d’uscire di casa per prendere una boccata d’aria, si ritrovò imprigionato in una sit-com anni ’90, con tanto di risate registrate, ogni volta che diceva qualcosa. Ma la cosa peggiore avvenne la mattina seguente. Si svegliò e scoprì di non riuscire più a trovare il telecomando: era scomparso. Provò a cercare ovunque, sotto il divano, tra i cuscini, perfino nel frigorifero (perché, si sa, i telecomandi vanno sempre a finire nei posti più strani), ma niente. Fu allora che capì: lui stesso era diventato il telecomando! Ogni volta che desiderava saltare un canale, il mondo circostante si plasmava repentinamente. Quando pensava a un documentario, le persone per strada cominciavano a camminare lentamente, con una voce narrante che spiegava le loro abitudini quotidiane. Se sceglieva di guardare un programma di preparazioni alimentari, si ritrovava con un cappello da chef in testa, mentre cucinava piatti gourmet senza nemmeno sapere come. Disperato, cercò aiuto, ma ovunque si recasse, la gente lo trattava come un personaggio televisivo. I medici tentavano di vendergli farmaci miracolosi, i poliziotti gli chiedevano se voleva partecipare al loro reality show e i suoi amici lo chiamavano solo per chiedergli consigli su quale serie iniziare a seguire, ovviamente, “televisivamente” discorrendo. Alla fine, egli decise che c’era solo una cosa da fare: spegnere la TV una volta per tutte. Così, con grande sforzo e impegno psico emotivo, riuscì a “pensare” di spegnere il suo stesso cervello-telecomando. All’istante, tutto tornò normale. Le persone erano solo persone, il gatto non aveva più la colonna sonora e, grazie al cielo, il frigo non trasmetteva più televendite. Da quel momento in avanti, decise di limitare le sue sessioni di binge-watching e di uscire un po’ di più. Ogni tanto, ripensava con terrore a quella volta in cui era diventato una sorta di “dispositivo” umano. Qualora gli amici gli chiedessero perché non guardava più tanta televisione, lui rispondeva semplicemente: “Perché l’ultima volta mi sono ritrovato nello spot di un dentifricio e ho ancora il sorriso sbiancato per ricordarmelo!” E così, Adriano visse felice e contento, con il telecomando ben nascosto in un cassetto e le sue avventure televisive lasciate solo sullo schermo, al quale appartenevano. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5766 Data: 01/09/2024 19:12:02
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Il respiro della Terra
Nella piccola cittadina di Valle Verde, incastonata tra montagne che un tempo erano coperte di neve, viveva un uomo di nome Alberto. Aveva sempre amato la natura e si era trasferito lì per godere della bellezza incontaminata delle foreste e dei fiumi che attraversavano la vallata. Da giovane, aveva visto gli inverni arrivare presto, con la neve che copriva ogni cosa in uno spesso manto bianco. Le estati erano miti e le piogge regolari mantenevano la terra fertile e rigogliosa. Con il passare degli anni, però, Alberto aveva notato dei cambiamenti. Gli inverni si erano fatti sempre più brevi e meno intensi, e le stagioni intermedie più calde e secche. Le foreste che circondavano la valle avevano cominciato a perdere la loro verde lucentezza e i fiumi, un tempo pieni e vivaci, si erano ridotti a rivoli d’acqua, troppo deboli per sostenere la vita che avevano sempre ospitato. Gli animali, un tempo numerosi, si erano fatti più rari, spostandosi verso terre maggiormente fredde e ricche. Alberto ricordava le storie che suo nonno gli raccontava da bambino, di una terra rigogliosa, dove l’uomo e la natura vivevano in equilibrio. Ora, quelle storie sembravano solo leggende, racconti di un tempo perduto per sempre. Un giorno d’estate, quando il caldo era insopportabile e l’aria sembrava ferma, Alberto decise di fare una passeggiata nei boschi. Il silenzio lo avvolse subito, rotto solo dal fruscio delle foglie secche sotto i suoi piedi. Giunse in una radura che un tempo era un lago. Ora era una distesa di terra screpolata, con solo poche pozze d’acqua stagnante che riflettevano il cielo grigio. Si sedette su un masso e chiuse gli occhi, cercando di immaginare il lago com’era una volta, con l’acqua limpida e fredda che rinfrescava l’aria. Mentre si perdeva nei suoi pensieri, udì un suono strano, come un respiro profondo. Aprì gli occhi, guardandosi intorno confuso. Il suono sembrava venire dalla terra stessa, un sussurro appena udibile, ma costante. Si chinò verso il suolo, mettendo l’orecchio vicino alla terra secca. Il suono si fece più chiaro: era un lamento, un grido soffocato di dolore. Alberto si alzò di scatto, il cuore che batteva forte nel petto. Non aveva mai sentito nulla del genere. Tornò in città di corsa, con la mente piena di domande e paure. Raccontò agli altri ciò che aveva udito, ma nessuno gli credette. La gente era troppo occupata a sopravvivere in un mondo che sembrava sfuggirgli di mano. Alcuni lo derisero, altri scrollarono le spalle, troppo stanchi per preoccuparsi di ciò che non capivano. I giorni passarono, e l’estate divenne ancora più torrida. Le colture cominciarono a fallire, e l’acqua divenne scarsa. Gli abitanti di Valle Verde cominciarono a parlare di lasciare la città, di cercare fortuna altrove. Ma Alberto non poteva andarsene. Sentiva che doveva fare qualcosa, anche se non sapeva cosa. Una notte, quando il caldo era talmente opprimente da rendere impossibile il sonno, Alberto si alzò e uscì di casa. Camminò fino alla radura dove aveva udito quel respiro, quella voce della terra. Si sedette di nuovo sul masso e chiuse gli occhi. “Che cosa posso fare?” sussurrò. “Come posso aiutarti?” Il vento si alzò, leggero ma presente, e con esso arrivò un altro respiro, più forte questa volta. Alberto sentì una sensazione di calore sotto i piedi, come se la terra stesse cercando di comunicare con lui. Poi, nella sua mente, emerse un pensiero chiaro: Prenditi cura di me, come io mi sono presa cura di te. Ascolta il mio dolore e fai in modo che gli altri lo sentano. Alberto passò il resto della notte lì, riflettendo su quelle parole. Al sorgere del sole, aveva deciso. Avrebbe dedicato il resto della sua vita a cercare di salvare quella terra che tanto amava, a sensibilizzare gli altri sul cambiamento climatico e sulle sue devastanti conseguenze. Sapeva che sarebbe stata una battaglia difficile, forse persino persa in partenza, ma non poteva più ignorare il grido della Terra. E così fece. Con il tempo, altri si unirono a lui, riconoscendo finalmente i segni del cambiamento e la verità delle sue parole. Valle Verde divenne un simbolo di resistenza, un luogo dove la gente aveva deciso di lottare per il futuro, per la Terra e per le generazioni che sarebbero venute dopo. Ma Alberto sapeva che il tempo era prezioso, e che ogni giorno che passava senza agire rendeva quella lotta ancora più ardua. Il respiro della Terra continuava, a volte appena udibile, a volte un urlo disperato. Ma finché ci fosse stato qualcuno disposto ad ascoltarlo, finché ci fosse stato qualcuno pronto a lottare, c’era ancora speranza. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale.
Id: 5763 Data: 28/08/2024 06:30:03
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Io vengo ogni giorno
Nella storica città di Verona, viveva un uomo di nome Romeo. Era un tipo particolare, con un sorriso sempre pronto e un’aria di mistero che lasciava tutti incuriositi. Ma ciò che lo rendeva davvero unico era la sua abitudine, anzi, il suo impegno. Romeo, ogni giorno, immancabilmente, si presentava puntuale al lavoro. “Io vengo ogni giorno”, ripeteva con orgoglio a chiunque incontrasse. Il suo lavoro era di un genere un po’ ambiguo, o almeno così sembrava a chi non lo conosceva bene. “Di cosa ti occupi esattamente, Romeo?” chiedevano spesso i suoi amici, con un sorrisetto malizioso. E lui, con aria solenne e sguardo fiero, rispondeva: “Io vengo ogni giorno a distribuire piacere”. Nessuno osava approfondire, ma tutti erano curiosi. In realtà, Romeo lavorava in una pasticceria. Il suo compito era preparare i dolci più deliziosi e servire caffè caldi che facevano letteralmente venire l’acquolina in bocca a chiunque varcasse la soglia del locale. I suoi bigné ripieni alla crema, morbidi e soffici, erano famosi in tutta la città. Le sue torte al cioccolato erano così voluttuose che la gente si diceva: “Mangiarne una fetta è come un’esperienza mistica.” Ma Romeo, con la sua parlantina accattivante, aveva preso l’abitudine di descrivere il suo lavoro con un certo doppio senso. “Il mio scopo è far venire la gente, e devo dire che ci riesco sempre!” raccontava, divertendosi a vedere le espressioni imbarazzate dei suoi interlocutori. Non mancava mai di aggiungere, con un occhiolino: “La soddisfazione è garantita, ve lo assicuro.” Il culmine della sua giornata, però, arrivava nel pomeriggio, quando le signore della città si riunivano in pasticceria per il tè. Romeo serviva con maestria e discrezione, ma non mancava mai di chiedere, con un tono complice: “Posso fare qualcosa per voi, signore? Magari farvi venire un sorriso?” Le signore arrossivano e ridevano, ma non potevano negare che ogni volta uscivano dalla pasticceria con un’aria di beatitudine. Col tempo, la fama di Romeo si era diffusa anche fuori città. La gente veniva da lontano per vedere quest’uomo che “veniva ogni giorno” con una dedizione così particolare. E Romeo non deludeva mai. “Non c’è niente di meglio che far venire le persone con gioia,” diceva. E se qualcuno lo guardava strano, lui si limitava a sorridere: “Eh, non avete idea di quanto impegno ci metto!” Un giorno, un cronista decise di intervistarlo per capire meglio il segreto del suo successo. “Romeo, qual è la chiave del tuo lavoro? Come fai a far venire così tanta gente ogni giorno?” Romeo lo guardò dritto negli occhi e con un sorrisetto malizioso rispose: “Il segreto è tutto nella passione. Bisogna fare ogni cosa con amore, e soprattutto… venire ogni giorno, senza mai mancare.” L’intervista divenne virale e il giorno dopo la pasticceria di Romeo fu presa d’assalto. La gente era curiosa di vedere se era vero ciò che si diceva di lui. E Romeo, come sempre, non deluse. “Benvenuti, accomodatevi. Io sono qui, ogni giorno, per farvi venire… il sorriso.” La morale della storia? Che si tratti di dolci o di altre “esperienze”, l’importante è metterci sempre il cuore. E, naturalmente, venire ogni giorno. N.d.A: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale.
Id: 5761 Data: 27/08/2024 11:52:49
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Fede nel cuore
In un piccolo villaggio, incastonato tra le montagne, viveva un anziano di nome Edoardo. Era conosciuto da tutti per la sua saggezza e per la serenità che traspariva dai suoi occhi. Nonostante le molte difficoltà che aveva incontrato nel corso della sua vita, Edoardo sembrava sempre trovare una forza interiore che lo sorreggeva, una luce che lo guidava anche nei momenti più bui. Un bel giorno, un giovane di nome Mattia si recò da Edoardo. Il ragazzo, sconfortato dalla sua vita piena di incertezze e dubbi, decise di cercare consiglio dall’anziano. “Nonno Edoardo,” iniziò Mattia con un tono triste, “mi sento perso. Ogni volta che cerco di fare qualcosa, sembra che il mondo si opponga a me. Non so più cosa fare, non riesco a trovare la forza per andare avanti.” Edoardo sorrise con compassione e lo invitò a sedersi accanto a lui. Dopo un momento di silenzio, l’anziano cominciò a parlare. “Mattia, capisco il tuo dolore. Nella vita, tutti noi attraversiamo periodi in cui ogni cosa sembra inutile, in cui le nostre speranze si affievoliscono e il futuro appare incerto. Ma c’è qualcosa che ci aiuta a superare questi momenti: la fede.” Il ragazzo lo guardò con un’espressione interrogativa. “La fede? Ma io non sono una persona religiosa. Non so nemmeno se credo in qualcosa.” Edoardo annuì lentamente. “La fede di cui parlo non è necessariamente legata a una religione o a un credo specifico. È la fiducia in qualcosa di più grande di noi, che ci sostiene e ci guida anche quando non riusciamo a vedere la strada. Può essere la fede in Dio, in un ideale, o anche semplicemente nella bontà della vita stessa. È quella forza invisibile che ci spinge a continuare, a credere che, nonostante tutte le difficoltà, c’è una ragione per andare avanti.” Marco rimase in silenzio, riflettendo su quelle parole. Edoardo continuò. “Vedi, la fede non è solo una speranza vaga. È una forza concreta che ci dà il coraggio di affrontare le avversità, di rialzarci dopo una caduta, di vedere una luce anche nell’oscurità. Quando avevo la tua età, anche io mi sentivo smarrito. Avevo perduto tutto ciò che mi era caro. Ero solo e disperato. Ma dentro di me, qualcosa mi spingeva a non arrendermi. Ho scelto di credere che la vita aveva ancora qualcosa da offrirmi, anche se in quel momento non riuscivo a vederlo.” “Quella fede,” continuò Edoardo, “mi ha aiutato a superare il dolore, a trovare nuove opportunità e a scoprire una pace interiore che mai avrei pensato possibile. La fede mi ha insegnato che, anche quando tutto sembra perduto, c’è sempre una possibilità di rinascita, una nuova speranza che ci attende.” Mattia si sentì toccato dalle parole dell’anziano. Iniziava a capire che la fede di cui Edoardo parlava non era una semplice credenza, ma una scelta di vita, un atteggiamento che poteva cambiare il modo in cui affrontava le sue sfide. “Quindi,” disse Mattia con un filo di voce, “devo trovare qualcosa in cui credere, qualcosa che mi dia la forza di andare avanti.” Edoardo annuì, con un sorriso rassicurante. “Esatto, Mattia. E ricorda, la fede non ti esonera dalle difficoltà, ma ti dà la forza di superarle. Ti aiuta a vedere oltre l’oscurità e a credere che, nonostante tutto, la vita ha un significato profondo. Non perdere mai la fede, perché è il faro che ti guiderà attraverso le tempeste della vita.” Mattia si alzò, sentendo nel suo cuore una nuova determinazione. Salutò Edoardo con gratitudine e iniziò il suo cammino di ritorno al villaggio. Le parole dell’anziano riecheggiavano nella sua mente, come una melodia che gli infondeva coraggio e speranza. Sapeva che il viaggio sarebbe stato lungo e difficile, ma con la fede nel cuore, si sentiva pronto ad affrontare qualsiasi sfida. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale.
