I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Un compleanno
4 settembre 2009 Fu bellissimo quella volta che mio padre, in occasione del suo compleanno, ci portò a visitare un posto cui era stato molto affezionato: una base di ricerca sul pianeta Giove. Non fu così entusiasmante all’inizio. La postazione pareva semiabbandonata, e per quanto spaziosa e confortevole era un pò troppo sobriamente arredata e pareva un tantino decadente. Suppongo che siano tutte cosí quelle basi, che furono costruite in un’epoca fiorente e che ora sopravvivono nell’attesa di un eventuale ritorno di tempi migliori. Ma da lui trapelava la voglia di condividere con noi una parte importante della sua vita che doveva essere stata piena di emozioni e scoperte, di quelle che lasciano un segno perenne. Tutto ciò era contagioso, perciò eravamo pieni di aspettative, divertiti ed eccitati. La prima cosa che volevamo sapere, naturalmente, era se il pianeta fosse abitato. Non ci aveva detto niente al proposito, e quindi avevamo concluso che non lo fosse. Sarebbe stato troppo bello e inoltre, se vi fossero stati animali o persone, certo ce ne avrebbe parlato. D’altra parte la sua vita deve essere piena di cose non dette, così, tanto per non dare l’impressione di vantarsi di conoscere cose a noi precluse. Mi sono fatta l’idea che si comporti in questo modo perché non vuole toglierci la gioia della scoperta, e che lui pensi che nella vita ognuno ha il diritto di essere pioniere. Noi più grandi eravamo convinti che il pianeta fosse deserto ma entrammo nel gioco quando il fratellino più piccolo chiese a nostro padre di vedere i nativi di Giove. Lui, misterioso, gli rispose: “Non so se ce ne sono, vediamo”. Lo prese per mano e lo condusse da un ufficiale in servizio alla base, una donna bionda in divisa che sorrideva silenziosa seduta davanti agli schermi. La donna prese un oggetto di vetro con sottili corde metalliche che poteva ricordare un diapason o una piccola cetra; lo posizionò con cura davanti a sè e vi inserì con lentezza un disco di materiale trasparente. Attendemmo. Si sentì una musica, ma non erano che note di un jazz. Ridemmo tutti, anche lei. Lo strano oggetto aveva captato nient’altro che il segno di una precedente presenza di terrestri sul pianeta. Evidentemente quando la base era più frequentata il personale passava il tempo ascoltando musica di casa. Ma la donna continuava a guardare in silenziosa attesa il congegno e le corde di metallo pronte a captare suoni e vibrare. A un certo punto sentimmo una musica diversa, straordinariamente melodiosa. Pareva prodotta da un solo strumento, probabilmente a corda, del tutto sconosciuto per noi. Non poteva che essere la musica degli abitanti di Giove. La cosa ci riempì di curiosità. Ci domandavamo se quegli esseri vi fossero ancora. Avevamo compreso infatti che il congegno poteva captare anche suoni di tempi remoti. Ma non facemmo altre domande a mio padre. Egli ci condusse a visitare i dintorni della postazione e sostammo davanti a un corso d’acqua seminascosto da un alto canneto. Ed ecco che sopraggiunse una piccola imbarcazione che si avvicinò a noi e attraccò alla sponda. L’uomo che ne scese per primo si avvicinò a mio padre e lo salutò con naturalezza, come se si conoscessero da tempo e non fosse sorpreso di rivederlo. Anzi, aveva tutta l’aria di essere informato del suo ritorno. Dopo di lui scese la sua famiglia: la moglie e numerosi figli, di età varia. Erano come i nostri primitivi, eppure avevano forme armoniose e una certa eleganza nel movimento e nei gesti. Non portavano alcun tipo di veste e i loro capelli erano incolti, ma dorati, e quell’oro splendente contrastava col colore della pelle decisamente scuro, anche se non come i nostri neri o mulatti, ma più scuro di quanto potremmo aspettarci da un bianco abbronzato. Mio padre ce li presentò, e disse al nostro fratellino di non spaventarsi: erano amici, e poteva giocare con i bambini più piccoli. Ciò che più mi sorprese, piacevolmente, degli abitanti di Giove, fu che fossero tutti, invariabilmente, ambidestri.
