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Raccolta di testi in prosa di Danilo Catalani
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Chef

-          Ci vedi?

-          No, non vedo nulla. Giuro.

-          Non giurare. Nella nostra attività non c’è spazio per la menzogna, quindi neppure per i giuramenti. Sei pronto per cominciare?

-          Sì.

-          Mi raccomando, non spostare la benda. Questa è la prova decisiva. Lo comprendi?

-          Sì, chef, lo comprendo.

-          Cominciamo. Apri la bocca. Mastica lentamente e rifletti prima di rispondere; non c’è la possibilità di essere precipitosi, per noi la precisione è tutto. Cosa senti?

-          Carne bianca.

-          Bene, poi?

-          Pollo, a giudicare dalla consistenza. Ben cotto. La giusta dose di aceto.

-          Spezie?

-          Cumino, direi. E Paprika al posto del peperoncino.

-          Ottimo. Andiamo oltre, parlami dell’animale. Cosa vedi?

-          Vedo un’aia. Aria aperta, sole. Non è il pollo da batteria, è allevato a terra. Non c’è sapore di paura o di infelicità. È vissuto bene, è morto bene.

-          E quindi?

-          Falanghina Beneventano, direi.

-          Mhf. Ci sta. Potresti osare di più, ma va bene il Falanghina, meglio non strafare. Mai strafare. Devi essere sempre sicuro di non commettere errori. Lo comprendi?

-          Sì, chef.

-          Ancora. Dimmi.

-          L’odore del vino è forte. Carne rossa. Vitella.

-          Ottimo.

-          Lasciata a macerare per una settimana almeno nel Cannonau di Sardegna, con pepe nero e bacche di ginepro.

-          Eccellente, ragazzo. Poi?

-          Poi grigliato sul barbecue. Ma…

-          Ma?

-          Ma a carbonella, non a legna. Che peccato, si sente il gusto dell’accendifuoco chimico. Ottimo il Grana e la ruchetta. Perfetta la cottura.

-          Bene. Cosa vedi?

-          Vedo l’orrore, chef. Vedo animali allevati in celle, incapaci anche di camminare a causa delle gabbie anguste. Animali coltivati, non allevati, nell’angoscia e nel loro stesso sterco.

-          La fine? La senti?

-          Sì, chef. Terribile, ma accettata con sollievo, dopo una vita così.

-          Paura?

-          Sì, chef, la paura è il gusto dominante. La macerazione nelle spezie non è riuscita a camuffarla neppure un po’.

-          Bene. Quindi?

-          Stesso vino, chef. Cannonau. Primo perché non si mischiano i vini, secondo perché rafforzare il gusto del vino aiuta a soffocare quel gusto di paura.

-          Eccellente. Bevi un po’ d’acqua e prenditi un momento, prima di continuare.

-          Sono pronto, chef.

-          Bene. Annusa.

-          Aroma dolciastro, sicuramente carne rossa. Cavallo, direi.

-          Non mi fare incazzare. Il condizionale non esiste nel nostro lavoro. Né esistono approssimazione o avventatezza. Se non sei sicuro che quella che stai per dire è la verità devi tacere.

-          Mi scusi chef.

-          Non scusarti. Ora assaggia. Cosa senti?

-          Aglio, forte. E peperoncino Habanero. Ottima combinazione col dolce della carne.

-          Allora… cavallo?

-          No, chef.

-          Dimmi perché no.

-          Niente fieno, o avena.

-          Cosa senti?

-          Latte.

-          Latte? Concentrati.

-          Latte e caffè. Cappuccino. Zucchero. Lievito, burro… forse cornetto.

-          Forse?

-          No, chef. Sicuramente.

-          Bene.

-          Della morte? Che mi dici?

-          Inaspettata. Niente paura. Niente dolore.

-          Certo, nessun dolore. Non avrei mai potuto farti questo affronto, lo comprendi?

-          Lo comprendo, chef…

-          Lo comprendi… però?

-          Però… perché Anna?

-          Perché Anna. Bravo. Rispondi tu.

-          Io…

-          Tu cosa? Non saranno lacrime quelle che bagnano la benda, vero?