Id: 5759 Data: 13/08/2024 12:01:35
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Una sfida per ridere
Era una di quelle mattine estive a Milano in cui il sole picchiava forte già dalle prime ore del giorno, e l’asfalto cominciava a sciogliersi come mozzarella sulla pizza. Due amici, Arturo e Bruno, decisero di sfidarsi in una gara di biciclette attraverso la città, dal Duomo fino a Porta Venezia. Ma non era una gara qualsiasi: il percorso doveva attraversare il caos del traffico milanese all’ora di punta. Arturo, orgoglioso possessore di una bicicletta ultramoderna, con cambio Shimano e ruote in fibra di carbonio, si sentiva già vincitore. Bruno, invece, aveva un vecchio catorcio arrugginito, con una campanella che suonava a ogni buca e una sella che cigolava come una vecchia porta. Ma Bruno era un maestro dell’arte di arrangiarsi, uno di quelli che preferivano evitare il codice della strada come se fosse un libro di storia noioso. “Sei pronto a perdere, Bruno?” disse Arturo con un sorriso sornione, appoggiato alla sua bicicletta luccicante come un’astronave. “Ah, ma certo, Arturo! Non vedo l’ora di ammirare il tuo sudore mentre mi rincorri,” ribatté Bruno, con quella sua solita aria da noncurante. La partenza avvenne sotto la Madonnina, con turisti e piccioni che assistevano, inconsapevoli del grande evento in corso. Al “via!” improvvisato da un passante, Arturo partì come un razzo, piegato sulla bicicletta, sfrecciando tra i tram e i taxi. Bruno, invece, prese un’altra via, scivolando giù per una scalinata con un balzo acrobatico e uscendo in un vicolo che portava dritto a Corso Vittorio Emanuele. Arturo, concentrato sulla sua velocità, non si accorse che Bruno stava tagliando ogni curva possibile, imboccando vicoli strettissimi e zigzagando tra i tavolini dei bar. Ad un certo punto, Arturo si trovò imbottigliato in mezzo al traffico di Piazza San Babila, bloccato dietro un autobus pieno di turisti. Intanto, Bruno faceva slalom tra i pedoni in via della Spiga, con la sua campanella che suonava all’impazzata, facendo girare tutti. “Attenti, professionista in arrivo!” urlava, divertito dal caos che creava. Arturo finalmente riuscì a liberarsi dall’ingorgo, lanciandosi a tutta velocità in Corso Buenos Aires, sicuro di aver recuperato. “Ora lo recupero,” pensò, mentre si faceva largo tra i motorini che passavano con disinvoltura da una corsia all’altra. Ma non aveva fatto i conti con la creatività di Bruno. Bruno, infatti, aveva deciso di attraversare il Parco Indro Montanelli, scavalcando una panchina e superando un paio di anziani che stavano facendo tai chi. “Scusate, signori, il dovere chiama!” gridò mentre sfrecciava via. Arturo, ignaro del percorso alternativo di Bruno, raggiunse finalmente Porta Venezia, certo di essere in vantaggio. Ma appena girò l’angolo, ecco che vide Bruno seduto sul marciapiede, con un gelato in mano e un sorriso beffardo. “Come… come hai fatto?” balbettò Arturo, ansimando e con la maglietta ormai completamente inzuppata. “Strategia, caro amico, strategia,” rispose Bruno, facendo tintinnare la campanella del suo catorcio arrugginito. “E un po’ di fortuna. Ma ora che sei qui, ti consiglio il gusto pistacchio: è fenomenale!” Arturo scoppiò a ridere, rendendosi conto che la vera vittoria era stata divertirsi come non facevano da anni. E così, mentre il sole continuava a scaldare le strade di Milano, i due amici si sedettero insieme, mangiando gelato e ridendo delle loro follie in bicicletta. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale.
Id: 5755 Data: 12/08/2024 13:42:04
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Pomeriggio al museo
Era una giornata grigia di metà autunno, con le foglie che cadevano leggere dai rami, quando Alba e Damiano decisero di fare una gita al museo. Entrambi appassionati di storia dell’arte, avevano programmato questa visita da tempo, ma tra impegni di lavoro e imprevisti vari, erano riusciti a trovare un pomeriggio libero solo ora. Il museo era un edificio maestoso, ricco di dettagli architettonici che catturavano immediatamente l’attenzione. Alba, con i suoi capelli castani raccolti in una treccia morbida e gli occhi che brillavano di curiosità, sembrava ancora più affascinante alla luce soffusa delle sale espositive. Damiano, con il suo sorriso sincero e il suo attento osservare, non poteva fare a meno di ammirarla mentre si muoveva tra le opere esposte. La prima sala che visitarono era dedicata all’arte rinascimentale. Dipinti di Raffaello, Botticelli e Leonardo da Vinci adornavano le pareti, e Alba si fermò a osservare attentamente un quadro di quest’ultimo, “La Dama con l’ermellino”. Damiano si avvicinò, stando in silenzio al suo fianco. “È incredibile quanto riesca a esprimere con un solo sguardo,” disse Alba sottovoce, riferendosi alla figura ritratta. “Proprio come fai tu,” rispose Damiano con fare affettuoso. Alba si girò verso di lui, sorpresa e leggermente arrossita. “Sempre pronto con i complimenti, eh?” “Solo quando sono meritati,” replicò lui, e i loro visi si incrociarono per un attimo che sembrò eterno. Proseguirono il cammino, passando attraverso sale piene di sculture classiche e reperti archeologici, ma fu in quella dedicata agli Impressionisti che accadde qualcosa di speciale. Davanti a un quadro di Monet, Alba si fermò di nuovo, completamente rapita dai colori e dalle pennellate delicate. “Damiano, guarda questi riflessi sull’acqua. Non sembra quasi che il lago stia prendendo vita?” chiese lei, emozionata. Damiano si avvicinò, guardando il dipinto, ma i suoi occhi tornavano sempre a posarsi su Alba. “Sì, è magnifico. Ma sai una cosa? Nulla può competere con la bellezza del momento che sto vivendo ora.” Alba si voltò verso di lui, stupita ancora una volta. Damiano le prese delicatamente la mano, sentendo il calore della sua pelle. “Alba, da quando ti ho conosciuta, ogni momento passato insieme è come un capolavoro d’autore. Ogni espressione di ilarità, parole e gesti sono per me come i colori su questa tela. Non riesco a immaginare la mia vita senza di te.” Gli occhi di Alba si riempirono di lacrime di gioia. “Damiano, io… io sento lo stesso. Ogni giorno con te è un dono prezioso.” Si accostarono, i loro volti sempre più vicini, finché le loro labbra si sfiorarono in un bacio dolce e appassionato, circondati dalla bellezza senza tempo delle opere d’arte. Quel pomeriggio al museo, tra quadri e sculture, Alba e Damiano intuirono che la loro storia era l’opera artistica più bella di tutte, un capolavoro in continua evoluzione, fatto di amore, comprensione e piccoli istanti di infinita felicità. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale.
Id: 5753 Data: 10/08/2024 06:35:43
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Nel letto degli altri
In un piccolo paese arroccato sulle colline bergamasche, c’era una tradizione curiosa che nessuno avrebbe mai ammesso pubblicamente, ma che tutti conoscevano bene: “L’amore nel letto degli altri.” Non era una questione di infedeltà o tradimento, bensì un gioco, una sorta di rito collettivo, che coinvolgeva gli abitanti del borgo. Si diceva che la vecchia Beatrice, la matrona del paese, avesse iniziato la tradizione negli anni ’50, quando ancora le case erano piccole e affollate e gli spazi scarseggiavano. A volte, per evitare i sospetti, gli amanti clandestini si rifugiavano nei letti di amici o vicini, approfittando di una festa o di una visita per sfuggire agli occhi vigili dei loro coniugi. Il gioco era semplice: una coppia si introduceva di nascosto nella casa di un’altra, per trascorrere una notte di passione nel loro letto. La sfida non stava tanto nell’atto, ma nel non farsi scoprire. Il giorno dopo, se i padroni non si accorgevano di nulla, gli “invasori” vincevano e potevano vantarsi silenziosamente della loro impresa. Altrimenti, dovevano pagare pegno, di solito una cena in osteria per tutti i partecipanti. Donato e Luisa, due giovani avventurosi, decisero di partecipare per la prima volta. L’idea di infilarsi nell’alcova dei loro amici Felice e Bernarda li eccitava e divertiva allo stesso tempo. Felice e Bernarda, d’altronde, erano noti per essere profondi dormiglioni. Una sera d’estate, approfittando di una festa in piazza che si protrasse fino a tardi, Donato e Luisa sgattaiolarono fino alla dimora degli amici. Con una destrezza degna di due ladri professionisti, si intrufolarono nell’abitazione, evitando il cigolio delle scale di legno e le trappole visive del gatto di Felice, un felino occhiuto e poco collaborativo. Entrarono nella stanza, ridacchiando sottovoce. Il letto era grande e accogliente, con rosse lenzuola di lino fresco e cuscini morbidi. Non poterono fare a meno di immaginare Felice e Bernarda mentre dormivano lì, ignari di ciò che stava per accadere. Si infilarono sotto le coperte, vicini vicini, cercando di soffocare le risatine. Ma proprio mentre l’atmosfera stava diventando più intima, Donato si sentì afferrare una caviglia. In un attimo, la lampada sul comodino si accese e Felice apparve dal nulla, con un sorriso sornione e un sopracciglio sollevato. Bernarda era accanto a lui, avvolta in una coperta. “Pensavate di farcela così facilmente?” chiese Felice con tono giocoso, mentre Luisa e Donato si congelavano come due bambini colti a rubare i biscotti. “Sapete,” continuò Bernarda, “abbiamo trovato i vostri sandali fuori dalla porta. Troppo prevedibili!” Per un attimo, il silenzio riempì la camera, poi tutti scoppiarono a ridere. Felice e Bernarda si unirono a Donato e Luisa sotto le coperte, ridendo a crepapelle della situazione. La sfida era finita in modo inaspettato, ma la serata era appena cominciata. Tra risate e battute, i quattro finirono per passare la notte insieme, raccontandosi segreti e storie d’amore, abbracciati tra le lenzuola ormai stropicciate. La mattina dopo, il sole li trovò ancora lì, addormentati uno accanto all’altro, con i sorrisi dipinti sui volti. E così, nel piccolo paese bergamasco, la leggenda dell’amore nel letto degli altri continuò, con un finale più dolce di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale.
Id: 5752 Data: 08/08/2024 17:27:05
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Estivi ricordi
Era finalmente arrivata l’estate, e con essa, le tanto attese vacanze al mare. Io, Stefano, Emma e Tommaso, tre amici di scuola inseparabili, avevamo deciso di trascorrere una settimana in una piccola località balneare della Riviera Romagnola. Il viaggio iniziò con un piccolo imprevisto: Stefano, noto per la sua smemoratezza, dimenticò il costume da bagno a casa. “Non preoccuparti,” disse Tommaso ridendo, “ne troveremo uno nella boutique del paese.” Così, prima ancora di vedere il mare, ci dirigemmo al negozio di souvenir più vicino. Stefano uscì trionfante con un costume a righe verticali di un colore tra il verde e il giallo fluo. “Non ti perderemo di vista, questo è certo,” commentò Emma tra le risate. Arrivati finalmente in spiaggia, ci siamo messi comodi sotto l’ombrellone. Mentre Emma si cospargeva diligentemente di crema solare, io e Tommaso decidemmo di costruire il castello di sabbia più grande mai visto. Lavorammo per ore, scavando trincee e innalzando torri, finché un’onda traditrice non spazzò via tutto in un colpo solo. “Era troppo bello per durare,” sospirai. Stefano, che intanto stava cercando di cavalcare un gonfiabile a forma di fenicottero, finì in acqua con un tonfo, facendo ridere a crepapelle tutti i bagnanti. Ogni sera avevamo una missione diversa: assaggiare ogni tipo di gelato disponibile. Il giorno del gelato al gusto “mistero tropicale” fu epico. Stefano insistette per assaggiare il gusto più strano e finì con la lingua blu per tutta la serata. “Sembri un puffo!” esclamò Tommaso, facendoci scoppiare tutti a ridere. Una notte, decidemmo di fare una passeggiata sulla spiaggia. Mentre eravamo intenti a raccontare storie di fantasmi, Emma urlò improvvisamente: “Un granchio! Mi ha toccato un granchio!” Ci accorgemmo presto che il presunto granchio era in realtà un innocuo pezzo di alghe. Passammo il resto della serata cercando stelle marine sotto la luna, sentendoci avventurieri in un mondo magico. L’ultimo giorno, decidemmo di affittare un pedalò. Tutto andava liscio fino a quando Stefano, nel tentativo di fare un tuffo spettacolare, si sbilanciò e fece ribaltare il pedalò con tutti noi a bordo. Riemergemmo dall’acqua ridendo e sputacchiando, tra gli sguardi divertiti degli altri turisti. La settimana passò in un lampo, ma ci lasciò ricordi indimenticabili. Tornammo a casa con la pelle bruciata dal sole, le tasche piene di conchiglie e il cuore leggero. Quella vacanza al mare con gli amici di scuola resterà sempre una delle più divertenti avventure della mia vita.
Id: 5751 Data: 06/08/2024 14:04:43
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La falsit non paga
Era una di quelle giornate in cui il cielo era così grigio da sembrare un mare di piombo rovesciato sopra la città. Le strade di Milano erano affollate di gente che si affrettava a tornare a casa prima che iniziasse a piovere. In questo scenario, Marco camminava con un’espressione indecifrabile sul volto. Era un uomo dai modi affascinanti e dal sorriso facile, ma chi lo conosceva bene sapeva che dietro quell’apparenza si nascondeva una natura ingannevole. Fin da giovane, aveva sempre trovato il modo di sfruttare la buona fede degli altri a proprio vantaggio. La sua ultima impresa era stata quella di vendere false opere d’arte, spacciandole per autentiche a ignari collezionisti. Quella sera, Marco aveva un appuntamento con un ricco imprenditore, il signor Ricci, che era interessato a un quadro di un noto pittore rinascimentale. Marco era sicuro che sarebbe riuscito a ingannarlo facilmente; dopotutto, aveva fatto questo genere di cose decine di volte senza mai essere scoperto. Arrivato al lussuoso appartamento del signor Ricci, fu accolto con calore. Dopo una breve chiacchierata, i due si diressero verso lo studio, dove Marco mostrò il quadro al suo potenziale acquirente. Il signor Ricci lo osservò con attenzione, mentre Marco descriveva con dovizia di particolari la storia e l’importanza dell’opera. “È davvero un pezzo eccezionale”, disse Ricci, “ma mi piacerebbe farlo esaminare da un esperto prima di concludere l’affare.” Marco mantenne il sorriso, ma dentro di sé cominciava a sentirsi a disagio. Tuttavia, non aveva altra scelta che accettare. L’esperto arrivò poco dopo e Marco sentì un nodo allo stomaco mentre osservava l’uomo analizzare il quadro con strumenti sofisticati. “Mi dispiace, signor Ricci”, disse infine l’esperto, “ma questa è una copia. Un falso ben fatto, ma comunque un falso.” Il sorriso di Marco svanì immediatamente. Il signor Ricci lo guardò con occhi freddi e delusi. “Credo che tu debba spiegarmi molte cose, Marco.” Senza molte opzioni, Marco tentò di giustificarsi, ma le sue parole sembravano vuote e inutili. Il signor Ricci chiamò la polizia e Marco si ritrovò presto in manette, accusato di frode e tentata truffa. Durante il processo, emerse che Marco aveva ingannato numerose persone nel corso degli anni, accumulando una fortuna basata su menzogne e inganni. La sua reputazione fu distrutta, e molte delle sue vittime si fecero avanti per testimoniare contro di lui. Fu condannato a una lunga pena detentiva e, mentre sedeva nella sua cella, Marco ebbe tutto il tempo per riflettere sulle sue scelte. Capì finalmente che la falsità, seppur fruttuosa a breve termine, non paga mai davvero. Le sue menzogne avevano costruito un castello di carte che era crollato al primo soffio di verità. Il racconto della sua caduta divenne una lezione per molti: l’onestà, anche se a volte sembra difficile, è sempre la strada migliore da seguire. E Marco, seppur tardi, imparò che la vera ricchezza si trova nella sincerità e nell’integrità.