Id: 3220 Data: 15/05/2016 17:04:32
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Storia di Ian
Di lui si diceva che venisse dall’Europa, o da qualche parte dell’Asia o dalla Russia, e comunque non c’era modo di venirne a capo perché aveva viaggiato tanto da aver cancellato ogni traccia della sua provenienza sia nell’aspetto che nel modo di parlare e di comportarsi. Parlava pochissimo, del resto, e si comportava come la tipica guida di safari. Una volta si era diffusa la voce che aveva avuto una moglie in Irlanda; la fonte di quella notizia non fu mai accertata, ma piacque e da allora andò a far parte del repertorio che di lui si narrava. Riguardo a quell’ultimo giorno in cui fu visto in giro, prima che sparisse nel nulla, si narravano due distinte versioni, e quale delle due fosse quella giusta viene dibattuto ancora, qualche volta, a Maun. Alcuni affermavano di aver visto Ian in compagnia di una donna, una sconosciuta. Altri invece spergiuravano che era da solo e che si era trattenuto per un bel po' davanti al banco del bar farfugliando qualcosa alla sua bottiglia di birra; e pareva ne avesse bevute una ventina di birre, mentre era nota la sua moderatezza nel bere. Ma quelli che dicevano di averlo visto in conversazione con una donna sconosciuta concordavano nella loro versione dei fatti, e pareva di vederla la scena che narravano. L’avevano notata giungere a piedi, poco prima del tramonto, in quel campeggio dove tutti arrivavano su potenti fuoristrada per affrontare i pantani del Delta e le sabbie del Kalahari. Aveva uno zaino sulle spalle, era coperta da capo a piedi di polvere rossa e dava nell’occhio per i capelli biondi striati di nero (o, forse, neri striati di biondo) e perché non era comune vedere una donna bianca a piedi lungo la strada principale, che all’epoca era ancora costeggiata da baracche costruite con lattine e bottiglie di birra vuote e fango. La sconosciuta chiese in affitto per la notte una tenda, di quelle con la doccia a cielo aperto, e quando ne uscì per l’ora di cena era smagliante e fresca in un vestito bianco immacolato. Una benda ancor più immacolata le fasciava il piede destro, e indossava sandali dal tacco alto: una striscia sottile di pelle dorata luccicante. Ed ecco che Ian si era diretto verso di lei, fissandole a lungo i piedi come se fosse attratto dalla fascia bianca o dalla striscia dorata, poi aveva alzato il viso per guardarla negli occhi, e parve che i due si conoscessero. Lei stava bevendo una birra e Ian ne aveva chiesta un’altra per sé. Questa versione dei fatti veniva confermata anche dal ragazzo del bar, il quale aggiungeva che i due, dopo essersi trattenuti per un bel po’ fissandosi in silenzio, se ne erano andati via insieme sussurrando a voce bassa. Ma qualcosa il ragazzo aveva sentito: stavano organizzando un viaggio per il giorno dopo. Volevano arrivare fino alle Aha Hills, quelle colline di roccia lontane, perse nel deserto desolato, dove la notte è silenziosa. Infatti ci arrivarono, a quanto pare, o almeno ci arrivò il fuoristrada di Ian. Quello che la gente di Maun e dintorni non sapeva era che Ian da qualche tempo era alla ricerca di qualcosa; o, per meglio dire, qualcosa cercava lui. Un piccolo indizio c'era. Era stato nel mese di ottobre dell'anno prima, al rientro da un safari come tanti altri. Era tornato da quel safari con un'aria stranita e si era messo a fissare ogni donna che incontrava, soffermandosi sui suoi piedi. E da allora non aveva più smesso, fino a quell'ultimo giorno. La prima volta era accaduto a