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Raccolta di testi in prosa di Cosetta Vergnani
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alla sera il merlo canta |
Alla sera, quando di tutti i rumori non non rimane che il canto dei merli, i ricordi mi portano in un mondo lontano, in un luogo magico che ora non esiste più e nel quale i miei amici d’infanzia ed io ci siamo incontrati ed abbiamo cominciato a camminare insieme con i piedi per terra e la testa nelle nuvole.
In quei momenti di quiete che precedono la notte, il vento mi trasporta nei cortili del tempo che fu .
Come se mi raccontassi un favola del secolo scorso, rivivo episodi della nostra infanzia trasformandoli in una storia un po’ più bella, forse un po’ idealizzata, ma una storia così come io l’ho sempre ricordata.
C’era una volta, appena fuori dalle mura della città, un quartiere che veniva chiamato: “Il gas”
In quel quartiere era cresciuta mia madre e, fin quasi alla fine degli anni sessanta, continuò ad abitarci mia nonna.
Anch’io, come i miei amici d’infanzia, sono nata lì ed ho continuato a tornarci anche quando non ci abitavo più, sono cresciuta al “Gas” con i miei nonni materni e con tutti coloro che abitavano nel suddetto quartiere.
Chi siamo, o meglio, chi eravamo, è presto detto.
Ricordo tutti nomi persino in ordine di data di nascita.
Fra le bimbe io, che sono nata nella primavera del 1952, ero la “più grande”, poi in autunno arrivò Anna (10/52) ed esattamente un anno dopo, nell’ottobre del ’53, nacque Fabrizia seguita dalle sue cugine Loredana, febbraio ‘54 e Giovanna: dicembre ’54.
L’altra Loredana, la Loredana C., era coetanea di Fabrizia, ma nata altrove come Morena (11/56), la più piccola e spesso più bistrattata, perché noi la sentivamo un po’ come una “palla al piede” essendo, in effetti, sempre attaccata ad un gamba di suo fratello Claudio.
I maschi erano meno numerosi ed il “più grande” era proprio Claudio nato nel giorno dei morti: 2/11/50, poi, sempre in ordine di data di nascita, ricordo Pier Giorgio: 6/51, Sergio: 1/52 ed Emilio: 4/53.
Claudio e Morena provenivano da un altro quartiere della città conosciutro come “il maccagnano”.
Quando ero “piccola” non sapevo dove fosse “il Maccagnano”, l’ho sentii nominare per la prima volta da loro: era là.… ai confini del mondo, loro erano cresciuti in un posto a noi sconosciuto, ma ora erano qui e, quando Claudio ci raccontava della sua prima casa, ci sembrava di fare un viaggio in una terra di frontiera…
Anche Pier Giorgio non era nato lì.
I papà di Pier Giorgio e della Loredana erano dipendenti del Banco S. Geminiano e S. Prospero quindi le loro famiglie avevano avuto la possibilità di venire ad abitare nel nostro quartiere.
Già, stavo dimenticando di dire che le case del “Gas” erano di proprietà della suddetta banca, ma non tutti gli abitanti del quartiere ne erano dipendenti.
Loredana C. ci raggiunse tardi, quando noi eravamo tutti fra i 6 e gli 8 anni, credo.
Per lei, diversamente da Pier Giorgio, che accettammo nel branco senza grosse difficoltà, ci fu qualche problema in più, fra noi e lei non ci fu simpatia a prima vista, forse perché ci sembrava un po’ scorbutica
E il “gas” che cosa era?
Ora esiste solo nei nostri ricordi, perché è stato fisicamente raso al suolo, ma è intatto nella nostra mente, nelle nostre fantasie e nei nostri ricordi.
Il “gas” è un gruppo di case a ridosso delle mura della città, a ovest di Porta Santa Croce, proprio di fianco ai gasometri costruiti nel 1857 per portare l’illuminazione in primo luogo al teatro Municipale ed inoltre per alimentare i lampioni a gas con i quali si dava luce alle vie cittadine: da lì, dai gasometri, viene il nome del quartiere.
Alcuni anni fa, passando da quelle parti, non incidentalmente, potei vedere che erano rimasti, là in fondo, dall’altra parte della strada di circonvallazione, solo i binari del treno e notai quanto fosse cambiato anche il rumore dello sferragliare dei treni su quelle rotaie che ora sembravano sospese sul terrapieno.
