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Raccolta di testi in prosa di Lino Bertolas
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Bette Davis Eyes

La trovai in mezzo al ciarpame che ritiravo abitualmente dalla cassetta postale.
Una busta bianca anonima. L'indirizzo scritto a mano in un regolare stampato maiuscolo.
Dentro solo un foglio formato A 4 e poche righe. Carattere Arial, se non sbagliavo. Formato 14. Lessi.
-Si prega di ritrovare “Bette Davis eyes”. L'ultimo avvistamento è stato in via del Granatiere 12.
Seguiva un P.S.: Comunicare risultato positivo o negativo su quotidiano locale sotto la voce INSERZIONI VARIE.
Avrebbe potuto benissimo essere uno scherzo se non fosse stato per quei tre bigliettoni colore violetto che accompagnavano il foglio.
Rimasi solo per un attimo sconcertato.
Non credevo molto a Babbo Natale e, nel caso, il vecchietto in rosso con la barba bianca e le renne volanti non mi avrebbe fatto visita proprio adesso, a metà maggio.
Così decisi di prendere seriamente la richiesta.
“Bette Davis eyes”. Gli occhi di Bette Davis. Mi ricordava qualcosa.
Sì, una canzone di parecchi anni fa. Una musicalità accattivante. La eseguiva una cantante bionda con la voce roca. Adesso mi sfuggiva il nome. Il significato del testo non l'avevo mai capito. Non conoscevo l'inglese.
Senza scervellarmi tanto, sapevo già a chi rivolgermi. Misi al sicuro il foglio e i tre bigliettoni e chiusi la porta dell'ufficio dietro di me con il consueto cartellino:
“Torno subito”.

-Ehilà, Arno, qual buon vento?
Il locale era immerso in una languida melodia. Il mio amico stava adagiato su una comoda poltrona. Una bottiglia di birra in mano. Non si sarebbe detto che si trovasse al lavoro se non fosse stato per le migliaia di CD e altri articoli musicali che arredavano l'ambiente.
-Come vanno gli affari Bruce?
-Come vedi, un momento di stanca. A noi ci rovinano i siti da cui puoi scaricare tutti i brani che vuoi. D'altronde hanno ragione. Farei anch'io lo stesso al loro posto. No, quello che ci rovina è il cattivo gusto: le sfornate di compilation e l'ottusità dei dirigenti discografici. Per fortuna restano ancora degli archeologi della buona musica. Senti questo pezzo. E' da brivido. L'arpa celtica di Alan Stivell: ti porta da qua in paradiso. Anche se la mia Kirsty da buona irlandese a codesto cantante bretone preferisce le sue natie uillean pipes, io resto dello stesso avviso: questa è musica che ti rinfresca l'anima. A proposito Arno, vuoi una birra?
-No grazie, sono in servizio. Cosa ti suggerisce “Bette Davis eyes”?
-Una canzone che ha fatto successo. Non male a dire il vero. La cantava una biondona: Kim Carnes con un timbro di voce particolare. Però è passato qualche anno. Su per giù dovremmo essere verso l'inizio degli anni '80. Adesso controllo ...
-Sì, è del 1981. Se ti interessa il disco con il testo posso procurartelo.
-No, per il momento. Ho già un'altra pista. Hai qui uno stradario della città?
Subito dopo segnavo sulla piantina: via del Granatiere.
La voce di Bruce alle mie spalle.
-E' nella zona dell'università. Cosa fai? Vuoi metterti a studiare?
-Come no! Così cambio lavoro. Dammi una birra, va!