Khiding Pan, nel Mabuasehube. Al mattino presto Ian si era alzato per preparare la colazione. La ragazza con cui aveva passato la notte dormiva ancora. Succedeva sempre, a lui come a tutte le guide di safari: nel gruppo dei clienti c'era sempre una donna che lo guardava e gli sorrideva in quel modo, e poi, di notte, sfidando il buio e le sue raccomandazioni di non uscire all’aperto dopo che il fuoco si è spento, si insinuava nella sua tenda. Non lo amavano quelle donne; amavano l'Africa, l'adrenalina, il brivido provato ad uscire nella notte quando tutti gli altri dormono; e stringersi a lui quando il ruggito del leone si avvicinava al campo e rilassarsi quando si allontanava. E lui amava le stesse cose e quindi amava tutte quelle donne perché non sarebbe mai stato capace di amarne una. Le amava per la durata del safari e poi le dimenticava, come del resto facevano loro. La ragazza dormiva ancora e così gli altri clienti, e tra poco li avrebbe svegliati l'aroma del caffè caldo. Quella mattina Ian aveva trovato qualcosa da mostrare loro durante la colazione e che li avrebbe eccitati: le impronte che attraversavano l’accampamento. Non c'erano la sera prima, e infatti erano fresche e chiare nella sabbia rosata. Appartenevano a una femmina di leopardo. Strano: pareva proprio che il leopardo avesse sostato accanto alla sua tenda; vi era tornato due o tre volte e solo poco prima dell'alba si era allontanato nel bush. Ian seguì le impronte fin dove la sabbia finiva nell'erba e non poteva credere a quello che vide, perché l'ultima di esse, fresca e chiara come le altre, non apparteneva più a un leopardo, ma a un piede femminile, ben delineato, perfetto e commovente nella sua nudità. A Bosobogolo le vide di nuovo. Questa volta erano ancor più nitide e dettagliate perché la pioggia della sera prima aveva reso umida la sabbia. Si vedeva il punto in cui avveniva la trasformazione e lui poteva immaginare l’incavo di quel piede di donna nell’atto di emergere dalla metamorfosi, mentre si sentiva pervadere da una strana sensazione, qualcosa tra la nostalgia, il desiderio e la mancanza. Ian era abituato a trarre una miriade di informazioni dalle orme degli animali, e così di quella donna poteva supporre il passo, la struttura fisica, l'età, lo stato d'animo. La sua mente cercava affannosamente di ricostruirne anche il volto. Ma questo gli sfuggiva. Come poteva seguirlo quel leopardo? Eppure vide le sue impronte in ogni accampamento successivo, per tutto il Mabuasehube e poi nel Central Kalahari. A volte addirittura lo precedevano: Ian le trovava ad attenderlo ogni volta che scendeva dal fuoristrada e si accingeva a preparare il campo, e ne trovava di nuove al mattino, quando usciva dalla tenda appena prima del sorgere del sole. I suoi ospiti non ne furono sorpresi più di tanto, perché lui non disse mai che si trattava dello stesso leopardo. E si guardò bene dal mostrare loro il punto in cui, tra la sabbia e l'erba, avveniva il mutamento. Partì inquieto per il safari successivo con un nuovo gruppo di clienti. Il fenomeno si ripeteva, ma il leopardo sembrava essersi fatto più coraggioso e adesso erano impronte umane quelle che trovava attorno alla sua tenda al mattino. Le cancellava col piede prima che gli altri si alzassero. Finché una volta accadde che la donna con cui aveva passato la notte si svegliò insieme a lui e lo seguì. "Guarda, Ian. Ci sono le impronte di un grosso felino, senza dubbio un leopardo, e poi, guarda qui: l’impronta di un piede umano, un piccolo piede scalzo. E ce ne sono