chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Francesca Croci
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Dentro una notte di gennaio

DENTRO UNA NOTTE DI GENNAIO.

Inverno. Folgaria. Esterno notte.
Una donna, in piedi, sola, sta aspettando. Immobile. Il freddo le frusta le guance che tuttavia scottano. Ogni suo muscolo è contratto dall'impotenza, dall'impazienza. Sola davanti a un paesaggio oramai a soqquadro, che la respinge, sebbene beffardamente deserto. Il silenzio assoluto la comprime, accentuando l'irrealtà del suo stato. Se solo si fosse data una direzione, potrebbe imporsi di cambiarla. Sta con la chiave di una stanza d'albergo in mano, impietrita davanti ad un carosello confuso di decisioni urgenti da prendere. Ne va della sopravvivenza, pensa, non si può continuare a respirare il gelo notturno della montagna con gli occhi sbarrati, il cuore triste, triste da impazzire, e il cervello dilatato in inutili interrogativi. In certi momenti non serve nemmeno avere la testa stordita e lo stomaco traboccante di birra: la coscienza è un tiranno da cui ci si libera raramente, e soltanto in circostanze banali. Quando ci si sente davvero vulnerabili, la coscienza - la più spietata consapevolezza - sta proprio lì davanti al nostro sguardo interiore, non consola mai ma pungola, non fa sconti, e ci fa sbattere contro le verità più amare… Vorrebbe lasciarsi andare e piangere, la donna, ma la paura, una paura senza contorni precisi, potente, la tiene paralizzata nell'attesa.

Eppure soltanto poco prima, nella discoteca, si era sentita sicura accanto a lui. Forse non si trattava di amore, ma tuttavia la bella sciata mattutina e la serata trascorsa insieme erano state altrettanto sorprendenti ed appaganti. Una nuova sfida l'aveva restituita alla vita, alla voglia di giocare; con lui molti ostacoli si erano dileguati lungo la strada parola dopo parola; i sorrisi e i baci erano diventati più languidi, anche più goffi nella loro freschezza, e una rinata spontaneità aveva indebolito le barriere. Ma proprio negli istanti di maggiore abbandono e generosità, mentre la leggerezza dell'alcool e della musica la inebriavano, nuvole di temporale si andavano addensando sopra la testa di lei senza una ragione precisa, e senza alcun segnale di preavviso. Continuava dunque a ballare fiduciosa e leggera, lontana anni luce dal sospetto di ciò che stava per accadere, ignara del repentino cambio d'umore di lui che, forse suggestionato da un qualche banale malinteso, stava ora riversando le ombre di un suo vissuto pregresso fatto di fragilità, insicurezze e tormentose ossessioni sulla luminosità degli istanti presenti d'inattesa felicità fino ad oscurarla del tutto. Pertanto, mosso da certezze e paure estemporanee ma tuttavia definitive e inappellabili, e accecato da un'ostilità improvvisa, usando il pretesto di andare in bagno aveva deciso di sparire. Ritirato la giacca al guardaroba. Uscito frettolosamente dal locale. Messo in moto la macchina. Andato via. E lei manco se n'era accorta. Stanca ma tranquilla, aveva continuato ad aspettarlo seduta su un divanetto.

Lo aveva aspettato fino all'orario di chiusura. Poi aveva ispezionato i bagni, temendo che avesse potuto avere un malore. Fu la guardarobiera a riferirle di averlo visto uscire dal locale scuro in volto. Lo aveva allora cercato fuori, fino a rendersi conto che non c'era più l'auto nel parcheggio. “Ma dov'è? E perché?”...“Magari gli passa e torna a prendermi?”...”Magari mi sta attendendo pentito davanti all'albergo?”... “Magari è talmente arrabbiato che sta tornando direttamente in città?”… ”E mi lascia qui? Ma sì. Mi ha lasciato qui: questo è.” Uno sconfinato senso di spiazzamento - che non è altro che l'essenza, la manifestazione suprema dell'assurdità della vita - arrivò come una rapida feroce pugnalata. Colpita ancora una volta alle spalle con tempismo perfetto: succedeva quando lei decideva di fidarsi, di smettere di difendersi per lasciare riemergere l'innocenza che teneva segregata in nascondigli profondi per proteggerla e non darla in pasto ai porci. Innocenza o piuttosto, col senno di poi, colpevole ingenuità...
Eccola dunque sola, la donna, alle due di notte, in un posto sconosciuto, mentre gli argini si rompevano e il caos inondava e trascinava via tutto, seppellendo di detriti le povere cose che non aveva saputo salvaguardare. Sapeva che quando tutto questo fosse finito si sarebbe trovata di fronte ad uno scenario desolato e spettrale. Per sempre.

