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Una storia arrogante
Questa è una storia arrogante. Lo è per svariati motivi, primo fra tutti il modo in cui essa si autodefinisce tale nel titolo e, vieppiù, nelle prime righe, come in preda ad un autocompiacimento onanistico. Il linguaggio forbito con cui si presenta al lettore, mediante l’uso borioso di termini desueti, esprime poi una tracotanza d’intenti che questi potrà probabilmente recepire come uno sfregio, un orpello stilistico che necessita una buona giustificazione per non causare nella di lui mente una sensazione di rifiuto, il desiderio sdegnato d’interromper la lettura. L’autore, mentre intento alla poco gratificante occupazione lavorativa giornaliera sentiva accendersi la flebile fammella dell’ispirazione, non pensava inizialmente di servirsi di simili vezzi linguistici nell’atto di vergare le parole sulla pagina, né tantomeno di ergere sé stesso quale deus ex machina all’interno della storia che ivi sta narrando. In terza persona poi, quale ennesima dimostrazione di sproporzionata ambizione! V’era da parlare, inizialmente, di quattro mura e dei di queste proprietari. Ma la storia, insoddisfatta di tanta noncuranza, pretende che si scavi a fondo nei concetti. Quattro mura? Perché, se in realtà son tre? Non s’ha infatti da contare il muro che volge ad est, a tutti gli effetti parte della residenza del vicino. Il giallo ocra che le riveste deve essere altresì evidenziato, ponendo l’accento sulla particolarità di una simile scelta cromatica in contrasto con l’imperante distesa di toni, fra il lattiginoso bianco ed il freddo e quieto turchese, delle dimore vicine. Vi è poi da dar dignità alle pareti interne, subito, senza procrastinare, giacché l’idea iniziale le vede inanimate protagoniste dei drammi ancora là da accadere. La muffa causata dall’umidità negli angoli, i segni che le sfregiano dovuti all’incuria nel maneggiar o trasportare oggetti, la sensazione di claustrofobia che evocano quelle strette e ravvicinate del minuscolo bagno...e là, guardando nel dettaglio, quella piccola e quasi invisibile rientranza lungo la parete del corridoio, che se solo avesse parole da esprimere racconterebbe di sfoghi improvvisi d’ira, di frustrazione sopita e pronta ad esploder nuovamente. E tutto questo limitandoci al tempo attuale, in cui la nostra storia si vuol collocare! Forse si vuol evitare di pensare a quanto un personaggio ben riuscito (e le nostre mura e pareti tale figura ambiscono a rappresentare) debba la propria imperitura fama tanto alle proprie azioni quanto a quel bagaglio di emozioni, ricordi e vicissitudini che lo hanno formato e che, ora, lo giustificano quale elemento credibile della vicenda? Ecco doveroso quindi dilungarsi sui materiali di costruzione, sulla loro provenienza, sulla foggia grezza ed al contempo imperiosa che essi ostentavano mentre venivano estratti dalle profondità terrene, pronti a mostrarsi orgogliosi alla luce del sole o della luna, su tutti quei procedimenti laboriosi che gli hanno permesso alfine di arrivare qui, oggi, a svolgere il loro necessario ed ineludibile ruolo. Perso in simili dissertazioni interiori l’autore ha un moto di stupore, rendendosi improvvisamente conto di non aver dato ancora alcuna spiegazione del motivo per il quale tali mura e pareti debbano essere così importanti. Si ritrova a dubitare di tale dotta parentesi, dell’effettiva utilità che un simile profluvio di parole possa avere nell’atto di veicolare i concetti che gli preme far risaltare. Eppure la vergogna di aver pensato ad un termine iniziale erroneo, quelle quattro mura che invece son tre, lo spinge a doversi giustificare di fronte alla storia che vuol narrare: forse che, ripiegando su di un generico edificio, si possa evitare di sottostare a tali e tante premesse, rimandando e diluendo il momento in cui il luogo acquisirà il beneficio dei dettagli accessori? La storia, subdola, acconsente al cambio di terminologia ed alla proroga delle comunque necessarie delucidazioni in merito al luogo che – sia ben chiaro nella mente dell’autore – non è solo preposto all’azione, ma è di questa anche l’indissolubile complice! Un sospiro di sollievo esce dalle labbra dell’autore mentre si appresta a poggiare la penna sul foglio, con l’intenzione di parlar finalmente dei proprietari dell’immobile. Ma ecco che, dalla prima stilla di inchiostro che si poggia sulla pagina, un nuovo fervore si impadronisce della storia, esigente un ulteriore tributo alla leziosità di informazioni che solo un profano oserebbe definire superflue. Come poter infatti soggiacere al concetto di proprietà senza aver neppure tentato di dare una definizione ontologica del termine? Cosa infatti dà modo ai protagonisti, ancora una generica coppia formata da un lui ed una lei, di rivendicare il proprio possesso? I soldi? Ah! Come se un comune mezzo, tanto squallido oltretutto, potesse e dovesse essere posto a metro di paragone della natura umana, solo perché la società odierna ne è schiava: individui senza un grammo dell’energia primigenia che infuocava l’uomo agli albori della sua comparsa terrena che schiavizzano i veri eredi di quell’ardore primitivo, ingabbiati come animali dietro sottili ed invisibili sbarre di parole e numeri, che rifiutano in nome di una ideale rivincita della passione istintiva sulla logica. Anche ammettendo la possibilità che essi abbiano costruito la casa da sé non bisognerebbe analizzare comunque cosa, in nome degli dei, avrebbe dato loro diritto di utilizzo sui materiali primari, piuttosto che sulla terra ove essa sorge? Un documento del catasto non è che carta straccia di fronte alla predestinazione al possesso, al modo in cui un uomo può ergersi, in tutta la sua grandezza, nell’atto di rivendicare qualcosa. La terra gli appartiene di diritto? Giammai! Ma lo sforzo che egli protende nel legittimare i suoi averi, nel dar luogo ad una conquista che i posteri potranno narrare con orgoglio...questo, e molto altro, dovrebbe servire per poter cominciare a chiamare i protagonisti “proprietari”. E possiamo forse tralasciare l’importanza del loro desiderio, dell’orgoglio che scaturisce dall’essere finalmente giunti al punto in cui le loro pretese di possesso sono esaudite? Si abbozza l’idea che i nostri soggetti lavorino entrambi, abbiano interessi disparati al di fuori delle pareti del focolare domestico, e che ivi spesso giacciano con meno consapevolezza di ciò che li circonda di quanto non faccia il gatto di casa, un bastardo rosso e ben pasciuto, re solitario per svariate ore al giorno e per questo forse ben più meritevole del rispetto che si deve ad un padrone di casa. Mentre lei di notte dorme, rigida in una posizione supina che la fa somigliare ad una defunta, non continua a ticchettare imperterrito in cucina l’orologio a cucù, quello che lui ha voluto a tutti i costi appendere vicino alla porta, fra un termometro malfunzionante ed un tavolino su cui sonnecchia il forno a microonde? Ad un esterno, una creatura di un altro mondo od universo, chi sembrerà più inanimato? Come può una simildonna, indegna di un intrico di ingranaggi e lancette, accampar pretese di possesso? L’autore si ferma, confuso. Non doveva spiegare meglio ciò che per lui conta, l’intreccio, il dipanarsi di una trama? Forse evitando quel termine tanto inviso alla storia, regredendo i protagonisti da quel ruolo tanto altezzoso a quello di semplici abitanti, si potrebbe ottener di soprassedere a tutti questi complicati ed obiettivamente sprezzanti discorsi, tanto più che, con un moto di comprensibile vergogna, ammette con sé stesso (ma cerca di tenerlo nascosto alla storia) di aver pensato alla coppia come due semplici affittuari. Abitanti, generico, limpido, asettico. Dopotutto si deve parlar d’altro, no? Ma certo caro, lo blandisce sbarazzina la storia, abitanti è un’ottima soluzione. Guarda però, rincara, guarda quanto hai già scritto. Val la pena di gettar via tutto, rigettar queste parole fluite con tanta naturalezza per assemblare altri concetti in un artificio che ne sminuisca il valore? Assuefarsi all’ordine logico di un’idea piuttosto che al fuoco dell’ispirazione del momento, l’improvvisazione, l’urgenza creativa? Suvvia, non essere sciocco! Ma l’autore lo è sciocco, e solo ora si rende conto del suo ruolo infimo di pedina nelle mani di un abile giocatore. Che stolto son stato io, manovrato da una storia di cui avrei dovuto esser guida e padrone! Dopo un’ora di elucubrazioni non c’è verso di costringersi a buttar via tutto, non resta che prostrarsi al volere di una storia che da premessa si è fatta testo, e del contesto si è impadronita con un imperioso colpo da maestro. E l’idea, il fuoco originario, che fine farà? Privata del giallo ocra, del muro confinante, del gatto, del cucù e della posa notturna immobile di lei, come potrà viver di vita propria privata degli elementi che le appartenevano di diritto? La storia è gelosa ed infida, non permetterà che glieli si strappi: per l’idea, acquattata in attesa nei recessi della memoria da lungo tempo, si prospetta forse l’oblio proprio ora che era stata liberata dalle nebbie della mancanza d’ispirazione? E’ questo ciò che quella storia truffaldina otterrà, con la sua conquista della ribalta? Eccola, la sua arroganza solenne, quella d’impadronirsi dello spazio preposto ad altri. L’autore sa che ormai non può privarla della luce che ha conquistato, che gli deve quel posto, anche al prezzo di dover perder nuovamente di vista ciò che veramente gli premeva raccontare. La bolleranno, gli anemici critici, come esercizio di stile fine a sé stesso, la sminuiranno definendola quel tipo di storia che titilla di onanistica delizia più la mente di chi scrive che quella di chi legge. Anche se qui, in realtà, chi legge quasi non v’è, perché l’autore non pubblica: scrive per sé e per quei due o tre che, a tempi alterni, hanno piacere o si sentono in dovere di esprimere un parere sul di lui operato. Valeva quindi la pena, per una storia che si basta da sé, di arrogarsi il diritto d’esser scritta? Essa risponderà prontamente, altezzosa, con subitanea certezza: sì, perché ora esisto. E che siano due o due milioni coloro che mi incontreranno lungo il cammino poco importa, che siano anzi anche zero! Potrò permettermi anche di non piacere, perché sarà l’autore a far da scudo alla mia tracotanza con l’evidente incapacità di cui l’accuserò a più riprese, uomo meschino che non è riuscito a ricavare ambrosia per gli occhi e le orecchie dal mio enorme potenziale. E, se dovessi invece piacere, non mancherò di ricordargli quanto mi deve, di far presente in maniera incessante alla sua patetica figura che una storia come me avrebbe reso grande chiunque.
Id: 4153 Data: 18/05/2018 19:00:57
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Il Re cremato
Nessun uomo è un’isola, ma io sono il mare. Immenso, delirante e quieto, il vuoto ultimo e la pienezza del tutto. Quando mi sono perso, qui? Mi sono smarrito? Non ricordo, la mente vaga e non c’è voce amica che abbia più cercato di riportarmi alla terra da tanto, troppo tempo. Per restar fermo dovrei ancorarmi talmente in basso, nelle stigee profondità abissali, che non mi basta l’ossigeno nei polmoni per respirare il coraggio necessario. Chiederei le branchie ai pesci ma loro, muti, mi insegnano la rassegnazione, la legge del branco che segue la corrente, l’ineluttabile destino a cui mi porta l’immane piovra degli abissi: brancicandomi, stringendomi, contorcendo la mia volontà al punto che ne temo il tocco. Ella sa dove andrò, al contrario di me. Io ignoro i momenti futuri, e lascio quelli passati perché ella possa pasteggiare con ciò che ero per vomitare ciò che sarò, un atto tanto iniquo che non m’è di consolazione viver nella pienezza dell’adesso. Ma la piovra sa, riconosce questo mio tremore al cospetto della sua natura: mi blandisce allora con illusioni, portando a me altri che hanno smarrito la via, che non sono più, affinché possa anche io nutrirmi e renderla più gonfia, molliccia, vasta nel suo tentacolare aggrapparsi ad ogni cosa conosciuta. Ella si concretizza nel suo essere e non nell’apparire, astratta e concreta si fonde con la spuma delle onde di quell’acqua che è come liquido amniotico, in cui sono nato e ritorno, cullato e respinto da racconti intellegibili che mi arrivano come sensazioni, estrema sinestesi che confonde tutto per renderlo chiaro. E’ questo caleidoscopio di sensazioni terribili e beatifiche la mia nuova casa, che dimora non è. Una zattera nera, pezzi di legno anneriti legati insieme solo da una volontà che sfida il vento e le maree, ecco il mio pasto di oggi. La cenere vortica attorno ad essa, rimembrando l’incenso di antichi riti ed attimi puri, momenti in cui seguire volontariamente sembrava un sentiero meno torbido delle acque da cui mi lascio ora trasportare: momenti in cui avere un sé era un lusso che potevo concedermi pienamente, mentre ora che bramo un trasporto meno ansioso non riesco a disciogliermi nelle acque senza che queste si infettino. Respiro, alla ricerca di purezza, quel pulviscolo che rotea attorno alla zattera, ma non vi trovo che un’immagine di Dio, terrea più che terrena, esangue per lo sforzo d’apparire enorme come una volta era, gonfia di mille cuori e cervelli che si rivelano illusori quanto la sua esistenza attuale: ora, al culmine e termine del proprio viaggio, deve ammettere che tutto quel liquido scarlatto si è disperso per alimentare non arti ed organi, ma solo un misero ego. E odo, tanto con le orecchie che con l’epidermide, attraverso il canto delle onde come tramite l’odore della salsedine, avvicinandomi ad un fuoco che ruggisce attraverso la rappresentazione della sua furia carbonizzante, la storia di un Re. I tentacoli della piovra sanno arrivare sulla terraferma, attraversano pozzanghere e liquidi organici, torcono dall’interno ogni ridicolo automa sperso in orizzonti dai colori sempre cangianti. Ella fa sì che qualcuno sia terrore ed altri succubi della sua malia, non lascia spazio che a poche menti sfuggenti di intravedere l’illusione di ruoli roteanti quanto l’acqua in un tifone, mentre vittime e carnefici agiscono senza capire se il regnante goda o soffra del suo potere e della sua responsabilità. I tentacoli fanno sì che un piccolo virgulto venga guidato più dal dovere che dall’amore, che si avvinghi per crescere a rami tanto storti e nodosi, intrecciati malignamente in foggia di trappola, che corrompa la sua natura torcendosi in una tagliola d’emozioni rinnovante il dolore a piè sospinto: sfiancato, non gli rimane che quell’acqua stagnante e mefitica, in cui la piovra immonda si palesa, per trovare nutrimento. Ma è un liquido velenoso quello, dal quale ricava forza solo annegandovi i cuori di cui finge di curarsi, incapace d’esser cerusico con mani tremolanti ormai distorte in orribili artigli retrattili: armi improprie dotate di volontà propria, cosicché l’anima si quieti nell’ignoranza della sua corporalità. Alle porte del giovane, ormai infetto, si affollano infermi dello spirito, pazienti in attesa di una panacea tanto irreale da necessitare un abbandono completo di sé per potervi confidare. Essi vivono negli abissi di una volontà meschina, illusi che la soluzione sia in mano ad anime terrorizzate quanto le loro ma, in maniera simile ed opposta, troppo pressate dagli strati d’acqua del proprio destino per potersi scrollare e tornare a galla, per sfuggire ai tentacoli ed alle loro promesse. Giustizia, onori, responsabilità, ricchezza, lealtà, guerra, le lusinghe si confondono coi patemi dell’animo mentre il giovane Re cresce e disseziona la marea umana alla ricerca dell’amore che ancora brama, di ciò che gli è stato negato in nome di un obiettivo scintillante. Egli nutre il suo branco blandendolo e scagliando l’arpione altrove, laddove vede balene, squali e piranha farsi incontro, minacciando un regno che egli non vede essere una ben misera palude. Ai suoi occhi, come nelle fiabe, si stagliano i castelli dorati dove immagina le genti acclamarlo signore, protettore, Dio persino, e perso in queste fantasie non s’avvede degli angoli bui dove qualcuno mormora, congiura affinché si ripeta la storia secondo capricciose trame tentacolari: ‘Ricordati, Cesare, che anche tu sei mortale.’ E’ quando il sogno si spezza che al Re si mostrano gli arpioni scagliati per quello che sono, brani di carne squassata che cozzano laddove il suono non dovrebbe disturbare le orecchie, sacrifici ben poco dionisiaci innalzati per un ideale che non li vale. Ma il ribollire del sangue ai confini del regno non lo getta nella realtà, lo confonde vieppiù, e roteando gli occhi attorno a sé vede che le balene, gli squali ed i piranha sono ovunque, non capisce l’errore di aver scambiato i propri figli per armi, l’istinto di protezione con la frenesia di una carneficina che sa di primordiale. Ora il Re si scaglia ovunque, cieco, con corde tese per appendere a marcire coloro che ritiene ormai avariati, solo perché non ha usato ghiaccio per conservare ma per farsi freddo, arido e spoglio dentro. Ormai si spezza lentamente l’immagine cristallizzata della creatura con mille cuori e mille cervelli che voleva essere, che doveva essere, e mentre si frange il suo spirito egli cerca dentro di sé almeno i propri organi, mostrandoli palpitanti e viscidi ed immondi, per impietosire le folla che lo assedia al di fuori delle fredde mura della sua fortezza: ma quelli, in un oasi di lucidità, vedono solo uno squamoso ed orrido tritone, non il tridente nella mano ma la forca. Ed arrivano, infine, come quegli infidi tentacoli che hanno ordito tutto, le mani scivolose, le voci litanianti infamanti accuse, la giustizia del branco che elegge una nuova guida. Destinano all’oblio quella vecchia, affinché si perdano negli abissi del tempo gli errori e gli orrori invece di farne tesoro, nascosti in una grotta sotterranea dove possono esser solo rimirati come ninnoli preziosi, per quanto stillanti sangue, in quanto stillanti sangue! Ma è una marea di desolazione e dimenticanza questa ennesima ribellione, pregna solo della volontà di purificare col fuoco quel virgulto ormai avvizzito in ironica e scempia parodia di pianta, affidandolo alle correnti vincolato da funi e dal proprio destino, stretto ad un palo che, questo sì ritto e torreggiante, arde finché non si consuma e lo consuma. Ed ecco ciò che ha resistito, folle reminescenza che non vuole essere dimenticata prima dell’ultimo atto, che mi si pone di fronte non per un giudizio ma solo perché io possa, afferrandola e divorandola, nutrire a mia volta l’immonda piovra. “Costretto a vagare per mare, come essenza di una mancanza. Sei niente, sei un ricordo, sei l’ultima memoria di te stesso al mondo. E ti racconti alle onde.” Così parlo, in una lingua inesistente, composta di suoni primordiali intessuti in un etereo vocabolario intriso di pace. Quindi mi getto su di esso, bramoso, e lo assorbo spandendolo nell’aria: lo invidio, mentre mi nutro, giacché non è più schiavo ma abitante di un mondo ove nulla è tutto.