altre, vanno verso la tua tenda." "Sono le tue", mentì lui. "È pericoloso uscire dalla tenda di notte, te lo avevo detto. Hai rischiato di fare un brutto incontro." "Non sono mie. Non camminerei mai a piedi nudi su questa sabbia…" "Erano qui anche ieri sera, ma non le hai notate", continuò a mentire. "Non so” ribadì lei, perplessa. “Ai bordi del campo ci sono le orme di un leopardo; proseguono fin qui, vicino alla tua tenda, e poi, d'improvviso, sembra che si trasformino..." "Ti pare possibile?" "No." "Infatti. È la sabbia sottile di queste dune. Cancella le impronte o le deforma " mentì ancora, e si mise subito a preparare la colazione. Ma non scordava l’impronta di quel piede e quella sensazione di mancanza feroce che provocava in lui. La cercò dovunque. Aveva bisogno di vederla, di scoprirne il volto. Iniziò a guardare i piedi e il passo di ogni donna che incontrava quando tornava a Maun, tra i turisti che andavano e venivano numerosi. Guardava ogni donna, ma nessuna era lei. Nell'ultimo safari le impronte rivelavano che il piede destro era fasciato. Si commosse. La immaginò aggirarsi attorno alla sua tenda di notte, ora leopardo ora donna, e ferirsi il piede con una spina d’acacia. Ebbe la certezza che lei lo stava cercando e che presto si sarebbero incontrati. E così quell'ultimo giorno in cui fu visto in giro non fece che sedersi al banco del bar ad aspettarla. Dopo un paio di birre gli sembrò di individuare nella sua mente, sepolta sotto strati di memorie, l'immagine del suo volto. Ma era un’immagine sfuggente e i suoi tratti gli comparivano come dei miraggi azzurrini. La riconobbe subito quando la vide arrivare al bar e sedersi a un tavolo, con quei sandali dorati e la benda immacolata intorno al piede destro. La raggiunse e si sedette accanto a lei, con naturalezza, come se si fossero visti il giorno prima, e in un certo senso era così. “Lo sai chi sono, vero?” Gli aveva chiesto lei. E Ian non rispose, solo i suoi occhi materializzarono di nuovo quei miraggi azzurrini. "Ti ho aspettato tanto. Poi ho immaginato che fossi qui e sono venuta a cercarti. Perché te ne sei andato?" Di nuovo Ian non rispose. Ma prese la mappa, e con semplicità le mostrò le Aha Hills, remote, azzurrine, isolate nel deserto come miraggi. "Potremmo partire domani mattina", le disse. "Perché te ne sei andato?" gli chiese lei di nuovo. Prima di rispondere Ian ripose il fucile in un angolo della tenda, in modo da averlo a portata di mano per sparare in alto in caso le iene, attratte dagli avanzi del brai, avessero dato fastidio. "Ti ricordi?” le disse. “Il cielo era andato a pezzi ed era caduto giù. Si camminava su brandelli di cielo. La gente teneva la testa china e guardava per terra, lo sguardo fisso su quei brandelli; e non tanto per non inciamparvi, ma per evitare di scorgere la voragine che si era aperta su in alto". "Ma quella voragine va guardata, prima o poi!" "Certo, io l’ho guardata. Per questo sono venuto qui. Qui il cielo è intatto e se ne sta al suo posto. Guarda". E le indicò in alto. Le stelle vibravano, perché era una notte senza luna. "Lo so, conosco anch’io questo cielo". Il fuoristrada di Ian fu trovato lungo la strada che dalle Aha Hills conduce in Namibia. Accanto ad esso i brandelli della tenda vuota si muovevano come se fossero vivi, mossi dall’aria inquieta. I predatori dovevano aver portato via tutto. Di lui, e della sconosciuta che quel giorno fu vista a Maun, nessuno ha più saputo niente.
Id: 3216 Data: 07/05/2016 16:54:14
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