Id: 5736 Data: 15/07/2024 14:04:41
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Cos fan tutti
Era una calda giornata estiva e la spiaggia era già un formicaio umano. Armati di ombrelloni, borse frigo e secchielli, i bagnanti si accingevano a conquistare la loro fetta di paradiso. Alfio, il tipico turista che sembrava aver vissuto tutta la vita in una grotta, si aggirava con la pelle rossa come un gambero. Nonostante la crema solare fosse un’invenzione ormai centenaria, lui la considerava un’opzione, non una necessità. “Se non mi scotto, non sono andato in vacanza” pensava, applicando la protezione solo dopo che il danno era fatto. Accanto a lui, la signora Olga, con la sua mise da spiaggia anni ‘50 e un cappello di paglia che avrebbe fatto invidia a una diva di Hollywood. Aveva passato le ultime due ore a trovare l’angolazione perfetta per il selfie in spiaggia, senza mai notare che la fotocamera era coperta di sabbia. Le sue foto avrebbero mostrato un mare leggermente granuloso. Non lontano da loro, la famiglia Bianchi, con tre figli iperattivi, decideva che era il momento ideale per giocare a pallone in riva al mare. Con precisione svizzera, ogni tiro si concludeva con la palla che colpiva qualcuno intento a dormire, leggere o semplicemente esistere. Poi c’era Luigi, l’irriducibile lettore, che sotto l’ombrellone sfogliava l’ultimo romanzo di 800 pagine. Ogni due minuti, sollevava gli occhiali da lettura per lanciare occhiate di rimprovero a chiunque osasse fare rumore, come se la spiaggia fosse una biblioteca. Nel frattempo, un coro di venditori ambulanti intonava la loro litania di “cocco bello”, “massaggio?” e “braccialetti?”. Sembrava quasi un’orchestra ben coordinata, che faceva da colonna sonora al trascorrere del giorno. E poi c’erano i professionisti del telo mare. Quei bagnanti che, con l’abilità di un maestro di origami, sistemavano il telo con movimenti precisi, evitando ogni granello di sabbia, per poi distendersi con l’aria di chi aveva appena vinto una battaglia. Quando il sole iniziava a calare, tutti si radunavano verso il chiosco dei gelati, formando una coda che sembrava un’opera d’arte postmoderna. Ciascuno con le proprie preferenze, lamentandosi del prezzo, del gusto o della lentezza del servizio, ma comunque felici, perché questa era la loro routine estiva. E così, tra risate, lamentele e scottature, la giornata al mare volgeva al termine, confermando che, alla fine, così fan tutti.
Id: 5725 Data: 13/07/2024 09:28:37
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Ladro di bugie
Tutto ebbe inizio in un sereno e apparente navigare dentro un virtual place assai frequentato, con la scoperta di limiti, già prefissati da colui che si sarebbe potuto definire un invisibile maneggiatore. Tempeste poetiche e uragani di insulti, nell’oceano limpido del web, rendevano il soggiorno degli internauti talvolta pericoloso, qualora si tentasse di accedere alle frontiere confinanti, divenute col tempo invalicabili. Non vi era alcun modo di conoscere la verità sul perché altri non dovessero sapere le decisioni di chi già le aveva stabilite in partenza, per tutti i neofiti. L’importante era accumulare bottini di danaro, per poter pagare il silenzio di colui che, impavidamente, giammai si sarebbe preoccupato delle conseguenze di un’abusata virtualità. A poco servivano blocchi, sospensioni, nascondimenti, nello scenario apocalittico che stava preannunciandosi, ma l’irremovibile manipolatore a nessuna istanza cedeva, perché solo lui era l’incontrastato padrone di una surreale dimensione che aveva conquistato. Vane furono le lotte e i reclami di chi cercava, nei fondali, almeno una flebile spiegazione, e per comodità si lasciò temporaneamente campo libero a chiunque volesse entrare in quel fantasioso luogo, colmo di insidie nascoste. Alieni presenze, finti profili, iscrizioni fasulle, gente priva di scrupoli, menzogneri, serpi di basso livello culturale, approfittatori, complici del signore assoluto di tutti i mari mediatici, facevano la loro parte, senza immaginare la fine che li attendeva. Il ladro di bugie non guardava in faccia nessuno, poteva fare ciò che voleva e ciò soddisfava il proprio mercenario ego. Persino gli ingenui, spinti dalla buona volontà nel credere a valori universali, si arresero dinanzi a questa figura che, con un solo dito, spazzava via tracce di preziose comunicazioni, dalla tastiera arbitrariamente occultate. L’amarezza sostituì celermente la piacevolezza di fraterni scambi, perché tutti dovevano imparare a essere nemici, senza neppure accorgersene. Sulla pelle, pagando un alto prezzo emotivo, un umile eroe, pieno di virtù, schiacciò il pulsante desiderato. Tutto svanì e la nera nube si dissolse, per dare spazio a una creazione che, seppur tecnologicamente avanzata, giammai obliasse l’umanità dello scrivere. N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia; ogni riferimento è puramente casuale.
Id: 5561 Data: 30/12/2023 20:35:34
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Solo questione di fortuna
Non è certo una scoperta che la gelosia possa nascere improvvisamente, ma accorgersene delle conseguenze, potrebbe essere motivo di inaspettate sorprese. Didietro, lato B, chiappe, natiche, fondoschiena, questi i sinonimi del sedere delle donne, mentre tra i suoi opposti, la parola più gettonata è in abbinamento con la “sfortuna”. Il lato B a pera, con vita stretta e fianchi larghi, è sicuramente quello più diffuso tra le donne; la vita è generalmente stretta, mentre, con il trascorrere del tempo, è probabile che ai lati si creino le cosiddette “culotte de cheval”. Eh si, pertanto una sfortuna, non avere il culo, soprattutto di questi tempi, dove va sempre più di moda il sedere abbondante. Gli occhi di Rosetta non erano mai schizzati fuori dalle orbite per un vestito firmato, un gioiello, un’automobile o per i soldi in tasca. Ma quando le capitava di ritrovarsi assieme a Simona, per fare shopping, non poteva evitare di osservare il sedere magnifico dell’amica. Alto, sodo e rotondo, rappresentava proprio quello ideale, scolpito da un’artista, buon intenditore delle giuste forme da favola. Il suo culo, lo considerava invece una spianatoia e fu proprio la gelosia forte che iniziò a suggerirle di fare qualcosa per competere con l’altra, divenuta ormai la rivale da abbattere. Cercò di superarla in ogni cosa, sino a che, desiderando indossare un tailleur attillato per pavoneggiarsi, si accorse che c’era poco da fare. Si sposò e mise al mondo tre figli. Per un lungo periodo non vide Simona, la quale era rimasta nubile, tranne qualche sporadico incontro con un ragazzo che decise di non sposarla, ritenendola troppo frivola e vuota dentro. Rosetta si era arresa al pensiero di raggiungere gli standard fisici dell’amica e si gettò sui dolci che, con gli anni, l’avevano fatta lievitare, nel fisico. Nonostante tutto, il lato dove non batteva il sole le rimase identico. Una mattina Simona stabilì di uscire in sua compagnia, in nome dei vecchi tempi. Rosetta accettò, lasciò i bambini con la tata e le si diresse incontro, correndo all’appuntamento, per non ritardare. Mentre attraversava la strada, come una bambina preparatasi al primo giorno di scuola, si lanciò verso il marciapiede, per abbracciare Simona. Non si accorse però di quella macchia di olio, fuoriuscita dal serbatoio dell’autobus. La scivolata fu colossale: perse immediatamente l’equilibrio e con il peso che la contraddistingueva, nel tentativo di parare la caduta a terra, si attaccò con forza alle mani di Simona. Il risultato fu che entrambe rotolarono letteralmente sul marciapiede, finendo l’una sopra all’altra. Superato quel frangente, che aveva provocato un po’ di ilarità tra chi aveva assistito alla scena, senza accorgersene si ritrovarono in ospedale, a farsi compagnia nella stessa stanza. La competizione era finita per tutte e due e l’infermiera riferì loro d’essere state fortunate, specialmente per il tipo di colpo, molto forte, attutito però dai chili di troppo accumulati. Le due, divenute ancor più amiche durante la convalescenza, vennero accudite da un’infermiera russa che si prodigò per farle stare meglio, riacquistando la salute. Quando giungeva l’attimo dell’iniezione, Rosetta e Simona, guardandosi negli occhi, a voce bassa, discorrevano tra loro: “Chissà cosa pensa Olga, del nostro culo?!” (Nomi e fatti sono frutto di pura fantasia, ogni riferimento è puramente casuale)
Id: 5511 Data: 20/06/2023 20:16:54
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I missionari
Giunsero in un piccolo paesino dell’Italia settentrionale, quattro missionari di etnie differenti. Da tempo, la chiesa aveva divulgato ai fedeli l’idea di dover accogliere gli stranieri, essendo tutti figli di Dio. In realtà, l’incisiva mancanza di sacerdoti e la carestia di vocazioni, costringeva i vescovi a sottintesi compromessi, seppur mai rivelati pubblicamente. La storia lo insegna che il potere esercitato dal danaro e dal desiderio di controllo sulle masse popolari, sfruttando la fede e il buon cuore dei credenti, era una situazione affatto infrequente, in ogni angolo del mondo. Lupi travestiti da agnelli, a seconda dell’occasione, i nostri protagonisti concepivano la spiritualità in maniera assai moderna, al fine di mostrarsi aperti ai radicali cambiamenti della società. Ma per chi non rientrava nelle loro grazie, la mentalità medioevale nel rifiutarli, prendeva il sopravvento in ogni discussione. Accadde così che Vittorio frequentasse la parrocchia, ove ebbe modo di conoscerli in seguito al lutto di un parente. Vi si recò con l’intenzione di stabilire il momento opportuno per far celebrare una messa, a suffragio del defunto. Il giovane uomo, all'alba dei suoi 35 anni, si imbatté subito in uno dei consacrati, di nome padre Alfonso, da poco cinquantenne, e all’istante, in funzione di una grande esperienza di vita, egli capì di trovarsi dinanzi a un personaggio che si professava santo, nelle azioni, nient'affatto sincero e caritatevole. Si confidò, spiegando il motivo dell’ingresso in parrocchia e, possedendo una natura buona, però non stupida, non nascose la propria sensibilità particolare al prete che, essendo un autentico marpione, finse di accoglierlo con benevolenza e compassione. Don Alfonso: Dove abiti? Vittorio: Proprio dietro alla chiesetta, nella via che conduce qui. Don Alfonso: Farò un salto a trovarti, perché ho preso a cuore la tua situazione. Conta su di me, vedrai, non sarai mai più solo. Vittorio: Non dica così, la prego, ho già avuto abbastanza dispiaceri, fregature e ingiustizie, pure dai parenti. Non merito di essere preso ancora in giro. Don Alfonso: Ma cosa dici, caro…?! Dammi tranquillamente del tu, perché sono semplicemente un povero prete. Invero, don Alfonso, che aveva parecchi fratelli perché sua madre era italiana, ma trasferitasi in Messico, godeva di uno stato economico vantaggioso, per nulla povero, come lui aveva fatto sempre intendere a tutte le anziane donne in preda all’efferato bisogno di considerazione e compagnia. Per lunghi anni, prima che il destino lo rispedisse fuori dalla penisola italiana, aveva ingannato le persone, i frequentatori della chiesa e i saltuari visitatori, piangendo su di un’inesistente povertà familiare. E i creduloni, lo avevano costantemente aiutato con regali, donazioni e riverenze, mossi dalla pietosa cattolica voglia di aiutare il prossimo. Don Alfonso giunse alla casa di Vittorio che affettuosamente lo fece entrare, narrandogli la propria solitudine provata in conseguenza di una efferata discriminazione subita, a causa della sua innata omosessualità. Il missionario non perse tempo, lo abbracciò sino a fargli sentire la calda intimità che stava affiorando tra i due. Vittorio, indebolito da attenzioni epidermiche che non lo facevano stare bene, non accettato e amato quale essere umano, piuttosto che preferito nei gusti sessuali, cedette alle avances. Gli incontri si ripetettero, con regali, soldi e altre esternazioni affettive da parte di Vittorio, giacché il sacerdote era solamente un mercenario, finché un giorno accadde un episodio che fece letteralmente sbarrare gli occhi del cuore a Vittorio. Venne la festa del paese e confabulando assieme per far cassa con le offerte per i poveri e la vendita di oggetti religiosi, i confratelli del pio uomo, don Alfonso, organizzarono una cena, ignorando speditamente Vittorio, grazie alla contagiosa superbia che li accompagnava nei loro pellegrinaggi e ritiri spirituali. Ovviamente, il giovane, dotato di sincero altruismo e amore per i bisognosi, essendo perfino bello nell’anima, ma pure esteriormente, ci rimase malissimo. Decise quindi di affrontare il sacerdote a viso aperto, ma dovette attendere il trascorrere di un intero anno, prima di far valere le proprie ragioni, perché il parroco, affermando di essere terribilmente impegnato con i suoi molteplici impegni di evangelizzazione, non poteva riceverlo. Il fatto è che Vittorio, aveva intuito e realizzato con l’avanzare dei strani comportamenti del suo pseudo-amico e confessore, di essere stato usato, giammai compreso e amato, sebbene figlio di un unico Padre del cielo. Stanco d’essere preso in giro, continuando a partecipare alle messe, nutrendo quel lato della preghiera autentica proferita con trasporto e sentimentalismo umano, incontrò don Alfonso in sagrestia. Vittorio: Ti ho scritto dei messaggi, ma non mi hai risposto. C’è qualcosa che non va o che vorresti dirmi? Non ti piaccio più? Don Alfonso: Guarda che ho da fare un sacco di cose e non posso stare dietro ai tuoi sbalzi d’umore. Buona vita! Vittorio: Allora mi stai liquidando? Già… ho fatto bene a stare zitto, non credendo alle tue promesse da marinaio. Incredibile, non riesco a crederci! Don Alfonso: Ma cosa vuoi da me? Chi ti ha chiesto niente? Scusa, devo celebrare un funerale. Ti saluto. Vittorio: D’accordo Alfonso, perdonami se ti ho amato troppo e questo è stato il mio errore. Ci vediamo a messa, quando l’occasione lo consentirà. Buona giornata, don Alfonso. Don Alfonso: Anche a lei !!! I due si separarono, ma si incrociavano spesso in chiesa, durante le funzioni liturgiche e Vittorio proseguiva a testimoniare con costanza invidiabile il proprio credo, senza inviare alcun tipo di messaggio a colui che lo aveva incantato con ipocriti sorrisi e plagiato con squallide bugie. Giunse un’improvvisa comunicazione ufficiale dal coadiutore del parroco, in merito alla scadenza dell’incarico in quella chiesa, annunciando la partenza di don Alfonso dal paese per ritornare nella sua Nazione, avendo ricevuto un ruolo più alto di quello che svolgeva lì. Vittorio si sentiva poco bene, perché anche in assenza di rapporti epidermici con lui, non riusciva a odiarlo. Si doveva preparare una bella ricorrenza, per salutare don Alfonso con preziosi regali, una cena in suo onore e una meravigliosa torta. Talmente abile, lui era riuscito a plagiare la folla di persone che riempivano la chiesa tutte le volte che saliva sull’altare per un motivo serio o uno più frivolo. Vittorio sapeva che non ci sarebbe stato quel giorno, ma il dolore che lo ferì maggiormente, oltre la consapevolezza che la verità fosse emersa dopo tre anni circa, è il ritrovare don Alfonso all’ingresso della chiesa, mentre, con fare da attore di Hollywood, congedava coloro che gli si erano affezionati. Gli sguardi dei due fecero scintille e dagli occhi di don Alfonso uscì una rabbia inveterata e compressa, similmente a quella di un diavolo colto in flagrante sul fatto. Vittorio lo ignorò sino a quando, entrando in casa sua, poteva sentirsi al sicuro da una malignità inconcepibile. Si sedette subito, perché le gambe non lo reggevano in piedi e iniziò a sudar freddo, avendo compreso a fondo il gioco infido del prete che temeva una reazione inaspettata di rivalsa per ciò che aveva subito, sopportato e costretto a tenere celato agli altri missionari, non troppo differenti da chi sarebbe entrato nella storia come un ex parroco, parecchio in gamba e tenuto in alta considerazione dalla gente del paesello. Fu esattamente la paura di don Alfonso a influenzare gli altri, studiando un pretesto credibile per far uscire definitivamente fuori dalla loro vita quel parrocchiano, divenuto un intralcio ai loro egoistici e ambiziosi piani. Sapevano che qualora lo avessero fatto sentire una persona fastidiosa e inutile nel preparare l’altare che ogni mattina diligentemente Vittorio sistemava per i quattro missionari, egli, offeso per una osservazione spuria, avrebbe abbandonato l’impegno. Lo caricavano ogni giorno di uno sbaglio ben congegnato, facendogli notare che il calice non era quello giusto, il libro sul pulpito era aperto su una pagina errata, le ostie mancavano dal tabernacolo e altro ancora. Vittorio capii limpidamente che doveva lasciare la chiesa, in modo taciturno, senza reclamare nessun diritto. E così fece. Non lo si vide più seduto al primo banco situato a destra, accanto all’altare e quanti affermavano sulla Madonna e Gesù di volergli bene, non gli scrissero alcuna parola sul telefonino, chiedendogli dove fosse finito. L’amarezza la serbò dentro di sé, recandosi ad ascoltare la messa in un’altra casa di Dio. Stavolta, come uno spettatore, non prendendo confidenza con alcun sacerdote, perché il suo discernimento nel valutare persone e circostanze, era divenuto enorme. Don Alfonso fu spedito in Messico, non volle mai più sapere di Vittorio, da lui reputato un giovane uomo dall’anima nera, a differenza della sua, che considerava linda e pura come quella di un bimbo! (Nomi e fatti sono frutto di pura fantasia, ogni riferimento, è puramente casuale).