Id: 4152 Data: 18/05/2018 18:50:45
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Tutte le volte che è andata male
Sta di fronte alla finestra, intento in una conversazione al cellulare. Guarda fuori ma senza attenzione, ogni tanto fa rapidi cenni di assenso seguiti da mugolii indistinti. Lancia una sola occhiata all’interno, aprendosi in un sorriso quando vede lei che lo osserva. “Farò un altro tentativo” dice al suo interlocutore prima di interrompere la chiamata, raggiungendo il centro della stanza. Stanno uno di fronte all’altra ora, avvolti dalla luce del sole che tramonta. Lui è in ginocchio, gli occhi che ne cercano lo sguardo. Lei, diafana nel suo morbido caschetto di capelli biondi, è seduta su una sedia, le mani appoggiate in grembo, la testa reclinata verso il basso. La sua bocca è una striscia orizzontale che solca la parte inferiore del viso, inespressiva. “Ricordi il weekend che ti ho convinto a passare insieme, vero?” dice lui sorridendo. “Sì”. Quello di lei è un mormorio indistinto, ma per un attimo gli occhi sembrano voler incontrare i suoi. E’ solo un guizzo, presto tornano a concentrarsi sulle ginocchia. “Ci siamo incontrati alla stazione, confondendo i binari. Ne abbiamo riso per qualche minuto di quel non riuscire a trovarci in un luogo così semplice, tu sembravi imbarazzata ma ti sei sciolta in fretta”. “Non sapevo come comportarmi. Non ero sicura che noi…”. Si ferma, lasciando sospesa la frase. “Abbiamo girato un po’ per il centro, ricordi? La piazza della città ti piaceva così tanto, c’eri già stata ma per te era sempre come vederla la prima volta. La torre del castello, la giostra antiquata nel centro, ti ho chiesto se volevi salire sul cavalluccio bianco e ti sei messa a ridere”. L’ombra di un sorriso si delinea sul suo viso. “Il cavallo di un principe”, commenta guardandolo per la prima volta. “Ti ho baciata la prima volta sugli scalini del teatro, dopo che la folla si era dispersa. Siamo andati a vedere l’Enrico IV, sapevo che Pirandello ti piaceva molto. Avevamo prenotato all’ultimo, i posti erano scomodi e si vedeva male ma noi eravamo contenti comunque. E’ stata quella tua allegria, alla fine della rappresentazione, che mi ha convinto a baciarti”. “E’ stato bello. E’ stato romantico”. Lui le prende le mani. Rabbrividisce visibilmente nel farlo, nel portarsele alle labbra sembra quasi nascondere un’espressione di dolore: quando rialza il volto il sorriso è tornato, ineffabile. “Poi” continua “siamo tornati in centro. C’era una manifestazione del movimento studentesco, le strade vicino all’università erano piene di gente. Suonavano in mezzo ad una via, ma noi volevamo un posto tranquillo dove parlare. Ricordi il pub dove ci siamo infilati? Speravamo di trovare un tavolo, ma siamo finiti a bere birra in piedi all’aperto”. “Ricordo” dice lei, ma con gli occhi svicola. “La birra non mi era piaciuta”. “Lo so. Hai dovuto prendere una media, anche se non la volevi. Lì la piccola non c’era, perché…”. Le gira il viso con una mano, delicatamente. “Perché la piccola…” “Sì?” Lei sorride, ora apertamente. “La piccola è immorale”. “La piccola è immorale” ripete lui. Il suo sorriso si incrina un poco solo quando lei abbassa gli occhi, improvvisamente pensierosa. “E’ stata una bella serata. Una bella notte. Ma al mattino…” Lui la incalza, non le lascia tempo per riflettere. “Al mattino ci siamo svegliati coi treni. Io sono scivolato con la lingua fra le tue labbra, poi sono sceso ad incontrare le altre labbra. Mentre mi stringevi la testa fra le cosce ho pensato che sarei morto volentieri così, poi ho alzato la testa e ti ho guardato negli occhi. E ho pensato che sarei potuto morire anche così”. Le mani di lei si stringono un po’ attorno alle sue. “E’ stato un bel risveglio”. “Poi abbiamo fatto colazione, velocemente. Non potevamo rimanere molto in città, e tu volevi fare un po’ di shopping. Conoscevi un posto dove vendevano occhiali da sole vintage, ne volevi un paio che ti incorniciassero il volto come fossi una diva”. Ride. “Ne avrò provato venti tipi diversi. Pensavo che ti saresti arrabbiato a furia di aspettare”. Lui scuote la testa. “Mi affascinava vedere come eri bella ogni volta in modo diverso”. "Ma ho comprato quelli che ti piacevano meno”. “Piacevano a te. E il tuo sorriso era ancora più radioso mentre ti sentivi speciale e a tuo agio”. Lo guarda teneramente, con una mano gli sfiora il viso. Sembra quasi svegliarsi da un sogno mentre parla con voce più decisa. “Poi siamo andati a mangiare. In un ristorante thailandese, me lo ricordo. Ma era così strano”. “La musica di David Bowie in sottofondo, l’arredamento come fosse lo scompartimento di un treno. Appena sei entrata hai detto…” “’Sembra di essere in un film di Wes Anderson’, ecco cosa ho detto. Sembrava tutto così surreale”. “Sono stati due giorni perfetti. Eravamo perfetti. E” le accarezza le labbra con un dito “lo siamo ancora”. La bacia, sfiorando appena le labbra, protendendosi in avanti da quella scomoda posizione raccolta. Lei chiude gli occhi, ma quando si staccano abbassa di nuovo la testa. “Ricordo anche il parco” dice senza emozione, la bocca tornata una linea retta. Lui si irrigidisce, le mani strette a pugno, la mascella contratta. Cerca di sorridere lo stesso, ma non gli riesce di farlo anche con gli occhi. “Ci ero stato anni prima. Era un posto piccolo, particolare, anche un po’ fatiscente. Pensavo che lo avresti apprezzato, non so perché ne ero convinto. Il cancello era chiuso, stavano facendo lavori di restauro. Ma” dice cercando di farsi vedere da lei, “questo non è riuscito a rovinarci la giornata, perché poi” Stavolta è lei a non lasciargli tempo. “Ti sbagli” dice meccanicamente, “è lì che ho capito che non era la cosa giusta da fare. Che non avevamo futuro”. “Non puoi dire sul serio” dice alzandosi, “non puoi focalizzarti su un solo particolare stonato in un quadro bellissimo”. La sua voce è più dura di quanto vorrebbe, come la sua bocca. “Era un segnale. Come puoi ignorare i segnali?” “Non lo era anche quel bacio sulla scalinata? Il fischio dei treni che ci ha svegliati, facendoci guardare negli occhi all’unisono? Come ti sei sentita in quel momento, riesci a ricordarlo?” “Io…”. Scuote la testa, piegandosi verso il petto. “Non ricordo più. So solo che il cancello era chiuso”. “Amore…” Lo guarda, ma è come se fissasse qualcosa oltre la sua figura. “Era chiuso. Capisci?” Lui si allontana di qualche passo, gli occhi serrati, una smorfia di dolore che aleggia sulla faccia. “Ne ho abbastanza” dice, “è un tormento andare avanti così”. Tira fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloni, compone in fretta un numero, poi le dà le spalle. Lei continua a fissare davanti a sé, la bocca lievemente aperta, come se avesse una parola sulla punta della lingua ma non sapesse se pronunciarla o meno. “Resti in attesa” si sente per un attimo cicaleggiare dall’altoparlante, poi qualcuno risponde. La sua voce diventa in un istante un torrente di parole nervose. “La chiamo per il modello 113. Sì, voglio inoltrare un reclamo. Riguarda l’immagazzinamento della memoria, si è focalizzata sul ricordo sbagliato. Come? Sì, l’immagazzinamento è manuale ma”. Attende un attimo, guardando nervosamente dietro a sé. “Cosa vuol dire ‘non abbiamo un database in sede’? Potrete controllare in qualche maniera no? Io ho scelto un altro ricordo, non quello, e ho schiacciato il tasto ore prima! Non so cosa non ha funzionato, ma dovete trovare un rimedio. E’ colpa vostra, io ho fatto tutto secondo le istruzioni”. Attende ancora, una mano sulla fronte. Il tono di voce dall’altra parte è basso, profondo, si sente solo qualche parola. ‘Intervento manuale’. ‘Backup di memoria’. Ha appena detto ‘sostituzione gratuita’ quando lui insorge, urlando. “Sostituzione? Non sa quanto ho pagato per questo prototipo, e mi avevate assicurato che funzionava alla perfezione! Voi…no! Non mi importa niente del fatto che sia normale per un prototipo avere problemi, mi avevate assicurato che non ce ne sarebbero stati! Non potete sostituirla, non capite? Non potete entrargli nella testa come se fosse…Dio!” Si copre gli occhi con una mano, singhiozzando. “Ma non capite? Non ne voglio una nuova, io voglio…” Abbassa il braccio, afflosciandosi con tutto il corpo. La voce profonda continua a parlare dall’altra parte, ma lui non ascolta più. “Lei era tutte” mormora. “Questa volta sembrava reale. Per una volta sembrava possibile”. “Il cancello era chiuso” ripete lei guardando nel vuoto, come persa in un sogno.
Id: 4011 Data: 13/02/2018 21:05:02
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Sequel
La medaglia al suo fianco non riusciva a smuovergli niente dentro, non più del bicchiere vuoto appoggiato lì di fianco. Mentre osservava dalla vetrata che aveva di fronte la folla che lo ignorava deliberatamente, contenta perlopiù che se ne stesse ad una distanza di sicurezza, l’uomo al bancone sollevò una mano per almeno la decima volta negli cinque minuti. Il barista continuò a fare quello che stava facendo, cioè niente, finché espirando rumorosamente non prese una bottiglia e si avvicinò. “Questo è il quarto” disse seccamente, “non te ne servirò un altro”. Vuotò in fretta una generosa quantità di rum nel bicchiere, senza guardarlo. “E se vomiti ancora nel vialetto sul retro pulisci tu. Non sono pagato per fare lo sguattero cazzo”. Lo guardò allontanarsi di qualche metro, solo per cominciare a digitare al cellulare. Aveva vent’anni in meno di lui, pure lo trattava con lo stesso rispetto che si usa con un ragazzino viziato. Me lo sono meritato, pensò, o il mondo è cambiato? Una volta i baristi ti parlavano, ti ascoltavano. C’era tutta un’altra atmosfera. Una volta beveva meno. Una volta non aveva bisogno di bere. Buttò giù un terzo del bicchiere, reprimendo l’istinto di ingoiare anche la rimanente quantità. Voleva aspettare che se ne fossero andati tutti prima di tornare verso il suo appartamento, e non voleva rimanere col bicchiere vuoto per il tempo che ci sarebbe voluto a lasciarlo solo. Continuò così ad osservare la scena alle sue spalle, quel rituale di strette di mano, abbracci e baci. Gli faceva l’impressione di uno strano balletto, come se fosse uno spettatore a teatro. Vista così la scena lo inquietava un po‘ di meno. Poi lo vide. Non si faceva largo fra la folla, era la massa conglobata di persone che si scostava automaticamente al suo passaggio. Guardandogli i capelli, folti e senza un’ombra di bianco, l’uomo al bancone non riuscì ad impedirsi di portare una mano alla testa. I loro sguardi si incrociarono per un solo istante, ma capì subito che tanto era bastato ad attrarre la sua attenzione. Quando si rimise ad osservare la vetrata lo vide salutare con un bacio la splendida bionda al suo fianco, una che dimostrava almeno dieci anni in meno di lui, per poi dirigersi verso il bancone col suo miglior sorriso. Lo stesso sorriso che aveva sul palco mentre li premiavano, solo mezz’ora prima. “Uuuuuhhhh” sbuffò, “è bello essere sposati ma le mogli possono essere così pesanti!” Guardò verso il barista, che ad un cenno si avvicinò velocemente. “Mi dica signore”. “Dammi qualcosa da bere. Scegli tu, basta che sia buono”. “Subito signore”. Si allontanò verso le bottiglie, ne scelse una pazientemente, poi scelse il bicchiere adatto e ritornò in tutta fretta. “Questo è il miglior rum che abbiamo signore” spiegò mentre già versava attentamente il liquido. “A me hai dato un bicchiere diverso” lo apostrofò il primo avventore. Il barista continuò a versare facendo finta di niente. Terminata l’operazione si alzò rigidamente e guardò fisso negli occhi l’uomo che aveva di fronte. “Si goda il suo drink signore. E’ stato un onore servirla”. Fece una specie di piccolo e goffo inchino, poi si allontanò a passi svelti. L’uomo sorrise ancora di più, poi portò il bicchiere alle labbra, annusò il contenuto e bevve un piccolo sorso. “Non è neanche il miglior rum che hanno” commentò il primo guardando di fronte a sé. “Questo” disse alzando il suo bicchiere, “questo è un davvero un buon rum. E’ un rum agricol, ha più personalità. Un sapore vero. Lo fanno in…” “Chi se ne frega!” lo interruppe l’altro, buttando giù tutto in un solo sorso. Fece una smorfia, poi sbottò in un ululato che fece girare i pochi ospiti rimasti. Lo guardarono con un sorriso paternalistico, poi tornarono alle loro chiacchiere. “Non sono qui per una lezione! Voglio solo sbronzarmi un po’ con un vecchio amico prima di andare di sopra, spogliarmi, mettermi a letto e farmi una scopata come si deve con la mia bellissima moglie”. Fece un altro cenno verso il barista, poi si mise di spalle al bancone, appoggiando i gomiti sullo stesso. Scrutò per qualche attimo la folla, in silenzio. “Guardali” disse infine, “mi adorano”. “Lo so”. Rimase ancora un attimo con lo sguardo fisso, il sorriso sempre stampato in volto. Si girò improvvisamente, battendo una mano sulla spalla dell’amico. “Ma adorano anche te. Siamo eroi cazzo, questa ce l’abbiamo tutti e due!” Tirò fuori dalla tasca della giacca una medaglia, in tutto e per tutto uguale a quella appoggiata al bancone, sfoggiandola orgoglioso. Si girò, guardando l’espressione esageratamente festosa che teneva l’altro più che la medaglia che teneva in mano. “Quella non vuol dire niente” sospirò voltandosi nuovamente verso la vetrata. “Sei solo tu la star qui dentro. Non c’è bisogno che cerchi di tirarmi su il morale”. L’altro smise di sorridere, guardandolo serio. Avvicinò lo sgabello, mettendogli il braccio attorno alle spalle mentre il barista gli riempiva il bicchiere. “E dai non fare così. E’ un giorno di festa oggi, godiamocela!” Bevve una lunga sorsata, poi fissò l’amico finché quello non si voltò ad incrociare i suoi occhi. “Allora, me lo vuoi dire che cosa hai fatto in tutti questi anni?”