Quella mattina giravo per via del Granatiere.
Ero passato ancora da quelle parti in auto ma senza mai fermarmi. Ricordavo solo i segnali continui di lavori in corso: palazzi in ristrutturazione, nuovi parcheggi, carreggiate in rifacimento.
Era una zona in perenne trasformazione. L'unica cosa che mi attirava erano i gruppetti a piedi di leggiadre ragazze che si avviavano verso gli edifici dell'università.
Chissà perché le vedevo come fanciulle non ancora cresciute che con la scusa dell'università prolungavano lo spensierato periodo scolastico prima di sbattere la testa contro i veri esami della vita.
Lasciai perdere le mie fantasticherie.
Via del Granatiere 12 corrispondeva ad una graziosa villetta stile impero.
Certo erano evidenti i segni dell'età e faceva maggiore tenerezza se paragonata ai condomini più moderni e asettici che la circondavano.
Suonai il campanello. Attesi un po' prima che uno spioncino rettangolare si aprisse. Due occhi grigi segnati intorno da spesse rughe.
-Se cerca mio marito, non c'è!
-No, signora. Lavoro per un'agenzia di investigazioni. Non le faccio perdere tempo. Solo un paio di domande.
-Allora dica!
-Sono stato incaricato di fare ricerche su chi abitava in questa casa, diciamo verso il 1980.
-Noi non c'entriamo. Siamo venuti a vivere qui, mi faccia ricordare... nel settembre dell'ottantanove.
-E non conosceva chi abitava prima?
-Non saprei. Sa, noi l'abbiamo comperata tramite un'agenzia immobiliare.
-Quale?
Sulla mia domanda lo spioncino si richiuse.
La donna forse improvvisamente memore delle frequenti truffe a danno degli anziani aveva pensato di chiudere ogni ulteriore comunicazione con il sottoscritto.
Inutile insistere.
Mi guardai intorno. Sparuti gruppi di universitari scorrevano cicalando verso le aule di lezione. Notai, come una mosca bianca, una donna anziana sopraggiungere tenendo in mano una borsa per la spesa.
-Lei abita da queste parti?
-Sì, perché ...? - Notai il suo sguardo preoccupato girarsi intorno.
Assunsi un tono confidenziale:
-Sono del Comune. Stiamo facendo una ricostruzione storica di com'era questo
quartiere un po' di anni fa. Servirebbe una testimonianza di qualcuno che ci abita da parecchio.
-Allora sa da chi deve andare? Dalla signora Marconi. Ha sempre vissuto qui,
perlomeno dal dopoguerra. Ecco, è in quel palazzo.
Accelerò il suo passo mentre il mio ringraziamento ancora le correva dietro.

Nel salotto di Piera Marconi il tempo sembrava essersi fermato.
Dall'arredamento ai soprammobili per finire con le foto d'epoca appese alle pareti, tutto dava l'idea di un fortino. Un fortino che conservava gelosamente i suoi ricordi, assediato sempre più dalle mostruosità fredde e smemorate che i nuovi anni gli avevano costruito attorno.
Con la signora Piera non c'era stato bisogno di fingere. Ci eravamo intesi subito.
E mentre assaggiavo il suo nocino fatto in casa, assorbivo fatti e immagini del suo raccontare quieto e preciso.
-Dal settanta all'ottanta... sì, ottantacinque, la villetta del numero 12 è stata abitata dalla vedova Belotti. Una brava donna che sgobbava per mantenere se stessa e le due figlie, Cecilia e Anna. Lei mi ha parlato dell'ottantuno. Vediamo, a quell'epoca le figlie avevano ... faccio un po' di conti ... sì, Cecilia diciotto e Anna sedici anni.
Cecilia aveva appena iniziato a lavorare mentre Anna stava ancora studiando.
Le due sorelle erano molto unite tra loro e allo stesso tempo diverse.
Anna era uno splendore. Aveva due occhi di un azzurro intenso come un cielo di primavera senza nuvole. Non c'è da meravigliarsi che avesse tanti mosconi che le ronzassero attorno soprattutto qui, con tutti quei giovani che frequentavano l'università.
Cecilia era più tranquilla e fisicamente..., beh! non direi bruttina, ma in confronto alla sorella ...
La madre per sopperire ai debiti lasciati dal marito subaffittava anche un paio di stanze a studenti universitari.
Le cose erano andate meglio per la famiglia se non fosse che Anna ha cominciato a frequentare qualche giro poco rassicurante. La ragazza ha avuto dei ricoveri. Si parlava di droga.
Poi a metà degli anni ottanta hanno venduto la villetta e si sono trasferite non so dove.
Da allora non ne ho più sentito parlare. Nella villetta sono passate altre famiglie per brevi periodi fino ai proprietari attuali che ...
-... ho già avuto modo di conoscere. Per non disturbare oltre, signora Marconi, non saprebbe quale altro riferimento potrebbe ...
-Ah sì! A quel tempo don Attilio, il curato della parrocchia, si era dato da fare per aiutare la Belotti soprattutto per i problemi di Anna ma ora non è più qui. E' stato trasferito verso il novantacinque.
-La ringrazio moltissimo. Lei mi è stata veramente utile. Adesso devo proprio andare.
-Un altro po' di nocino?