-          No chef. È sudore.

-          Sudore… ti voglio credere. Perché Anna. Perché in quello che facciamo noi non c’è spazio per una compagna. Le donne tirano fuori il meglio o il peggio di noi. E se tirassero fuori il meglio come potremmo fare quel che facciamo? Dimmi…

-          Non potremmo, chef.

-          E se tirassero fuori il peggio di noi?

-          Lo attirerebbero su di loro, chef.

-          Bravo, ragazzo. Sono sempre più convinto di aver scelto bene il mio erede. Ma c’è dell’altro. Siamo dei volgari assassini?

-          Certo che no, chef.

-          No, infatti. Il punto non è uccidere, è la conservazione, la stagionatura, la cucina, la presentazione, gli accostamenti… Comprendi?

-          Comprendo, chef.

-          Con molta attenzione potresti sfuggire per anni alle migliori polizie del mondo. Ma una moglie… prima o poi ti scoprirebbe, e cosa dovresti fare, allora?

-          Ucciderla.

-          Già. Ma non è bello uccidere la propria moglie, ragazzo, io lo so.

-          Grazie chef.

-          Prego ragazzo. Sono molto orgoglioso di te. Saresti il migliore, nel nostro campo, se non ci fossi io. E lo sarai quando non ci sarò più. Sei il figlio che non ho potuto avere.

-          Grazie chef.

-          Bene. Ora dimmi l’ultima cosa che voglio sentirmi dire da te.

 

-          Nero D’Avola.


Id: 4112 Data: 29/04/2018 18:13:43

*

Ka Mate (quasi una storia vera)

Ogni riferimento a fatti e persone reali citate nel racconto che segue è puramente. Punto.

 

Non è semplicissimo spiegare, a chi non segue il Rugby, cosa significa andare a vedere, dal vivo, Italia – Nuova Zelanda.

È un po’ come essere invitato a un banchetto sardo sapendo che tu sei il porceddu.

Sai che è una grande festa, sai che sarai al centro dell’attenzione, sai che non puoi esimerti di andare, ma da un certo punto di vista ne faresti volentieri a meno.

Io, da bravo rugbista, ne ho viste almeno tre: a Roma, a Bologna e a Marsiglia, per i mondiali del 2007.

Stesso copione: grande festa, brividi per la danza Haka, e dopo dieci minuti del primo tempo già guardi l’orologio, cercando di estrapolare, dato il numero di mete già subite, se il passivo supererà o meno gli 80 punti.

E alla fine vai a casa, un po’ contento per aver visto gli All Blacks, la squadra più forte del mondo, di tutti i tempi, di tutti gli sport, e un po’ triste per essere stato brutalizzato senza pietà.

Un po’ l’ambivalenza che si ritrova nel testo della danza Haka:

Ka mate!  (io muoio) Ka ora! (io vivo).

È stato un po’ anche per tutte queste considerazioni che, avendo assistito già in passato a questo spettacolo meraviglioso e terribile, nel 2012 ebbi l’idea geniale.

Erano già due anni che avevo dato alle stampe, in autoproduzione, il mio primo libro.

L’amore che mi lega a questo sport traspariva già dal titolo: “Il Rugby è un’altra cosa”, sottotitolo “Storie di Rugby a Civitavecchia”, la città dove vivo.

Duecentoquaranta pagine, formato A4 (sono dati che avranno il loro “peso” in questa storia), carta lucida, pesante, per rendere al meglio la quantità di fotografie a colori sfoggiate all’interno.

L’esaltazione dello spirito e della tradizione del Rugby fatta attraverso la ricostruzione storica del movimento ovale locale, un libro per rugbisti d’ogniddove e per chi di Rugby non capiva un’acca (e quindi neppure la battuta).

Ne avevo fatto stampare cinquecento copie, distribuite in trentadue pesanti scatoloni.

Così, per stare tranquillo.

Da appassionato di Rugby e di libri ero convinto di aver creato il prodotto commerciale perfetto.

Dopo un paio d’anni, però, erano avanzate circa tre centinaia di copie, cosa che mi aveva fatto venire il dubbio che tra rugbisti si leggesse meno di quanto pensassi.