Era un rumore non più schermato ed attutito dalle case, non era più un suono amico, ora mi arrivava un’eco solitaria che non si mescolava alle nostre risate o allo stormire delle fronde dei banani che crescevano, stranamente rigogliosi, nell’aiuola di fianco al “magazzino grande”.
Se noi fossimo nati in epoca romana saremmo stati considerati il volgo, in età feudale ci avrebbero definiti “villici” giacché nati fuori delle mura della città.
Noi non eravamo “cives”, ma ognuno di noi sapeva che lo sarebbe diventato.
In ogni caso non ce ne importava un bel niente: non sapevamo che cosa ci fosse fuori dal cortile, ma sapevamo bene che cose c’era dentro e ci bastava.
Penso di esprimere il pensiero di tutti: amici, amiche, genitori e nonni che nei nostri ricordi tornano e si soffermano ad ascoltare, affermando che il nostro mondo era in quei cortili grandi, vari e pieni di vita.
Forse il primo cortile, quello che era la via di accesso ai magazzini principali, era pericoloso, dato il gran traffico di camion che passavano per caricare e scaricare le forme di “Grana” là depositate affinchè arrivassero alla stagionatura, ma noi eravamo abituati ad attraversare il cortile stando attenti a non farci investire, nessun incidente funestò mai i nostri giochi e la quotidianità del quartiere.
Ecco, vi ripresento le nostre case come se le vedessimo dalla circonvallazione della città: a destra c’era il Casermone, o Casino, un’ex costruzione signorile di tre piani il cui piano terra si affacciava, nella parte anteriore, su di un giardino circondato da un muretto che un tempo sosteneva una rete metallica ed aveva un cancello dal quale si usciva direttamente sul marciapiede della strada.
Mia madre mi disse che ai suoi tempi quello fu un vero giardino con piante e roseti che rimasero abbandonati ed incolti durante e dopo la fine dell’ultima guerra mondiale: noi lo abbiamo ereditato così..
La casa dei miei nonni fu la mia prima vera casa, la ritrovo in tutti i miei sogni ed è la casa nella quale, appunto, mi riporta spesso il vento dei ricordi.
Le mamme di quelli di noi che abitavano “là davanti” andavano nel giardino a stendere il loro bucato, noi bimbe ci stendevamo i bucatini delle bambole, ogni tanto ci si andava tutti a giocare., con grande scorno della Pia.
Nelle lunghe notti estive, quando gli altri erano già tutti a letto, Fabrizia ed io che, con la complicità delle nostre nonne, rimanevamo alzate fino tardi, ci andavamo a cantare o meglio: ad ululare ai lampioni
A sinistra c’era la casa bassa e lunga dove abitavano i miei nonni (Corradini) e quelli della Fabrizia (Ferrari).
Sullo stesso pianerottolo della mia nonna ci stavano le sorelle I. (quelle bimbe) coi loro genitori, la zia Rina e la nonna Artemisia e di fianco ai nonni dei Fabrizia, c’era la famiglia P. madre e figlia, con i loro gatti.
Un loro nipote veniva ogni tanto a trovarle, era Riccardo.
Riccardino era basso di statura e scuro di capelli e carnagione, abitava a Sondrio ed era figlio della sorella di Alberta P.
Quando lo lasciavano qui, dalla sua nonna, lui giocava con noi; la sua mamma era sempre molto gentile, ricordo, però, che le piaceva accarezzarci la testa e prendere i nostri capelli fra le dita, quasi a tastarne la consistenza, era un gesto affettuoso, ma a me, che ero selvatica e non mi lasciavo toccare facilmente, dava un po’ fastidio inoltre, ogni volta, mi veniva in mente la favola di Hansel e Gretel…Brrrr.
In fondo a questo caseggiato, proprio di fronte alle mura del Magazzino grande, c’era la scala della “Maria d’Afro” e di una famiglia con tanti figli tutti più grandi di noi che, in effetti, non furono amici nostri, ma dei miei cugini, tranne, forse, la Lidia per un breve periodo.
Attaccata al casino, quindi di fronte alle finestre della nonna di Fabrizia, c’era una costruzione lunga e stretta, ad un solo piano, che si protraeva fino ad oltre le mura dei “magazzini” ed era seguita da un’altra casa a due piani vicino alla quale, a formare un’elle, c’era un ulteriore caseggiato, anch’esso a due piani.