All'uscita dalla discoteca, gruppetti di persone indugiavano ad andarsene. La donna si era chiesta sconcertata se fra quei ragazzi che stavano ridacchiando rilassati e che si atteggiavano per attirare l'attenzione e forse apparire interessanti agli occhi di qualcuno – proprio come lei fino a un'ora prima (o forse si trattava di un secolo fa?) - ci potesse essere qualcuno a cui fosse mai successo, o avrebbe potuto mai succedere, di trovarsi in una situazione così pateticamente ridicola. E di soffrirne così tanto. Ma no, soltanto a lei la realtà riservava sempre quel tipo di docce fredde. Non se le andava forse a cercare? Non era forse solita farsi coinvolgere in storie con uomini ambigui ed irrequieti, certamente poco rassicuranti, però capaci di divertirti, di stupire, di conquistarti con emozionanti sorprese e brividi di romantico pathos? Beh, ora che la sorpresa c'era stata davvero, meglio era congelare al più presto il “pathos” e tornare lucida, agire in fretta prima che quei giovani dileguassero, lasciandola definitivamente sola e smarrita sulla fredda strada deserta in piena notte, e lontana dal suo albergo.
Meccanicamente, con fare sbadato, chiese un passaggio. Che le venne concesso, più per divertita curiosità che per altro. Salì sulla vettura con l'indifferente naturalezza di chi non sapeva davvero rendersi conto di ciò che stava accadendo, di ciò che era in procinto di accadere... Del resto faceva troppo male constatare che l'unico appiglio superstite per le sue speranze naufragate, in un mondo che solo un'ora prima era apparso generoso e accattivante, era un veicolo carico di estranei che l'aveva scaricata davanti ad un albergo. In cui lei adesso non è capace di entrare: neppure un portone le riesce di chiudersi alle spalle. Ma perché non impara ad odiare sul serio? Cosa ancora – chi – sta aspettando? Non è forse certa di avere subìto un torto? Perché mai si preoccupa per lui, e si ostina ad offrire possibilità a chi gliele ha negate, a chi l'ha derubata?
E ancora: di cosa esattamente crede di doversi sentire in colpa, dal momento che non vuole decidersi ad entrare in camera per riscaldarsi, per chiuderlo definitivamente fuori dall'albergo e dal suo cuore, per dormire e dimenticarlo?... dal momento che lei rimane prigioniera delle congetture, e di una commovente illusione di riconciliazione?

Eccola infine accogliere l'arrivo di lui. Quanto tempo è trascorso? Comunque troppo. E il freddo che sente dentro le ossa è ora diventato l'impalcatura a cui è appesa la sua forza che vacilla. Eccola, dunque, sempre sola, incespicare fra sguardi duri e fragili suppliche. Ora però sanguina delle ferite di lui. Perché gli va incontro? Vorrebbe addirittura essere colpevole per chiedere scusa, per farsi perdonare. Ma non lo è. Manco sa di cosa è accusata: lui per orgoglio non dice, e lei per orgoglio non chiede. Comunque non verrebbe creduta. E infatti non viene creduta. D'altronde entrambi sanno che non è più questione di credere o di essere creduti, è troppo tardi per dubbi e recriminazioni, perché i dolori hanno già scavato nel profondo e la diffidenza reciproca ha bruciato per sempre la spontaneità di ogni nuovo possibile slancio: la bobina non può più essere riavvolta, lo scempio è stato consumato. Occorre ora affrontare le conseguenze, riparare al più presto tutte le falle. Ognuno conta le sue, chiuso nel proprio orgoglio, nella sofferenza, nell'astio. Chiuso in quell'ostinato silenzio che sancisce la fine più di mille parole.