Id: 5502 Data: 06/06/2023 11:27:40
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La lattina
Stefano e Marco frequentavano il medesimo virtual place di scrittura, nutrendo considerazioni, spesso in antitesi tra loro. Stefano amava davvero leggere e vivere le emozioni scaturite dalle parole, capaci di catapultarlo nella dimensione narrata, o semplicemente esternata, durante un confronto di pensieri con un internauta. Lui rispettava le idee di tutti, ma specialmente innata era la capacità di saper donare attenzione a qualunque scrivente gli capitasse di incontrare, durante la navigazione nel web. Al di là del pannello elettronico, significava tanto porgere tempo adeguato a una pubblicazione, lasciando traccia del proprio passaggio. Lo faceva, giammai per vantarsi, sfoderare un’intensa sensibilità particolare o una massiccia dose di cultura, bensì motivato dalla piacevolezza di uno scambio, che gli consentiva di riflettere e riversare sul prossimo il pathos di scribacchino, quale si definiva. Una bella dose di umiltà lo contrassegnava, avendo appreso la saggezza che, nella vita, è impossibile sapere ogni cosa ed essere preparato su qualsivoglia argomento. La gentilezza nel dedicarsi a un hobby, che nel lungo tempo era divenuto passione letteraria, non gli mancava certamente. Marco, invece, interpretava il luogo di condivisione pubblica come un passatempo preferito, il quale, però, non doveva affaticargli la mente o sottrargli troppo tempo. Era irrilevante, per lui, recensire un testo, perché la sua iscrizione, più datata rispetto a quella di Stefano, lo faceva sentire tranquillo, sotto ogni punto di vista, finché un giorno fu messo in crisi durante un dialogo che si trasformò in un diverbio assai significativo, sino a fargli capire lo sciocco antagonismo, perpetrato da un modesto poetuncolo. Marco: Ehi, scusa, passa a mettere qualcosa a quello che ho scritto, grazie! Stefano: Non so quante volte l’ho già fatto… Piuttosto tu, non ho mai visto apposta neanche una stellina che facesse salire in alto una mia opera. Se non ti piacciono, pazienza, ma non rispondermi ai commenti che ti ho spesso lasciato: grazie, con stima, amico vero, eccetera. Li reputo una presa in giro, dopo tanto tempo trascorso. Il mio è prezioso come il tuo, ma tento di usarlo bene, in ogni contesto. Perdonami, non ce la faccio a stimare chi si comporta come te. Grazie per l’attenzione e buon tutto! Marco: Che cosa? Sei impazzito? Ma cosa pretendi? Guarda che io non sono obbligato a fare un bel niente e non ti devo dimostrare assolutamente niente. Se hai tempo da sprecare con queste cattiverie, lasciami in pace, perché ho battaglie più grosse da combattere. Hai capito??? Stefano: Accidenti! Non credevo che far notare a qualcuno l’ingratitudine morale verso una disponibilità data per scontata, solo perché è virtuale, significasse dire cattiverie. Ora comprendo come tu sia il più gettonato… Non fai niente, prendi e basta e te ne risenti per una spontanea e legittima opinione? Chi ti ha mai obbligato a lodare un lavoro pubblicato nello stesso sito? Non vedo neanche una faccia che mi faccia capire chi tu sia. Potresti perfettamente essere un gosht-writer o magari solamente uno che vuol far vedere agli amici degli amici quanto sia capace di arrivare in alto, perché è il migliore sulla piattaforma. Cosa ci stiamo a fare qui, se neanche parliamo del vuoto? Meno male che mi stimi, mi ammiri e mi reputi un amico…! La verità è venuta a galla, inutile che ci giri attorno, mi hai esclusivamente sfruttato capendo quanto tenessi a divulgare la mia anima. Non ci si comporta così, ma non sarà più un mio problema. Ti saluto, per sempre. Marco: Ma guarda un po’ questo qui… Da dove sei uscito, dall’uovo di Pasqua? Guarda che soggiorno da parecchio tempo in questo sito e non ho mai avuto problemi con nessuno. Tu, invece, non sai relazionarti e aspetti pure che ti si dica grazie. Sono fatti miei quello che faccio e come uso il mio tempo. Sai a te, cosa non va? Stefano: Che cosa? Marco: Che entri a fare il professorino, facendo il ragazzo zuccheroso, pieno di sensibilità e benevolenza per tutti, quando poi, appena qualcuno ti dice che non vuole spendere una singola parola, ecco che la tua umiltà evapora in cielo. Schiaffatelo bene in testa che sei solamente un recensore e ce ne sono parecchi, migliori di te. Eppoi te lo sei scelto a pennello il nickname, Santo Stefano protomartire, ahahah, mi fai sbudellare dal ridere. Si vede che non hai capito niente dalla vita. E te lo ripeto un’ultima volta: non mi rompere più con le tue lezioni da saputello del web. Vivi la tua vita e vattene fuori da questo posto, perché la gente come te, non è gradita. Passo e chiudo!!! Stefano: Hai ragione, non mi sarei dovuto permettere di dirti nulla. Forse, invece, mi sarei risparmiato di accorgermi di quanta amarezza regna in certe persone che vivono nel mondo reale. Ma l’hai espressa alla lettera. Un ultimo appunto, per tua informazione: sono me stesso. Il nome l’ho ereditato dal mio bisnonno, mai usato uno d’arte. Quando esegui login e logout, la faccia che vedi, è la mia, non è fittizia. Sono dispiaciuto tantissimo ma imparo subito che è meglio così, appena il disinganno cerca di annebbiare il buonsenso. Nessun problema, non siamo bambini, le scelte vanno rispettate. Buona fortuna, Marco. Marco: Ancora rompi? Non mi devi più scrivere, hai capito? Se vuoi stare in pace, te ne devi sbattere i coglioni di quello che pensa la gente. Che cavolo ti importa se non passo a ricambiare quello che fai?! Tu fallo e basta. Vedrai come gli altri ti butteranno via come una lattina di Coca-Cola vuota, quando non gli servirai più. Lo dico seriamente, per il tuo bene: è così che bisogna fare oggi, se vuoi dormire sereno. Abbi pazienza e non venirmi a fare la predica, ho già i miei problemi fuori di qui. Stammi bene! Stefano fece appello a tutte le energie psicofisiche, avendo realizzato che sarebbe stato vano replicare sui punti salienti del suo interlocutore, a cui aveva dispensato molte più che buone e candide parole, ma è risaputo che non sempre le migliori azioni e intenzioni di chiarimento, conducono a ottimi risultati, visto che uno ce n’era stato. Proseguì a seguire il proprio talento nello scrivere e siccome faceva caldo, aprì il frigorifero e bevve una fresca lattina di Coca-Cola. Pensando allo sconosciuto col quale si era poeticamente imbattuto, con grande gioia, la gettò vuota nel bidoncino posto in cucina. Una gratificante consolazione, non assomigliare ai molti frequentatori del mondo virtuale, però con un duro prezzo da pagare, in solitudine. Ma si sa, la solitudine non piange se stessa, è nata per concedersi agli altri. (Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale).
Id: 5501 Data: 31/05/2023 07:25:21
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Un viaggio alquanto particolare
Venni contattato da un losco figuro, almeno questa fu la mia sensazione epidermica, a prima vista, per spostare delle grosse casse di legno dalla sua abitazione verso un luogo alquanto lugubre: una piccola casa immersa nei monti sperduti, a nord di Valmort, situata nei pressi di un cimitero. Rimasi un po’ perplesso, non capendo il perché di quel trasferimento che sembrava essere stato organizzato in fretta e furia. Alla fine, ci mettemmo d’accordo sul prezzo e mi organizzai alla meglio, per soddisfare le richieste del cliente. Durante il trasporto, verso quella amena località di destinazione, cominciarono ad affiorarmi alla mente alcuni fatti di cronaca nera, accaduti negli ultimi mesi: la sparizione nel nulla di parecchie persone che, gli inquirenti dell’epoca, supponevano fosse opera di un possibile serial killer, definito dagli stessi come “The Ghost”. Non so perché, ma il cuore per un attimo mi sobbalzò nel petto, mentre la mente mi invitava a dare una sbirciatina all’interno di quelle casse, peraltro alquanto strane, nella forma. Il cervello continuava ad arrovellarsi senza tregua e una sorta di tensione emotiva stava prendendo il sopravvento. La strada verso Valmort era una di quelle più impervie dell’intera zona. Il piccolo paese si trovava arroccato in cima ad un monte, a circa 1.200 metri di altitudine. I continui tornanti e le pessime condizioni dell’asfalto, ormai da tempo lasciato senza manutenzione, non rendevano agevole il trasporto. Ad ogni buca, pregavo di arrivare al più presto, sperando che le gomme del furgone reggessero bene tutto il peso che stavo trasportando. Pensavo - tra me e me - di fregarmene altamente di questa consegna: era un lavoro ben pagato e tutto sarebbe finito, una volta arrivato a destinazione. Sulla bolla di accompagnamento, la merce veniva definita come “materiale inerte” che, a detta del committente, doveva essere utilizzato per la costruzione della sua nuova casa. Ma qualcosa continuava a non convincermi: perché proprio io? Perché non affidarsi a qualcuno del settore? Io, in genere, mi occupavo di piccoli trasporti, qualche trasloco, svuotamento di cantine, eccetera. Troppe domande, ma nessuna plausibile risposta. Un vero tormento! Lentamente, si stava avvicinando la sera e mancavano ancora molte ore, prima di giungere a destinazione. Una flebile luce in lontananza stava a indicare la presenza di un piccolo posto di ristoro, dotato di stanze ove poter passare la notte in tutta tranquillità. La decisione fu la più ovvia: decisi di fermarmi per mangiare un boccone e riposare qualche ora, in modo da poter ripartire alle prime luci dell’alba. L’ostello non era un granché, ma il sorriso e la gentile accoglienza ricevuta dalla locandiera erano riusciti, per un attimo, a tranquillizzarmi, soprattutto quella zuppa di funghi che mi riportò ai ricordi dell’infanzia. Una buona pinta di birra e un caffè turco, completarono la frugale cena. Fu allora che decisi di andare a fare quattro passi, per smaltire il tutto, prima di un buon sonno ristoratore. Mentre camminavo, passando vicino al mio furgone, vidi un grosso corvo nero che si era appoggiato su una delle casse che stavo trasportando, gracchiando in continuazione. Un brutto presagio - pensai. Tentavo di scacciare quel brutto corvo nero che si era posizionato su una delle casse che stavo trasportando a Valmort. Nulla da fare: incurante dei miei gesti, persisteva nel suo gracchiare insistente, colpendo, col becco, quel contenitore di legno e metallo, sul quale si era appollaiato. Trovai una scopa nei paraggi, la afferrai e cominciai ad agitarla, in direzione del volatile: finalmente, preso dallo spavento, il corvo volò via, rimanendo sempre nei pressi, ma a debita distanza. Quel brutto presagio continuava a tormentarmi la mente, già abbastanza provata dal viaggio, ma mi feci forza e decisi di dare un’occhiata al contenuto di quella cassa, oggetto di continue attenzioni da parte dell’uccellaccio. Presi la cassetta degli attrezzi, alla ricerca di un piede di porco, salii sul furgone e mi misi all’opera, facendo leva sul coperchio superiore dell’oggetto incriminato. Maledizione, pensai, non ho mai visto una chiusura così solida! Segno evidente che chi l’aveva sigillata voleva evitare che qualcuno la aprisse con grande facilità. Il sudore mi grondava dalla fronte, ma dovevo farcela, perché, a questo punto, era necessario togliersi ogni dubbio, prima di essere coinvolto in qualcosa di losco. Dopo vari tentativi, riuscii a sollevare il coperchio: era pesantissimo! Un tanfo irrespirabile fuoriusciva dalla cassa, che, apparentemente conteneva materiali inerti, quelli che solitamente vengono utilizzati nel settore edile, per la costruzione di immobili. Non soddisfatto di quanto appena visto, cominciai a rovistare tra quei detriti. Non ci volle molto tempo per arrivare alla macabra scoperta: resti di ossa spuntavano qua e là, alcune ancora ricoperte di tessuto epiteliale. Una sorta di malessere si stava impossessando di me, la testa girava all’impazzata, un senso di svenimento stava per prendere il sopravvento. No, ripetevo a voce alta, devo farmi forza e non fermarmi, devo cercare subito qualcuno e dare l’allarme. Chiusi il “sarcofago” come meglio potevo e corsi subito verso la locanda, dove mi accolse il sorriso della titolare: - “Cosa le è successo?” - mi chiese - vedendo la mia espressione del viso alquanto turbata. Presto, le dissi, mi può indicare dove posso trovare un telefono? “Mi spiace - rispose la locandiera - ma un guasto tecnico dovuto al forte maltempo delle scorse settimane, ha reso le linee inutilizzabili. Purtroppo, siamo sperduti in mezzo ai monti e prima che vengano a riparare il collegamento, dovrà ancora passare qualche giorno, se non addirittura, settimane”. Mi arresi, stanco della giornata trascorsa, ma soprattutto terrorizzato per la spaventosa sorpresa. Salii in camera, mi buttai sul letto, tentando di addormentarmi. L’indomani avrei affrontato la situazione: qualcosa mi sarebbe venuto in mente, pensai. La notte trascorse in un baleno, la stanchezza aveva preso il sopravvento sui pensieri, anche se il cervello non aveva mai smesso di funzionare. Mi svegliai di buon mattino, presi carta e penna, buttai giù poche righe, le misi in una busta chiusa, con la seguente dicitura: “da aprirsi tra due giorni a partire da oggi”. Uscii dalla stanza e mi recai a fare una bella colazione abbondante e ristoratrice. Poi mi recai dalla locandiera, pagai il conto e le consegnai la lettera, con la raccomandazione di attenersi alle istruzioni in essa contenute, una volta aperta. La salutai e lei mi rispose con un sorriso rincuorante, salii sul furgone e ripresi il viaggio verso la mia destinazione. Il tempo sembrò trascorrere più velocemente del solito. Ero alla guida già da un paio d’ore e sullo sfondo riuscivo a intravedere le sagome di alcune piccole casupole, arroccate sulla cima del monte: su tutte svettava il campanile di una minuscola chiesetta, al cui fianco si trovava il locale cimitero. A proposito, qual era l’indirizzo esatto? Che sbadato - mi dissi - basta guardare la bolla di consegna! Ecco qua: Viale delle Ombre, al numero 17. In un battibaleno giunsi a Valmort, senza sapere ancora esattamente cosa fare, ma, soprattutto, come comportarmi. Mentre mi apprestavo a parcheggiare il furgone, vidi una figura da lontano che usciva in fretta e furia dal locale cimitero, tutta vestita di nero, da capo a piedi. Si stava avvicinando, venendomi incontro, con fare alquanto sospetto! Chi sarà mai? Mi ero fermato al numero 17 di Viale delle Ombre. La casa di fronte a me aveva un non so che di lugubre, tutta dipinta di un grigio talmente scuro che si faceva fatica a distinguerne il profilo e gli infissi. La nera figura, uscita dal cimitero, si stava avvicinando a me: indossava una lunga tunica nera e il volto era coperto da un velo che lasciava apparire solamente gli occhi, anch’essi di un colore nero corvino. “È lei, Başmelek Galanturk?” - pronunciò con voce roca, alquanto gracchiante. Mi fece tornare alla mente quel brutto corvaccio nero che si era posato con insistenza su una delle casse che stavo trasportando: un altro presagio di sventura? “Sono io”, risposi con tono tranquillo, senza cercare di lasciar trasparire tutta la mia inquietudine. “Furkan, signore di Valmort, la sta aspettando. Mi segua, ma mi raccomando, è una persona molto suscettibile, veda di ascoltare e parlare solo se richiesto”. Furkan di Valmort era il destinatario del carico. Non lo avevo mai conosciuto prima: i contatti per la spedizione erano avvenuti per il tramite di un suo emissario di fiducia, con cui alla fine avevo preso accordi per la consegna, dietro versamento di un congruo anticipo. La nera figura mi fece entrare nell’ingresso dell’abitazione, la luce naturale penetrava a fatica, quasi soffusa, e le stanze apparivano perlopiù illuminate da un gran numero di candele nere, sparse un po’ ovunque. “Il mio signore la attende in salotto, entri pure nella prima stanza a sinistra, seguendo il corridoio di destra, prima delle scale”, mi disse con voce sempre più fosca. Ma non può accompagnarmi lei - dissi con tono insistente - con tutte quelle stanze, rischio di perdermi, data la scarsa illuminazione. “Non mi è concesso - fu la risposta - ma posso solo dirle di sbrigarsi, perché il mio signore si sta spazientendo!”