In queste due ultime case c’erano, insieme ad altre abitazioni, gli appartamenti dell’Anna, di Claudio e Morena, di Emilio e della famiglia di Ferrari Angelo detto Bigio-bagio o “Angiòl”.
Anche da loro veniva spesso un nipote di nome Giovanni.
Nel caseggiato accanto al casino ci abitava “l’Alberta la lunga” detta anche, dai miei parenti, “il cocco in piedi” (coccodrillo in piedi).
Costei era l’esatta fotocopia della Befana.
La finestra della sua cucina era proprio di fronte a quella della nonna Norina, la nonna di Fabrizia.
Quanti pomeriggi d’inverno o di brutto tempo abbiamo passato con lei davanti alla finestra a spiare il cortile!!
Per ogni persona che passava avevamo una battuta pronta od affioravano racconti e fantasie: ci raccontavamo “le favole del cortile”.
Il giro continua….
Sopra al portico che portava “la didietro” o “la in fondo”, come dicevamo noi, abitava l’Ileana C. che, però, traslocò presto ed al suo posto vennero Maurizio, ammalato di cuore, con i suoi fratelli Giorgio ed Emanuela, fra noi li chiamavamo: “quei bimbi”
Rammento il loro nonno, o perlomeno uno che loro chiamavano a volte “nonno” ed a volte per nome.
Era un vecchio strano, non era Reggiano, e, più che col suo nome, ci si rivolgeva a lui col suo un cognome.
Abitava con questo signore una megera che si faceva passare per sua moglie ed una figlia di nome Erminia.
Erminia venne a stare con loro dopo essere stata in collegio.
Chissà che cosa sarà stato di loro….!?
Sotto a quest’altro portico c’erano le cantine di Claudio, della Norina, di Bigio-bagio e di altri che ben ricordo essendo stati amici dei “miei”, ma le cui storie non sono utili per questa che vi sto raccontando.
I “magazzini grandi “, erano recintati ed avevano un cancello, che a noi pareva enorme e che veniva chiuso alla sera e nei giorni di festa.
Oltre al muro ed al cancello c’erano infatti i cosiddetti “magazzini grandi” cioè la costruzione principale per la stagionatura del grana di proprietà del B.S.G.S.P.
Rivedo, là dentro, le due grandi aiuole piene di fiori, la casa di Sergio, l’altra aiuola con il nostro famoso banano ed ancora, in fondo in fondo, prima della strada ferrata, un prato con degli alberi di prugne (gnamm....) ed anche un vigneto di proprietà esclusiva del papà di Emilio (niente gnamm...)
L’accesso ai “magazzini” ci era interdetto, il vecchio Busani e Pietro, il papà di Emilio, ebbero, uno dopo l’altro, il compito di non lasciarci entrare i bambini.
Era un luogo di lavoro nel quale c’era un transito continuo di mezzi di trasporto per il carico e lo scarico delle forme.
Occorreva anche fare in modo che i magazzinieri potessero lavorare indisturbati dai nostri giochi, dalle nostre gimkanei in bicicletta e dalle nostre chiacchiere.
Naturalmente eravamo sempre là con Pietro che ci cacciava via con poca convinzione e minacce mai eseguite dal momento che con noi c’era sempre anche suo figlio.
E il casermone?
Al primo piano c’era Pier Giorgio e, quando traslocò, ci si trasferì la famiglia della Fabri.
Loredana C. abiteava al II° piano, ma, al pian terreno ci “stava” la Pia (cattiva come una m.) con Ciossa.
Fin verso il 1957-‘58, ci abitò anche mia zia Carolina, la sorella di mia madre con lo zio Aldo ed i miei due cugini grandi: Giorgio e Bucci.
Anche il casermone aveva un portico sotto al quale c’erano la cantina di Pietro con dentro la “Topolino”, il “bagno” per le famiglie del pian terreno e l’ingresso del cantinone.
Io avevo una fifa nera quando si trattava di scendere nel cantinone, era buio, grande e senza luce elettrica.