Si erano conosciuti trent’anni prima. Gesù, trent’anni!. Tutte le volte che ci aveva pensato, in quei giorni, non aveva potuto reprimere un brivido. Erano stati cadetti della stessa accademia militare. Aeronautica, ai tempi della guerra nel sud. Erano i migliori, ma lui aveva qualcosa in più. Era un ottimo pilota, disciplinato, pure aveva l’istinto e la passione per il volo. L’altro, invece, era uno nato per l’aria ma non per l’obbedienza. Erano stati rivali fin dall’inizio, il cadetto modello contro l’astro ribelle. Quando lo spedirono in missione, quel fatidico giorno, l’altro era sul ponte della portaerei ad attendere in punizione. Non ci si poteva fidare di una testa calda in territorio di guerra. Mentre solcava i cieli sorrideva. Aveva già accumulato parecchia esperienza per uno così giovane. Lo avevano spedito in quella che doveva essere una missione di monitoraggio, nessuno aveva pensato ad un’imboscata. L’aereo di fianco al suo esplose senza che ne avesse avuto alcuna avvisaglia. Non si seppe mai, nonostante una lunga indagine militare, come avessero fatto a non accorgersi della postazione missilistica in quella posizione del quadrante. Lui non seppe mai spiegare come avesse fatto a non essere abbattuto, se non dicendo semplicemente: “ho agito d’istinto”. Un missile lo sfiorò, danneggiando il sistema di armamento. Era in trappola, e non poteva neanche reagire al fuoco. Furono minuti d’inferno, poi una fiammata a terra gli segnalò che era arrivata la cavalleria. L’astro ribelle era stato il primo ad infilarsi nel suo caccia quando diedero il segnale d’emergenza. Quasi non aspettò le procedure di decollo standard per gettarsi nei cieli. Arrivò con largo anticipo rispetto agli altri tre aerei mandati in soccorso, e quando questi arrivarono c’era ben poco lavoro da fare. Da solo aveva distrutto quasi tutte le bocche da fuoco nemiche, ed aveva danneggiato gravemente le altre. Come ci fosse riuscito non lo seppe spiegare nemmeno lui, l’unica frase che disse inizialmente fu, ignaro di parafrasare il commilitone: “ho agito d’istinto”. Al ritorno i due vennero accolti come eroi. Scesi dall’aereo si abbracciarono, commossi, consci che qualunque rivalità avessero avuto impallidiva di fronte al legame che si era appena creato fra le nuvole di quella regione sperduta. I giornali parlarono a lungo di loro, piansero il pilota dell’aereo caduto, poi cominciarono a chiedersi se quella guerra era giusta. Ma non vennero dimenticati, o quasi. La cerimonia a cui stavano partecipando era una commemorazione. Si erano riuniti per ricordare il pilota morto in azione, almeno ufficialmente, ma il momento cruciale era stato l’assegnazione delle medaglie al valore per i due eroi militari che quel giorno si erano distinti per il loro coraggio. Quello che aveva resistito al fuoco nemico, seppure in condizioni disperate; e quello che lo aveva salvato. Mentre salivano sul palco solo il secondo attrasse tutti gli sguardi. Dio, erano passati trent’anni da allora. Quanto possono essere lunghi trent’anni? Quante cose possono succedere in trent’anni.
“Che cosa ho fatto?” chiese laconicamente l’ex cadetto modello. “Sono rimasto qui, come sai. Per la maggior parte del tempo almeno. A differenza di te sono rimasto ad insegnare il mestiere alle nuove reclute”. “Non mi biasimare” rispose l’altro, mentre il sorriso già tornava ad aleggiare sulla sua faccia. “L’esercito aveva bisogno di un simbolo, di una faccia da sparare sui manifesti. Di uno bravo a volare quanto a parlare. E in questo” disse facendo l’occhiolino “sono sempre stato più bravo di te”. “Già eri davvero bravo a parlare, proprio bravo”. “Ma mi vuoi spiegare” disse allontanandosi un poco, rischiando quasi di cadere dallo sgabello, “che cosa cavolo ti è successo? Questo non è il vecchio te, cazzo te lo sei mangiato quello!” Gonfiò le guance, allargando le braccia goffamente come a contenere una grossa massa. “Sono stati anni difficili”. Buttò giù un altro piccolo sorso dal suo bicchiere, constatando tristemente che era finito. L’altro fece un cenno al barista, che li guardò entrambi per un lungo istante prima di fidarsi a versare. Riempì il bicchiere del primo non senza una smorfia. “Agli anni felici allora” disse l’altro alzando il bicchiere. Brindarono, bevvero un lungo sorso e rabbrividirono entrambi. “Quali anni felici?” chiese il primo. Quello che era rimasto. Quello che era così grasso da essere irriconoscibile per il sé stesso di trent’anni prima. Poi iniziò a raccontare.
All’inizio le cose erano andate bene. Certo, l’incidente lo aveva scosso, ma dopo un breve periodo a terra aveva ricominciato a volare. La guerra era nella sua fase finale, non ci furono più scontri nei cieli e, una volta congedato, gli venne offerto il ruolo di addestratore. Lo avevano offerto inizialmente all’altro, ma l’esercito aveva deciso di sfruttare l’ondata di popolarità di cui ancora godeva per utilizzarlo nelle campagne di reclutamento. Era il volto del paese, l’anima della nazione: il figlio che le mamme avrebbero voluto avere, l’uomo che le donne avrebbero voluto sposare, l’ideale che gli uomini ambivano ad imitare. Il cadetto modello, quello a cui un danno strutturale aveva impedito di mostrare tutto il suo valore, era già un elemento accessorio nella grande storia del suo eroico commilitone. Rimase per anni all’accademia, rispettato dai cadetti ma non amato. Se ne accorse in fretta che non riusciva a stringere un legame profondo con loro, ma conosceva il suo mestiere ed era bravo a trasmettere ciò che sapeva. Parecchi ottimi piloti uscirono dall’accademia forgiati dalle sue sapienti direttive, ma l’entusiasmo iniziale per quei traguardi si spense pian piano. Fu allora che conobbe una donna, se ne innamorò, e pensò che la vita poteva essere anche altro. Dopo neanche un anno abitavano insieme. Dopo due, lui lasciò l’esercito. Aprirono un bar in periferia, e per un po’ il cielo fu solo quello che fissava di notte prima di andare a letto con lei.
“E poi cos’è successo?” “Poi ho ricominciato a guardare il cielo anche di giorno” rispose il primo. “Ho cominciato ad essere più sarcastico coi clienti, e loro a volte rispondevano per le rime. Qualcuno non è più tornato, e lei mi chiedeva cos’era cambiato. Avevamo parlato di avere un figlio, eravamo così entusiasti…poi lei smise di parlarne. Mi guardava con due occhi diversi, distanti. Avevo già cominciato a bere, in quel periodo, e qualche volta mi hanno portato a casa un paio di amici”. Vuotò il bicchiere, ormai aveva perso il conto di quelli bevuti. Non sapeva neanche se l’altro lo stesse imitando o meno, e non gli interessava. Non gli interessava più neanche che fosse rum agricol o meno. “Si mise a fare lei il turno di chiusura” continuò, “perché non si fidava. Capitò che mi portarono a casa sbronzo a mezzogiorno”. Guardò il bicchiere vuoto. “Qualche mese dopo chiese il divorzio, ed io chiesi se avevano ancora bisogno di un istruttore qui. Non faccio più esattamente quello che facevo prima, ma ogni tanto riesco ancora a farmi un bel volo su un caccia militare. Dio” disse, prima di chiudere gli occhi ed alzare il volto al soffitto “che bella sensazione è ancora”. “Cristo che storia”, disse l’altro dopo un attimo di silenzio. “Non siamo proprio fatti per la vita civile noi, eh?” Gli mise nuovamente una mano sulla spalla, ma l’altro la scostò senza guardarlo. Il viso dell’ex astro nascente si rabbuiò per la prima volta nella serata, ma mentre stava per aprire bocca l’altro lo anticipò. “Sai cosa? Quello che mi manca è la libertà”. Parlava piano, ma non era ancora abbastanza sbronzo da non riuscire ad articolare correttamente, senza biascicare. “Quando sono lassù mi sento davvero libero, potrei andare dovunque…leggero. Riesco per un attimo a dimenticarmi di essere uno schiavo”. L’altro si guardò attorno, nervoso. Non si era immaginato questo, quando si era seduto al bancone. Nella sala non c’era più nessuno, persino il barista era andato da qualche parte, probabilmente a fumarsi una sigaretta. Toccò nella tasca dei pantaloni il proprio pacchetto, accarezzandolo quasi con tenerezza. “Anche quando eravamo cadetti” continuò l’altro, quasi parlasse con sé stesso “non eravamo mica liberi. Quanto ci piaceva volare, vero? Eppure l’aereo non era nostro, la rotta era stabilita da qualcun altro, Cristo!” urlò battendo un pugno sul bancone, facendo sobbalzare i bicchieri “neanche noi eravamo nostri! Proprietà dell’esercito, ecco cosa eravamo!” L’altro non sapeva cosa dire. A posteriori, se gli avessero chiesto perché rispose in quella maniera avrebbe detto probabilmente: “ho agito d’istinto”. Lasciò passare un lungo attimo di silenzio, poi gli fece una domanda, senza guardarlo. “Perché sei tornato allora?” chiese infine. “Perché? Bella domanda”. Portò ancora il bicchiere alle labbra, dimentico di averlo vuotato poco prima. “Perché sono tornato ad insegnare ad altri ad essere dei bravi schiavetti come me? Perché sono tornato a far finta di potermi illudere come una volta, quando volare è ormai un piacere che mi concedono per compassione invece che per merito? Perché mollare un lavoro onesto ed una donna innamorata per sostituirli con tanta noia e la bottiglia? Be’, non lo so. L’ho capito che sono uno schiavo, ma non riesco a ribellarmi. Forse non me la merito la libertà, o non so che farci”. Rimasero un attimo a guardare i rispettivi bicchieri, il silenzio rotto solo dal rumore della porta di sicurezza, richiusa dal barista. Poi il primo si voltò, guardando fisso l’ex commilitone. “Ma tu non te le sei mai fatte queste domande?” Tornò a guardare di fronte a sé, poi si coprì gli occhi con le mani scuotendo appena la testa. “Ah no” continuò, “dimenticavo che tu sei l’eroe, il faro della nostra nazione, e gli eroi queste domande non se le fanno. Magari vi viene la tentazione, poi vi guardate allo specchio, vi rimirate e via tutti i dilemmi morali!” Disse le ultime parole con un tono alto, come volesse farsi sentire da una grande folla. “Questo te lo invidio, sai?” riprese ad un tono più normale “Ma spero che tu non apra gli occhi su quanto ti hanno usato per i loro scopi. Io ci ho fatto il callo, a sapere di non essere nessuno, ma a te ti ammazzerebbe”. Stettero in silenzio per un tempo infinitamente lungo. Il barista, nel solito angolo, guardava lo smartphone con interesse, i due al bancone fissavano punti diversi della sala con occhi inquieti. Cristo, pensò il primo, perché gli ho detto tutto questo? Cosa potrà mai cambiare? Sono VERAMENTE così?!? No, non mi sento così disperato, la mia vita non è così vuota, pensò velocemente, ma non riusciva a trovare nella testa le parole per esprimerlo. Per riabilitarsi un po’ da quella spirale di autocommiserazione. Passarono cinque minuti, qualche goccia di sudore solcava le loro tempie mentre cercavano di trovare interessanti le bottiglie di fronte, le tende alle finestre, la televisione spenta, tutto pur di non guardarsi. Poi, quello che pensava di essere un eroe si congedò con poche parole di commiato. Si promisero vicendevolmente di vedersi un’altra sera, prima della partenza, con sorrisi tremolanti. Quando rimase solo, l’uomo al bancone pensò che perlomeno gli aveva rovinato la voglia di fare sesso per quella notte. Fece per chiamare il barista, ma quello era scomparso chissà dove.
Id: 3917 Data: 05/01/2018 16:15:17
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Riflessi
Quando mi chiedono il suo nome e il giorno in cui sarà mia sposa Io grido a tutti un nome di fantasma e una data in primavera Valentina Dorme, Un nome di fantasma
Sebbene io sappia di essere peggio di una bestia, non crede che abbia anch’io il diritto di vivere? Oh Dae-su, Old Boy
Flash. Una coppia di anziani balla, attorniata da persone di ogni età che battono le mani. Flash. La faccia di un bambino in primo piano, sorridente, le labbra sporche di panna montata. Guarda in basso, verso la fetta di torta che sta gustando. Flash. Un gruppo di ragazzi leva i calici colmi in alto, urlando. Uno solo di loro è seduto, le guance rosse, gli occhi semichiusi, ma alza comunque il suo calice, sorridendo. Il ragazzo con la macchina fotografica si aggira per il ricevimento, cogliendo qua e là scorci dell’entusiasmo degli invitati. E’ il suo regalo per il matrimonio di una coppia di amici, la decisione di donar loro un ricordo più intimo e meno formale di quello che, secondo consuetudine, viene etichettato come il giorno più bello della vita. Non è il suo lavoro, nella vita fa tutt’altro, ma la passione per la fotografia è cresciuta fino a sfociare quasi in una seconda professione. Altre persone lo hanno chiamato per questo o quel piacere, amici di amici, e per lui, abituato ad immortalare orizzonti sterminati in montagna, è sempre una buona occasione per cercare nei gesti e nelle espressioni delle persone quelle stesse sensazioni che i paesaggi incontaminati gli donano. Flash. Il nonno della sposa, col suo cipiglio severo, granitico ed arcaico come la nuda roccia di un picco scosceso ed invalicabile. Flash. Bambini che giocano con una palla, sorridenti, vitali come le fronde degli alberi scosse dal vento in primavera, quando il bosco rinasce a nuova vita. Solo una cosa non gli riesce d’immortalare: gli occhi di una ragazza che continua ad intravedere solo da lontano, occhi che gli ricordano la pace di un laghetto di montagna, il riflesso di acque limpide e pure in cui potersi specchiare. Lo ha colpito la sua naturalezza, quell’essere disordinata in maniera sbarazzina mentre attorno le acconciature delle altre ragazze sanno d’artificio sterile. Sembra impossibile, ma in quel microcosmo alticcio le loro traiettorie assomigliano a quelle di pianeti con orbite destinate a non incrociarsi. Non si cruccia però, perché sa che in qualche foto riuscirà a vederla. Ed una foto in dono è una buona scusa per conoscersi. Continua a fotografare, il flash che illumina la sala sempre più spesso man mano che il sole scompare all’orizzonte, il blip digitale, meno poetico del click meccanico delle macchine di una volta, che continua a far da sottofondo silenzioso alla festa.
Il bagno di casa, opportunamente preparato, diventa ogni tanto una camera oscura. Le foto migliori, quelle che vorresti sempre avere con te per rendere vividi i momenti indimenticabili, le ha fatte sviluppare da uno studio più competente, ma qui vengono alla luce gli scatti rubati, quelle che solo una stereotipata concezione perfezionistica considera foto ‘sbagliate’. In una di queste gli sposi ballano, mano nella mano, ma l’esposizione è mal calibrata ed è il sottofondo che rimane a fuoco, non senza una certa dose di poesia nel catturare le espressioni di chi si fa partecipe della gioia in primo piano. Il ragazzo la osserva da alcuni minuti. E’ l’unica foto dove è presente la ragazza dagli occhi così limpidi da sembrare specchi. Non riesce a capirne il colore, neanche dopo un ingrandimento, ma una cosa si nota sopra tutte le altre nel suo sguardo, rivolto dritto verso l’obiettivo. Terrore. Inesplicabile, puro terrore. Non riesce a spiegarselo. Cosa può aver fatto per provocare una simile reazione? Continua ad osservare, inquieto sulle prime, ma col passare dei minuti scende come una sorta di pace nel suo animo osservando quell’espressione inconsueta. Si propone di fare un ulteriore ingrandimento dell’immagine, chissà cosa potrà mai vedere in quegli occhi. Ma questa è una domanda che vuol rivolgere prima a lei.
Sono seduti al tavolo di un bar del centro, parlando di cose senza importanza. Ci è voluto un po’ a convincerla, ma sconfitte le ritrosie ed accomodati gli orari il ghiaccio si è sciolto in fretta. Ora può vedere che ha gli occhi verdi, nota che la sua pupilla si dilata spesso, e sa che è un segno d’interesse. Non conosce bene i codici della prossemica, né vuole conoscerli, perché teme che compreso il meccanismo sarebbe invogliato ad assecondarla, ad imparare a mentire. Non vuole capire il linguaggio del suo corpo, non completamente almeno, perché l’ignoranza è una forma di sincerità, la meraviglia la sua ricompensa; l’incomprensione il rischio, una possibile pena. Si sente legittimato, dopo una buona conversazione ed una birra, a chiederle conto di quella strana espressione. Le mostra la foto e lei cade dalle nuvole, non ricorda cosa le ha scatenato quella posa ma “Dio mio” esclama, “come sono uscita male!”. “Forse” continua, “il flash mi ha risvegliato un ricordo. Un incubo ricorrente. Non so cosa mi succeda, ma so che finisce col lampo di una macchina fotografica, ed a quel punto mi sveglio terrorizzata.” Si interrompe, sovrappensiero, lui le lascia il tempo di mettere ordine nei suoi pensieri. “Magari ho una fobia per le macchine fotografiche”, dice sorridendo. La sottile inquietudine di quella foto svanisce velocemente. Lui la guarda fisso negli occhi, e le dice che con quel sorriso in volto è molto più bella. “Non lascerò che nessuna macchina fotografica ti aggredisca in mia presenza”, aggiunge schernendola un po’, e le prende le mani fra le sue come ad avvalorare quell’ironico istinto di protezione. Trema mentre gliele stringe, e lui non capisce se è un brivido di timore od eccitazione; neppure lei capisce quella reazione istintiva, ma sente che qualcosa di ineluttabile è in corso e tanto basta a rassicurarla.