Così, in quel novembre del 2012… LA GENIALATA!

“Se riuscissi a portare i miei libri all’Olimpico di Roma, il giorno di Italia - All Blacks, dove si troveranno riuniti circa 50.000 rugbisti… e se su ogni mille rugbisti almeno un paio si comprassero il libro…”

Niente, avevo trovato l’uovo di Colombo.

Cominciai a telefonare, contattare, informarmi.

Se fossi riuscito a entrare coi miei libri all’interno del “Terzo Tempo Peroni Village” avrei sbancato, finendo per essere il vero, unico vincitore del Test Match.

Per chi non lo sapesse il Peroni Village è una vera e propria fiera paesana con una gran quantità di stand di ristorazione, vendita di gadget, maglie, maxischermi, palchi per spettacoli live e chi più ne ha più ne metta.

Una cosa bella, insomma.

Passai un paio di settimane a cercare di convincere la Federazione Italiana Rugby, il CONI, la Peroni, la Conferenza Episcopale Italiana, i Sette Savi del Priorato di Sion…

Inutilmente.

Il “Villaggio Peroni” era più blindato di Fort Knox, e per entrare avrei dovuto sborsare una cifra che, se avessi avuto a disposizione, avrei comunque preferito spendere per estinguere il mutuo di casa.

“Ma sono un rugbista, cazzo! Non mi arrenderò mai!”, mi dicevo.

Oh, detto per inciso, questa faccenda del rugbista che non si arrende mai a volte diventa una grande seccatura.

Ma sto divagando.

Mi feci prestare un tavolo pieghevole e un gazebo smontabile da un mio amico fraterno (con cui avevo avuto modo di condividere una congrua razione di fango, lividi e birra tanti anni addietro) e decisi che sarei andato all’Olimpico in qualità di venditore abusivo.

Ora, nulla in contrario nei confronti dei venditori abusivi, ma se di mestiere uno fa il vigile urbano, va da sé che diventa un pelino più imbarazzante.

“Ma sono un rugbista, cazzo, e bla, bla, bla…”

Parlai di questo mio insano proposito al mio amico Luca, che, nonostante sia una persona saggia e assennata, un padre di famiglia, con un lavoro rispettabile, invece di consigliarmi di farmi vedere da uno specialista in gamba, mi disse:

“FIGO! Vengo pure io!”

Già.

Perché anche Luca aveva giocato a Rugby, e un bravo rugbista dà sempre sostegno al suo compagno.

I rugbisti ne fanno di cazzate.

La mattina del 12 novembre del 2012 eravamo pronti per un’impresa che aveva dell’epocale.

L’aria frizzantina ma non gelida e un pallido sole che prometteva di benedire la spedizione con calore crescente al passar delle ore, facevano da sfondo alla mia Ford Fiesta, così carica di libri da sembrare la Lotus di Emerson Fittipaldi, con tanto di minigonne effetto suolo (ne avevo caricati veramente tanti. Così, per stare tranquillo).

E noi.

El Quijote e Sancho Panza pronti a “prennese Roma”.

Appena fatti pochi metri il cellulare di Sancho, pardon, Luca, squillò: nottetempo dei ladri avevano violato e svuotato l’appartamento dei suoi genitori, con tutto quel che ne consegue: shock, Carabinieri, ecc…

Al che Luca, visibilmente turbato dalla notizia, mi disse:

“Ma vengo lo stesso! Ormai non ti lascio solo”.

Perché un vero rugbista… mah.

Sulla A12 la Fiesta carica di poco meno di due quintali di uomini e poco più di tre quintali di libri e attrezzature varie (tranne il gazebo che era risultato inservibile), sfrecciava come una lumaca, sia per velocità che per attaccamento all’asfalto, trasportando anche i miei sensi di colpa e le preoccupazioni del mio compagno di squadra.

Arrivammo sul Lungotevere Maresciallo Cadorna, di fronte allo Stadio Olimpico, che non erano ancora le dieci di mattina.

Scesi dalla macchina, io, con la mia solita maglia da Rugby e la mia giacca degli All Blacks e Luca, col suo solito look da Intillimano, ci guardammo sconcertati.