. Non battei ciglio, presi coraggio e mi diressi verso il salotto. Il cuore batteva all’impazzata, ma la posta in gioco era altissima: dovevo capire a fondo il mistero che ci stava dietro, incassare la somma pattuita, dopodiché agire di conseguenza. Arrivai alla porta, era socchiusa ma bussai ugualmente: “Venite, Başmelek!” - udii, con tono alquanto perentorio. Entrai lentamente, la stanza aveva una forma circolare e al centro della stessa era posizionato un braciere acceso. Alle pareti parecchi ritratti che a malapena riuscivo a mettere a fuoco, tanto erano anneriti dal fumo circostante. Dietro al braciere, appollaiato su una sorta di sedia in legno di ebano, dallo schienale altissimo, si trovava lui, Furkan di Valmort. Facevo fatica a scorgere il viso, sul cui capo era appoggiato un fez di color rosso porpora. Indossava anch’egli una tunica nera con bordature e ricami in tessuto dorato. Doveva essere alquanto piccolo di statura, ma tutto era, fuorché minuto nel fisico. “Si segga sullo scranno, di fronte a me - mi disse - le devo fare una domanda, ma ci pensi bene, prima di rispondere”. Il tono minaccioso mi aveva intimorito, tant’è che riuscii ad abbozzare una risposta, con un filo di voce: “M...mi dica”, pronunciai, balbettando. “Come mai il coperchio di una delle casse è stato manomesso?”. Stavo pensando quale tipo di risposta convincente dare, quando sentii una forte botta: la vista mi si annebbiò e persi i sensi. Non mi resi conto di quanto tempo fosse passato. La testa mi sembrava volesse scoppiare da un momento all’altro, quasi mi fosse caduto addosso un carico da cento. Aprii lentamente gli occhi ma la vista appariva alquanto annebbiata. Sentii un forte odore di incenso e zolfo e un senso di nausea mi assalì rapidamente. Mi trovavo sdraiato su qualcosa di estremamente freddo e tentai di alzarmi, ma non c’era nulla da fare: ero legato dalla testa ai piedi e un bavaglio mi impediva di urlare a squarciagola. “Benvenuto tra noi, Başmelek Galanturk”. - C...chi siete?, riuscii a biascicare, balbettando, nonostante la museruola. Una figura femminile, alquanto esile, si avvicinò a me mi tolse quel pezzo di stoffa che mi impediva anche di respirare. Era tutta vestita di rosso, ma di un colore così intenso che quasi infastidiva la vista al solo guardarlo. “È inutile che provi a urlare” - mi disse con una vocina non per nulla rassicurante, anzi, alquanto imperiosa. “Qui non ti sentirà nessuno, a meno che non venga dal paese” - continuò. - Chi siete e cosa volete da me? Sono venuto qui per effettuare la consegna di un carico destinato a Furkan di Valmort, secondo gli accordi presi in città. “Però nessuno le aveva chiesto di sbirciare quale fosse il contenuto delle casse! Non avrebbe dovuto, ora sa troppe cose e non possiamo permetterci che altri ne vengano a conoscenza”. - Non volevo, provai a dire, ma un grosso corvo nero continuava con insistenza a picchiettare col becco quella cassa maledetta... pensavo ci fosse entrato qualcosa di deperibile. “Ahahah, non v’è nulla di più deperibile di quanto ha trovato, nevvero?” - urlò sogghignando. Un sorriso che faceva accapponare la pelle. Stavo per rispondere, quando lei mi mise una mano sulla bocca: “Silenzio, sta per arrivare il Signore di Valmort, il nostro gran Maestro!”. La porta si aprì e apparvero altre due figure femminili, sempre vestite di rosso, con in mano dei candelieri. Su entrambi erano impilate sette candele nere, con una fiamma altissima di colore rosso acceso. Dietro le due vestali si intravedeva la piccola e tozza figura di Furkan che avanzava lentamente verso il centro della stanza, con passo incerto. Indossava anch’egli una tunica tutta rossa, adornata da ricami dorati che formavano delle strane figure e simboli che non avevo mai visto in alcun luogo. Alle sue spalle, due loschi individui, vestiti di nero che pronunciavano strane parole. Era una sorta di cantilena, composta da frasi ripetute in continuazione: - Kau ia ik te ar chrisalka. - Kau ia ik te ar piria. - Kau ia ik te ar petumari. - Per il tramite di questo seme, rifiorirai. - Saka bashmata. - Saka farua. - Saka tupemari. - Così ti arricchirai. Cosa stava per succedere? - mi chiesi, cercando di non pensare al peggio. Forse è solo un sogno o un brutto scherzo del destino! Il Gran Maestro si stava avvicinando e una delle vestali gli porse un lungo coltello, uno di quelli utilizzati in strani rituali, visti solo al cinema. Mi sentii perduto, ormai non avevo alcuna speranza di uscire vivo da quella situazione: “maledetto il giorno che mi sono lasciato coinvolgere e accettare questo lavoro” - pensai. Chiusi gli occhi, cercando di non guardare quello che stava accadendo intorno a me. Non riuscivo neppure a pregare, a cosa sarebbe servito? L’unica cosa che riuscii a sentire era un forte rumore in sottofondo: qualcuno stava sfondando la porta d’ingresso. Uno scalpitio di passi e un rincorrersi di voci, urla e grida, mi fece ben sperare che qualcosa di positivo stesse per accadere “Fermi tutti!” - qualcuno urlò - “Polizia! Tutti con le mani sopra la testa!”. Non ci potevo credere, qualche santo era intervenuto in mio aiuto. Un uomo in divisa mi si avvicinò e con voce pacata mi disse: “Non si preoccupi, è tutto finito, ora la slego e presto potrà tornare alla normalità”. Mi rincuorai, anche se non riuscivo a spiegarmi come potessero essere arrivati sin lì, dato che non avevo avuto modo di dare l’allarme, a causa del guasto sulle linee telefoniche. Uscii lentamente dalla casa, accompagnato dal poliziotto. Fuori vi erano delle persone, attirate dal trambusto che si era venuto a creare. Tra di esse, riuscii a scorgere una figura femminile che mi sembrava di aver già incontrato da qualche parte. Ma certo - pensai - era la locandiera! Mi tornò alla mente il fatto di averle lasciato un biglietto chiuso in una busta, che lei avrebbe dovuto aprire, trascorsi due giorni dalla mia partenza. Ma, come ebbi modo di sapere più tardi, la brava donna, visto il mio stato di agitazione, non ci pensò su due volte: aprì la busta, lesse il contenuto, mandò suo figlio in città a dare l’allarme e mi seguì di nascosto per tutto il mio viaggio sino a Valmort. Lì attese che il figlio tornasse, accompagnato dalla polizia, alla quale lei stessa diede le indicazioni sul luogo ove mi ero recato e dal quale non avrei potuto più fare ritorno. Nei giorni successivi, scoprii che il Gran Maestro non aveva nulla a che vedere con il serial killer, noto come “The Ghost”. Il mio carico di materiale inerte sarebbe servito proprio ad ampliare le proprietà di Furkan e il desiderio di grandezza maniacale della sua setta. I resti di ossa appartenevano ad un povero animale, finito chissà come in mezzo a quei detriti. Io mi presi una bella vacanza, immaginate dove? Nella locanda della mia salvatrice, una donna alquanto affascinante che scoprii essere rimasta vedova da qualche anno e che provava molta simpatia nei miei riguardi... chissà! A proposito, si chiamava Kurtuluş, che, in turco, significa proprio “salvezza”: fatalità? Chi può dirlo? - Crema, agosto 2020 -
Id: 4917 Data: 09/08/2020 10:36:12
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La regina del web
Scrittura creativa dal sito Oggiscrivo (Luglio 2015). INCIPIT: Scrivi una storia che inizi così: "Fissava il foglio bianco dinanzi a sé , mentre, veloci, i pensieri ballavano nella sua testa. Vedeva le immagini prendere corpo per poi, come d’incanto, svanire in un momento, in un battito di ciglia. Il tempo passava, ma niente, nulla, non un solo pensiero si era chiarificato, strabuzzava gli occhi cercando di vedere oltre la fitta nebbia in cui era avvolta la sua mente. Vuoto. Stava per chiudere tutto, andare via, si era fatto tardi e cominciava a sentire i morsi della fame. Non aveva pranzato e, ormai, doveva essere ora di cena. Stanca e avvilita, si accingeva a spegnere il computer quando vide una figura venire verso di lei. Si materializzava ad ogni passo, testa alta e espressione fiera “Io sono Claudia” disse “mi stavi aspettando” ------------------------------------------------------------ Fissava il foglio bianco dinanzi a sé, mentre, veloci, i pensieri ballavano nella sua testa. Vedeva le immagini prendere corpo per poi, come d’incanto, svanire in un momento, in un battito di ciglia. Il tempo passava, ma niente, nulla, non un solo pensiero si era chiarificato, strabuzzava gli occhi cercando di vedere oltre la fitta nebbia in cui era avvolta la sua mente. Vuoto. Stava per chiudere tutto, andare via, si era fatto tardi e cominciava a sentire i morsi della fame. Non aveva pranzato e, ormai, doveva essere ora di cena. Stanca e avvilita, si accingeva a spegnere il computer quando vide una figura venire verso di lei. Si materializzava ad ogni passo, testa alta e espressione fiera “Io sono Claudia” disse “mi stavi aspettando”. Le persone leggono, ma, ahimè, interpretano solo quella parte che intendono vedere. come faceva a saperlo, pensavo io! Io che avevo passato ore ed ore dinanzi al mio computer tentando di scrivere una favola da raccontare ai miei bambini, per conciliare loro il sonno. “So che stai cercando la giusta ispirazione ed io, regina del web, te ne voglio regalare una, ma una soltanto! Inizia, più o meno, così: in un luogo, solo alla mente conosciuto, dimorava quell’innato capriccio. Era stato educato, sin dalla tenera età, a restare sottomesso. Lui, però, proprio non ne voleva sapere di rimanere lì, fermo ed immobile, confinato tra pensieri inconfessati, ansioso com’era di stuzzicare l’anima a chi l’avesse compreso ed accolto in mezzo ai desideri altrui. Sempre vitale e tempestivo, doveva attendere che a qualcheduno, magari ad un goloso ragazzo, venisse lo sfizio di mangiare un gelato prima del pranzo, per fargli ottenere subito ciò che desiderava. Oppure, se una frivola donna sognasse di comprare un paio di scarpe nuove, benché ne avesse già molte, per essere chiamata in fretta e furia ad uscire con le amiche, eccolo pronto a sfogare il solito repertorio: viso imbronciato, brontolii, scatti d’ira, insoddisfazione frequente e, nei casi più disperati, frustrazione mal celata. Una ricetta ben servita per raggiungere lo scopo prefissato: l’appagamento solerte del bisogno. Non era una bella vita, il restare sospeso tra il forse, il ma, il se, con la costante incertezza nel volere, per forza, soddisfare un’esigenza, a volte non indispensabile se paragonata al tenore di vita già goduto in virtù d’una buona sorte ricevuta. Insomma, diciamo la verità, il fatto che fosse un umano capriccio, l’ambizione e l’immagine imposte dalla società, lo infastidivano, solleticando in lui l’orgoglio di manifestare la propria esistenza ma, in maniera particolare, quel potere che invidiava a chi poteva sfogare capricci assai più costosi. Soprattutto, era scocciato dalle persone semplici e modeste, abituate, da sempre, ad accontentarsi del poco che avevano ricevuto dalla vita. Ma lui, il capriccio, lavorava alacremente, giorno e notte, per realizzare propositi sempre più grandi, ancorché ingestibili dal cuore. Conosceva ogni abitante di paesi, città e metropoli, perché, presto o tardi, sapeva che tutti avrebbero avuto la necessità di informarlo e di usarlo per un comodo proprio. Il capriccio s’adoperò nel voler diventare una “guest star” a livello mondiale: preparò la valigia delle occasioni inaspettate, aggiungendovi l’esperienza che s’era fatto coi suoi giri tra le vetrine dei più disparati negozi, allestite di tentazioni sciocche e gustose, oltre che, economicamente, non a buon mercato. Viaggiava sul web, alla velocità di un milione di terabyte, per arrivare nei sogni e nei pensieri di ognuno, soffermandosi sugli sguardi della gente, in modo telegrafico e telepatico. Non risparmiava nessuno, neppure i più piccoli. Un giorno si imbatté in un fanciullo che voleva, a tutti i costi, lo zucchero filato, quando il padre lo aveva già quasi convinto a rinunciare, ricordandogli il forte mal di pancia della sera prima. Il bimbo iniziò subito a strillare, ma così forte, che le rosse guance rischiavano di prendere fuoco. “Però, che risultato!”, esclamò soddisfatto il capriccio, mentre, silente, albergava nei dintorni della scena per punzecchiare qualche altro allocco. E fu in quell’occasione che, incantato, rimase a guardare una bellissima giostra di cavalli bianchi, sentendo una ragazzina dai capelli rossi brontolare con la mamma perché voleva fare un altro giro. Ecco allora che il capriccio la raggiunse in un battito d’ali e, siccome la ragazzina, che era grandicella ed anche un po’ superba per mettersi a piangere, cominciò a pestare i piedi, finché le fecero male. “Perbacco, anche questa volta è andata alla grande!”, pensò il capriccio. Andò così per tutto il giorno e per i tanti giorni a seguire. Lui si prestò ai problemi più disparati degli uomini, creando nuove vicende, ancora più complesse di un semplice ed apparente tarlo che rode nella testa. Divenne così famoso, da non avere più un minuto libero, né di giorno né di notte: insomma, un’eterna occupazione mai toccata dalla crisi. Anni passarono ed un giorno il capriccio sbarcò per la prima volta in un piccolo villaggio dell’Africa centrale, dove la miseria e la fame la facevano da padroni e l’unica ricchezza o fortuna, che dir si voglia, era quella di non morire entro sera, per fame o per sete. Il capo di quel villaggio, peraltro giovane, dato l’elevato tasso di mortalità, non conosceva il significato della parola “capriccio” e lo sfidò con una richiesta alquanto semplice. “Se ogni giorno fornirai al nostro villaggio l’acqua necessaria ai bisogni essenziali, avrai tanti di quei capricci cui dare retta nei secoli a venire”. Lui, il capriccio, tanto osannato in tutto l’universo, si lasciò sopraffare dalla ragione, impossibilitato ad esaudire un desiderio di tale portata. E fu così che, con la coda tra le gambe, ritornò sui suoi passi, meno tronfio di prima, pensando: “non v’è spazio, qui, per me! Tutti, grandi e piccini, avrebbero bisogno di un piccolo capriccio, ogni tanto … ma è l’essenziale quello che conta!”. “Ti è piaciuta?”, mi chiese Claudia. Non feci in tempo, stanca come ero, ad imbastire una risposta. Alzai lo sguardo solo per scoprire che, così come era apparsa, la regina del web si era già volatilizzata. Al suo posto, notai che il computer era rimasto acceso e la bianca pagina di word si era, come per magia, riempita di parole. Era la sua favola! Accesi la stampante in tutta fretta, lanciai il comando “print” ed i fogli uscirono in tempo record, ben impaginati. Li raccolsi e raggiunsi in men che non si dica la stanza dei miei figli: “devo raccontarvi una bellissima storia”, dissi loro. E la notte si riempì di meravigliose e luminose stelle!