Lui guarda il soffitto, nel buio, senza riuscire a vederlo. Vorrebbe fumare una sigaretta, come fanno nei film dopo un amplesso, strano desiderio visto che non ne ha mai toccata una in vita sua. Scosta un poco la coperta per prendere aria, ma solo quel tanto che basta per non scoprire il corpo di lei, assopita, raggomitolata su sé stessa dall’altro lato del letto. La primavera è scoppiata all’improvviso, ma sepolta lì sotto le coltri sembra non essersene ancora accorta. Fino a poco fa, mentre si insinuava con la lingua fra le sue gambe, mentre baciava ogni centimetro del suo corpo, durante la penetrazione, si era sentito come se fosse quanto di più importante aveva al mondo; meglio, lei ERA il mondo, durante l’amplesso, e lui si beava di quell’unione a lungo attesa. Ora, separati, gli occhi non vogliono concedergli il riposo, e strani pensieri tornano ad affacciarsi alla sua stanca mente. La vede rabbrividire, chissà se quell’incubo ricorrente è tornato a trovarla. Il flash, la foto, ricorda l’ultimo ingrandimento lasciato nella camera oscura, i suoi occhi ingigantiti. Non ha ancora fatto in tempo ad osservarlo bene, ma sente che qualcosa di importante si cela in quegli specchi: senza far rumore si alza, insonne, e si inoltra nel mistero.
Lei si sveglia trattenendo un grido, sudata. Il flash, ancora lui, e prima…cosa? I dettagli svaniscono mentre si guarda attorno, spaesata all’inizio, poi più serena man mano che il ricordo di quella stanza si fa più chiaro. La inquieta però l’assenza di lui, non si sente sicura al buio da sola. Scende dal letto, rabbrividendo per il contatto dei piedi nudi col pavimento, quindi lo cerca fra le poche stanze dell’appartamento. Una debole luce rossastra filtra dal bagno adibito a camera oscura, una bizzarria che l’ha fatta ridere ma che improvvisamente la inquieta. Entra piano, sussurrando un “amore, che succede?”. Le piace chiamarlo amore dopo così poco tempo, con leggerezza, perché i sentimenti hanno bisogno di levità per non tramutarsi in ossessioni, per non farsi sofferenza. Lui si gira piano, con un’espressione indecifrabile, poi le indica la foto. I suoi occhi, ingranditi. E ciò che contengono. “E’ questo che sono per te, quindi?” Il suo tono è freddo, astioso. Continua ad indicare, e lei vede la sala per cerimonie, gli sposi che ballano, gli invitati tutto attorno. Una macchina fotografica, sospesa a mezz’aria, senza nessuno che la sostenga. Nessuno. “E’ così che mi vedi? Niente?”. Alza la voce, furente, non si fa più domande su quella mancanza di senso. “Cosa dovrei fare per farmi vedere da te? Cosa ci fai qui, in casa mia, se neanche mi consideri?” Le si avvicina, minaccioso, e lei non sa cosa rispondere. Vorrebbe dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma non riesce neanche a voltare gli occhi, incollati ai suoi. La faccia le si fa di pietra, prova sgomento ma non riesce ad esprimerlo: nella mente risuona il rumore di un flash, la sensazione di qualcosa di ineluttabile si fa strada ma stavolta non la rincuora, vorrebbe tremare ma non può. E’ solo una spettatrice all’interno del suo corpo, riconosce i segni di qualcosa che ha già vissuto ogni notte, da lungo tempo, ma è troppo tardi. Non incubi, premonizioni. “Perché non dici niente?” urla lui. “Cosa devo fare perché mi consideri? Devo ululare alla luna per disperazione? Prendere a pugni la parete fino a sanguinare? Cosa?”. Una voce al suo interno cerca di farlo tornare alla ragione, ma il sangue ad ondate copre ogni rumore nelle sue orecchie: quei sentimenti leggeri come il vento, che evocava lei poco prima, in lui non sono che raffiche di una terribile tempesta. Eccola la natura che cercava nelle persone, ma qui non vi è pace come nelle innevate vette. Lei sorride appena, schernendolo, ma è una smorfia involontaria che le fa orrore; lui è furente, e senza sapere il motivo di quella collera montante le getta le mani al collo. Mentre l’asfissia la rende incosciente, incapace di costringere il suo corpo a lottare, invece del buio le viene incontro una strana luce: la rasserena quella luminosità, e mentre scivola nell’oblio non sparge neanche una lacrima. Pochi attimi, ed è tutto finito. All’inizio pensa solo a quanto è stato compiere un atto così tremendo, poi si fissa le mani con orrore. Cade in ginocchio e la guarda, osserva quegli occhi come specchi, e nella flebile luce rossastra nemmeno ora vi si vede riflesso. “Non era lei”, sussurra tremando. Capisce di aver sbagliato ad accusare di considerarlo una nullità: è lui a considerarsi tale. Quegli occhi gli rimandano la sua immagine riflessa, ed invece di bearsi di un amore che forse neanche meritava lui vi ha intravisto inganno, disillusione, umiliazione. Mentre continua ad osservare quegli specchi ormai immoti si vede apparire, ma è una figura orrida, meschina, gonfia d’ira eppure contorta. La macchina fotografica è lì vicino, la prende come ipnotizzato. Immortala quel momento, perché rimanga traccia dell’orrido essere che è diventato, affinché non possa nascondersi in mezzo alla gente come un lupo fra gli agnelli. La guarda un ultima volta, attraverso l’obiettivo. Flash.
Si sveglia trattenendo un grido. Il flash, ancora lui, e prima…cosa? Fuori dalla finestra è giorno fatto, guardando la sveglia si accorge di non averla sentita. Le dieci, e lei aveva appuntamento dalla parrucchiera alle nove. Il matrimonio è a mezzogiorno, manca ormai poco. ‘Così imparo a fare sempre le cose all’ultimo’ pensa, maledicendosi a mezza voce mentre scosta le coperte per precipitarsi in bagno. Si fa la doccia pensando alla cerimonia imminente. Arriverà in ritardo, ed anche in disordine. Mentre si liscia i capelli allo specchio, conscia di ottenere un risultato ben misero rispetto alle acconciature che sfoggeranno le altre invitate, vorrebbe fare a cambio col suo riflesso per rimanere lì, immobile, al sicuro da ogni disagio possibile o pensabile.
Id: 3788 Data: 09/10/2017 19:04:55
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Vita e opere di Athur B. Dale, pittore di mondi
“Così io non scorgerò più il male che ho sofferto e fatto, nel buio ormai non vedrò quelli che bisognava non vedere, non riconoscerò più quelli che desideravo riconoscere, avrei dovuto lacerarmi anche le orecchie per chiudere meglio in me stesso il mio corpo infelice, e non vedere e non udire più niente.” Pier Paolo Pasolini, Edipo Re
“Devo convincermi che, quando chiudo gli occhi, il mondo continua ad esserci.” Christopher Nolan, Memento
Se scrivo queste note accanto a quello che, secondo le diagnosi mediche, sarà il letto di morte di Arthur B. Dale non è solamente per saldare un profondo debito di amicizia, né per farne l’ennesimo sterile elogio: l’importanza di un simile artista nel panorama mondiale è già stata ampiamente riconosciuta, ma nessuno si aspetta che la sua carriera eclettica possa riservare un’ultima sorpresa. Io sono qui per redigere una cronaca che, se completata, risulterà nient’altro che una sequela di supposizioni errate; altrimenti, sarà difficile sorprendersi per il completamento della sua ultima, inaspettata performance. Una disamina di ciò che lo ha portato fino a qui è necessaria perché il quadro (quanto è ironicamente appropriata questa parola!) sia chiaro. Lo ricordo quando si affacciò, poco più che un ventenne di belle speranze, nel mondo delle piccole mostre dedicate ai giovani di talento, solo un buon discepolo della scuola surrealista con un tratto spigoloso che rimandava a certi aspetti della pittura metafisica di De Chirico. Ottenne critiche tutto sommato buone, ma nessuno di questi dipinti giovanili aveva la forza visiva necessaria a farlo spiccare fra i tanti: il surrealismo non era più un movimento capace di attrarre gli sguardi del pubblico e della critica, rivolti sempre verso qualcosa di innovativo, così anch’egli cercò un’intuizione nuova ma sempre partendo dalla lezione dei maestri. Il simbolismo dei dipinti di Max Ernst fu lo stimolo necessario a fargli percorrere una nuova strada, più personale. La sua seconda fase, sicuramente la più fertile per numero di opere e la più apprezzata dalla critica conservatrice, fu un’esplosione di idee su tela che aveva dell’incredibile. Soprattutto nei primi lavori, più grezzi e visionari, la presenza di dettagli anche minuscoli sparsi in opere fitte di elementi era quasi destabilizzante. Tali elementi avevano ognuno un significato, ma esso veniva trovato a posteriori: non considerava un dipinto finito fintanto che non era riuscito a dare un senso compiuto a tutto ciò che si trovava al suo interno, una sorta di autoanalisi che andava a completare la fase iniziale, liberatoria, della libera associazione di idee. Produsse in questo modo una trentina di dipinti in soli cinque anni (senza contare i fantomatici “quadri folli”, opere senza uno scopo di cui solo si ipotizza l’esistenza ed ormai assurti a leggenda metropolitana), una velocità resa ancora più eccezionale dal fatto che, solitamente, era il tempo passato a dare un significato alle proprie invenzioni quello che lo occupava maggiormente e che, a parere degli esperti, fu la causa del suo progressivo mutamento artistico e caratteriale. Assolutamente da menzionare, anche solo per il significato profondo che hanno avuto negli sviluppi della sua carriera, è la serie di dipinti con cui concluse questo fecondo periodo, conosciuta come I Sette. Senza titolo se non la semplice numerazione progressiva con cui sono conosciuti, fu egli stesso a volerli collegare uno all’altro sostenendo che “i significati simbolici di questi quadri sono strettamente collegati da un filo che li percorre tutti: ogni dipinto successivo nella serie trova la sua giustificazione in ciò che il precedente mi ha rivelato”. Quale fosse questo filo in tanti hanno provato ad ipotizzarlo (un profano vi vide l’elogio dell’agricoltura, un filosofo la conferma, tacita in quanto intrinseca al discorso, delle posizioni estreme di Cratilo), ma Arthur si è sempre rifiutato di aggiungere altro, restio ad aprire il suo inconscio quasi che dovesse tenere segreto il particolare rapporto psicologico che aveva col suo lato inventivo. Senza dilungarsi oltre vanno assolutamente portate all’attenzione almeno tre opere di questa serie: Due, raffigurante il viso di un uomo calvo composto dalle figure contorte dei musicanti di Brema, nei cui occhi rosa si riflettono funghi atomici gemelli, il tutto sospeso in uno straniante biancore asettico; Cinque, raffigurante la vagina di una donna obesa da cui escono lingotti viola carpiti da lussuriose lingue volanti, provviste di ali d’arpia; Sei, la crocefissione ad una struttura formata da televisori spenti di una serie di figure geometriche intersecate, il tutto dipinto con diversi toni di grigio sfocianti nell’orizzonte attraversato da linee di disturbo simili ad interferenze (qualcuno ha ipotizzato un omaggio alle righe iniziali di Neuromante di William Gibson, nonostante non ci siano prove di simili citazionismi in altre opere). Una maggiore essenzialità, come si evince dalla descrizione offerta, era il tratto caratteristico della serie, una sorta di processo di sottrazione che esplode prepotentemente in Sette, vero catalizzatore degli sviluppi futuri dell’estetica di Arthur: raffigurante un occhio sospeso in un cielo azzurro solcato da rade nuvole, la cui pupilla triangolare contiene al suo interno uno specchio (unico tentativo, per quel che è dato sapere, dell’utilizzo di materiali non propriamente pittorici all’interno delle proprie opere), il dipinto è considerato l’opera più esplicita della sua carriera, un parere universalmente condiviso che trovava tuttavia nello stesso autore uno strenuo oppositore. “Non trovo le giuste domande da pormi per capire cosa volessi intendere con questo quadro”, scrisse all’amico Benjamin Fedque, autore di haiku per più di vent’anni sul Courier, “tutte le risposte che trovo sono solo banali riferimenti al divino. Mi rifiuto di credere di poter essere stato così mediocre nella mia ispirazione, non toccherò un pennello finché non riuscirò a dare un senso reale a questa opera incompiuta (Sette risulta, a tutti gli effetti, l’unica eccezione alla regola della presentazione ad introspezione ultimata, probabilmente dovuta al suo collegamento con le altre opere della serie, un trait d’union che Arthur sentiva in maniera forte al di là del senso sfuggente dell’opera stessa)”. Fu di parola: per due anni nessuno seppe più niente di lui. Nel periodo di massimo splendore, quasi come se la sua arte fosse fiorita per giungere al suo massimo fulgore naturalmente, senza forzature, si ritirò nella villetta di campagna di famiglia con come unica compagnia la natura ed una vasta libreria. Fu dopo infinite letture, una ricerca intensa ed inesorabile verso una meta nebulosa che, ne era convinto, sarebbe diventata chiara una volta raggiunta, che trovò alfine l’idea che modificò in maniera progressivamente drammatica la sua arte e, di coseguenza, la sua vita, giacchè le due sfere non potevano ormai essere più distinte. Leggendo Heidegger e travisandone le parole sul disvelamento della verità, nei termini in cui il cui il filosofo tedesco legava in un rapporto intrinseco l’uomo e la sua disposizione a lasciar manifestare l’essere senza forzare il velo che lo nasconde ai nostri occhi, Arthur si convinse che Sette fosse un’opera che trascendeva la sua psiche e lo specchio, nel suo riflettere tanto l’autore quanto gli spettatori dell’opera, un mezzo per rendere tutti partecipi in egual misura di quella verità dell’essere che, come pudica, si nega ad un’analisi approfondita. “Ma in me è entrata”, mi disse febbrile nel cuore della notte, durante una telefonata improvvisa in cui mi spiegava la sua sconcertante scoperta, “ed ora non posso fare altro che adempiere alla sua volontà: dipingerò senza dipingere”. Cosa intendesse con questa frase sibillina fu sotto gli occhi di tutti poco più di un anno dopo, quando fece il suo ritorno nelle gallerie d’arte che lo avevano elogiato pochi anni prima: un ritorno trionfale, per quanto inaspettato agli occhi dello stesso autore. Arthur si presentò alla mostra a lui dedicata con otto tele, tutte monocromatiche. Spennellate violente di colore ricoprivano ogni millimetro dei dipinti, un escamotage per nascondere alla vista ciò che in origine vi era raffigurato. Prodigo di particolari come mai prima di allora, Arthur spiegò di aver dipinto bendato quei quadri solo all’apparenza banali, lasciandosi andare in maniera ancor più sfrenata al solito gioco delle libere associazioni mentali per poi cancellare ogni traccia di quelle visioni sotto pennellate rabbiose, utilizzando un colore diverso per ogni tela. Di quelle oniriche invenzioni rimanevano solo titoli suggestivi ed enigmatici in egual misura: “Tramonti ottagonali nei paperi dimezzati”, “Lampada con corno su refrain di cornamuse inalberate”, “L’orizzonte e la madama suppliziante di vergogna”, e via di questo passo. La critica, esclusa quella più conservatrice, si rivelò entusiasta. Arthur passò dall’essere un originale surrealista allo stato di artista concettuale, le cui opere acquistavano valore in base al senso con cui erano state concepite più che per merito del loro impatto visivo. Ed egli, che si aspettava di non essere compreso, entrò nuovamente in crisi. Qui iniziano le supposizioni, dovute più che altro alla comunicazione scarna che intrattenne nell’ultimo periodo della sua carriera sia con gli amici che con i media. Cavalcando involontariamente la nuova nomea di artista concettuale, pedina ignara di un gioco più grande di lui e che del suo agitarsi invano si faceva beffe, decise che nascondere semplicemente le proprie visioni agli occhi altrui non era abbastanza: esse andavano distrutte subito dopo il concepimento, quasi che la possibilità che parte del significato potesse emergere da esse sottintendesse un pericolo mortale. Le bruciò, le polverizzò con la dinamite, le dilaniò con l’acido, e per ognuna di queste brutalizzazioni delle proprie opere si radunò una folla sempre più numerosa, colma di critici entusiasti intenti a lodare le performance con sterili discorsi sull’arte che rifiuta sé stessa. “Sono disperato” mi scrisse un giorno dopo mesi di chiamate senza risposta, “per bene che vada tutto questo clamore indica che non sono stato minimamente capito. Ma se lo sono stato, allora c’è qualcosa che ancora mi sfugge...e sono terrorizzato all’idea di scoprire cosa sia”. Non rispose alle mie successive richieste di spiegazioni, quasi che quella terribile premonizione si fosse avverata un istante dopo l’attimo in cui mi ebbe confessato i suoi timori: era ormai perso nell’estensione parossistica del suo dogma privato, quello secondo cui l’afferrare anche solo parzialmente la verità sottintesa dalle proprie opere costituisse una minaccia per l’intera realtà. Congetture le mie, lo riconosco, visto che non ho ancora prove concrete da portare al riguardo: certo fu d’altronde l’acuirsi di comportamenti bizzarri e deliranti da parte sua, dal girare tentoni per la città con una benda sugli occhi allo scagliarsi come pazzo per le strade, urlando e sbavando con le mani ossessivamente premute sulle orecchie; nemmeno coloro che inizialmente scambiarono tali atteggiamenti per l’ennesima performance poterono più rifiutare la realtà dei fatti di fronte all’estremizzarsi dei suoi comportamenti, e la conclusione inevitabile fu che Arthur stesse sprofondando nella follia. Dopo le sue ultime apparizioni in pubblico, sempre più trasandato ed ignaro di ciò che gli gravitava attorno a causa di impedimenti autoimposti ai propri organi sensoriali, sparì dalla circolazione per un paio di mesi prima di essere ritrovato nella magione di campagna dal suo agente, ormai in condizioni critiche di denutrizione e disidratazione: il che spiega come sia arrivato su questo letto d’ospedale. Ciò che non ho ancora spiegato è la mia presenza accanto a questo letto. Non mi alzo mai da questa sedia. Mi portano i pasti, e quando non guarda nessuno svolgo le mie funzioni corporali nel vasino da notte, quasi che sia io il paziente e non lui. Aspetto un evento, e mi sembra tanto ovvio che avvenga che mi stupisco di essere il solo ad averlo previsto...ma forse la follia è contagiosa, e l’amicizia che per anni mi ha legato al grande artista Arthur B. Dale ha compromesso la mia lucidità. Ma quel che penso, la mia teoria riguardo alle bizzarrie della sua carriera e dell’ultimo periodo in particolare, è una cosa che tocca in toto tutta la nostra realtà. Arthur temeva che la verità che egli svelava e nascondeva al tempo stesso nei suoi quadri potesse essere decifrata, causando un paradosso dalle conseguenze disastrose. Ma la gente continuava ad apprezzare il suo operato, a lodarlo e decifrarlo, quindi dovette convincersi che, se essi potevano arrivare a comprendere il significato intrinseco della sua arte, ESSI STESSI dovevano far parte di quella verità che non poteva e non doveva rivelarsi. Incapace di sottrarsi al suo operato, spinto ad agire da quella stessa forza che voleva svelarsi pur ritenendoci indegni di guardarla apertamente, Arthur sperimentò l’esclusione di sé stesso dal creato: non cercò la morte bensì la trascendenza, un senso alla volta, escludendoci quali parti di quella verità irrivelabile e tentando di salvare così il mondo dall’oblio. Ma ha fatto un errore. Penso se ne sia accorto, alla fine, perché nell’ultimo sprazzo di veglia mi ha chiesto di perdonarlo: non che abbia importanza, visto che eravamo tutti condannati fin dall’inizio dalla sua forzosa mortalità. Perché se tutti noi facciamo parte di quella verità che gli era proibito svelare non è difficile desumere che anche noi siamo sue creazioni, e come tali con lui ce ne andremo. Se ho torto tutto questo lo ricorderò solo come un delirio, una fantasia così contorta da rivaleggiare con quelle del moribondo di fianco a me, ma se ho ragione...cosa si prova a scomparire dall’esistenza? Come ci si comporta di fronte alla morte di un dio? Attendo il momento in cui quel cuore cesserà di battere, quando quella mente cesserà di pensare e pensarci, rimango in attesa di quello specifico mom ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
In ottemperanza a quelle che crediamo essere le ultime volontà di un mondo scomparso, e del suo creatore e distruttore, detto racconto andrebbe letto una volta sola e, se possibile, distrutto in qualunque maniera creativa possa venirvi in mente.