Ogni volta che ci andavamo per giocare a nascondino mi tornavano in mente i racconti di guerra dei nonni o di mia madre: il cantinone, durante la II^ guerra mondiale era stato “rifugio” in caso di bombardamento.
Ciossa, allora, era il Capo caseggiato con l’onere di radunarvi tutte le famiglie in caso di allarme aereo per proteggerle dalle bombe e dalle mitragliate.
Questi eravamo noi. Con noi c’era una coralità di tante altre famiglie.
Ora che il vento si è fermato so che c’è in me tanta nostalgia, perché ho passato con quegli amici e fra quste case, anni, forse duri, con pochi soldi, con dei problemi in casa, con le rogne, le tigne e le febbri maligne …., ma sicuramente felici, allegri, spensierati, come debbono essere gli anni dei giochi, dell’infanzia e della prima adolescenza.
Il cortile era il mio regno, gli amici erano mia famiglia allargata.
Fin verso i 12-13 anni non riuscivo ad immaginare un giorno senza di loro ed il nostro cortile.
Passavo tutte le mie vacanze scolastiche a casa della nonna Aurora.
“Casa mia” era “il gas”.
Quando racconto in giro che nelle nostre case non c’era il riscaldamento centrale, ma solo una stufa a legna in cucina e, soprattutto, non c’era il bagno in casa, molti non ci credono, eppure era così per tutti noi.
Il nostro bagno era proprio un "cesso".
Situato a metà scala, era un terrazzo chiuso che, sulle sommità delle pareti aveva tre finestrini senza vetri, in terra due mattoni con nel mezzo un buco non collegato con la fogna, quindi quando ci si andava per i propri bisogni corporei bisognava accucciarsi ed il tutto cadeva direttamente per terra in uno strettissimo corridoio situato fra le nostre case ed il muro di cinta dei gasometri: una fogna a cielo aperto.
Il suddetto locale, perfettamente aerato soprattutto in inverno, serviva per ben quattro famiglie, non aveva la luce elettrica e ci si andava con la candela o con la pila.
Figurasi se c’era l’acqua corrente: ci si puliva con della normale carta da giornale opportunamente cincischiata per renderla meno dura.
Per me era una fortuna quando mi concedevano di farla nel vaso da notte, quando poi questa concessione veniva dalla nonna Norina e la Fabrizia ed io potevamo comodamente sederci sui vasi da notte per fare la cacca era un vera festa: quante volte ci siamo rovesciate con il vaso e tutto il resto.......!!!!!!
Il bagno dell’Anna era più bello: c’erano “la turca” e l’acqua corrente.
Sergio e Pier Giorgio, poi, erano dei Signori: avevano il bagno in casa. Non un vero bagno con la vasca, intendiamoci, ma un semplice sgabuzzino con un Water e un lavandino, in ogni caso, vuoi mettere a confronto il loro bagno al coperto e senza spifferi con il nostro all’aperto e con la neve che ci cadeva sul culo d’inverno???!!!!.
Ebbene, non avevamo il riscaldamento nelle case, non avevamo il bagno personale, nessuno per un bel po’ ha avuto l’automobile, quindi si andava a piedi o in bicicletta, la televisione in casa l’aveva solo l’Anna Minardi tant’è che spesso, alle 17.30, si andava tutti da lei a vedere la TV dei ragazzi: RIN-TIN-TIN, LASSY, LA FRECCIA NERA, e quei films sui pirati nel quale cantavano: “15 uomini, 15 uomini, sulla cassa del morto....”.....ed allora: che cosa ha fatto della nostra infanzia un periodo felice?
Sicuramente dei buoni genitori e/o nonni, di certo il fatto di essere cresciuti senza divisioni sociali rilevanti: io ho avuto molte più difficoltà quando i miei genitori si sono trasferiti in corso Garibaldi dove, non dovendo più lavorare fuori casa, mia madre poteva occuparsi direttamente di me e quindi non affidarmi alle cure dei nonni.
Mi toccava di rimanere a casa mia, in una bellissima casa con il bagno vero, il riscaldamento centrale, il giardino privato...., ma con dei compagni di gioco che, escluso Carlo S., ci tenevano a farmi notare che io ero la figlia del custode e loro i figli del Prof. Tal dei Tali, dell’Avvocato, del Giudice, del Pidocchio rifatto e via di questo passo.
Sono in ogni caso certa che la maggior fonte di benessere per noi fosse quel cortile.