“E mo che famo?” era la domanda inespressa che gravava nell’aere sopra le nostre testoline.

Problema numero uno: il parcheggio.

A fare il vigile urbano si finisce per comprendere e interiorizzare il concetto di “parcheggio creativo”, ovverosia quel tipo di sosta che nel codice della strada si va a infilare nella zona grigia per cui i più non parcheggerebbero così ma un vigile non la multerebbe nel 99% dei casi.

La Fiesta venne collocata per tre quarti fuori dagli stalli disegnati e per il rimanente sulle strisce pedonali.

Luca, che è uomo di legge, mi sconsigliò di lasciarla lì.

Per tranquillizzarlo decisi di domandare in sua presenza a un collega di Roma in servizio fuori dallo stadio cosa pensasse di quel parcheggio.

«Hai visto? – disse alla fine Luca – ti ha detto di no!»

«No – risposi – mi ha detto “Sarebbe meglio di no”, c’è una bella differenza!»

Spiegai che per un pizzardone il “sarebbe meglio di no” è una contrazione, una sintesi che si traduce con “Guarda, frate’, a me de la macchina tua non potrebbe fregar di meno, e infatti manco la degnerò di uno sguardo, ma non sia mai succede qualcosa che mi tocca mettere mano al blocchetto per colpa di qualcun altro messo peggio ma accanto a te, non garantisco che non ti tocchi pure a te”.

“Sarebbe meglio di no”. Ricordatevelo.

Problema numero due: dove montare il nostro banchetto?

Mi avvicinai a una signora con una bancarella che vendeva sciarpette e bandiere e con tangibile imbarazzo le chiesi:

«Buongiorno signora, io ho dei libri scritti da me e vorrei montare un tavolino per poterli vendere. Tanto con tutto questo caos la Municipale mica si metterà a controllare le occupazioni di suolo pubblico, no?»

«Come no? Li controllano eccome! Sai che devi fa’? Domanda a Piero (nome di fantasia, N.d.A.).»

«Chi è Piero?»

La signora mi guardò con lo sguardo tra il sorpreso e il perplesso. “Come si poteva arrivare a Roma e non sapere chi fosse Piero?”, sembrava domandarsi.

«Piero è quello che ha il banco più grande, laggiù – indicò col dito – è lui che comanda qui».

Perplessi andammo al bancone di Piero, un tripudio di maglie più o meno contraffatte, bandiere, sciarpe, cappellini e tutto quello che un tifoso medio possa pensare di acquistare andando allo stadio.

Il tutto in una posizione strategica, alla metà precisa di Ponte Duca D’Aosta.

Sempre più in imbarazzo domandai a una ragazza: «Buongiorno, mi scusi, il signor Piero?»

«So’ io, che c’è.»

Dietro di me c’era un tipo “diversamente alto”, scuro di pelle e di capelli, con la faccia da predatore.

Esposi di nuovo la mia aspirazione di diventare un venditore abusivo, spiegandogli che per quello che volevo fare non era prevista per legge una licenza, ma che il problema era il mancato pagamento dell’autorizzazione a occupare il suolo pubblico e, quindi, un eventuale controllo da parte dei miei colleghi romani.

«La municipale? – mi domandò tra il meravigliato e il divertito – io la municipale maa magno a colazione!» ebbe a precisare lanciandomi uno sguardo minaccioso.

Per un attimo pensai addirittura che avesse un senso di ragno che gli permettesse di vedermi come una brioche.

«Non te preoccupa’ – aggiunse affabile – prendi er tavolino tuo e méttete qua, attaccato al furgone mio, e vedrai che nessuno te dice niente. E se qualcuno te dice qualcosa dije “Io sto co Piero”»

Per un attimo mi sentii come un ragazzo appena ordinato cavaliere da Re Artù. Ero emozionato; finalmente, per una volta nella vita, ero riuscito a ottenere una raccomandazione.

Da Piero.

Io e Luca, finalmente rinfrancati da questo ormai inaspettato successo, andammo verso la macchina, e cominciammo a scaricare scatoloni.

Il tavolo, che quando la mattina lo caricavo in auto sembrava grandissimo, era miracolosamente sparito al cospetto della bancarella di Piero.