Id: 3748 Data: 20/09/2017 21:24:57
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Riflessioni sullorlo del precipizio
Oggi ho incontrato la morte due volte. Il nostro corpo cambia, le cellule si rigenerano continuamente e bastano pochi mesi per essere una persona completamente diversa, almeno esteriormente. Ma dentro? Non è legittimo pensare che anche la nostra anima, o quel che si suol definire tale, venga toccata da questo continuo rinnovamento? Un eterno ciclo karmico, con l’unica pecca di farci ripiombare, ogni volta, sempre in noi stessi, almeno finché una parvenza di conclusione non arriva a togliere di mezzo gli ultimi brandelli di ciò che siamo stati, per gettarci in una nuova esistenza. Sperando che il definitivo congedo non arrivi per consunzione, una lenta e definitiva erosione dello spirito. Il primo momento in cui ci siamo incontrati è stato in ufficio. Aleggiava intorno a due colleghi, che per qualche motivo hanno cominciato a litigare furiosamente. Di ragioni per attaccarsi a vicenda in questo modo il posto ne abbonda: speranze di carriera, stress da superlavoro, superiori incapaci e poco, se non nullo, tempo per comunicare qualcosa che non faccia parte del programma quotidiano delle mansioni. Li ho visti cominciare a prendersi a male parole, ignaro di quale fosse stata la scintilla scatenante, mi sono alzato dalla sedia quando li ho visti prendersi per il colletto della camicia, le facce paonazze e le urla che coprivano il ticchettio snervante delle mani sulla tastiere. Quando un collega è arrivato a dividerli mi sono accorto di essere ancora nel mio cubicolo, immobile, a guardare fisso davanti a me con le mani abbandonate lungo i fianchi; ero sicuro di essermi alzato per un motivo, ma ormai mi sfuggiva. L’ho incontrata nuovamente mentre mi accingevo a tornare a casa, nel dedalo tortuoso dei corridoi della metropolitana. Era accanto ad un uomo inginocchiato, un cartello con una richiesta d’aiuto appoggiato vicino a lui, una piccola ciotola di porcellana a contenere le monete donate con la consueta parsimonia dalla gente di passaggio. Mi colpì il suo aspetto: l’uomo indossava infatti un completo di buona fattura, era sbarbato e, non fosse stato per quella richiesta d’aiuto e per la posa insolita, lo si sarebbe scambiato per uno dei passanti che cercavano di evitare il suo sguardo. Il cartello recava, laconicamente, la frase “Ho perso tutto. Aiutatemi a rialzarmi.” Dopo averlo superato mi guardai le mani vuote, come se avessi dovuto fare qualcosa con esse, ma senza ricordare che cosa. Quando passai oltre sentii la stessa voce che mi aveva solleticato l’orecchio in ufficio, le parole della morte dell’anima. ‘Non è una mia responsabilità, dicevano, e la voce era la mia.
Sono le due del sabato pomeriggio, e finalmente posso rilassarmi un po’. Fuori splende il sole, e l’aria primaverile mi invoglia ad uscire: ma io rifiuto l’invito. Scarico un po’ di film, leggo un po’, ogni tanto sonnecchio sul divano: Borges scriveva, a proposito del primo imperatore cinese Qin Shi Huang, che la sua paura della morte lo aveva portato a rinchiudersi nel suo palazzo, convinto che ‘la morte non può entrare in un orbe chiuso’; so che l’immortalità non ha arriso a colui che iniziò la costruzione della muraglia cinese e diede alle fiamme i libri degli antenati, eppure è col suo stesso spirito che faccio di queste quattro mura il mio santuario. Uscire significherebbe avere nuove occasioni per incontrare la morte, mentre qui non mi viene a trovare a meno che non la inviti. Rimango da solo, perlopiù in silenzio, ed evito contati con chicchessia: così mi tengo lontano dall’indifferenza, dall’odio, tranne quello che provo per me stesso. Non sono religioso, eppure continuano a venirmi in mente paragoni divini. La televisione non riesce a farmi smettere di pensare, non oggi; mentre scorrono le immagini di un film insignificante mi chiedo perché, se Gesù ha perdonato una vita di sbagli al ladrone alla sua destra, egli non dovrebbe fare lo stesso con me. Quale inferno devo avere dentro per non essere capace di accettare i miei errori e passare oltre? Ma le mie colpe, forse risibili, sono dissonanti, nei momenti in cui la morte viene a visitarmi sento spezzarsi l’armonia in stridii così contorti che non esistono generi, metriche o scale atti ad unirli in una musicalità che possa essere appagante anche per un solo essere nell’universo. La mia condanna all’esilio non mi è imposta, ma non riesco a vedere nel confronto con la morte un qualcosa da accettare: non ci riesco perché non ho amore da donare, ho un cuore dalla linfa inaridita, e questa mancanza mi impedisce di essere completo. Come vorrei essere come Prometeo, che ha amato tanto l’umanità da sacrificarsi per lei, facendosi straziare le carni all’infinito; o come Atlante, che si fa carico del peso del mondo perché la sua sofferenza è nulla se confrontata alla grandezza del suo compito. Metto il film in pausa, un pensiero mi colpisce all’improvviso. E se Prometeo, invece dell’umanità, amasse l’aquila che lo tortura? Avrebbero più senso, allora, l’amore e la vita stessa, che apprezziamo solo nei brevi momenti in cui ci culla e ci riscalda: ma l’amore non può essere slegato dalla morte, non ci sono né onore né infamia senza il rischio; forse, mentre vede arrivare la sua pena su possenti ali, un senso d’infinito affetto lo avvolge, amore per ciò che cerca invano di distruggerlo ed invece lo completa. Spengo il televisore. Mi sono ingannato per troppo tempo, la morte è qui con me ora più che mai. Non smetterò mai di portarla dentro, ma posso portarla a conoscere l’amore: esco di casa titubante, mentre inadatto al mondo mi inoltro per le strade in cerca di un po’ di pietà per le mie mancanze. Ho un fuoco nuovo che mi riscalda, ma è ancora una debole fiammella: temo un vento che non spira che per me, ma proteggo con tutte le mie forze quel piccolo alito caldo di speranza.
Camminare per le strade è un tormento continuo. Ho pensato spesso, negli ultimi mesi, agli hikikomori, persone che si seppelliscono in casa impaurite dal mondo esterno, ed ora eccolo qui, il loro più grande timore. Ho abbandonato la soglia di casa con l’intenzione di trovare accettazione, di alimentare il fuoco che ho sentito per un attimo scaldarmi, ma ad ogni passo sento solo un senso di inadeguatezza. La mia rivelazione, così forte fino a qualche attimo fa, mi sembra ora solo una di quelle epifanie che puoi avere leggendo una frase su facebook, o aprendo un biscotto della fortuna in un ristorante cinese: illuminazione tanto improvvisa quanto flebile. Cosa ci faccio qui? Perché il mondo dovrebbe avere bisogno di me, perché dovrebbe volermi? Mi sento gli occhi addosso di ogni passante, ogni faccia che evita l’incrocio coi miei occhi mi sembra farlo con sdegno, trovo un rifiuto in qualunque gesto della folla che mi ritrovo attorno. Eppure avanzo, riesco a capire che, se dovessi tornare indietro, diventerò anche io come quei disperati che hanno chiuso fuori il mondo per amare od avvilire solo sé stessi. Ma non è per preservarmi che mi rinchiuderei nella mia gabbia tutt’altro che dorata, no: è per preservare il mondo da me che eviterei ogni contatto. Non si può amare il mondo amando solo sé stessi: lo si può fare forse amando tutti gli altri? No, perdonare le loro colpe è solo una patetica scusa per autogiustificare i miei errori, per difendermi strenuamente di fronte ad un tribunale universale che ha me come unico imputato. Persino Gesù nel tempio si scagliava con veemenza contro i torti: un amore come il mio rasenta il freddo tanto da vicino che mi chiedo come possa quella fiammella scaldare il mio cuore, farlo ardere abbastanza per farmi provare finalmente qualcosa di reale. Ora è solo uno specchio della società, che non condanna solo per non indossare veramente i panni degli altri: ma la santità di chi ama profondamente tutto il creato in egual misura, ed al contempo ama il singolo allo stesso modo, sembra sempre lì ad un passo. Chissà poi perché mi vengono in mente tutti questi esempi religiosi, io che mi sono sempre professato fieramente agnostico. Passo accanto ad un locale da cui sento provenire una musica nota, qualcosa che scava nelle pieghe di un passato felice e mai dimenticato. Oggi assomiglia più ad un lieve invito che ad un triste rimpianto, e titubante decido di entrare ed accomodarmi al bancone. Una birra forse mi aiuterà a trovare il coraggio di affrontare questa sfida che nessuno può intuire, a scalare le vette inviolate delle mie paure più profonde.
Come sia finito qui non lo so. La musica rimbomba mentre una band si esibisce sul palco, palline da flipper che schizzano da una parte all’altra della pedana al pari del pubblico. Ci sono anche io, lì in mezzo, e la fiammella ora non rischia più di essere spenta. Mi sento parte di qualcosa, appagato, e non sono le birre bevute ad avermi procurato questa sensazione di beatitudine: anzi, mi sento lucido come non mai. Ti incontro per caso al bancone, il concerto è finito ma la musica non smette di risuonare dalle casse. Dici che assomiglio a qualcuno che non conosco, ed è così che cominciamo a parlare. Mi racconti un po’ di te, io ascolto e parlo poco: il fuoco che ora dovrebbe ardere ancora di più si sta pian piano spegnendo; la mia morte mi sussurra all’orecchio, attendo il momento in cui ti stancherai di me ed andrai altrove, a prendere un altro cocktail o a conversare con un amico. La tua mano si avvolge alla mia con naturalezza mentre mi trascini via, tanto che non ho tempo per stupirmene. Ho perso il senso dei gesti che portano ad un fine, ma se il fine sei tu vorrei mandarli a memoria per perpetuarli all’infinito. Mentre ci chiudiamo una porta alle spalle e ci baciamo io non vedo cosa ho attorno, dove siamo e quando: non ho occhi che per te. Potremmo essere a contorcere i nostri corpi sulle vette dell’Himalaya e non sentiremmo il gelo, né lo temeremmo, poiché il freddo lo portiamo solo dentro di noi: ora c’è un fuoco che ci unisce, e potrà scaldarci o consumarci; l’importante è che ci faccia sentire vivi. Restiamo qui per sempre. Rendiamo infinita un’ora, un attimo, nutrendoci di noi, santi e cannibali, carni fameliche e voraci intrise di spiriti quieti ed assoluti. Saziamoci dei nostri organi finché non rimangano più corpi da esplorare, ed alimentiamo l’infinito con l’armonia dei nostri pensieri indissolubilmente legati.
Forse domani non ti ricorderai di me. La morte mi sussurra all’orecchio, ma non l’ascolto. Basta un solo momento a giustificare mille sofferenze, e quel momento è ora: non lo perderò nei miei tortuosi abissi.