Era il luogo prediletto dei nostri incontri e scontri, uno spazio libero e grande dove potevamo giocare tutto il giorno indisturbati fino ad arrivare in casa la sera sporchi e felici e con un sano odore di cane bagnato,
Ci davamo un’accurata lavata nel catino, c’imborotalcavamo ben bene e ritornavamo in cortile lindi e profumati pronti eventualmente per andare al cinema Parco con genitori o zii , oppure al cinema Diana dove andavo anche da sola, tanto c’era mio nonno Corradini che gestiva il deposito delle biciclette ed inoltre io potevo entrare gratis.
Non ci sono mai state liti furiose fra noi, non ci siamo mai picchiati veramente, le nostre sfuriate duravano al massimo un’ora poi si ricominciava a giocare più amici di prima.
C’erano i giochi non i giocattoli, solo Sergio ogni tanto veniva in cortile con dei soldatini, un fortino, un fucile, altri avevano il pallone, noi bimbe la bambola con la carrozzina, ma soprattutto avevamo le nostre gambe, le mani, le biciclette e ..... tanta fantasia.
Giocavamo a nascondino - qualcuno si ricorda che dal solaio della casa dell’Alberta Lunga si poteva entrare in casa di Pier Giorgio.
In effetti, non l’abbiamo mai fatto perché era troppo pericoloso e sicuramente le avremmo prese di santa ragione eppure da lì, con una scala, avremmo potuto accedere al lucernario a semicerchio che c’era in fondo al corridoio d’ingresso del suddetto appartamento.
E poi? A che cosa si giocava?
A strega impalata, tocca colore, guardie e ladri, i quattro cantoni, “ho perso una cavallina”, il fazzoletto (io cadevo sempre), alla bambole e alle famiglie con anche i maschi (qualche volta).
Con le figurine si giocava a muro per riuscire a vincere quelle mancanti, con le biglie o con i coperchini delle bibite, dentro ai quali si disegnava il nome di un corridore, facevamo le piste e giocavamo al giro d’Italia.
Fingevamo di fare i commercianti oppure..... non facevamo un bel niente, ce ne stavamo seduti sul muretto del giardino a guardare per aria o a raccontarci delle balle spaziali..... poi prendevamo le biciclette e via a fare dei giri intorno al cortile con le cartoline attaccate ai raggi per simulare il motorino.
A proposito di figurine ricordo ancora che il grido di battaglia per un po’ fu: “no rien de rien...” preso da un canzone in voga allora, significava: “no niente di niente” e si cantava quando erano gli altri a tirare a mo’ di scongiuro affinché non vincessero.
Nessuno di noi aveva ancora studiato il francese ed io cantavo tranquillamente “no rialerian” che per me voleva dire la stessa cosa e funzionava ugualmente.
E dopo? Dopo, tutti insieme sul carriolo tirato da mio nonno o da qualcun altro, o sulla Topolino di Pietro....che bello!
Quando veniva il gelataio noi compravamo il bif ed Emilio, che era molto buono e gentile e sicuramente generoso, ce ne offriva sempre un po’ del suo.... dopo averlo leccato tutto accuratamente e magari averci anche sputato sopra.
Il deposito di biciclette davanti al cinema “Diana”.
Fino agli anni ’80, credo, erano funzionanti ben quattro cinematografi estivi: il Diana, il Lux, l’Aurora ed il Parco, dislocati ai quattro angoli della città poter raccogliere la popolazione delle cosiddette “quattro porte”.
Durante l’estate, quando i cinema invernali chiudevano, i Reggiani li frequentavano abitualmente.
Era estremamente piacevole, oltre che socializzante, andare a vedere un bel film avendo per tetto un cielo di stelle e, magari, una falce di luna…
Ci si recavano intere famiglie, in compagnia di altre persone del caseggiato, della strada o della zona, tutti con il loro “zampirone” da tenere in mano per difendersi dalle zanzare..
Che bello trovarsi tutti davanti al grande schermo con i piedi negli zoccoli e sulla ghiaia!
Ho sempre pensato al cinema estivo come ad un luogo magico per elezione, un contenitore di poesia e di socialità e, nello stesso tempo, una dispensa di frescura e di cultura.