“Ma un rugbista…”

Osservammo fieri la nostra piccola attività imprenditoriale/editoriale, e ci disponemmo di buon grado ad aspettare i nostri primi clienti.

«Forse è il prezzo» disse Luca dopo la prima ora passata ad aspettare qualcuno che si avvicinasse e mostrasse un minimo d’interesse.

In effetti l’unico che aveva preso uno dei volumi e l’aveva sfogliato era stato il nostro “protettore”.

«Libri», aveva detto laconico Piero, senza dare a quella semplice parola una qualsiasi intonazione che facesse trasparire una qualsiasi opinione o un qualsivoglia giudizio di valore.

Il fiume di varia umanità che scorreva sul Ponte Duca D’Aosta incrociava quello d’acqua che scorreva sotto con la medesima placidità, senza rallentare, se non per acquistare qualcosa da Piero.

Solo un bambino, si era avvicinato e, rivolgendosi al padre, aveva detto «papà, possiamo comprare questo libro?»

I nostri cuori si bloccarono all’unisono, almeno fino a quando il padre rispose «Ahò, quante cose vuoi! Decidi, vuoi il libro o il cappellino dell’Italia?»

Il cappello in questione era uno di quelli da giullare, a spicchi bianco rossi e verdi e coi campanellini sulle punte.

Non portammo mai rancore al bimbo per la scelta che fece. Al suo posto avremmo fatto come lui.

I nostri cuori ripresero così a pulsare, infilando tra una sistole e una diastole anche un bel vaffanculo per il papà taccagno.

«Il problema è il prezzo», tornò a dire Luca dopo un po’.

«Ma come – risposi – se nessuno mai ce l’ha neppure chiesto!»

«E allora diciamoglielo noi! Mettiamo un cartello e scriviamoci che costa 15 €, anziché 20.»

Provammo anche così, ma senza alcun risultato.

Col passar del tempo il flusso di persone che attraversavano il ponte si andava facendo vieppiù sostanzioso, ma più aumentava il passaggio più cresceva il mio disappunto.

Era mai possibile che dei rugbisti non acquistassero un libro che parlava di Rugby (e quindi) di loro?

Era possibile.

Il sole era ormai alto e caldo, quando Luca, finalmente, anziché da rugbista si comportò da persona normale.

«Dani’, senti, sto un po’ in pena per i miei, vorrei tornare a casa…»

«Ma scherzi? È da stamattina che te lo dico. Piuttosto, come fai?»

«Mah, prendo un mezzo, arrivo a Termini e poi mi faccio venire a prendere alla stazione da Cristina.»

Quando Luca se ne andò e rimasi solo ebbi chiaro il sospetto che più che una genialata la mia iniziativa imprenditorial-editoriale fosse una vera minchiata.

Ma ormai ero in ballo.

Il fiume umano che passava il ponte ormai andava rarefacendosi sempre più.

Piero, che ogni tanto si avvicinava per sapere come andavano gli affari, mi aveva confessato di essere nonno, e che il suo nipotino giocava a Rugby.

«Pensa che gli piace pure leggere libri», aveva aggiunto puntando evidentemente a stupirmi.

A pochi minuti dall’inizio della partita (perché c’è una partita, alla base di questo racconto, ricordate?) non girava più un’anima, e l’unico suono che arrivava sul ponte era il vociare festoso provenente dallo stadio.

Decisi che era il momento di rifocillarmi, così andai dal paninaro che era dall’altra parte del ponte.

È bene che si sappia che un panino con la salsiccia e una birra non risolvono nessun problema, ma un pochino aiutano.

Stavo consumando un pranzo così triste e solitario che nemmeno ai tempi dell’università quando intravidi margini di peggioramento nella situazione: due colleghi di Roma Capitale avvicinarsi al banco.

“Ci siamo – pensai – ora vediamo chi comanda in questo mercatino”.

Mi sorpresi a fare il tifo per Piero. Beccare un verbale da qualche centinaia di euro era più di quanto ero in grado di sopportare.

I due, un uomo e una donna, vennero diretti verso di noi.