Id: 4028 Data: 25/02/2018 18:26:34
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Il cielo si infuria
Per spezzare la monotonia di un'esistenza che diveniva fievole, giorno dopo giorno, la piccola e radiosa Astra, una stellina facente parte della costellazione di Orione, decise di staccarsi dalle sue lucenti amiche, iniziando a vagare per l'universo a lei sconosciuto, alla ricerca di nuove esperienze. Non ne poteva più delle altre stelle che aveva attorno a sè. Ultimamente, infatti, erano divenute alquanto noiose e vanesie, trascorrendo tutto il loro tempo libero a prepararsi, quasi dovessero partecipare ad una sfilata di moda: si imbellettavano, si pettinavano e si lustravano con tale dovizia, per poter sembrare, nel buio della profonda notte, sempre più appariscenti. Vi era poi chi non trovava più il suo nastro per capelli, chi invece si mostrava eccessivamente preoccupata dopo aver notato una ben visibile piega sul proprio abitino e chi, infine, urlava perchè aveva terminata la sua polvere d’oro e non poteva più lustrarsi il pallido visino. Insomma, per Astra, sempre più scocciata da pizzi e merletti, l'esistenza delle amiche era divenuta un vero strazio: proprio a lei, che amava così tanto giocare a palla, rincorrere le comete per aggrapparsi alla scia della loro coda e farsi scaraventare in qualche angolo remoto del firmamento, per renderlo un po' più variegato. E fu così che iniziò a girovagare in lungo ed in largo, in ogni spazio siderale circostante, sino ad allontanarsi sempre più dal luogo di partenza, sino a smarrire l'orientamento. Non riuscendo più a capire dove si trovasse, notò, non poco distante, un enorme tappeto dal colore blu intenso che, dolcemente, sembrava dondolare su se stesso. Pensando fosse il cielo dal quale era provenuta, vi si buttò dentro a capofitto. Quando si accorse d’essersi sbagliata, spaventata, si mise ad urlare e chiese: - Ma tu, chi sei?. Una voce molto dolce e rincuorante, rispose: - Mia piccola stella, io sono il mare. Non devi temere nulla, ti voglio solo cullare. Astra imparò a nuotare e, col tempo, divenne talmente brava da fare invidia a tutti: ma lei non se ne curava, anzi, si divertiva moltissimo. Si fece anche tanti nuovi amici: pesciolini, polipetti e cavallucci marini giocavano con lei, a nascondino, tra salmastre rocce e coloratissimi coralli. Finalmente non doveva perdere il suo tempo per lustrarsi e lucidarsi. Settimane erano passate, quando il cielo finalmente si accorse di aver perduto una stellina. Andò su tutte le furie e decise di scatenare un temporale violento ed inaspettato, lanciando saette e fulmini sul placido mare. Dal forte spavento, il mare si increspò sempre più, fino a quando le sue onde, ancora più alte, arrivarono quasi a toccare il cielo. Era una burrasca mai vista prima! Ora, pure il mare era arrabbiato ed i suoi frangenti spazzarono via ogni cosa. Dopo una furiosa lotta, durata diverse settimane, entrambi i contendenti si acquietarono. Vedendo le loro creature, le stelle, i pesci, i polipetti ed i cavallucci marini tanto tristi, decisero di darsi delle regole. Il cielo disse che avrebbe lasciato scivolare nel mare le sue stelle più piccole, allegre e vivaci, mentre il mare, per tutta risposta, disse che avrebbe permesso al cielo di chinarsi, sino a specchiarsi nelle sue acque. E fu così che, da quell'accordo, nacquero le stelle marine e da allora il cielo ed il mare possiedono lo stesso, bellissimo, colore blu cobalto.
Id: 3952 Data: 14/01/2018 14:12:52
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Le ali di un angelo
Leon era un angelo stupendo, dai capelli lucidi e neri, occhi brillanti, color verde smeraldo, sempre vispi e penetranti. Aveva guance pienotte che, quando sorrideva, formavano due piccole fossette. Da quando la Suprema Commissione Celeste gli aveva affidato il compito di sorvegliare un birbantello che abitava nel borgo di una grande città, Leon era contento ma, soprattutto, molto meticoloso nei suoi interventi. Ovunque andasse quel ragazzino, battezzato col nome di Andrea, non lo perdeva d’occhio, neppure per un istante. Su e giù per i pendii di una collinetta dietro casa e poi più giù, sino al fiumiciattolo, con la bicicletta senza freni ed infine un bagno nell’acqua gelida, ove la corrente tirava molto forte. Eh sì, amava le pericolose sfide, il discolo. Con santa pazienza ed innata abilità, Leon si era adeguato a quella vita movimentata anche se, a volte, si inteneriva da morire non appena vedeva fiottare sangue dalle ginocchia di Andrea, quando questi, incoscientemente, ruzzolava a terra con violenza. Ma la sua bellissima aureola si illuminava tutta quando Andrea arrossiva nel dare un bacio all’amica del cuore, oppure nel momento in cui la madre lo rimproverava e a lui, così temerario, la voce iniziava a tremare. Giunta la sera, il piccolo protetto si addormentava e, finalmente, Leon preparava la sua nuvoletta, proprio lì, accanto al suo letto, vicino vicino, sospirando: “O Signore mio, ti ringrazio perché un’altra giornata è finita”; subito dopo, sprofondava in un sonno profondo e beato. Contagiato dall’eccessivo zelo, a Leon iniziò a frullare in testa un’idea, forse un po’ bizzarra. Pensava che avrebbe seguito meglio il piccolo nelle sue scorribande quotidiane, se solo avesse potuto ricevere una mano dalla tecnologia più avanzata. Più volte aveva avuto l’occasione di vedere all’opera le cosiddette magie moderne, osservando, durante il suo temporaneo soggiorno in cielo, macchinine che facevano corse ed eccezionali volteggi, frullatori che schiacciavano, sminuzzavano, trituravano e, una volta, persino un buffissimo robot che portava il cappuccino al proprio padrone. Beh, insomma, a dirla tutta, lo aveva invidiato un pochino. Da qualche tempo cominciava a credere che, se invece delle sue ali avesse avuto, per esempio, un’elica, sarebbe realmente andato forte, migliorando le proprie prestazioni. Per giorni continuò a rimuginare su quell’idea ed il fatto di non poterla realizzare in tempi brevi lo aveva rattristato non poco, facendo scomparire le fossette dalle sue guance. Una mattina come tante, si risvegliò sulla sua nuvoletta e, stiracchiandosi, avvertì qualcosa di strano ed inspiegabile. “Non è possibile!” esclamò guardandosi allo specchio. Non riusciva a credere ai propri occhi: le sue piccole ali erano sparite ed al loro posto era comparsa una bella e grande elica di colore bluastro. Intorno al collo, vi era appesa una piccola scatoletta, laminata d’argento, dotata di comandi e pulsanti vari sul lato anteriore e di un vano posteriore contenente quattro nano batterie. Più in là, appoggiato sulla sua nuvoletta, c’era un piccolo manuale di istruzioni; ma l’eccitazione era ormai al settimo cielo e Leon non si preoccupò di leggerlo. Lui si sentiva già preparato per la fase di rodaggio e, poi, cosa poteva succedere di così pericoloso premendo il tasto “start”? L’elica si mise a roteare velocemente, troppo velocemente: “Ahi!”, urlò Leon, andando a sbattere contro la parete della stanza, consapevole di non aver regolato adeguatamente la potenza del motore. Fece allora numerose prove per poter prendere dimestichezza col nuovo strumento di volo e dopo qualche ora si sentiva pronto. Era entusiasmante riuscire a spostarsi in maniera così celere e chissà gli altri angeli come lo avrebbero invidiato! Cominciò a volteggiare, fluttuare nell’aria, prendendo delle rincorse pazzesche: insomma, era tutto davvero eccezionale e lui si sentiva immensamente contento, nel poterlo fare. Un pomeriggio, Andrea prese la bicicletta senza freni: c’era un’importante gara sulla collina, al solito posto di ritrovo stabilito. Una volta l’anno, i ragazzi del quartiere disputavano una gara di bici cross ed il vincitore sarebbe diventato il capo: una carica molto ambita che sarebbe durata fino alla competizione successiva. Il bimbo era prontissimo, si sentiva ben allenato, grintoso e, in cuor suo, certo della vittoria. Ricevuto il via, Andrea si lanciò a capofitto lungo il percorso studiato da mesi ma, purtroppo, un grosso sasso gli fece perdere l’equilibrio. Ecco che Leon entrò in azione, sospingendolo da una parte e poi dall’altra, nel tentativo di rimetterlo in pista. E quando c’era quasi riuscito, la sua elica cominciò dapprima a fare uno strano rumore e poi si fermò ed il bimbo cadde a terra, rovinosamente. “Che succede? No, non è possibile proprio adesso”, disse Leon, incredulo. Una spia rossa si era accesa sulla piccola scatoletta appesa al collo: le batterie erano completamente scariche! Inutile e semplicemente naturale immaginare la rabbia, lo sconforto e la delusione dell’angelo, mentre il suo piccolo pupillo, tra urla e lacrime, cercava di sfuggire alle medicazioni di chi era accorso in suo aiuto. “Non desidero più fare il protettore celeste, non ne sono capace”, pensò il buon angioletto quella tarda sera, poco prima di addormentarsi, meditando di inviare una lettera di dimissioni alla Suprema Commissione Celeste. Il mattino dopo, Leon stava apprestandosi a mettere la sua nuvoletta nella valigia celeste per andarsene quando si accorse, con grande stupore, di avere ancora le sue splendide ali: l’elica era sparita del tutto. “Urrà, urrà!” urlò e corse subito a cercare il suo piccolo amico, con il fermo proposito di sorvegliarlo per sempre. “La tecnologia non fa per me”, pensò sorridendo: “meglio sudare un po’ di più e confidare nei propri mezzi piuttosto che cercare scorciatoie che poi è difficile controllare!”. Spiegò le ali, sembravano più grandi del solito: un’altra dura giornata stava per iniziare!