Ora non ce ne sono praticamente più
Sono persino scomparsi i cinema cittadini invernali sostituiti da orribili multisale periferiche, mentre il centro della città si desertifica e muore.
Tutti noi cinquantenni abbiamo conosciuto una città viva ed a misura d’uomo, con riferimenti costanti e sicuri come i negozietti sotto casa nei quali si andava a piedi per la spesa e le chiacchiere quotidiane.
Il cinema Diana, era la migliore delle quattro arene estive.
Lì, davanti al cinema, il mio nonno, insieme ad un socio, detto “zavasa”, gestiva il deposito per le biciclette o i motorini di chi entrava per il film serale.
Ricordo benissimo i prezzi per il deposito richiesti negli anni fra il 1955 ed il 1965: £ 20 per la bicicletta, £ 30 per motorini, £ 40 per le moto, e £ 50 per le rare auto, fatte parcheggiare lungo Viale Allegri (nel ’63 il gelato constava 25£)
A fine serata i due soci si dividevano il ricavato.
Le mattine erano dedicate alla “conta” delle monetine ed io mettevo sempre lì vicino il mio salvadanaio, quello di ferro con l’alveare della Cassa di Risparmio, ….” non si sa mai che non ci cada dentro qualche monetina…”
Facevamo le torri da 5, 10, 20, 50, e 100£ poi si contava…al sabato e la domenica, quando proiettavano filmoni tipo “Via col vento”, si poteva arriva anche a 10.000 £., che per l’epoca, erano tanti soldi.
In quelle sera tutta la famiglia, me compresa, aiutava il nonno.
All’interno il cinema aveva sedie di ferro smaltato in verde chiaro, il pavimento in ghiaia, era circondato dai giardini pubblici, ed aveva a lato la caserma “Zucchi” all’epoca funzionante ed occupata dei Lancieri di Savoia Aosta.
Ogni tanto nella musica dei film si inseriva la tromba militare che ne scandiva la vita interna e noi potevamo sapere l’ora anche senza orologio.
Nei momenti di proiezione, quando nessuno veniva a consegnare o ritirare biciclette, ci si rilassava con una partita a chiacchiere, una birra dal chiosco o due passi nei giardini, che a allora non erano pericolosi, l’unico problema era quello di non disturbare le “coppiette” che ci si appartavano.
“Zavasa”, se ben ricordo, era socialdemocratico quindi, politicamente parlando, nemico del nonno, che era del PCI, lo chiamava “Saragattian mers” ed ogni tanto intavolava con lui discussioni che ogni tanto degeneravano in vere e proprie liti!!!
Alla fine dello spettacolo era tutta una corsa per riconsegnare i mezzi di trasporto ai legittimi proprietari, il nonno era anfetaminico, ed è sempre stato un “fugarlein” che nel nostro dialetto vuol dire “persona che prende fuoco molto in fretta”: chi si sbagliava a riconsegnare la bici veniva redarguito severamente e le “madonne” si sprecavano; le biciclette, infatti, venivano riconosciute mediante un cartoncino numerato, non ci si poteva sbagliare.
I cartoncini li facevamo durante l’inverno, lo stesso numero veniva segnato su due cartoncini, uno da consegnare al proprietario l’altro da attaccare alla bici, infilato in una graffetta fatta come un grosso “cavaliere” (le graffette le costruiva il nonno con il filo di ferro).
In questo modo l’utente arrivava, pagava, gli veniva dato il cartoncino ed il suo “doppio” doveva venire appeso al manubrio del mezzo, tutto questo in pochi secondi, pena un fila di improperi….
Quando, al sabato e la domenica, veniva anche mio padre a dare una mano, era tutto un rosario…perché lui era molto lento…secondo i tempi del nonno, naturalmente…ero lenta anch’io ed anche mia madre…”Zavasa” poi, “al saragatian”, “l’era un boun da gnint” per non parlare della “maschera” che essendo addirittura un mezzo democristiano, era un buon uomo, ma, non capiva niente del tutto.
In realtà furono bravissime persone che, come mio nonno, arrotondavano le loro magre pensioni.-
Quante sera davanti al cinema Diana o dentro a vedere dei film!
Proiettavano ogni genere di film, dai Western ai film per famiglie come “Tutti insieme appassionatamente” a quelli del neorealismo tipo “Ladri di biciclette” e “La Ciociara”
Da bambina vidi “Divorzio all’Italiana” e anche “Scandalo al sole”, non ci capii niente: qual era poi lo scadalo?