(Ka mate, ka mate…)

Piero li accolse cordiale.

(Ka ora…?)

Incominciarono a indicare la merce. La donna guardava le sciarpe, mentre l’uomo si voltò verso i miei libri.

(Ka mate, ka mate…)

Piero prese le sciarpe indicate dalla donna, una biondotta riccioluta, le infilò in una bustina, porgendogliela.

(Ka ora!)

I due salutarono Piero e si allontanarono (senza aver pagato).

Piero mi guardo è mi sorrise sornione.

(Ecco l’uomo dai lunghi capelli che ha fatto splendere il sole su di me!).

Venne da me e mi fece: «Tiette pronto che quanno finisce il primo tempo se mettémo proprio davanti ai cancelli».

Mi venne spontaneo dire «Ma mica si può fare!», ma mi resi conto mentre lo dicevo che stavo dicendo una cazzata. Infatti lui neppure mi rispose.

Guardai l’orologio, mancava veramente poco al calcio d’inizio. In lontananza arrivava l’eco della banda, poi lo stadio sembrò sul punto di esplodere e…

Silenzio.

Ogni rugbista, al posto mio, avrebbe capito come fanno 60.000 persone a stare assolutamente, ossequiosamente, silenti.

L’unica voce che sicuramente c’era in quello stadio non la sentivo con le orecchie, la sentivo con la pelle:

 

Ringa pakia

Waewae takahia kia kino nei hoki

A kia kino nei hoki!

Ka mate! Ka mate! Ka ora!

Ka mate! Ka mate! Ka ora!

Tēnei te tangata pūhuruhuru

Nāna i tiki mai whakawhiti te rā

A Upane! Ka Upane!

Upane Kaupane

Whiti te rā,!

Hī!

 

Proprio quando nella mia mente risuonò quel “HI” lo stadio esplose di nuovo.

Il resto fu un lento e noioso passare di minuti pieni di nulla.

Non sono mai stato un chiacchierone, per cui non ebbi né l’impulso di approfondire la conoscenza con Piero, né con la sua piacente aiutante, che a buon bisogno era sua figlia o la sua compagna e in entrambi i casi una chiacchiera di troppo e mi sarei potuto pure beccare una coltellata accompagnata da un carpiato ritornato con mezzo avvitamento giù nel Tevere.

Mi limitai ad aspettare il segnale di Piero.

Di lì a poco si scatenò la confusione più totale, con tutti gli ambulanti che svuotavano il ponte per riversarsi all’ombra dell’obelisco del Foro Italico.

«Ti conviene spostare la macchina e metterla qui», mi disse Piero, e io obbedii senza fare domande, capendo benissimo che, sebbene l’invito fosse in barba a qualsiasi tipo di segnaletica e regola del codice stradale, se lui lo diceva si poteva fare.

«I napoletani, i napoletani!»

Il mormorio crebbe diventando una sorta di allarme. Molti venditori arrivarono da Piero parlandogli con fare allarmato di questi “napoletani”.

Quando riuscii a capire la situazione sentii il bisogno di buttarmi per terra e lasciarmi morire.

A quanto pareva, il regno di Piero, incontrastato da polizia locale e non, aveva comunque degli oppositori: il clan di venditori partenopei che bazzicava lo Stadio Olimpico, e che, nella fase finale di ammuina con assalto in ordine sparso intorno all’obelisco, tentavano di accaparrarsi le posizioni migliori.

Rimasi ormai attonito a guardare lo scontro tra la banda romana e quella napoletana, minore in numero tuttavia agguerrita, domandandomi dove potesse celarsi la telecamera nascosta e se il “sorridi, sei su scherzi a parte” si sarebbe srotolato lungo l’obelisco prima o dopo che le due fazioni fossero venute alle mani.

Sfortunatamente non era uno scherzo, ma, fortunatamente, bastò solo qualche spintone per far sì che il fattore campo prevalesse regalando la vittoria e le posizioni migliori alla squadra di casa.

E all’interno della fazione romana la posizione “più migliore” spettava al grande capo, e al suo occasionale, simbiotico, pesce pilota.