Inverno. Folgaria. Esterno giorno.
Ancora sola, la donna, il mattino dopo, mentre il sole la coccola premuroso. Si sente finalmente al sicuro: la sua solitudine - non più assenza - consiste di nuovo nel solito rassicurante inespugnabile vuoto.
Sa però di camminare sopra un sottile strato di ghiaccio trasparente.

Id: 3230 Data: 23/05/2016 16:04:25

*

il sorriso

IL SORRISO

 

La signora Marisa sicuramente non era un gran che, ma sorrideva con gioia e per questo sovente appariva bella. Era una di quelle persone con cui si fa conoscenza in autobus o dal fornaio, o che si conoscono da sempre. Tuttavia lei non parlava molto, e non la si vedeva mai in compagnia di nessuno.

Eppure era impossibile non venire conquistati dal suo sorriso.

Era sposata ad un uomo che nessuno conosceva. Probabilmente abitavano un modesto appartamento pieno di soprammobili e calendari e penombra e che inondava il pianerottolo di odor di cipolla soffritta e di canzonette della radio. Era facile immaginare anche i gerani sul balcone, e i canarini, e una grossa pendola rumorosa. Meno facile era immaginare la vita che vi conducevano.

Dicono che la signora Marisa era sempre così allegra perché non aveva bambini né rimpianti, e di donne senza figli e rimpianti ce ne sono poche e sono le migliori.

Dunque la signora Marisa appariva migliore delle altre. Non era certo noiosa - e questa è una gran qualità per una donna -, ma probabilmente solo perché non le piaceva parlare. Ascoltava molto, o forse ne dava solo l'idea. Certamente avrà avuto più di quarant'anni, e altrettanto certamente avrà saputo applicare la grazia che emanava in un qualche passatempo tipicamente femminile come l'uncinetto, o il ricamo...

Si sapeva da sempre che lavorava come contabile in un insignificante ufficio del centro. Ciò destava molte perplessità: sembrava assurdo a chiunque che un volto così radioso potesse stare chino per tante ore nel dedicarsi a una mansione così incolore e monotona. In ogni modo si preferiva vederla insegnante, o più banalmente commessa in un negozio della città a dispensare generosamente il proprio sorriso a clienti ed avventori occasionali.

Le donne non provavano invidia né gelosia nei confronti della signora Marisa, anche perché non era mai venuta loro la più pallida idea di paragonarsi a lei. D'altra parte i loro uomini più che amarla la veneravano con troppa soggezione ed umiltà, e con troppo candore, per provare sentimenti diversi dalla devozione.

 

Tutti volevano proteggere la signora Marisa, tutti volevano difenderla dalla cattiveria e dal dolore, perché la si immaginava tanto ingenua e un po' sfortunata dato che solo le persone ingenue e sfortunate possono conservarsi così soavi e sorridenti a quarant'anni. Ma la signora Marisa non aveva nemici, né la sorte si era dimostrata mai troppo dura nei suoi confronti. C'era chi sosteneva che suo marito la trascurasse, altri dicevano che la tradiva - lei, certo, non lo sapeva! - In realtà nessuno lo aveva mai notato granché per il quartiere, né si era a conoscenza delle sue frequentazioni.

La signora Marisa non aveva amiche sebbene le donne con cui talvolta la si vedeva chiacchierare si reputassero tali. Essa non sembrava provare risentimenti né disprezzo, ed era di una tolleranza singolare. Tuttavia si comportava sempre con distacco e lontananza: nulla pareva interessarla direttamente e ascoltava ciò che vedeva e che le veniva raccontato con l'attenzione e l'indifferenza di chi poi deve riferirlo a qualcuno.

La signora Marisa non era mai più allegra o più seria del solito e la sua delicata compostezza incantava chiunque. E il suo sorriso era davvero bello.

 

Era una creatura solitaria e misteriosa; sicuramente possedeva un piccolo regno fatto di luce e di colori diversi dai nostri che nascondeva da qualche parte. Tutti cercavano di frugare nel suo sguardo e nei suoi gesti per avervi in qualche modo accesso, o almeno per cercare di intravederlo, ma non era lì. Il suo sorriso proveniva sempre da un luogo molto remoto, e il segreto di quella luce e di quei colori trasmetteva una forma di nostalgia verso un regno di bellezza che non veniva mai svelato, e che non ci poteva accogliere.