Id: 3720 Data: 30/08/2017 19:19:07
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Sotto un cielo così azzurro
“Non puoi rinunciare alle speranze solo perché sei senza speranze, devi insistere, tapparti le orecchie e fare LA-LA-LA-LA-LA-LA-LA!” Philip J. Fry, Futurama
Lei entrò in salotto in vestaglia, ancora un po' assonnata. Vide il marito seduto sulla solita sedia, intento a sorseggiare il suo caffè mentre sfogliava con interesse il giornale. Non fece particolarmente caso a lei, né la donna gli diede più di una rapida occhiata: quello era il suo momento di relax prima di andare a lavoro, ed era abituata dal tran tran di coppia di anni a non disturbarlo...solo si chiese, come ogni mattina, quale piacere provasse nel leggere sempre le stesse notizie. Andò alla finestra e guardò fuori di malavoglia. “Nevica ancora”, disse distrattamente. Ci era abituata, ma ogni giorno sperava di non vedere quello spettacolo. Lui alzò lo sguardo con una strana espressione, dove un vago stupore si mischiava ad un fremito di dolore. Lei non lo vide, intenta ancora ad osservare fuori dalla finestra, ed il marito fece così in tempo a rilassare i muscoli facciali. Una parte dell'agitazione provata poco prima però gli rimase dentro. “Non durerà, vedrai.” Voleva rassicurarla, ma disse quelle poche parole con un tono più secco di quanto fosse sua intenzione. Mentre tornava al suo giornale, meno assorto di prima, vide con la coda dell'occhio lei che si voltava. “Non intendevo dire...so che state facendo il possibile per migliorare la situazione...”. Teneva gli occhi bassi, nascosti dalla frangia bionda, come se si sentisse in colpa per quelle poche parole pronunciate distrattamente. Quando rialzò timidamente lo sguardo lui la stava fissando con un ampio sorriso: la tensione di poco prima sembrava sparita dal suo sguardo, e la sua ampia fronte non recava più i segni della preoccupazione che le rughe d'espressione vi disegnavano poco prima. Si alzò e le andò accanto, abbracciandola e baciandola sul collo mentre si volgeva assieme a lei verso il panorama esterno. La moglie rialzò lo sguardo verso la landa desolata che le si piazzava di fronte. Piccoli frammenti di cenere cadevano dal cielo, rendendo ancora più triste il panorama nebbioso che impediva quasi allo sguardo di vedere le case vicine. Non che questo fosse un gran problema, se non altro quella perenne foschia le impediva di vedere la devastazione del cataclisma che si era svolto solo pochi mesi prima: 'incredibile come ci si abitua a tutto', pensò distrattamente mentre alzava lo sguardo verso il marito. Anche lui guardava fuori, socchiudendo gli occhi mentre osservava tutto attorno. “La bonifica del territorio sta occupando più tempo del previsto, ma stiamo facendo progressi. Vedrai che fra non molto riuscirai a vedere il sole come un tempo, siamo gente in gamba e non ti prometterei mai qualcosa senza essere sicuro di poterla mantenere.” Si allontanò dalla finestra sempre cingendola con un braccio, coprendosi gli occhi con l'altra mano. Lei alzò lo sguardo verso la sua faccia, sorridendo rasserenata a quel gesto: 'sembra che riesca già a vedere il sole di cui parla’, pensò, ma il suo sorriso scemò quando fece caso alla cassapanca vicino all'ingresso. Si staccò dolcemente dall'abbraccio del marito, timorosa di metterlo nuovamente in apprensione ma senza poter frenare l'impulso che sentiva in corpo. Passò un dito sul mobile, lasciando una scia dove poco prima c'era uno spesso strato di polvere grigia, quindi rimase per qualche secondo a fissare il suo dito sporco. Anche lui si rabbuiò. “Sai che le polveri non sono pericolose...non più. Dicono...” “Lo so cosa dicono”, lo interruppe lei, con un tono che esprimeva però comprensione. Alzò lo sguardo verso di lui, cercando di condividere il suo ottimismo verso il futuro, ma i suoi occhi verdi non riuscivano ad esprimere la stessa serenità che voleva ottenere col timido sorriso che gli affiorava sulle labbra. Conscia di ciò riabbassò lo sguardo timidamente. “E' solo che è così frustrante...pulire continuamente solo per vedere di nuovo tutto questo grigiore depositarsi.” Lui avrebbe voluto dire qualcosa per ravvivare il sorriso che le si era fissato in volto poco prima, ma vide dall'orologio appeso al muro che era ora di uscire. Volse lo sguardo verso la sedia su cui era seduto poco prima e si apprestò a vestirsi. “E' ora di andare”, disse semplicemente. Lei non sentì il bisogno di replicare. Lo osservò mentre si apprestava ad indossare la tuta gialla, sicurezza obbligatoria per chiunque si avventurava all'esterno nonostante il livello di radiazioni fosse ormai sceso a livelli sopportabili: si chiese ancora una volta, comunque, come facesse a trovare il coraggio di affrontare la desolazione là fuori, e si sentì inadeguata rispetto a lui. Suo marito cercava di migliorare il mondo, mentre lei non faceva altro che pulire costantemente una casa che si sporcava nuovamente dopo poche ore. Lui sentì che lo sconforto si stava impadronendo di sua moglie, con quella sorta di telepatia che si sviluppa fra persone abituate a condividere gioie e dolori della vita, e le si avvicinò alzandole il viso con la mano. I loro occhi si incrociarono, e quelli neri e rassicuranti di lui riuscirono a calmare un po' l'agitazione che la stava avviluppando fra le sue spire. “Ora vado a migliorare un altro po' il nostro mondo”, le disse con un sorriso sincero, poi la baciò dolcemente sulle labbra. Quando si staccò da lei notò con piacere che la sua espressione era più serena. “Stai attento, mi raccomando.” Cercò di assumere una espressione seria, ma sapeva che lui era ben più conscio di lei dei pericoli che si annidavano là fuori: le uscì una semplice smorfia da bambina, ancora influenzata dal sorriso che lui era riuscito a strapparle poco prima. Lui avrebbe voluto ridere di quella espressione di finta gravità, ma non riuscì ad andare oltre un sorriso mentre mimava un saluto militare. “Sarò cauto come non mai. Buona giornata, ma chère!”, concluse in un francese stentato. Il sorriso di lei si allargò a quelle parole, e resistette all'immagine di lui che si fissava in testa il casco protettivo. Quando si voltò per uscire, strizzandole l'occhio con fare complice, la sua espressione era ancora serena: aprì quindi la porta con meno patemi d'animo di quelli che aveva provato poco prima, e si apprestò ad andare a lavoro.
Si richiuse la porta alle spalle, e si stupì in un attimo del caldo che si provava all'esterno. Il sole che lo aveva accecato poco prima alla finestra batteva in maniera impressionante per essere solo metà marzo, ma la tentazione di togliersi la giacca ed il cappello di feltro che portava non lo sfiorarono minimamente. Si avviò verso la macchina, parcheggiata poco lontano, immerso nei pensieri che lo attanagliavano ogni mattina da qualche mese, salutando distrattamente i vicini mentre passava vicino alle villette a schiera della loro tranquilla via residenziale. Tutto era cominciato l'autunno precedente. Mentre era in ufficio in città una fuoriuscita di gas dalla raffineria vicino casa aveva costretto le autorità a mettere in sicurezza la zona, costringendo gli abitanti a chiudersi in casa per prudenza. L'allarme durò poche ore, e quando rientrò era già tutto finito: ma non per sua moglie. Si era chiesto per mesi come avesse potuto ignorare il frantumarsi della mente di lei, come avesse potuto essere cieco di fronte ai cocci del vaso di Pandora che, andando in pezzi, l'avevano portata verso la follia. Quando era giunto a casa, quel maledetto venti di ottobre, l'aveva trovata riversa al suolo priva di sensi, ma con gli occhi sbarrati che vedevano qualcosa che andava oltre la sua comprensione. Nella mente di lei l'allarme che risuonava dalla raffineria, le autorità che sgombravano le strade e quella fitta nebbia che aveva reso la tranquilla via residenziale spettrale come quella di una città fantasma erano stati i segnali di un disastro di proporzioni ben più ampie: quando si riprese, dopo giorni catatonici, per lei il mondo era andato incontro alla fine. Era stata in cura per più di due mesi in ospedale, seguita da psicologi che continuavano a formulare teorie senza riuscire a guarirla dalla sua allucinazione ad occhi aperti. C'era voluto più di un mese solo affinché lei percepisse la presenza del marito al suo fianco, ma quando gli rivolse la parola lo fece come se lui non se ne fosse mai andato. Quando alla fine la dimisero, arrendendosi all'impossibilità di aiutarla ulteriormente, lui si fece carico della decisione di tenerla a casa piuttosto che rinchiuderla in una clinica. Sordo ai consigli di medici che non erano riusciti a curarla e di amici che non potevano capire appieno il loro legame, decise che solo rinsaldando il loro amore avrebbe potuto aiutarla. 'Lei non è pazza come dicono', pensava, 'è solo...altrove. E io posso riportarla indietro.' Arrivato a distanza di sicurezza da casa si tolse la giacca ed arrotolò le maniche. Non sapeva esattamente cosa vedesse lei coi suoi occhi, ma non voleva farle pensare che si potesse essere tolto le protezioni mentre era perso in quel futuro post-apocalittico che persisteva solo nella sua mente. Mentre passavano i mesi invernali lui diventava complice di quella visione, cercando però di portarla costantemente verso un miglioramento costante: la scoperta di altri sopravvissuti, i piani per rendere respirabile l'aria, il suo costante lavoro per migliorare la situazione...piccole bugie che servivano a rendere vivibile il mondo in cui lei si era persa, e che lo modificavano costantemente. Era convinto di averla persuasa, negli ultimi giorni, della fine delle nevicate di cenere. Quando quella mattina si era affacciata alla finestra, e gli aveva annunciato una nuova 'perturbazione', non era riuscito a frenare il suo sconforto: mentre la abbracciava avrebbe voluto piangere, tanta era la differenza fra il sole che gli bruciava gli occhi ed il panorama spettrale che poteva solo immaginare abitasse nella mente di lei. Ma si era fatto forza, come sempre, convinto che prima o poi sarebbe riuscito a riportarla alla realtà, certo che quel suo approccio al problema non fosse un blando accondiscendere alle sue fantasie bensì l’unico modo per proteggerla da nuovi shock che l’avrebbero fatta smarrire definitivamente nelle sue fantasie. Mentre guidava verso l'ufficio, verso una noiosa giornata di lavoro, già pensava a cosa raccontare alla sua amata moglie per riavvicinarla un po' di più a tutti loro...e per fare ammenda della sua cecità di fronte ai problemi di lei, quei problemi che aveva ignorato fino a che non era stato troppo tardi. 'No', pensò, 'non troppo tardi. C'è ancora speranza.'
Vide scomparire il marito nella nebbia, come ogni mattina. Le si prospettava l'ennesima noiosa giornata di pulizie, l'unico modo che aveva per far scorrere il tempo in attesa che lui tornasse e le illustrasse ciò che avevano pianificato e messo in atto per rendere il mondo un posto di nuovo abitabile. Si sentiva inutile, ma lui faceva di tutto per non farle pesare la situazione: si complimentava con lei di ogni pietanza che gli serviva, di quanto riuscisse a rendere splendida la casa nonostante la cenere si infiltrasse ovunque...la faceva sentire speciale, in poche parole. Avrebbe voluto poter fare lo stesso per lui, ma il massimo che le era riuscito di fare era stato rabbuiarlo quella mattina con la sua inopportuna considerazione sull'ennesima nevicata cinerea. 'Che bisogno c'era di farglielo notare?', si rimproverò, 'non se ne sarebbe accorto forse da solo una volta fuori?' La colpa che provava per quella piccola ed inopportuna puntualizzazione era però niente rispetto alla perversa gratitudine che provava ogni qualvolta lui la guardava intensamente, vedendola come non accadeva da tempo...la gratitudine verso la catastrofe, per aver riportato nel suo microcosmo una serenità che il resto del mondo aveva perduto. Era un sentimento strano, per cui provava vergogna ma in cui non riusciva a non crogiolarsi. Perse un poco di tempo alla finestra prima di cominciare a mettersi a svolgere le sue consuete faccende domestiche. Prima di allontanarsi rivolse lo sguardo verso un angolo della casa, un angolo nascosto su cui lo sguardo del marito non si posava mai. Guardò con un timido sorriso i piccoli fiori blu che si stagliavano fra tutto il grigiore, un blu che era diventato il colore della speranza che rifioriva in lei. Non ne aveva ancora fatto parola al marito, timorosa di quel piccolo miracolo, ma sapeva che non avrebbe potuto mantenere a lungo quel segreto: il mondo attorno a loro stava cambiando, e la natura rifioriva come il loro legame finalmente rinsaldato.
Id: 3711 Data: 21/08/2017 17:52:10
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Unora
M ed F entrarono in casa poco dopo mezzanotte, e già dai loro primi passi all’interno del piccolo appartamento in cui convivevano si poteva intuire un’agitazione malcelata. F perse giusto il tempo per togliersi le scarpe rosse, tacco 12 delle grandi occasioni, e buttarle in un angolo vicino alla porta, avviandosi poi con passi veloci ma composti in bagno: il modo in cui si era disfata sbrigativamente di quello strumento di seduzione, di cui andava così fiera, esprimeva in modo chiaro il bisogno impellente di un attimo di solitudine, una rinvigorente pausa lontano da tutto e tutti. M, pur con modi diversi, non era da meno in quanto ad atteggiamenti di esplicito nervosismo: con i laconici occhi neri piantati verso i propri piedi evitò di osservare i movimenti di lei, fingendo di non accorgersi dei presagi di un imminente litigio. Il silenzioso viaggio in macchina era stato un antipasto piuttosto chiaro, ed il profondersi in risposte monosillabiche di F alle domande con cui lui cercava di avviare una conversazione (una cosa che lo metteva estremamente a disagio) lo aveva convinto della necessità di scavare un solco ancora più profondo fra loro, una volta giunti a casa. Lei avrebbe avuto tempo per commiserarsi, qualunque motivo potesse avere per farlo; lui avrebbe potuto evitare di sentirsi inadeguato; la vita sarebbe andata avanti, ed una serata storta non avrebbe lasciato segni indelebili sul loro fine settimana ancora da concludere. Raggiunse con calma il divano bianco a due posti che si trovava in zona giorno, una delle poche concessioni all’arredamento che aveva trovato in loco al momento di affittare quel bilocale, in cui viveva da ormai quattro anni. Come disfarsi, d’altronde, di comodità a buon mercato come il poggiapiedi estraibile dai braccioli, od il poggiatesta reclinabile? Mentre attendeva che la morbidezza della finta pelle si adeguasse alle curve del suo corpo ebbe il tempo di pensare alla possibilità di prendere un bicchiere di rhum, un vezzo che non si concedeva da tempo: trovò però una posizione estremamente comoda prima che quella voglia improvvisa attecchisse abbastanza nel suo cervello, e convintosi che non valesse la pena di fare tutto quello sforzo adagiò mollemente la mano sul telecomando, cercando qualcosa di abbastanza interessante da permettergli di profondere un credibile sforzo d’attenzione verso la tv al plasma, di modo che all’uscita di lei dal bagno non gli sembrasse ipocrita rivolgere la propria concentrazione su qualcosa di diverso dalla propria partner. Non passò che qualche secondo, però, prima che si imbattesse in una pubblicità di mobili. Sapeva che era una trappola a cui sarebbe potuto sfuggire senza colpo ferire, tuttavia la punta d’irritazione lasciatagli da quei silenzi velati d’accusa in automobile lo convinse ad emettere un singulto esagerato, un lamento volutamente udibile che, infatti, fu sufficiente ad interrompere la solitudine autoimposta di F. “Che succede?” La sua voce era neutra, senza traccia di alcuna emozione. Aveva già iniziato a struccarsi, ma sulle labbra era ancora stampato il vivido rossetto rosso, mentre da un lato le penzolava l’unico lungo orecchino ancora al suo posto. Era un regalo che le aveva fatto lui tre mesi prima, per il suo compleanno: un lucido parallelepipedo azzurro, il colore preferito di F, pendente da una catenella d’oro di un paio di centimetri e che, a parere di M, slanciava il suo profilo e riduceva l’impressione che avesse delle orecchie troppo grandi (cosa, quest’ultima, che si era guardato bene dal rivelarle). Lui girò di poco la testa, sfoggiando un sorriso appena percepibile dalla posizione di lei. “Pubblicità dell’Ikea. A quanto pare oggi siamo perseguitati dai mobili svedesi.” Si profuse in una piccola risatina, cercando di evidenziare l’ironia della situazione, ma era un maldestro tentativo di placare acque che lui stesso aveva smosso lanciando il sasso: poteva ritrarre la mano, ma non cancellare le conseguenze del suo gesto. Lei fece qualche passo nella sua direzione, dimentica delle operazioni in cui si trovava affaccendata fino a qualche istante prima. “Stai cercando di dirmi qualcosa? Può essere che tu mi stia dicendo che non ti sei divertito stasera?” Disse quelle parole in maniera innocente, quasi da bambina, ma M era abituato a quel suo modo fanciullesco di farsi beffe di lui. Odiava la sua ironia, almeno quando la utilizzava nelle loro discussioni. “Sii onesta, non puoi dirmi che non ti sei annoiata!” Vista l’ormai palese inutilità del suo iniziale stratagemma azzerò il volume del televisore, voltandosi completamente ed abbandonando la comodità ricercata con tanta cura poco prima. “Due ore a parlare di letti, mensole, armadi e chissà quante altre cazzate. Sembrava di essere ad una televendita, altro che ad una serata tra amici.” “Ma certo, mobili, tu guardi sempre e solo la superfice. Ah!” Sulle labbra di lei si dipinse un sorriso che esprimeva appieno quell’ironia precedentemente malcelata. “Degli amici ti parlano dei loro progetti per il futuro, e tu ascolti solo con mezzo orecchio.” “Progetti per il futuro? Progetti per il futuro!? Da quand’è che il proprio futuro dipende da...” si mise a cercare freneticamente fra i depliant sparsi sul tavolino di fronte a sé, trovando infine quello che cercava “dalla nuova scarpiera Ostlund? Vantarsi dei propri acquisti è diventato ‘parlare dei propri progetti per il futuro’?” “Al massimo Ostana, e sono dei faretti per l’illuminazione.” “Oh grazie, abbiamo un’esperta.” Lei gli si parò di fronte, con un’espressione furente in cui era impossibile ritrovare la smorfia che i muscoli facciali disegnavano poco prima. “Tu senti solo quello che vuoi sentire. La notizia era che LORO comprano casa. LORO si stanno sistemando DEFINITIVAMENTE. LORO non giocano più alla coppietta felice che vive alla giornata, si stanno prendendo un impegno serio! E tu riduci tutto questo ad un atto di shopping compulsivo?” “Adesso basta comprare una casa e qualche mobile per ‘prendersi un impegno’? Cosa le metterà al dito il giorno che si sposeranno, una cassapanca?” “Almeno loro stanno facendo qualcosa! Avevano qualcosa da dire, non stavano tutto il tempo a guardare la propria birra in attesa di andare a casa!” “Ahah, ecco il punto!” Si alzò, ammonendola con l’indice mentre un sorriso cattivo si faceva largo fra i peli della sua barba ben curata. “Io ti faccio fare brutta figura. ‘Eccolo, quell’orso di M, che non sbava di piacere quando sente parlare di quel nuovo ristorantino tanto carino, o di quanto ci fa sentire sicuri comprare altre cose che ci fanno apparire sofisticati e alla moda…’” “Dio perché devi ribaltare sempre tutto?” Alzò le mani esasperata, e se le tenne per qualche secondo fra i lunghi capelli neri, facendole poi ricadere pesantemente sui fianchi mentre stringeva con forza i pugni ed ingobbiva le spalle. “Tu non sei inadeguato, tu VUOI apparire inadeguato. Così ti puoi sentire superiore a loro. Ma la sai qual’è la grande notizia? Tu non lo sei!” M strinse forte la mano destra, rimpiangendo la mancanza del bicchiere di rhum che agognava qualche minuto prima. Avrebbe voluto avere quel bicchiere, ora, solo per scagliarlo forte contro la finestra dell’angolo cottura. Un bicchiere è un bicchiere. Una finestra è una finestra. Si possono ricomprare, riparare, ma la sua dignità non poteva essere mandata in frantumi alla stessa maniera. Sentiva il bisogno fisico di lasciarsi andare ad un gesto plateale, ma non gli veniva in mente nient’altro. “Ma certo, io sono solo quell’ottuso gorilla che lavora in una palestra. Scommetto che è quello che pensano i tuoi amici quando mi vedono, solo perché non mi entusiasmo per le loro cazzate...” “Smettila di compiangerti!” urlò lei esasperata, “Sei tu che giudichi loro, non il contrario! Tu e i tuoi amici, sempre intenti a parlare, parlare, come se il fatto di aver letto...” si avvicinò alla libreria, rovistando nervosamente fra i volumi finché non ne strappò uno dalla moltitudine “il cazzo