Non c’erano più scuse, ancora pochi minuti e lo Stadio Olimpico avrebbe letteralmente vomitato sulla mia spartana bancarella tra le sessanta e le settantamila persone; praticamente più dell’equivalente della popolazione della mia città.

Per di più tutti appassionati di Rugby.

Come potevo non vendere neppure un libro?

E infatti…

Passate, chessò, le prime diecimila persone, un signore si fermò col figlio di una dozzina d’anni e l’aspetto da nerd.

Il bambino dimostrò di essere ben più determinato di quello della mattina (la mattina? Dello stesso giorno? Sembrava una settimana prima…) e chiese ed ottenne la sua copia de “Il Rugby è un’altra cosa – Storie di Rugby a Civitavecchia” (volume che è ancora in vendita e di cui vi consiglio l’acquisto… VI PREGO!).

Una nuova speranza albergava nel mio cuore!!!

Le seconde diecimila persone passarono inutilmente.

Così pure le terze e le quarte.

Verso la fine del controesodo un tipo si avvicinò guardandomi insistentemente.

Poi guardò il libro e lesse il mio nome.

Ne seguì una scena tipo Carramba che sorpresa, quando scoprimmo che eravamo stati fieri avversari agli albori del Club Rugbystico Centumcellae e delle sue prime memorabili sfide con quei simpatici bastardi del Rugby Trotters Anzio.

Mi fece molti complimenti per la mia iniziativa e fu ben felice di comprare il libro.

Avevo così venduto la mia seconda copia della giornata.

Nonché ultima.

S’era ormai fatto buio quando cominciai a riempire gli scatoloni e a smontare il tavolino.

Grazie al consiglio di Piero la mia Fiesta era molto vicina, così almeno potei risparmiarmi un po’ di fatica.

Ringraziai il capo dei bancarellari dell’Olimpico e per sdebitarmi della sua disponibilità (e protezione da guardie e da clan rivali) gli donai una FANTASTICA COPIA DE “IL RUGBY È UN’ALTRA COSA – STORIE DI RUGBY A CIVITAVECCHIA” CHE POTRETE AVERE CON LO SCONTO DEL 10% SE LO ACQUISTERETE INSIEME A QUESTO LIBRO! per il suo nipotino rugbista appassionato di libri.

Mentre la mia Fiesta (nuovamente minigonnata) rantolava rasoterra nel traffico congestionato intorno allo stadio, la radio parlava di un’Italia uscita (ovviamente) sconfitta, ma non umiliata dalla squadra più forte del mondo, di tutti i tempi e di tutti gli sport di squadra.

Stremato dalla stanchezza cercavo disperatamente di uscire dal grumo di automobili che si era formato intorno allo stadio, con l’urgenza morale di guidare verso casa.  Stavo facendo mente locale che il ricavato della vendita di due libri era precisamente equivalente alla somma di benzina, pedaggi autostradali, panino e birra.

Il risultato della giornata di massacro era che non avevo perso dei soldi.

Era rimasta ancora solo una stazione di questa buffa Via Crucis: il rientro a casa.

Per un attimo mi sentii di nuovo giocatore, quando la domenica sera tornavo a casa con le ossa rotte e mia moglie mi domandava:

“Com’è andata? Avete vinto?”

“No.”

Stavolta erano in due, mia moglie col rinforzo di mio figlio:

“com’è andata? Quanti ne hai venduti?”

Fu difficile spiegare come fosse andata e far credere che fosse tutto vero quello che era successo, dalla rapina in villa alla zuffa finale nel match Roma  – Napoli valido per la categoria venditori ambulanti.

Ormai fattasi notte restavo sul divano, con una birra, un forte mal di schiena e Antonio Raimondi e Vittorio Munari che mi raccontavano col MySky la prima Italia – Nuova Zelanda che non avevo visto, né dal vivo né dal morto.

Da bravo rugbista (che palle essere bravi rugbisti) cercavo di capire cosa poteva uscire di buono da quella sconfitta.

Ci ho pensato a lungo, per capire quel che potesse uscire di buono da quell’esperienza.

Ma alla fine l’ho capito.

Un racconto.


Id: 4098 Data: 26/04/2018 18:51:45