Id: 3943 Data: 13/01/2018 07:26:42
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La scelta
Indossava un nuovo abito, quel lungo vialetto che conduceva alla casa di Clara. Un tappeto di foglie rossastre pareva lo strascico di un autunno giunto precocemente, rispetto agli altri anni. L’apertura della scuola aveva appena battezzato l’inizio del mese di Settembre, che si avvertiva quasi trasformato, facendo respirare un’aria assai fresca, baciata, ogni tanto, da un pallidissimo sole. L’atmosfera era davvero insolita, perché la calura estiva, senza remore né avvisi, ormai era un lontano ricordo. Le stagioni ed il loro intermezzo non esistevano più, e Franco lo aveva notato da subito, mentre calpestava frettolosamente il piccolo viale che lo avrebbe condotto a destinazione. Sentiva il rumore dei suoi passi schiacciare il secco fogliame che incontrava nel cammino e, dentro di sé, pensava: - Sono trascorsi tanti anni. Chissà se si ricorderà ancora di me? E se non lo facesse? Che scusa dovrò inventare, per farmi perdonare? Eh si, proprio l’incertezza di non essere bene accolto, lentamente si affacciava alla sua mente. Cosicché, in preda a titubanti pensieri, che in un battere di ciglia divenivano crescente timore, arrestò il passo, sino a fermarsi. Si voltò, con l’intento di tornare indietro, ma, dopo aver proseguito un altro poco, si fermò nuovamente, per riflettere. - Non posso non dirle la verità! Clara non lo merita proprio: deve sapere il perché l’ho lasciata. Lei deve assolutamente conoscere tutta la verità! Quella voglia imperativa di giustificare una dolorosa assenza che gli aveva penalizzato l’anima per anni, fu come lo scoccare di una violenta freccia che uccise, all’istante, la paura di desistere dallo spiegare ogni cosa. Riprese quindi il proprio cammino, sino a giungere nei pressi di un enorme albero che sembrava fungere da sentinella, accanto all’ingresso dell’abitazione. Lo osservò per pochi minuti, sentendosi piccolo piccolo dinanzi ai rami che volteggiavano verso il cielo sovrastante. Il tronco era robusto, ricoperto da un’umida corteccia che, a tratti, si squamava, mostrando parte della giovane rinascita dell’arbusto. Ricordò quando era solamente un alberello, non più alto di circa tre metri. Il tempo aveva fatto il suo lavoro, trascorrendo, e facendo vedere che era passato anche di lì. Anche la lignea porta della casa mostrava i segni dell’allontanamento di Franco. Non era più tinteggiata di quel colore rossiccio che in passato sfoggiava un battente di ottone, a forma di anello. Cosa dire poi delle finestre, che lui stesso aveva dipinto per rendere ancor più accogliente la facciata di quella che, un giorno, avrebbe dovuto essere un’indimenticabile alcova d’amore? Il bianchissimo colore aveva ceduto al grezzo del legno sottostante, invecchiato dai segni del tempo. Restava inutile soffermarsi sugli altri aspetti che testimoniavano un inesorabile e triste abbandono, oltre alla scarsa cura del volto della casa. Salì i tre gradini di marmo ed afferrò con la mano il battente, per farsi sentire. Nessuna risposta, all’inizio. Non si udiva alcun rumore che potesse far capire la presenza di qualcuno, al suo interno. - Non c’è niente da fare - pensava Franco - è segno del destino che io non debba più vederla! Attese un pochino e riprovò a bussare, senza che nessuno si avvicinasse, per aprire la porta. Sconfortato, si stava sempre più convincendo di meritare l’inutilità di quel lungo viaggio, fatto per ritrovare la sua Clara. - Sono proprio uno sciocco, nell’aver sperato che la vita mi ripagasse del torto subito. Debbo andarmene, prima che sia troppo tardi, così mai nessuno saprà che sono passato. E mentre veniva assalito da mesti pensieri, udì, da lontano, una voce gentile: - Chi è alla porta? Franco non rispose. - C’è qualcuno? Chi cercate? Allora, non fatemi perdere tempo. - Po… potete aprirmi, per favore? - balbettò Franco. Un lieve cigolio e la porta si aprì, facendo da cornice alla figura semplice e garbata di una giovane donna. - Si...? Cosa volete? Clara fissò quell’uomo, a lungo. Era talmente emozionato da non riuscire a proferire alcuna parola né, tantomeno, ad intavolare un discorso. Era una sensazione meravigliosa e, al tempo stesso, imbarazzante, quella che Franco stava vivendo. Finalmente riusciva a vedere il volto della donna che ancora amava e mai aveva scordato e che gli aveva letteralmente rubato il cuore. - Clara, non ti ricordi di me? Un attimo di smarrimento la colse, sino a quando la sua mente incominciò a spolverare i ricordi del passato. Lei era certa di avere già veduto quel signore, e i ricordi d’amore si affrettarono ad arrivare, proprio nel luogo in cui dovevano giungere. - Franco, sei tu, non è vero? - disse Clara, profondamente commossa. - Sono io - rispose Franco. Gli occhi di Clara luccicavano di gioia che, presto, sarebbe stata sostituita col dolore di lacrime ardenti, non appena avesse saputo ciò che, in realtà, l’aspettava. Per fargli sentire tutto l’entusiasmo che dentro le pulsava, affettuosamente Clara abbracciò Franco. Lui ricambiò prontamente, chiedendole se poteva entrare in casa. Per mano, lei lo condusse nel salotto e, dopo aver riposto nel guardaroba il soprabito che indossava, lo invitò a sedersi sul divano. Lo raggiunse, sedendosi accanto a lui. - Mi sembra un sogno, rivederti dopo tanto tempo - disse Clara. Franco, cogliendo la palla al balzo e superato un iniziale momento di trepidazione, non esitò un istante: - Debbo dirti una cosa importante. Ascoltami con molta attenzione, te ne prego. Improvvisamente, Clara si incuriosì molto, dinanzi alla serietà del volto di Franco. Pensò che volesse dichiarare i propri sentimenti, magari con una nuova promessa che, stavolta, avrebbe mantenuto. Infatti, si erano lasciati senza chiedere spiegazioni l’uno all’altra, quasi col terrore di spezzare quell’incantesimo d’amore che li avrebbe dovuti condurre ad un lieto fine. Ma qualcos’altro, era riuscito a fare in modo che i due amanti si separassero. Franco iniziò col dire che sua madre non nutriva simpatia per la suocera e che quest’ultima l’aveva pagato affinché lui uscisse fuori dalla vita di sua figlia. Per non far soffrire Clara, aveva accettato quel denaro, perché l’azienda di famiglia versava in condizioni economiche critiche. Ma il rimorso per un’azione così avventata, continuava a tormentarlo. Ecco perché si era fatto nuovamente vivo. Sentiva l’impellente bisogno di chiedere scusa alla donna che aveva tradito, vendendo la propria felicità alla suocera. Clara arrossì tutta d’un colpo, ma il rossore che le accendeva gli zigomi divenne presto il fuoco della rabbia. Non credeva ad una sola delle parole che Franco aveva detto e si chiedeva: - Se così fosse, perché me lo ha tenuto nascosto, sapendo che lei sarebbe stata disposta ad elargire una proficua somma di denaro, pur di sottrarlo ad una umiliante e vergognosa proposta? Nella sua testa, rimuginava il pensiero di valere assai poco, per Franco, e decise di chiederglielo. Così, alzandosi dal divano, gli disse: - Dimmi, perché li hai accettati? Te li avrei prestati io. Guardandolo negli occhi, quasi a volerlo intimidire, proseguì: - Rispondimi, Franco! Hai capito quello che ti ho appena detto? Mentre infieriva sul malcapitato con espressioni malevoli, sentiva il cuore frantumarsi in mille pezzi. Era talmente sensibile, Clara. Una donna dall’animo buono che, quel fiabesco rincontrarsi, stava mutandosi in profonda agitazione, velata da un intenso risentimento e da un’insistente voglia di giustizia. Franco tentò di farle capire che non era colpa sua e che la vita lo aveva messo con le spalle al muro. In realtà, dentro di sé, l’orgoglio eccessivo nel non voler mostrare debolezza alcuna agli altri, lo aveva condotto verso situazioni più facili e meno sofferenti. - Lo sai che ti amo ancora, Clara. Accidenti! Mi chiedi un perché impossibile? E poi, non sono mai andato a genio a tua madre, ne sei perfettamente consapevole! Come cera lenta, le lacrime iniziarono a scendere sul volto di Clara. Per anni lo aveva atteso, nella vana speranza che tutto potesse tornare come un tempo, in cui le frequenti visite romantiche, accompagnate da sfavillanti momenti di gioioso amore, potessero ancora fare capolino nella sua immensa vita solitaria. Era una donna che sapeva amare le persone. Non per questo, Clara, era stupida. Intuitivamente, capì che avrebbe dovuto fare una scelta, pure lei. Una scelta spinosa, difficile, nella quale il suo futuro era, ancora una volta, messo a rischio, ma, di certo, non per colpa sua. Voltò le spalle a Franco, che era rimasto seduto sul divano. Non voleva farsi vedere piangere e, soprattutto, esternare quel dolore, divorante ed impietoso, che lui le aveva, più o meno inconsapevolmente, procurato. Istintivamente, ascoltò la voce della coscienza che accorse in suo aiuto, in quel frangente zeppo di sgomento. Iniziò ad allontanarsi, uscendo dalla stanza in cui Franco si trovava, sempre più assente ed impreparato, dinanzi allo sconvolgimento di Clara. Prese il soprabito di lui, lo appoggiò sul divano e, singhiozzando, disse: - Esci da questa casa. Franco finse di non capire e, con un filo di voce, rispose: - Clara, ti amo, lo capisci vero? E’ stata tutta colpa di tua madre, io non c’entro nulla. Non t’avrei mai lasciata. Fidati delle mie parole. Clara si sforzò di non piangere. Lo guardò negli occhi, sbigottita, e gli disse: - L’amore non si conquista con l’inganno. Non si vende, non si compra. L’amore vero si conquista con il sacrificio e la fiducia; altrimenti, a cosa servirebbero le sofferenze? Ora, ti prego, Franco, esci da questa casa. Non te lo voglio ripetere nuovamente. Ancora una volta, l’orgoglio bussò all’anima di Franco, assecondandolo, come al solito. Prese il suo soprabito, si avviò verso quella porta, decolorata dal tempo, che Clara prontamente aveva aperto, al suo arrivo. Si voltò verso di lei: - Cosa farai, ora? - Quello che ho sempre fatto, sopravvivrò! - rispose Clara, con il cuore in gola. Non aggiunse altro e serrò la porta a chiave.
Id: 3795 Data: 13/10/2017 06:44:40
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Improvviso aiuto
Cercava qualcuno che potesse aiutarlo a superare quel momento difficile che stava attraversando. Era gioioso e gentile, malgrado indossasse la sofferenza con grande eleganza. Si, l’aveva masticata sin da piccolo, il buon Adriano, ma non per questo aveva smarrito l’ottimismo di fare l’incontro sperato. Cresciuto in una famiglia povera, senza mai aver ricevuto un appoggio economico da nessuno o, ancor peggio, l’affetto che avrebbe meritato, si era sentito spesso tagliato fuori dal mondo. Una mattina, Adriano si recò nella solita bottega del paesino ove viveva per acquistare un po’ di pane, della farina e qualche bottiglia d’acqua. Appena entrato nel negozio, udì un vociferare di donne che mormoravano o meglio, sbraitavano col titolare: - "Signor Gaetano, le avevo espressamente chiesto gli gnocchi per mio nipote e lei, invece, cosa mi ha combinato?". L’altra donna, accanto alla vecchia signora brontolona, diceva invece ad alta voce: - "Io le avevo domandato un chilo di pane fresco e mi sono stati invece consegnati gli gnocchi di cui non avevo affatto bisogno!". L’uomo, in preda al più totale imbarazzo, tentava di giustificare gli errori commessi e, rivolgendosi ad entrambe, rispose: - "Mie care signore, il lavoro qui è tanto, per me, e non riesco a seguire tutto da solo. Dovete perdonarmi per aver fatto confusione; forse, inavvertitamente, ho scambiato i nomi sulle consegne da fare e poi, proprio l’altro ieri, sono stato piantato in asso dal mio garzone: se ne è andato via perché non aveva voglia di lavorare. Vi prego, portate pazienza e datemi il tempo per rimediare al malinteso". Adriano aveva assistito all’intera scena, ma non osava dire nulla. Dentro di sé pensava: - "Chissà se questo lavoro, che non ho mai fatto, può fare al caso mio?". Dopo che le due donne furono servite, rimase da solo con il signor Gaetano che, fissandolo negli occhi, gli chiese: - "In che cosa ti posso aiutare, ragazzo?". Da parte sua, Adriano fece scena muta, sino a quando la domanda fu ripetuta nuovamente: - "In che cosa ti posso aiutare, giovanotto? Ti occorre qualcosa?". Adriano fece un lungo sospiro, quasi come non si fosse reso conto che qualcuno finalmente si era accorto della sua esistenza. Educatamente, rivolgendosi al bottegaio, rispose: - "Buongiorno signor Gaetano, mi scusi ma ero soprapensiero. Sono passato di qui perché mi occorrevano alcune cose ed ho sentito, senza volerlo, la discussione che c’è stata qualche minuto fa. Le serve ancora quel garzone, del quale tanto si lamentava? Beh, non so fare molto, però ho voglia di imparare ed ho tanta buona volontà". - "Dici sul serio?", gli chiese Gaetano. - "Si, certamente… quando posso cominciare?". Il commerciante lo squadrò per qualche minuto, da capo a piedi, e, grattandosi sotto al mento, gli fece un ampio sorriso, facendogli capire che avrebbe accettato la sua proposta. - "Per me puoi iniziare anche da subito. Dovrai fare ciò che ti dico, essere gentile con la clientela e molto preciso, nel tuo lavoro. Seguimi, che dovrei avere grembiule e cappello, giusto della tua misura!". Nell’udire quelle parole, Adriano si illuminò come un albero di Natale. L’occasione che tanto aspettava era giunta in un momento improvviso ma, soprattutto, era riuscito a coglierla al volo. Nel giro di qualche settimana, divenne così esperto nel servire chiunque entrasse in negozio, da diventare affidabile e simpatico all’intera clientela, che più non si lamentò delle consegne: per Gaetano, qualche grattacapo in meno; per Adriano, certamente un incontro davvero fortunato!
Id: 3781 Data: 05/10/2017 06:49:13
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Il segreto di Gianluca
Gianluca era un giovincello dal carattere particolarmente solare. Era benvoluto nel piccolo paese in cui abitava, oltre ad essere ammirato per la sua notevole forza d’animo. Nulla, o quasi, lo scoraggiava: era sempre lì, in prima fila, a capeggiare qualche discorso con gli amici, che lo consideravano, a volte, un po’ stravagante, per le espressioni verbali usate, anche definite pittoresche per l’esagerata vivacità dei contenuti. Ma lui non se la prendeva. Anzi, sembrava contento per quell’etichetta che gli era stata affibbiata dalla gente che lo considerava “un adorabile idealista”, col quale poter sempre scambiare qualche parola o prendere spunto da quel suo sognare ad occhi aperti, riuscendo a rendere reale ogni suo racconto. Con qualche piccolo gesto di bontà, specie alla vecchina che abitava sul suo stesso pianerottolo, si era conquistato la simpatia degli altri, facendosi perdonare dai genitori per quei cattivi voti scolastici, presi durante le lezioni. Nei giochi, però, Gianluca, risultava essere il migliore. Vinceva ogni gara, dalla corsa a piedi, a quella coi sacchi, sino a quella con la bici-cross, scendendo, con spinta incredibile, dalla collinetta di detriti che i muratori avevano lasciato, quando era ancora in costruzione l’edificio dove lui stesso ed i suoi compagni sarebbero andati ad abitare. I suoi amici non lo invidiavano, perché, a Gianluca, tutto veniva naturale e poi, lui, non si lagnava mai ed era sempre pronto a prendere le difese di chiunque fosse stato preso di mira dagli altri compagni di avventura. Un bel giorno, mentre stava andando a scuola, incontrò, nel tragitto, un clochard. Era un signore parecchio avanti con l’età, con indosso un cappotto blu scuro ed una sciarpa così grande che gli avvolgeva non solo il collo, ma quasi tutta la testa. Se ne stava seduto sul marciapiede ed accanto a sé teneva una piccola ciotola di metallo: forse, pensò Gianluca, qualche anima gentile gli avrebbe gettato una monetina. Gianluca si fermò, non aveva denaro con sé, ma si ricordò della sua merenda e la offrì, in maniera del tutto spontanea al pover’uomo. Diventarono amici, chiacchierarono del più e del meno per qualche istante, poi, al momento di dividersi il vecchio mendicante gli chiese: “Qual è il tuo segreto?” “Io non ho segreti”, rispose prontamente Gianluca, meravigliato. Corse via, più in fretta che poté, s’era fatto tardi e certamente lo attendevano in classe. Per tutto il giorno, continuò a pensare a quell’incontro, cercando di capire a cosa si riferisse quel mendicante, facendogli quella domanda. A ben pensarci, poi, non era neppure riuscito a scorgere bene il viso di quel poveraccio, ma si ricordava il colore degli occhi che erano d’un azzurro denso, infossati in quel volto provato dal tempo. Il mattino seguente, Gianluca rifece lo stesso percorso del giorno precedente, col preciso intento di andare a cercare il vecchio clochard, per capire meglio il motivo di quella strana domanda. Non appena lo vide, il mendicante abbozzò un ampio sorriso e, scoprendosi il volto nascosto dalla sciarpa, si rivolse al ragazzo: “Mio caro, il tuo segreto io lo conosco perfettamente ed è nel cuore che possiedi. Esso è ricolmo di una tale bontà, da averti condotto alla fonte del tuo stesso bene”. Fissando Gianluca negli occhi, proseguì aggiungendo: “Non avere mai paura di essere gentile e coraggioso, poiché avrò bisogno di te per aiutare i più bisognosi”. D’un tratto, il vecchio svanì nel nulla, dietro ad una fulgida luce che impediva al ragazzo di guardarlo. Molti anni sono trascorsi ed ora Gianluca si trova in Etiopia. Ogni tanto il pensiero torna a quell’insolito incontro avvenuto quando era ancora un giovane ragazzo. Oggi, lo chiamano Padre e riveste i panni di un missionario, continuando a pensare su come un incontro, apparentemente semplice, abbia potuto, in realtà, trasformare l’intera sua vita.