di Nietzsche vi dia chissà quale diritto di parola! Avete mai ascoltato qualcosa a parte la vostra voce?” “Quello che hai in mano non è Nietzsche, è un libro di Neil Gaiman”. Non era importante farglielo notare, ma non riuscì a frenarsi. “Fanculo!” sbattè il libro per terra con tutte le sue forze, rimanendo irrigidita coi capelli scomposti di fronte alla faccia. “Fanculo te, i tuoi libri e i tuoi amici! Cosa avete mai combinato di cui andare orgogliosi? Parlate di politica e non andate a votare, parlate di massimi sistemi e poi vi ritrovate da Mac Donald’s! Siete solo degli apocriti, ecco cosa siete!” “Ipocriti, con la I”. La corresse ancora, ma il sorrisetto che sfoggiava fino a poco prima era scomparso dalla sua faccia. ‘Questa stronza sta esagerando’, pensò fra sé. Lei si avvicinò ancora di qualche passo, ora erano entrambi fra il divano ed il tavolino. “Certo, dammi anche dell’ignorante. Poi sono gli altri quelli che giudicano, vero? La verità è che basterebbe uno come A a mettere in riga te ed i tuoi amichetti. Lui è uno che almeno si è rimboccato le maniche, è stato consigliere comunale per...” “Oh oh oh, eccolo là!” M le rise in faccia, piroettando su sé stesso mentre esplodeva in sghignazzi palesemente forzati. “Il bel biondino che vuole sempre sedersi vicino a te! Cos’è, la sua tattica sta funzionando? Devo sentirmi geloso?” Il sorriso era ricomparso, ma la smorfia che gli contorceva il viso era tremolante: sotto covava una rabbia che non vedeva l’ora di uscire. F rimase un attimo a bocca aperta, gli occhioni verdi sgranati, poi si mise a ridere piegandosi in due. Rimase così per qualche secondo, non accorgendosi di quanto nel frattempo la faccia di M si stesse rabbuiando. Quando si rialzò finse di asciugarsi delle lacrime dagli occhi, recitando molto meglio di quanto non avesse fatto lui poco prima. “Geloso? Di A? Ma tesoro...” si avvicinò di qualche passo “io sono già stata a letto con lui, prima di incontrarti...” ancora più vicino, le labbra a sfiorare l’orecchio di M “e ti posso assicurare che mi faceva godere molto più di te.” concluse in un sussurro. M alzò un braccio, un gesto istintivo a cui lei reagì con un movimento appena percettibile. Sbattè la gamba contro il tavolino, ma la sua testa era ancora lì, i suoi occhi erano ancora aperti, un’aria di sfida impressa nelle pupille. Qualcosa le tremava dentro, era già passata da situazioni del genere e non bramava certo di ripetere l’esperienza dei lividi nei punti nascosti del corpo: tuttavia, non si sarebbe permessa di arretrare di un solo passo. Passò qualche secondo prima che la mano di M ricadesse inerte al suo fianco. Ingobbì le spalle e chiuse gli occhi, emettendo un lungo sospiro. Sembrava tutto ad un tratto svuotato da ogni energia. F però non aveva ancora finito, il fuoco che aveva animato la lite le ardeva ancora dentro. “Cos’è, non sei abbastanza uomo per tenere in riga la tua donna?” Lui la guardò con uno sguardo enigmatico. Aveva un’espressione decisa, ma non si riusciva a capire quale decisione volesse esprimere. “Non potrei mai picchiarti”, disse con voce flebile “io ti amo.” F chiuse gli occhi, mantenendo la testa alta, come in un ultimo moto d’orgoglio. Ma sapeva che la discussione era finita, capitava sempre così quando M tirava in ballo l’amore. Cosa avrebbe potuto dirgli, dopotutto? Che l’amore da solo non poteva bastare? Gliel’avrebbe detto volentieri, glielo avrebbe urlato nelle orecchie se solo avesse saputo cos’altro serviva per tenere in piedi una relazione. Ma non lo sapeva. Si accasciò sul divano, sfiancata, massaggiandosi il polpaccio sbattuto contro il tavolino. Recuperò il pacchetto di sigarette abbandonato lì accanto, quindi ne accese una, iniziando a fumare nervosamente. “Adesso non vai neanche più sul balcone, a fumare? La puzza di fumo impregnerà tutto in questa stanza.” M odiava l’olezzo di nicotina, e quella di non fumare in casa era una delle prime regole che aveva fissato quando, sei mesi prima, aveva deciso di invitarla a stare da lui. F non aprì neanche gli occhi. “Adesso i mobili sono diventati importanti, eh?” Fece due tiri nervosi, aspettandosi una replica, ma passarono giusto un paio di secondi prima che sentisse i passi di lui allontanarsi verso il bagno. La porta sbattuta violentemente la fece sussultare, ma perlomeno era il segnale che la lite poteva definirsi conclusa. M si buttò sotto la doccia, cambiandosi velocemente e buttando i vestiti disordinatamente sul pavimento. Si sfregò la pelle con forza, quasi che potesse lavare via lo sporco che sentiva dentro invece di quello che si era accumulato sulla sua epidermide. Quando finì di lavarsi il bagno era avvolto da una coltre di vapore, e dovette socchiudere la porta per far entrare un poco di fresco. Pulì con una mano parte dello specchio, una cosa che lei odiava, quindi rimase fisso a guardarsi la faccia, con la stessa espressione che aveva rivolto poco prima a lei. Quel volto ora era un enigma anche per lui, si sentiva come svuotato. ‘Che ci faccio qui?’, pensò senza provare niente, poi vide riflesso in un angolo dello specchio l’immagine di lei seduta nel letto. F aveva finito di struccarsi nello specchio in corridoio, si era tolta l’orecchino superstite e si era messa il suo solito pigiama a righe bianche e rosse. Cercò di leggere qualcosa, ma non le riusciva di concentrarsi e rimase così ad ascoltare il rumore dell’acqua che scorreva, tormentandosi i capelli con una mano, gli occhi chiusi, le sopracciglia sottili arricciate a dipingerle sul viso un’espressione acida. Quel vezzo di scostarsi i capelli con la mano era stata la sua condanna per molto tempo, un gesto che nel linguaggio del corpo veniva interpretato come segno di disponibilità mentre per lei era sempre stato solamente un tic nervoso. Aprì un occhio quando sentì socchiudere la porta del bagno, poi li spalancò entrambi quando vide M uscire dal bagno, nudo ed ancora gocciolante. Non fece in tempo a protestare quando lui si diresse deciso verso il letto, e capì presto che non ne aveva neanche voglia. Non fecero l’amore, fecero sesso, si unirono con una passione così intensa da apparire come un modo di dimostrare qualcosa l’uno all’altra: era così, ma prima di tutto erano in gara con sé stessi, col proprio bisogno di convincersi che, fra tutte le strade possibili, quella era l’unica che valesse la pena percorrere. Finito l’amplesso si staccarono, esausti, lei rannicchiata su di un fianco e lui supino, gli occhi aperti rivolti verso l’alto. Rimanevano intrecciate le dita delle loro mani, poi lui la attirò a sé e si addormentarono così, stretti assieme, incuranti del caldo estivo, delle lenzuola umide e delle parole forti volate poco prima. ‘Sei mia’, pensò lui prima di addormentarsi. ‘Sei mio’, pensò lei mentre la notte la reclamava. E andò proprio così.
Anni dopo, all’ennesimo decennale del loro matrimonio, nessuno fra la moltitudine di parenti ed amici accorsi a festeggiarli avrebbe saputo dire cosa nascondeva quel loro sorriso. Pensavano ad una passione che non subiva il peso degli anni, l’intesa di due anime destinate l’una all’altra, ma chi poteva affermare che non fosse l’orgoglio a fare da collante in quella relazione? Nemmeno loro avrebbero saputo rispondere, perché gli occhi di F ed M riflettevano ormai da tempo solo il disperato bisogno di essere indispensabili l’una all’altro. Che questo fosse effettivamente vero non era poi così importante, c’erano così tante cose a cui pensare: i pensili della cucina si stavano rapidamente rovinando, forse era il caso di concedersi un bel regalo comprandone una nuova. Le loro mani, con molte rughe in più e minore forza, rimanevano intrecciate come in quella lontana notte. In un modo o nell’altro, anche questo era amore.
Id: 3702 Data: 02/08/2017 21:15:15
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Scomparire in tre semplici mosse
“Voglio farti vedere una cosa.” F allungò il passo lungo le navate del corso principale della città, puntando deciso verso una diramazione sulla destra, dove l’asfalto della strada lasciava spazio al porfido di mattonelle dalla geometrica disposizione messa a dura prova dallo scorrere del tempo. Il ticchettio delle scarpe di R si riverberava ad ogni passo, udibile chiaramente in mezzo al frastuono delle persone che approfittavano del giorno festivo per affollare negozi e locali del centro, ma i suoi tacchi mal si sposavano con l’andatura forzata presa improvvisamente dal compagno. Diede uno strattone col braccio, e quando lui si voltò finse un fiatone poco credibile alla luce delle continue corse mattutine che negli ultimi mesi ne avevano temprato il fisico: il trucco funzionò comunque per darle una meritata pausa. Il mal di piedi era dopotutto un pericolo reale con cui fare i conti, e non voleva pentirsi di una fretta poco giustificabile. Era un fine settimana di vacanza, non potevano prendersela comoda? F interpretò alla giusta maniera quello stop inaspettato, e si scusò con un gesto della mano. Le mise un braccio attorno alle spalle e ricominciò a camminare, più lentamente, senza perdere il sorriso. “Scusa” le disse, “sono partito in quarta. E’ che sono anni che non vengo in città, e ci sono un sacco di posti che vorrei farti vedere. Qui a fianco ci sono nato.” “Sei nato in casa?” F fece una piccola smorfia. “No, in ospedale. Ci sono cresciuto, mettiamola così. Fino a quando non sono andato all’università ho abitato qui, ora ti faccio vedere.” La via laterale portava velocemente ad una piccola piazzetta, avvolta dall’ombra degli alberi, ma quello che premeva ad F era ciò che stava sotto ad un ampio porticato alle spalle della stessa. Dovettero girare l’angolo per guardare bene in quella direzione, e quando lo fecero il suo sorriso sparì improvvisamente. R lo notò, e si preoccupò un poco. “Che succede?” chiese, dando un’occhiata incuriosita al pastiche architettonico che si trovavano di fronte. Le colonne e le ampie volte della facciata che stavano guardando portavano tutti i segni del tempo impietoso, tuttavia sotto al porticato le ampie vetrate di un centro estetico in franchising, sfolgoranti di anestetico e luminescente candore, provocavano uno stacco netto. Quell’inaspettato intruso, nella calma accettazione del passare degli anni che caratterizzava gli edifici attorno, sembrava aver contagiato anche il piano superiore, costellato di finestre dai toni metallici contrastanti in maniera appariscente il vissuto dei mattoni a piena vista. “Una volta non era così” mormorò F, indicando il primo piano oltraggiato dai serramenti moderni. “Io abitavo lì.” Fece una pausa, non sapendo che altro dire, ma si fece presto strada nel suo animo un forte risentimento. “Come possono permetterlo?” esclamò adirato, “E’ il centro cittadino che cavolo, non possono mica rovinarlo a questa maniera!” Lo spettacolo era effettivamente deprimente, come forzare un centro high tech in una chiesa. “E’ la modernità bello” rispose R, “come si dice...oggi ci sei, domani non ci sei più.” Sorrise in maniera luminosa, cercando di far uscire F da quel momento d’impasse nostalgica. Anche lui sorrise, ma era una smorfia di circostanza, un’espressione che chi lo frequentava da tempo avrebbe riconosciuto come falsa ma che lei, che lo conosceva solo da qualche mese, non riusciva a cogliere in tutte le sue sfumature. F era anzi infastidito dal modo in cui era riuscita a banalizzare momenti importanti citando detti vetusti a sproposito. ‘Un uomo è i suoi ricordi’ pensò, ‘se questi svaniscono che rimane di lui?’ La suoneria lo distolse momentaneamente da quei pensieri, ma quando estrasse lo smartphone vide che era solo l’ennesima chiamata di spam. Rivolse il poco livore che persisteva nel suo animo verso l’anonima figura di un lontano call center che lo perseguitava, e chiudendo la chiamata senza neanche rispondere prese per mano R, rivolgendole un sorriso più sincero. “Coraggio” disse fiducioso, “il tour è appena iniziato!” Si inoltrarono nell’intricato labirinto di vicoli del centro, attraversando piccole piazze più o meno frequentate. Ovunque la presenza di portici a mitigare la calura estiva, caratteristica della città di cui R fu molto lieta. F non smetteva di mostrarle punti di interesse, improvvisata guida turistica di una storia che era la propria più che quella della città, e dopo un percorso di una ventina di minuti durante il quale la folla si era man mano diradata propose con noncuranza di fermarsi a mangiare un boccone. Era l’una passata ed R, che aveva saltato la colazione all’infuori di una veloce tazza di caffè per svegliarsi, acconsentì di buon grado. “C’è un posto che conosco proprio qui accanto, buono ed economico. Un piccolo segreto della mia famiglia”, concluse ammiccando. Ma, giunti dopo pochi passi alla via della trattoria dove intendeva recarsi, F trovò le saracinesche serrate e l’insegna consunta e sbiadita. Ad illuminare la parete, poco più avanti e dirimpetto rispetto al locale, le fredde luci di un All You Can Eat asiatico. Non fece in tempo ad esprimere il proprio disappunto che R emise un sospiro di gioia: “E’ un sacco che non mangio sushi!” esclamò deliziata. F, troppo scombussolato da quel secondo colpo alle sue origini, acconsentì di malavoglia ad accomodarsi all’interno del nuovo ed anonimo locale. Mentre R scorreva il menu lui si perse nei ricordi. Lei non poteva conoscere i dettagli per cui quel locale ormai chiuso, rustico ed accogliente, si era stampato nella sua memoria in maniera tanto vivida. Non aveva mai visto i disegni sulle pareti, la cameriera coi rasta che accoglieva anche i nuovi clienti come fossero vecchie conoscenze. Non era lì quando lui ed una sua vecchia fiamma si erano fermati a mangiare qualcosa anni prima, ed avrebbe tanto voluto vedere se nel tempo la farfalla da lei disegnata sulla parete era ancora presente in mezzo a tutti gli altri schizzi. Si dovette invece accontentare di ricordi sbiaditi, come quello degli occhi chiari di lei (verdi o azzurri? Non riusciva a rammentarlo): era ormai svanita in recessi angusti della memoria, laddove un’ideale serranda l’aveva rinchiusa al pari dei ricordi celati nella trattoria fallita. Una sola cosa era impressa a fuoco vivo, come un marchio, la lettera che le aveva scritto per lasciarla. Una frase di Carver, riadattata, violenta: ‘C’è stato un momento in cui ho pensato di amarti più della vita stessa. Ma ora ti odio con tutte le mie forze.’ Curiosamente non ricordava a cosa fosse dovuto quel furore, cosa lo avesse spinto a vergare parole così infuocate. Sapeva solo che non l’aveva mai più rivista, e non le era mai mancata fino ad ora. Ordinarono un sacco di pietanze, ebbri delle opportunità di spreco donate dal consumismo, ma fecero fatica a portare a termine l’impresa di quel pranzo extralarge. R contava sull’appetito solitamente vorace di F per far fuori gli avanzi, ma il suo stomaco era sopito al pari del suo animo meditabondo. Veniva infatti privato delle gioie del gusto dai dolori dell’animo, e trovava estremamente bizzarro che l’innocente candore del bianco che lo attorniava si elevasse a simbolo della decadenza della sua città natia, alla quale era molto legato. Non riusciva a sentirsi parte di quella insipida modernità, ed avrebbe voluto condividere questa angoscia con R: ma lei aveva sempre vissuto in una grande metropoli dove l’innovazione era una chimera da inseguire a tutti i costi, in cui il futuro contava più dello stesso presente, e la nostalgia del passato, in un posto come quello, veniva seppellita sotto cumuli di cinismo dalla paura di essere lasciati indietro. Come avrebbe potuto esprimerle ciò che provava? Pagarono il pranzo ed uscirono, barcollanti a causa dell’abbuffata. R chiese di tornare sul corso principale, attirata dalle vetrine dei negozi alla moda, ed F acconsentì stancamente. Cercò di avviare più volte una conversazione, ma lei lo ascoltava di rado ed in quelle sporadiche occasioni riusciva ad ottenere solo risposte monosillabiche, quando non cenni d’assenso svogliati. Finito lo spossante tour dei negozi, trovandosi piuttosto vicini all’albergo, F propose una sosta per rinfrescarsi e riposare in vista della serata. Aveva ancora una carta da giocare, e voleva sfruttarla bene. Mentre tornavano verso la quiete della loro stanza passarono accanto al parcheggio della stazione, e la vista di quello straniante paesaggio di forme squadrate, unito al riverbero del sole sulle saracinesche dei negozi, gli portò alla mente un paragone che si sentiva in dovere di esprimere. Citò le architetture futuriste dell’Elio Petri più sperimentale, la fotografia ed i campi lunghi cittadini del primo Paul Thomas Anderson, ma erano frammenti di visioni d’altri e si dispiacque di non saper definire quel frammento di vita urbana con parole veramente sue. R, distaccata, non lo stava comunque ascoltando. ‘Cosa sta succedendo fra noi?” si chiese meditabondo mentre camminavano lentamente verso la loro meta. Arrivati in camera si fecero la doccia a turno, distrattamente lui, in maniera calma e meticolosa lei. Mentre la aspettava F si mise in ascolto dei flebili rumori che giungevano dalla finestra, suoni della natura che avvolgevano quella inaspettata oasi dove il verde si era ripreso una fetta di città. Quando R uscì dal bagno le fece notare quanto rumore facevano i grilli. “Cicale” disse lei semplicemente, “sono cicale.” “Quel cazzo che sono allora” sbottò lui, stupendosi subitaneamente della propria ira. Anche lei rimase sbigottita, guardandolo bene per la prima volta da qualche ora a quella parte. “Ma si può sapere cos’hai?” chiese più stizzita che preoccupata. Quel viaggio di piacere si stava dimostrando un fallimento, era come essere in giro da sola...se non peggio. F non seppe cosa rispondere. Temeva che lei non riuscisse a capirlo, e si faceva anche un po’ schifo per quella mancanza di fiducia nei suoi confronti. Ma c’era dell’altro, una paura che si faceva strada nel suo animo, la sensazione di qualcosa che stava per finire. La associò ai cambiamenti avvenuti nel suo luogo del cuore, ma sapeva che c’era almeno un posto dove avrebbe potuto ancora dissipare quel malumore. “Sono solo un po’ stanco” disse dopo un attimo, “quando sei pronta torniamo in centro e ci rilassiamo facendo un aperitivo, ti va?” Tornarono così a zigzagare per i vicoli, guidati dalla mappa mentale che F aveva in testa. Più volte dovette curarsi che R gli fosse al fianco, perché sembrava fare ben poco caso alla sua presenza, pur non palesando alcun risentimento apparente nei suoi confronti. Era semplicemente...distratta, come se facesse fatica a notarlo. Non cercò neanche di spiegarle verso dove si stavano dirigendo, era una cosa importante per lui e tanto bastava. Arrivati alla via dove aveva abitato per la prima volta da solo, nel gioioso periodo universitario, in cui le ore di sonno erano state risucchiate dalle nottate nei locali sotto casa perennemente animati, la trovò sventrata dai lavori in corso. Camminò con passo malfermo fino al numero trentuno, riconoscendo a malapena i dettagli dell’appartamento attraverso le griglie di protezione degli scavi: il suo mondo non era più suo. ‘Che cos’è un uomo senza ricordi?’ pensò nuovamente, ed allungò una mano per stringere a sé l’unica persona che poteva dargli un po’ di conforto, una rotta per non perdersi. Ma R era già avanti di qualche passo, ignara del modo in cui lui le arrancava dietro, muovendosi come nella melassa. ‘C’è quel pub irlandese all’angolo, ci siederemo lì come ai vecchi tempi e tutto tornerà a posto’, così cercò di rincuorarsi, ma ad ogni passo sentiva le forze abbandonarlo, la volontà farsi più flebile. Arrivò stremato alla fine della via, pronto a lasciarsi andare, e la piazza animata gli si schiuse davanti. R vide un bar carino all’angolo, e decise di fermarsi a bere qualcosa. Scelse un classico Spritz, sgranocchiò qualche patatina, ascoltò distrattamente la musica hip hop che fluiva dalle casse. ‘Chissà come ci sono finita qua’ si chiese, guardando la variegata umanità che si assiepava in quella piazza frequentata perlopiù da universitari, mostrando un malcelato disprezzo per i giovani trasandati che si scolavano economiche birre da discount sui gradini di una scalinata. Ogni tanto le giungeva alle narici l’odore di marijuana, e il suo sguardo si faceva più dolce mentre ricordava sé stessa negli anni degli studi, quando tutto era possibile. Ora aveva trent’anni, e pensava solo a sistemarsi definitivamente. ‘Finché continuo a farmi viaggi da sola non troverò mai un uomo con cui stare’, rimuginò fra sé e sé. Pagò il cocktail, si alzò e prese a vagare per le strade senza una meta. Si guardò improvvisamente alle spalle, curiosa, con la spiacevole sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante, ma F non era già più neanche un ricordo.