L'attuale parroco, don Lorenzo, due occhi che sembravano ingranditi dalle spesse lenti racchiuse in una montatura a disegno di tartaruga, mi ascoltava paziente.
-Vedo cosa posso fare.
Aprì un paio di agende scartabellandone le pagine.
-E' come ricordavo! Don Attilio è stato trasferito in una parrocchia della provincia. Da quel che so dovrebbe essere ancora lì.
Scrisse qualcosa su un foglietto.
-La ringrazio. I miei parenti che vivevano in questo quartiere avrebbero proprio piacere di salutare don Attilio. Ormai sono passati diversi anni.
Non fu un lungo viaggio. Il paese era posto tra le colline a metà di una valle ricca del verde della nuova stagione.
-Chissà, forse starei meglio anch'io a trasferirmi qui. Certo, dovrei cambiare lavoro.
Era una cosa che mi ripetevo spesso ma che difficilmente avrei fatto.
Suonai alla porta della canonica.
La perpetua, sentite le mie richieste, mi fece strada lungo un corridoio fresco e ombroso.
Don Attilio, un prete di mezza età dai capelli brizzolati e gli occhi vivaci, mi accolse benevolmente.
-La famiglia Belotti la ricordo benissimo anche perché allora ero all'inizio della mia, se possiamo così dire, carriera sacerdotale. Una parrocchia impegnativa. Pochi residenti e molti provvisori, studenti universitari in buona parte in affitto presso camere e case del quartiere.
Un periodo anche vivace pieno di alti e bassi, di passioni e di problemi.
Anna era una brava ragazza ma incline a perdersi. Troppo fiduciosa negli altri e ne ha pagato le spese.
Quando la madre si è rivolta a me la situazione era già grave. Ho fatto di tutto per farla accogliere in una comunità di recupero e lei ha accettato la proposta. Voleva venirne fuori ma non era facile. Ogni tanto entrava e usciva. Un cammino duro.
Poi la madre e la sorella si sono trasferite lontano da qui. Ho avuto ancora dei contatti negli anni successivi.
La madre era morta. E Cecilia, la sorella, mi scriveva che Anna aveva fatto dei progressi, che la partita era quasi vinta.
Purtroppo lei stessa aveva dei problemi di salute ma si adoperava in tutti i modi per sostenere Anna nella sua battaglia.
Poi più nulla. Io ho scritto ancora un paio di volte. Non ho più avuto risposta.
Si protese verso di me e cinse la mia mano con le sue:
-Userà a fin di bene le informazioni che ha ricevuto?
Non potei dire di no. Prima di uscire mi diede un numero di telefono trascritto da un'agenda consunta che stava nel cassetto di una vecchia scrivania.

-Capisco le sue ragioni ma non possiamo dare certi tipi di informazione.
-Le faccio presente che è un caso eccezionale. La signora che io rappresento è in fin di vita. La sorella è morta qualche anno fa. La nipote Cecilia Belotti non sappiamo dove viva. Vorremmo almeno contattare l'altra nipote Anna Belotti. Sappiamo dal parroco don Attilio che è stata vostra paziente per diversi periodi. Voi potreste sapere dove si trova ...
-Può essere! Ma la privacy ...
-Consideri che non ha altri parenti al mondo. E morire sola senza nessuno al capezzale ...
-Può dire quello che vuole ma le ripeto: la privacy non lo consente. Attui le modalità richieste seguendo le procedure formali.
-Potrebbe essere troppo tardi!
-Mi dispiace, ma per la privacy ...
-Ho capito. Non insisto. Vorrei solo poterle dire un'ultima cosa: vada a ... prenderselo in culo, ma non lo dica in giro. Sa, per la privacy – e chiusi la comunicazione.
Questa strada era interrotta. Non mi restava che l'altra.
All'indirizzo avuto da don Attilio non corrispondeva nessun numero di telefono.
Dovevo andarci di persona. Non avevo alternative.
Viaggiai per tutta la mattina. Avevo già un certo languore quando entrai in città e trovai finalmente l'indirizzo segnato.
Era un palazzo scrostato di un un quartiere popolare.
Trovai il nome Belotti sulla fila dei campanelli. Mi augurai buona fortuna e suonai più volte.