Id: 3778 Data: 04/10/2017 06:35:16
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Uno strano incontro
Era una giornata luminosa. Il treno si era appena fermato nella stazione di un piccolo paesino situato in alta montagna, in una Regione del Nord Italia. Tra i pochi passeggeri presenti, spiccava una tipetta alquanto stravagante: la signorina Gemma. Tra la gente del posto, immediatamente, si diffuse la notizia che lei aveva portato con sé trenta bauli e dieci gatti. In realtà, i bagagli erano solo venti e gli animali da compagnia, cinque, ma è risaputo che le persone chiacchierano e, tra una parola e l’altra, le cose assumono proporzioni ben superiori, ingigantendosi. La signorina si diresse subito verso l’unica agenzia immobiliare del paese, peraltro già contattata in precedenza telefonicamente, e lì ribadì la sua necessità di trovare una dimora carina, con tutti i confort del caso ed un bel giardino per i suoi amati micini. Ovviamente, la casa doveva essere piuttosto lontana dal centro abitato ed abbastanza isolata, al fine di poter godere di quella agognata tranquillità che Gemma andava cercando. Occorsero tre giorni e tre notti, in quanto la scelta si dimostrò più complessa ed esigente del previsto. Visitò quasi tutte quelle disponibili, ma nessuna sembrava fare al caso suo; le speranze andavano affievolendosi, quando, finalmente, Gemma adocchiò una meravigliosa e piccola cascina azzurra, su cui spiccavano giallastre persiane ed attorniata da grandi alberi di meli in fiore. Osservandola più attentamente, istintivamente decise che era proprio quello il posto ove voleva stare. La casa era una sorta di attrazione nel paese, poiché, inspiegabilmente, i grandi meli avevano una fioritura permanente. Non fiorivano nei mesi primaverili, come tutti i meli delle altre campagne, ma i loro bellissimi e candidi fiori profumati di rosa, resistevano al caldo asfissiante dell’estate, al primo freddo autunnale, all’inverno rigido e gelato ed al vento birichino della primavera. Molti turisti arrivavano da ogni dove per ammirare i maestosi e superbi meli, ricoperti da una soffice e bianca neve, o subito dopo una violenta grandinata. Da lungo tempo la casa non veniva più affittata; nessuno osava infrangere quel meraviglioso incantesimo: ci voleva proprio quella presuntuosa signorina di città, giunta a sconvolgere la quiete del nordico paese! Moltissima gente si chiedeva chi fosse mai quella donna, all’apparenza così impettita, mai un sorriso od una chiacchiera con qualcuno, solo frettolosi saluti. L’unica cosa certa è che aveva dato una ventata di freschezza alla quotidianità di quel campestre scenario. Insomma, per farla breve, alla fine Gemma si stabilì nella casa dei grandi meli, ci portò molte provviste e per diversi mesi nessuno più la vide. Una mattina, però, si svegliò di soprassalto: un enorme fracasso arrivava dall’esterno della casa: Gemma guardò dalla finestra e scorse Giovanni, un venditore ambulante che, con il suo furgoncino sgangherato, le voleva offrire le merci più svariate: dal vestito a fiori che aveva già acquistato in città tre giorni prima, all’ultimo modello di macchinetta per il caffè, sino ad un nuovo prodotto per lavare il bucato. - Cribbio! - sbraitò, pensando tra sé e sé di tornare immediatamente sotto le coperte, per recuperare il sonno perduto. Ma quella mattina ci ripensò ed uscì dall’abitazione con la voglia di fare due chiacchiere. Incuriosito da quella presenza, il mercante le domandò che cosa facesse sempre chiusa in casa. Lei rispose: - Scrivo emozionanti storie per coloro che sono stati dimenticati dal mondo - e, notando lo stupore dipingersi sul volto di Giovanni, proseguì ancora affermando: - Sono una scrittrice. - Accidenti! - deglutì l’uomo, ammirato. La signorina si fece coraggio e iniziò a narrare la sua storia. - Avrei già dovuto essere rinomata, avendo lavorato duramente per tanti anni. Avevo scritto racconti bellissimi, anche più di mille. Poi, la mia migliore amica se ne impadronì e, tramite un editore compiacente, li pubblicò col suo nome - aggiunse Gemma, non riuscendo a trattenere le lacrime. Anche Giovanni si commosse e, sforzandosi di mantenere un tono autoritario, disse: - Signorina Gemma, nessuno le ruberà più nulla, perché io la proteggerò! E così fu: ogni nuovo dì, lui si recava alla casa dei grandi meli che, essendo assai sensibili all’amore che la scrittrice nutriva per le proprie opere, erano divenuti complici impensabili: la natura sente l’amore e la creatività umana e, se e quando può, dona tutti i suoi frutti a coloro che ne sono pianamente degni. Sorvegliando ogni cosa, Giovanni stava attento che nessuno si avvicinasse, né disturbasse l’atmosfera necessaria alla donna per creare nuovi racconti. Nel frattempo, in tutto il paese, ma anche in quelli vicini, si era sparsa la voce che la signorina Gemma era una grande scrittrice ed a parecchie persone era nata la curiosità di leggere qualcosa. Qualche giorno prima delle festività natalizie, gli abitanti del posto decisero di fare una gita fuori porta, per salutare Gemma e dare una sbirciatina alle sue sentimentali avventure, ma quello che videro fu più sorprendente di tutto il resto: un bellissimo fiocco celeste, appeso sull’uscio di casa, che spiccava in bella vista. Ebbene si! Tra una chiacchierata ed un buon thè caldo, Gemma e Giovanni s’erano guardati troppo spesso negli occhi e si erano innamorati a tal punto, da unirsi così tanto, ma così tanto, che nacque un bambino: un piccolo poeta, scrittore, narratore? Chissà! Forse si, forse no.
Id: 3773 Data: 30/09/2017 07:40:42
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La lucerna
Mormorio di ruscelli, lieve palpitare di fronde e bisbigli misteriosi, rompono, dolcemente, il cupo silenzio della notte, illuminato dal tenue chiarore della luna. Passa il viandante, stanco, e il fuoco tremolante della lucerna, che oscilla in armonia con il suo passo cadenzato, rischiara la via incerta e malsicura. Il pensiero corre ancora al suo lavoro, da poco lasciato, là, in quella oscura miniera, dove il rintronare continuo di colpi rochi e profondi, hanno accompagnato, fino all'ultimo, la sua dura fatica di minatore. Ora, sta per ritornare alla sua casa, dopo un'altra giornata trascorsa lontano dal caro nido domestico, al cui interno, cinque bocche ridenti hanno atteso invano il suo ritorno, prima di sera. Procedendo lentamente, nella notte buia, egli s'avvicina sempre più alla massa scura della vecchia casa, che si erge, lassù sulla montagna, quasi fosse una folle chimera irraggiungibile. La mano, nera e callosa, del vecchio minatore stringe con più forza la piccola lucerna di vetro che, oscillando lentamente nel vuoto, spande il suo chiarore, lungo tutto il cammino, e riverbera nello spirito una vivida luce di speranza.
Altrove, alla luce di una lucerna, attenuata da un roseo velo, una pallida figura di donna è china sul lavoro. L'ago, stretto tra le dita, bianche e delicate, passa e ripassa alacremente sulla tela, senza mai fermarsi. Accanto a lei un bimbo dorme. Nella culla, avvolta da morbide coperte, quel piccolo essere sogna gli angeli del cielo che, in schiera fulgente, per lui canteranno una dolce ninna nanna, raccolta, come una preghiera. Nel dolce sonno, le labbra del piccolo pulsano lievemente e si schiudono in un vago e sommesso gemito. La mamma depone il lavoro e bacia le rosee gote della sua creatura che, al solo contatto del volto materno, soave s'acquieta, tranquillo. Di nuovo al lavoro, senza tregua, la giovane donna non teme la stanchezza e, al pensiero della sua missione di sposa e madre, risolleva il capo stanco, abbandonato, per un momento, fra le mani e riprende il lavoro. La dolce intimità che regna in quella stanza è profonda, le svelte mani della giovane donna cuciono abili e veloci e la lampada diffonde tra quelle pareti una luce calda e riposante.
Poco distante, sulla tremula distesa del mare, lento naviga il veliero. Il fianco, martellato dal frangersi dell'onda azzurrina, gronda di spuma e, sotto i raggi della luna, prende riflessi d'argento. Il calmo dondolare del naviglio, culla il sonno dei marinai, raccolti sotto coperta, mentre una triste canzone, sale con aria sommessa, diffondendosi tutto attorno. Chi canta tra tanto silenzio? Il comandante stringe fra le mani la dura asta del timone, vegliando su tutti, attento e con fare esperto. Egli vuole nascondere, in quel canto, il tormento del suo cuore affranto, cercando di dimenticare il dolore e l'ansia che l'opprimono: forse, desidererebbe inabissarsi in quella immensa distesa d'acqua, per non soffrire più, per cadere finalmente nell'oblio. Sull'albero maestro oscilla, lenta, la lucerna, sospinta dalla brezza marina. Al suo debole chiarore, altre, lontanissime, se ne aggiungono: sono le stelle, e, in mezzo ad esse, una tondeggiante luna che accompagna il peregrinare notturno.
Gli astri sono sempre fedeli e, ad essi, tutti indirizzano il proprio nostalgico canto. La terra ed il mare accompagnano lentamente, con la loro sinfonia, quella nenia dolorosa, dolce e calda consonanza di una notte lunare, rischiarata dalla piccola lucerna.
Id: 3765 Data: 27/09/2017 06:41:21
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La pira del poeta
La candela respirava gli ultimi soffi di vento. La luce del giorno plasmava le prime ombre trasognate del mattino. Il poeta aveva il collo teso sul foglio, mentre strizzava gli occhi stanchi, tenendo nelle mani, sporche d'inchiostro, il pennino, caldo per il duro lavoro. Ebbe la strana forza di sorridere, tra le rughe di stanchezza, incise sul volto. Aveva finalmente terminato l'immensa ossessione, cuore pulsante di tutta la sua inconcepibile vita, dedicata alla realizzazione della sua più importante opera: un libro, un poema che, nell'infinità della storia, venisse ricordato. Un giovane raggio di sole lambì la sua mano, stancamente sdraiata sul foglio, e i suoi occhi rossi, socchiusi, si spalancarono. Come il livido nero e possente dell'oppressione, sentì crescere un peso consistente sul petto. La frase, l'ultima elegiaca frase, che dava il commiato all'intera opera, cadde sugli occhi. Il logoro e rauco respiro, ancorché regolare, sembrò cessare in un vorticoso oblio d'asfissia, mentre le parole ballavano una macabra, morbosa danza. La fiamma della candela crepitava, angosciosa, quasi pregasse. Il poeta la prese tra le mani e l'avvicinò ai fogli. La sua vita era stata quel lavoro che, ora, bruciava e diventava cenere, il nulla, nera polvere. La carta si contorceva sotto i suoi vecchi occhi. Tutte le parole, partorite nella mente, scomparivano, come mai esistite, una ad una, lettera dopo lettera. Insieme ad esse, scompariva per sempre anche l'ultima frase, madre di ogni disperazione, figlia di ciò in cui, forse, non aveva mai creduto. “Questa è la grandezza del Paradiso. Si riflette nell'ombra delle passioni, da noi soffocate, per poter avere in esso tutto lo spazio che l'anima merita. Ma nessuno saprà mai dare la certezza che esiste, come nessuno saprà mai dire se c’è qualcosa, oltre questa vita, o negare che esso è stato tutto quello che potevamo avere e mai avremo.” La pira si era ridotta ad un cumulo di cenere, la speranza aveva lasciato spazio allo sconforto. Chissà, forse doveva andare proprio in questo modo, per avere la possibilità di ricominciare ed affrontare nuove e più grandi sfide!
Id: 3761 Data: 26/09/2017 06:40:37
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Turchino riflesso
Mi vidi riflesso sullo specchio dell'acqua. La luce del giorno imprimeva al serafico volto un riverbero color turchino. Mi accorsi di essere entrato in un mondo fiabesco ed intorno a me tutto aveva cambiato aspetto. Al mio fianco, la mia avvenente sposa, dalle nude e statuarie fattezze, faceva da guida. Osservammo, affranti, quello specchio, perdendoci tra sguardi di un tempo ormai invecchiato. Ci guardammo, tentando di scrutare la nuova realtà, lasciandoci catturare dall’invisibile preziosità di un’arcana, ancestrale bellezza. Improvvisamente, nella piccola radura al centro del bosco, apparve un piccolo scrigno. Lo aprimmo: custodiva i cuori pulsanti del nostro amore. I segni del tempo svanirono in un lampo: la giovinezza tornò a sbocciare sui nostri volti!
Id: 3756 Data: 24/09/2017 08:08:07
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Il poeta che vive in me
Un vero poeta è come la sabbia: trasportata dal vento marino, raggiunge ogni luogo, vicino o lontano. Proprio come la sabbia, imprigionata nella clessidra del tempo, così scorre ogni tipo di emozione, scandendo il trascorrere del poeta stesso. Egli è fragile, come la creta dipinta da antichi disegni e impreziosita da intarsi di vetri fusi, al suo esterno, per dare maggiore bellezza e risalto al monile stesso. Come l’argilla, egli si plasma per meglio adattarsi alle percezioni che vivono dentro di sé. Scaldato dal fuoco dei sentimenti, il vero poeta perfeziona se stesso, mutando e ascoltando i mutamenti del suo tempo. Soffre il poeta, spesso anche in silenzio. Per far ascoltare la sua voce, scrive per dar corpo alle sue sensazioni. Crea, con la mente, poetiche immagini capaci di trasportare il lettore in ogni sua opera letteraria, toccando le corde di tutte le emozioni, vibranti nell’anima. Il vero poeta è anche in grado di dipanare ogni stato d’animo dell’uomo che vive nel proprio io, ma che, inesorabilmente, è presente anche in qualsiasi altro mondo che lo circonda. Con un’intensità così forte da fargli battere il cuore all’impazzata, il vero poeta sa amare in maniera profonda, sublime, passionale. Eterno amico è il vero poeta che, pur se tramonta, risorge, vivendo in un’altra persona. Androgino, è capace di essere uomo e donna simultaneamente, senza possedere un’identità precisa: l’anima del poeta è una “coincidentia oppositorum” che raccoglie, contiene, racchiude e sigilla ogni sfumatura colorata di quel magico “sentire” che è proprio l’essenza segreta che ci rende degni di essere chiamati “umani”. Per tutto ciò potrei essere contestato da pensatori, scrittori, artisti e grandi poeti... ma, permettetemelo, mi piace pensarla ancora così!
Id: 3747 Data: 20/09/2017 07:54:04
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