Ho visto anche parecchi Western, ricordo soprattutto “Duello alla pistola”, meraviglioso, perché con me c’era anche Claudio del quale ero stracotta.
Non eravamo ricchi negli anni ’50, ma oggi siamo molto più poveri, abbiamo solo una sala estiva in centro, più brutta e più scomoda, però hanno aperto le “123” sale del centro commerciale “I Petali” dove orde di ragazzi sbrodolosi ed urlanti vanno anche per trovare negozi e bar che ti vendono patatite e frittelle e non hanno nessuna voglia di veder le stelle : che ci vadano loro!!!!!
GIOCHI D’OMBRA
Non appena finisce la scuola, come hogià detto, mi piace trasferirmi a casa dai miei nonni materni e rimanerci anche a dormire.
Ecco, questa notte ho dormito dalla nonna e, al mio risveglio, il sole, scendendo dal tetto della casa di fronte, è già penetrato fra le persiane socchiuse formando una sottile ed obliqua striscia di luce nella quale danza un pulviscolo dorato.
Un’ultima stiracchiata fra le lenzuola poi, sveglia! Drizzo subito un orecchio per sentire se c’è chi si muove in casa.
Il nonno sta ascoltando il giornale radio e mi arrivano chiacchiere in dialetto: “Bene”, penso, “si sono già alzati, fra un po’ li raggiungerò; intanto mettiamo in moto le antenne, c’è qualcuno in cortile?
Forse “quelle bimbe” sono già andate giù, loro sono sempre le prime….
Hanno già cominciato a giocare senza di me?”
Il traffico é intenso e non è facile captare le voci del cortile.
Scendo dal letto per andare alla finestra e guardare a che punto è la mattina.
No, non c’è nessuno, ho tempo di andare di là a salutare i miei nonni prima di correre giù.
Loro hanno capito che mi sono svegliata sentendomi muovere nella camera da letto, infatti, mi arriva un suono molto, troppo, familiare: quello che fa il nonno che sta sbattendo l’uovo nella scodella per il solito zabaione: non si va in cortile senza averlo mangiato … (la putina la magna mia al lat….alora agh fom al zambaioun ch’la ga da crescer…).
Gli altri, appena alzati, fanno colazione con una bella di tazza di caffelatte piena di tanto di quel pane secco che il cucchiaio sta in piedi da solo… (proprio come piace allo zio Aldo..).
Anche a me piacerebbe mangiare il caffelatte, mi viene l’acquolina in bocca guardando gli altri mangiarselo di gusto, ma ho un po’d’enterocolite ed il latte, la mattina presto, potrebbe farmi dei brutti scherzi, quindi non lo voglio per evitare eventuali attacchi di mal di pancia o, peggio, di diarrea.
Magari poi ne ingurgito mezzo litro direttamente dal collo dalla bottiglia quando viene a portarcelo il lattivendolo a metà pomeriggio: è una festa fare il buco nel tappo d’alluminio e berselo a garganella, mentre la nonna brontola a più non posso!!!!!
I pomeriggi estivi sono lunghi e mi posso anche concedere di perdere tempo in un giro in quel meraviglioso “cesso” che c’è a metà della scala ed è, in pratica, un terrazzo chiuso con due finestrini in alto per far entrare l’aria e, quando piove, anche l’acqua!
A casa mia, quella dove abito con i miei genitori, abbiamo uno splendido bagno in casa, ma io sto bene a giocare dalla nonna.
Là ci sono tutti i miei amici, i giochi, i suoni, gli odori di sempre, insomma, c’è il mio regno, la mia “villeggiatura” in un altro quartiere della città da dove, quando voglio, posso andare a piedi a trovare la mia mamma.
Dalla nonna, il cortile, fiancheggiato dalle nostre case, è grande, in terra battuta e sassi.
In fondo, un muro con un doppio cancello divide il nostro cortile dal piazzale dei magazzini principali nei quali vengono stoccate le forme di “grana” per la stagionatura: di tutti i profumi, quello che amo di più e che mi rimane addosso più a lungo, è proprio l’odore del “Parmigiano –Reggiano”, il formaggio più buono del mondo.