Feci le scale fino al terzo piano con apparente calma.
Al pianerottolo suonai di nuovo. La porta si socchiuse appena. Una voce sottile:
-Lei chi è?
-Cercavo Anna o Cecilia Belotti.
La porta si aprì lentamente. Una donna non più giovane mi scrutò.
-Entri.
Nella luce della stanza vidi i suoi lineamenti. Erano ancora belli ma come deformati da una stanchezza più pesante degli anni trascorsi.
E poi i suoi occhi. Quelli che dovevano essere stati di un azzurro brillante ora sembravano scoloriti. Un azzurro pallido come se fossero stati troppo a lungo esposti al sole.
Mi ero preparato diverse strategie ma preferii dirle la verità.
Mi ascoltò apparentemente impassibile. Solo un leggero tremito nelle mani.
-A proposito – conclusi – lei è Anna o Cecilia?
Un breve silenzio.
-Sono Cecilia! Anna ormai non c'è più.
Fermò con un gesto ogni mia replica.
-Io posso dare una risposta alla sua domanda. Conoscevo Anna come me stessa.
A quel tempo Anna era inebriata dalla vita. Le piaceva volare troppo vicino alla luce. Così si è bruciata le ali.
“Bette Davis eyes”. Ricordo quella canzone. Era la sua preferita. La metteva sempre.
Quando era sul giradischi, c'era uno studente universitario in affitto da noi che usciva dalla sua stanza, si fermava nel corridoio e stava lì ad ascoltarla.
Anna lo vedeva dalla fessura della porta.
Qualche volta l'apriva e lui stava lì, sorpreso e imbambolato, a guardare Anna negli occhi senza dire una parola.
Credo che anche Anna se ne fosse innamorata. Aspettava che lui si muovesse, dicesse qualcosa. Niente. Restava solo lì a guardarla.
Forse era troppo timido. Forse se avesse parlato, Anna non avrebbe fatto quello che poi ha fatto.
Ecco! Questo è quanto.
-Allora, che cosa dovrò rispondere al mio cliente?
-Dovrà pensarci lei. Non è compito mio. Io gliel'ho già detto. Anna non c'è più!
-Capisco.
Guardavo i suoi occhi. Il loro azzurro sembrava ora ancora più pallido.
-Quand'è così ... - mi girai verso l'uscita e mossi i miei passi.
Mi voltai solo un momento.
-Addio, Anna!
Fu un'impressione ma l'azzurro dei suoi occhi sembrò scintillare come sotto un raggio di sole e poi ricoprirsi nuovamente di nuvole.
-Perché mi tormenta? Gliel'ho detto: io sono Cecilia.
La porta si richiuse delicatamente alle mie spalle. Scesi le scale con un senso di stanchezza.
Non avevo più molta voglia di tornare a casa.

Dopo due giorni vidi pubblicata la mia inserzione.
“ Mi dispiace comunicare che gli occhi di Bette Davis si sono chiusi per sempre. Rimango a disposizione.”
Non ebbi più risposta.
Qualche tempo dopo mi trovai a passare da Bruce. Era una di quelle giornate difficili da spiegare. Sarebbero servite troppe parole. In questi casi meglio non dire nulla.
-Ehi, - dissi a Bruce - mi allunghi una birra e, dato che ci sei, puoi mettere un disco su richiesta?
-Che pezzo vuoi?
-Kim Carnes: “ Bette Davis eyes ”.
Mentre ascoltavo la canzone, pensavo agli occhi di Bette Davis.
Li avevo sempre immaginati neri e profondi.
Quella volta però li vidi azzurri, di un azzurro intenso come un cielo di primavera senza nuvole.

Id: 4268 Data: 09/08/2018 22:58:16

*

Time

TIME
Ci ritrovammo al funerale della madre di Frank. Io, Pietro e Tommy, oltre a Frank naturalmente: la vecchia compagnia del bar Venezia, una delle tante compagnie che aveva frequentato uno dei tanti bar del paese un po' di anni fa (pensare a quanti mi faceva una certa impressione). 