E' impossibile inventare un sorriso, dunque tutti credevano alla conturbante grazia interiore della signora Marisa, e vi si inchinavano con rispetto, e la benedicevano.

La sua vita era priva di eccessi e di novità, ma certo quel piccolo appartamento racchiudeva una quotidianità dolce e serena dove ogni gesto era fresco, solerte e silenzioso come un rituale. Un incrocio tra la signorina Felicita e una vestale della Natura. Un uccellino libero e solitario in un piccolo cielo fantastico.

Cosa desiderava per sé la signora Marisa? Lamentava mai gli sbagli, le preoccupazioni e le fatiche banali della quotidianità di chiunque? Quale necessità, o debolezza, la teneva legata al suo sposo? La sensazione era che lei fosse sempre e comunque altrove, e che a suo marito, a noi offrisse soltanto il grande sorriso senza incertezze, il suo enigma, la fede tenace in quel regno a noi inaccessibile, ma la cui esistenza ci confortava e rassicurava.

 

Sapere che è possibile rivendicare in modo radicale, sostanziale il possesso della propria esistenza, e viverla giorno per giorno per trasformarla, plasmarla, ricrearla a nostra immagine, inseguendo un sogno o un desiderio, il proprio irripetibile destino personale, potere godere di una serenità algida e silenziosa. Abbandonare la propria goffa natura, le bruttezze, le stonature, le stanchezze, per diventare un corpo armonioso, intero, libero, sano. Coltivare nel proprio giardino incantato i fiori inventati da noi e non vederli mai calpestati, né appassiti, né derisi. Non avere bisogno delle unghie per difendere il proprio regno, o delle menzogne per dissimularlo.

Vivere con trepidazione e grazia, e vedere sorgere miracolosamente sul nostro viso, maturare, rafforzarsi quell'immenso succoso profondo sorriso, somigliante al suono delle onde, o ad un tuono nella tempesta, o al ticchettio della pioggia sulle foglie, il luminoso segno delle nostre ricchezze celate ed inespugnabili, di una vita altra che ci nutre di vera vita.

Se nessuno di noi era riuscito a coltivare nel giardino incantato le proprie energie e le proprie emozioni, se molti di noi non erano nemmeno riusciti a sottrarle alle inettitudini e alle impossibilità, la signora Marisa ce l'aveva fatta, e le eravamo grati poiché essa testimoniava in ogni momento che - sebbene a noi tutti fosse preclusa - la possibilità di umana redenzione, di un diverso senso del vivere esiste comunque, e questo è qualcosa, anzi è già tanto.

 

Questo fino a giovedì scorso. Perché giovedì scorso la signora Marisa si è suicidata.

Col gas.

Sul biglietto c'era soltanto scritto: "Basta così. Non ha alcun senso."

 

Con ostinazione ci si è rifiutati di crederlo, e così si è subito sparsa la voce che era stata stroncata da un infarto: spesso le persone non vogliono perdere la presa sulle proprie illusioni perché non trovano un'alternativa sopportabile . E seguono ora in lacrime la bara, angosciati, ma il marito non piange.

Ecco le nostre speranze una volta ancora frantumate da un dolore sordo e impreciso.

Molti di noi piangono la morte per infarto della signora Marisa, e con lei la fine del suo regno e del suo sorriso, e ciò è certamente duro ed ingiusto. Solo pochi di noi guardano in faccia e piangono il suo suicidio. Solo pochi di noi hanno la forza di accettare, o perlomeno sforzarsi di farlo, che la signora Marisa non sia mai esistita, mentre è esistito soltanto il nostro bisogno disperato di crederlo.

E ancora meno fra noi, che possiamo ormai soltanto sopravviverle, continuano a scrutare il ricordo di quel sorriso senza inganni, domandandosi senza inganni da dove provenisse, se non era suo, e come potesse regalarcelo e nutrirci con esso se non lo possedeva, se non riusciva a nutrire con esso nemmeno la sua misera esistenza.

 


Id: 3063 Data: 22/01/2016 14:31:18