Id: 3695 Data: 26/07/2017 18:39:24
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Amour
Non era la prima volta che la vedeva, eppure quando Lui volse gli occhi sulla ragazza che aveva invitato, dopo vari problematici intoppi relativi alla scarsa sicurezza di sé, a bere qualcosa in un pub scelto con incuria imperdonabile, ebbene in quel momento rese grazie a Dio o chi per lui per l’invenzione degli occhi. Non era in realtà Lei la ragazza più bella che avesse visto, né quella con una singola caratteristica spiccante sopra la moltitudine di donne conosciute o intraviste solo di sfuggita: eppure qualcosa, nel sorriso che gli rivolgeva, nelle sue vesti eleganti ma non altezzose, nel suo imbarazzato contegno durante i saluti di rito, qualcosa gli dava la sensazione che Lei fosse lì per Lui, e per nessun altra ragione. Forse, pensò, non dovrò maledirmi per aver pensato che un luogo qualsiasi le avrebbe dato un’impressione neutra di me, da cui poter giocare a carte coperte con Lei pur conoscendo già, nel profondo dei miei pensieri, il mio intento. Lui sa di essere un baro, mente a sé stesso fingendo noncuranza ed urlando silenzioso: amami, ma senza che io debba conquistarti. Ma Lei, con quegli occhi color nocciola che rimangono fissi sui suoi, e che si volgono altrove solo in una maniera sbarazzina che invoca l’inseguimento, Lei nel corso di una serata di chiacchiere e radi cocktail abbatte una ad una le sue difese: sconfigge con gesti noncuranti la sua naturale ritrosia, mani che si sfiorano stringendo lo stelo dei bicchieri, risate in sincrono, capelli agitati a spandere il suo profumo. Lui è avvinto, deciso ad agire. La serata volge al termine, la accompagna galante alla macchina, le guance si sfiorano mentre con contegno le augura la buonanotte. E’ il momento giusto, e lo sa: le labbra si incontrano, le lingue intrecciano nuove parole in un idioma che sa dire ben più di qualunque flebile termine, gli occhi vorticano fra le palpebre socchiuse, incapaci di aprirsi a rivelare qualcosa di diverso dall’estatica congiunzione di due universi fin lì inspiegabilmente separati. Ma Lui non vuole andare oltre, non ha il coraggio di chiedere di più alla notte che gli ha portato quella gioia. Teme, mentre torna a casa ricordando ancora il suo sorriso, che non ci possa essere un momento migliore nella loro relazione. Il timore lo attanaglia: poco prima camminava leggero, dimentico dei passi che andava percorrendo; ora, qualunque battito lo allontana da quella gioia che già vede come effimera, eppure non può certo fermare il suo cuore per impedirgli di far procedere la sua vita. Arrivato a casa, in preda all’ansia di far scorrere via gli unici fugaci momenti di felicità, o quelli che ora considera tali secondo una nuova scala di valori, cerca un paio di forbici e, pregando quel Dio a cui ora si vota solo per la creazione di una tale figura di donna, quasi che una tale apparizione risulti prova filosoficamente valida della Sua esistenza, con le mani giunte in un gesto sacro e profano insieme cala le lame sui propri occhi. Lui è un uomo abile con le dita, capace di mille e più lavori ed accorgimenti. Accecarsi è tuttavia un’arte difficile in cui impratichirsi, caratterizzata dalla seccante peculiarità dell’esser difficilmente ripetibile: Lui dimostra comunque doti non comuni, e riesce nell’intento senza che il sopraggiungere della morte ponga intoppi al suo romantico proposito. Già, quale romanticismo! Lui reca impresse nella memoria le immagini del volto di lei, delle fossette che le si aprono sulle guance ad ogni sorriso...e quanto sorride! Continua a rivederla ora che il mondo non può nulla contro la sua avidità di visioni gaudenti, osserva il suo naso prominente e pregusta gli innumerevoli momenti che la perdita della vista gli concede per scandagliarlo a dovere, ammira senza occhi quel lungo collo che chiede solo di essere solcato di baci, continuamente, all’infinito...ma ecco che la voce di Lei lo raggiunge all’improvviso. Lei ha saputo dell’incidente, amici comuni le hanno recato la cattiva notizia. Non ha perso tempo e, colma nel cuore di sentimenti appassionati, si è gettata al capezzale dell’amato senza pretendere spiegazioni, ma offrendo illimitato appoggio ed incondizionata devozione per colui che ha recato a sé stesso una tale offesa corporale pur di non vedere altre donne. Giunge ad una conclusione non così lontana dalla realtà che ha spinto Lui ad un gesto tanto eclatante, ma le sfugge la vigliaccheria che egli stesso rifiuta di vedere: non già per trattenere quell’immagine di Lei si è accecato, bensì per evitare la possibile delusione che ogni nuova figura dell’amata avrebbe potuto procurargli, per marchiare a fuoco con un sigillo imperituro quella che altrimenti si sarebbe potuta rivelare un’infatuazione passeggera. Nella trappola creata dal suo subconscio cadono entrambi, scambiando per romantica mutilazione l’incapacità di accettare il tempo che passa, giacché Lui non potrà più amare le innumerevoli Lei che gli si pareranno di fronte, un dubbio questo che non solca la mente dell’amata, in questo non meno cieca. Finché morte non li separò vissero d’illusioni speculari: Lei, d’essere amata come donna e non come ideale; Lui, d’essersi consacrato ad un volto più che ad un comodo approdo.
Id: 3294 Data: 26/07/2016 22:15:57
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Precipito
Precipito/ guarda che precisione/ la mia rotta di collisione/ con il mondo. Giorgio Canali & Rossofuoco - Precipito Fu la notte in cui caddero molte cose, e ne accaddero altrettante. Non tutto ciò che scese dall'alto fu reale, ma se partiamo dall'assunto che una cosa, se può essere pensata, arriva ad esistere, allora sarà bene precisare che non tutto fu tangibile, mentre lo furono gli effetti. Che quello che si stava avvicinando alla città, in quella notte estiva avvolta dall'afa, non fosse un temporale normale lo testimoniavano già i lampi multicolori ed il silenzio innaturale, ovattato: chi tornava a casa in auto, chino sul volante, avvertiva lo spettacolo alle sue spalle ma non ne aveva che fugaci visioni dallo specchietto retrovisore, come esplosioni viste da chi fugge da un teatro di guerra, ignaro che che laddove spera di trovare pace ed un riparo lo raggiungerà comunque l'inevitabile fato. Caddero molte cose, ma non pioggia, se si eccettua quella di sangue: non fu comunque la prima, visto che iniziarono a discendere idee filantropiche. La grande nuvola, ora bianchissima ed imponente, le sparse in ogni zona della città: dove la gente già dormiva ognuno abbracciò idealmente, nel sogno, chi era diverso da sé, e chi con sé aveva già qualcuno lo strinse teneramente nel sonno. I pochi svegli, per sobri od ubriachi che fossero, aiutarono in ogni modo i più sfortunati, col cuore in mano. Ma le idee trascesero lo scopo della nuvola, si mutarono scontrandosi con l'estremismo, e presto i cuori nelle mani dei generosi furono quelli di chi aveva troppo: persi nel desiderio distorto di uguaglianza essi non capirono che per quella rivoluzione non servivano armi, e mentre prendevano ai ricchi per dare ai poveri pensavano a come ottenere ancora di più; ma senza l'influsso di quelle idee discese dal cielo avrebbero resistito alla cupidigia degli odiati avversari? La nuvola ebbe questo pensiero, ne soffrì, e qualcosa le si lacerò dentro: diventata rossa, illuminando debolmente una notte che giungeva al termine, rovesciò sui cittadini le lacrime di sangue che stillavano dalla sua ferita. Il terrore si diffuse velocemente, proporzionalmente a quanto il paesaggio si trasformava in un incubo degno di Bosch: la luce malsana e le pozze di emoglobina fiaccarono il morale della gente, al pari del puzzo nauseabondo che si sparse in ogni dove. Scesero allora in strada i prelati, vedendovi l'opera del loro Dio, promettendo perdoni ed esigendo pentimenti in cambio; li seguirono gli atei ravveduti, quelli che si accorsero che avevano messo il proprio rifiuto del divino sullo stesso intoccabile scranno dove i primi mettevano le immagini sacre, beandosi di esso, e si sentirono stupidi perché anch'essi non si erano mai posti domande; negarono sempre più forte coloro che idolatravano la scienza, in cerca di una spiegazione di questo mondo, e a rischio di annegare nuotavano a stento nelle pozze, scarlatti come demoni pestilenziali, per raccogliere campioni coagulati da analizzare in laboratorio. La sofferenza non poteva durare, e l'alba giunse a rischiarare la nuvola, dandole un tenue colore dorato: caddero allora le foglie, gialle le prime, che arrivate a terra assorbirono qua e là i segni delle ferite, prendendo accesi colori caldi dal sapore autunnale. Arrivò con loro la malinconia, e tutta la popolazione si ritrovò a pensare con rammarico ad occasioni mancate e persone allontanate troppo presto o troppo tardi: fu un sentimento intimo ed allo stesso tempo condiviso, una catarsi necessaria per togliersi il peso di un passato idealizzato ed il timore di un futuro ancora nebuloso; la gente era forse pronta a vivere il presente? La nuvola mutò in un tenue verde, rovesciando ancora foglie ma ora del suo nuovo colore. L'armonia del tutto avvolse le persone, ed esse capirono che nulla era diviso: si sedettero in pace, comode su di un morbido letto naturale, unite nell'abbraccio della realtà intera e vivendo ogni momento come unico, chiedendosi come avessero fatto a non accorgersi di una così semplice verità prima di allora; sentirono l'unità del tutto, e vollero farne parte. Ma se era un Dio quello che arrivò a rivelare tutto ciò, era comunque un Dio goffo. Il desiderio di unione fu condiviso, e dalla nuvola scesero mulinando dolcemente dei piccoli uragani, uno spettacolo simile a quello di migliaia di stelle filanti trasparenti in caduta inesorabile. La luce si fece intensa, donando un candore trionfale ad ogni cosa, ed ogni volta che un piccolo uragano toccò terra riprese quota istantaneamente, portando però una persona con sé. Ma quella sorta di parodistica versione del rapimento in cielo fu una prova di fede troppo grande per molti dei nuovi illuminati, che non riuscirono a staccarsi da ciò che conoscevano troppo bene per abbandonarsi ad un sogno bellissimo ma privo di consuetudine, di ovvietà divenute ormai necessarie alla sopravvivenza. Il legame di unione col tutto si recise; le persone tornarono semplicemente mortali; gli uragani, semplicemente brezza. Fu allora che caddero le persone, consce nel tragitto verso il baratro di quanto la rinnovata mortalità fosse un peso troppo grande da portare, anelando con rassegnazione quella leggerezza che si erano fatte scappare poco prima. Fu una ben misera consolazione il fatto di non dover vivere con la consapevolezza che niente più avrebbe potuto placare la loro sete di soddisfazione terrena, e da una gloriosa riunione scaturì una sciocca quanto terribile carneficina. Calò allora, in forma di nebbia, la dimenticanza, ed i sopravvissuti che non vedevano più con gli occhi i loro fratelli morti persero pian piano memoria anche degli eventi che avevano costellato il cammino di quelle vite spezzate. Chi non c'era più perse in un colpo solo sia l'immortalità conscia che quella inconscia della storia, divennero, tutte quelle vittime, pagine bianche di un libro mai scritto. Ma uno, a sorpresa, resistette a quell'oblio della mente e ricordò, senza sapere se la sua ribellione fu una manifestarsi spontaneo della propria natura od un’aperta ribellione ad essa: ma di quanto narrò da lì in avanti, di quegli eventi magnifici, orribili e sempre improbabili, nessuno credette mai ad una parola. Indispettita o forse sconvolta da quella resistenza, la nuvola fece cadere come ultimo dono dal cielo il marchio dell'infamia: egli venne disprezzato ed allontanato, perseguitato nei suoi giorni da vivo e calunniato anche nella morte. Ma se la storia di un uomo è quella di tutti gli uomini vien da chiedersi se forse non fosse egli, con la sua metodica memoria delle colpe di quell'infausta notte, l'unico nel giusto, l'unico su cui quel marchio non si posò. Ma nessuno se lo chiese.
Id: 3282 Data: 11/07/2016 20:11:43
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