“ Quelli del bar Venezia “ era un modo per identificare quelle date persone e un periodo preciso considerato poi che ognuno di noi aveva preso la sua strada e sviluppato altre conoscenze e altre amicizie.

Ci piaceva sentirci qualche volta per telefono e ancor meglio ritrovarci due,  tre volte l'anno sufficienti a rituffarci nell'atmosfera dei tempi andati.

Non tanto una rimpatriata tipo quel film, “ Il grande freddo “,  non una cosa così seria insomma bensì un happening godereccio dove tra un boccone e l'altro, tra un bicchiere e l'altro andavano in scena battute e aneddoti ormai collaudati, ancora capaci di strappare delle risate schiette.

Era un modo per illuderci che il tempo poteva tornare indietro, riportarci per una sera a quello che eravamo in quell'età, senza crederci fino in fondo, un po' per scherzo, solo così l'incantesimo funzionava.

E ora eravamo ancora insieme ma per una circostanza piuttosto diversa.

Già, la madre di Frank. Me la ricordo benissimo.

Una donnina piccola e gentile.

Ti faceva entrare in casa con un'aria quasi intimidita.

- Francesco? Adesso lo chiamo - e nella sua voce avvertivi la lusinga e la soddifazione per il fatto che gli amici venissero a cercare il suo figliolo, l'unico uomo di casa dopo che il padre era morto già da parecchio.

C'erano anche due sorelle ma loro erano più grandi, le vedevi e non le vedevi.

E finché aspettavi che Frank scendesse dalla sua camera, la madre andava avanti nelle proprie occupazioni, unica regina di un salotto–laboratorio pieno di stoffe fruscianti che passavano dal taglio sicuro delle forbici all'azione precisa e paziente di una macchina da cucire.

L'altra cosa che mi ricordo era la musica incessante di sottofondo, una musica d'altri tempi.

Un registratore piuttosto consumato, con intorno custodie di audiocassette, dal quale uscivano canzoni mai sentite, canzoni del dopoguerra, sapevo, per l'idea vaga che potevo avere di quel periodo, con orchestrine di fisarmoniche e violini e coretti di voci femminili che cantavano di amori perduti, poi ritrovati e ancora perduti.

La voce del prete mi distolse dai ricordi.

In chiesa c'era abbastanza gente considerato il periodo estivo in cui ci trovavamo.

Pietro e Tommy erano vicini a me, nello stesso bancone.

La cerimonia scivolò via come altre a cui avevo assistito. La predica, un barcamenarsi tra un veloce e misericordioso ritratto della defunta e un richiamo al destino comune di tutti gli umani verso quella riva che spesso fingiamo di ignorare.

L'avviarsi verso il gran finale con la benedizione del prete, il canto struggente del saluto e gli uomini in nero che alzano la bara e la portano verso l'uscita. Prima che ciò avvenisse ci fu una strana esitazione del celebrante, un improvviso ondeggiare tra le prime file. Capii subito il perché. 

Frank era davanti al microfono. La sua voce prima incerta, poi via via più salda. - Scusate ... prima di andare,  volevo dire un mio ricordo personale ...

Molti di voi sono passati attraverso il laboratorio di sartoria di mia mamma. Conoscono la sua abitudine di lavorare ascoltando musica. La passione per le canzonette del dopoguerra. Rendono ogni peso più leggero, diceva. Mia mamma però non amava solo quel genere di canzoni, amava tutta la musica.

Quando sentiva dei brani uscire dalla mia camera, ed erano di tutt'altro tipo, ve lo posso assicurare, lei se ne stava lì ad ascoltare e se qualcosa le piaceva, entrava e mi chiedeva informazioni su quel pezzo, chi lo cantava, cosa significava, curiosa di saperne di più.

Ultimamente le piaceva una canzone, forse qualcuno di voi la conosce: “Time” di Tom Waits. Ve ne faccio sentire un pezzetto.

Frank estrasse un piccolo apparecchio da uno zaino che, me ne accorsi solo in quel momento, aveva appoggiato vicino a sé.

Ci fu un breve movimento di teste, di incertezza verso ciò che stava per accadere.

Molti girarono lo sguardo verso il celebrante ma lui stava fisso e immobile ad aspettare il succedersi dei fatti.

La voce rauca e allo stesso tempo dolce di Tom Waits si espanse tra le navate accompagnata da poche note di chitarra e un suono di organetto.

Restai affascinato dalla canzone, era da un po' che non la sentivo.

La mia mente in un flash la ripescò dall'album in cui stava nascosta. Ricordavo bene, era “ Raindogs ”.

Non feci tempo a gustare oltre quelle note. Frank aveva staccato il registratore e la sua voce tornava ad occupare il vuoto della chiesa.

- Come ho detto, a mia mamma piaceva molto questo brano, soprattutto mi chiedeva cosa volesse dire. Le ho risposto che parlava del tempo che passa. Frank cominciò a declamare come se quelle parole fossero rimaste a lungo dentro di lui:

– Non preoccuparti se prima c'era il sole e adesso piove,

se le giornate ti sono scivolate via leggere come ali di farfalla e non riesci più a trovare la polvere d'oro che le faceva volare tra i prati e il sole.

E' il tempo, è il tempo sai, che rende sempre più pesante il tuo camminare nel mondo, non puoi farci niente, è il tempo.

Però se saprai trovare un po' di amore dentro di te, ritornerai a volare nel cielo leggera come un'ala di farfalla e il tempo non potrà farci niente ...

Scusate, era questo che volevo dire.

Un brivido sembrò attraversare tutti i presenti o forse ero io.

Non mi pareva vero che Frank fosse stato capace di dire tutto questo e a voce così calma e sicura. Io non ci sarei riuscito.

Il silenzio generale fu interrotto dal prete che riprendeva la celebrazione prevista come se quel fuori programma fosse stata una cosa che non lo riguardasse.

Di noi del bar Venezia, solo io accompagnai il feretro al cimitero. Pietro e Tommy avevano dovuto scappare verso i loro impegni.

Il resto della cerimonia proseguì com'è di prassi.

Solo quando la cassa venne tumulata vidi gli occhi di Frank inumidirsi di lacrime.

Tutto il suo meraviglioso autocontrollo sembrò per un attimo cedere, ma fu per un attimo.

I convenuti cominciarono a stringersi attorno ai familiari per gli ultimi saluti, poi come tanti rivoli d'acqua si dispersero tra i numerosi vialetti di ghiaia lasciando un'eco mista tra il loro chiacchiericcio sommesso e il rotolio dei sassi sotto le scarpe.

Aspettai che i più se ne fossero andati.

Mi avvicinai a Frank, ora solo. Poco lontano le due sorelle si intrattenevano ancora con alcune conoscenti.

- Ehi, Frank, - dissi - devo andare anch'io. Comunque quel tuo discorso in chiesa,  beh ... - non sapevo più come concludere la frase.

Per fortuna Frank aveva capito cosa intendessi.

Si mordicchiò leggermente il labbro e a voce bassa, guardandosi attorno come a controllare chi ci fosse:

- Sai ... lo dico solo a te. Non è vera quella storia della canzone, perlomeno non come l'ho raccontata io.

Anche le parole ... io non so l'inglese. Non so cosa dica realmente Tom Waits in quella canzone ma mi piace immaginare che dica qualcosa di simile.

Credo che a mia madre sarebbe piaciuto. Credo che a tutti piacerebbe sentire qualcosa del genere al proprio funerale.

Un sorriso cominciò ad increspare le mie labbra.

Guardai Frank. I suoi occhi sembrarono stringersi sotto la luce del sole ma credo che dentro di sé anche lui stesse sorridendo.

Gli afferrai brevemente la mano. – Ci sentiamo, Frank!

– Sì, telefonami tra qualche giorno.

Ascoltavo crocchiare la ghiaia sotto i miei piedi mentre mi allontanavo verso l'uscita.

Mi ritrovai a canticchiare nella mente il ritornello di “ Time “.
- Ho voglia di risentire questa canzone, - dissi tra me - ma non subito, un po' più avanti.

Guardai il cielo azzurro. Il pomeriggio era appena inoltrato. La giornata si profilava lunga.

Avevo tempo. Sì, forse avevo ancora tempo.


Id: 3462 Data: 31/01/2017 16:55:25