Noi bambini ci fermiamo spesso a guardare i formaggiai al lavoro.
Loro sistemano le forme, le rivoltano, le ricoprono di cera nera per farle stagionare protette dalla luce.
In certa giornata, poi, le tastano, e le battono con un martellino speciale, asportano delle piccole quantità di formaggio con una specie di cavatappi e, se trovano imperfezioni, devono raschiare le croste…..
Quando fanno “le raschiature” per noi sono giorni di festa e grandi abbuffate di raschiature di crosta di formaggio, qualche volta anche di chizze che le nostre nonne o mamme ci preparano ripiene di tutto quel morbido e soffice “ben di Dio”!!!! Slurp!!!!
In cortile ci conosciamo tutti.
Nessuna famiglia è ricca, ma c’è solidarietà per tutti e, soprattutto, c’è spesso voglia di scherzare, forse per rendere meno dura la vita prendendola “alla leggera”.
Le nostre giornate estive trascorrono seguendo il giro del sole.
La mattina presto l’ombra è davanti alla casa della mia nonna ed e là che noi mettiamo le nostre seggioline, (normali sedie alle quali hanno segato un po’ le gambe per adattarcele), per riposarci fra un gioco e l’altro.
Giochiamo, corriamo, a piedi e in bicicletta, litighiamo e rifacciamo la pace mentre il sole continua la sua discesa dal muro della casa di fronte a quella della nonna ed a metà mattina, quando le nostre sedie sono completamente esposte ai suoi raggi, non ci resta che raggiungere l’ombra dall’altra parte del cortile, a ridosso del muro del “casino”.
Le gambe delle nostre sedie, trascinate per raggiungere la nuova ombra, formano dei binari fra i sassi del cortile ed a me piace pensare che siano le rotaie di un treno fantastico visto e conosciuto solo da noi.
A mezzogiorno, quando suona la campana del convento dei frati Capuccini, ci chiamano per il pranzo e, nel momento in cui tutto il cortile è in pieno sole, si va a cercare il fresco nelle case.
Le persiane sono già state tutte accostate per lasciare fuori il caldo e le mosche ed, infatti, entrando, si ha subito una bella sensazione di refrigerio.
In cucina è tutto pronto: la tavola, col suo ripiano di marmo, è stata apparecchiata, sul fornello bollicchia il ragout e, mentre “radio Capodistria”, trasmette le canzoni con dedica, dallo “sgombrino” dove vado per bermi un bel mestolo d’acqua fresca, mi arriva il frinire delle cicale.
Fra mezzogiorno e l’una tutti tornano dal lavoro, le famiglie si riuniscono attorno al tavolo per il pranzo.
Non si mangiano cose raffinate, la carne c’è solo la domenica, durante la settimana abbiamo la pastasciutta, le insalate con la cipolla, i peperoni e il pomodoro oppure le patate con i fagiolini e le uova e il prezzemolo tritato fine.
Ogni tanto la nonna ci fa il baccalà fritto con una buonissima pastella al rosmarino, (io mangerei solo quella), se ci sono i salumi sono quelli che costano meno come la pancetta, la cicciolata, la mortadella, qualche volta ci sono anche il prosciutto e il polpettone, ma solo per noi bambini.
Il brodo per la minestra, spesso, viene fatto con il dado aggiungendoci un po’ di “erbouni” e la conserva di pomodoro per renderlo più gradevole; il nonno vorrebbe sempre le tagliatelle fatte in casa, io i quadrettini (la fouieda l’e bouna anca d’istee) o la tempestina con dentro tre cucchiaiate di formaggio grattugiato.
La frutta scarseggia perché costa cara, a meno che non ce ne mandi un po’ la zia Elvira che ha il “banco” in Piazza Piccola.
Io mangio con un piede fuori del tavolo, non vado quasi mai a letto al pomeriggio, se lo faccio ci sto il minimo indispensabile con la mamma, che fa la commessa in un negozio di tessuti e deve alzarsi alle 2 meno dieci.
Nell’ora in cui l’ombra ricomincia a comparire dalla parte della casa della nonna, io, incurante delle brontolate casalinghe, ritorno in un cortile caldo e deserto, mentre le mie amiche sono tutte a letto o chiuse in casa.
Non mi dispiace stare sola, ci sono abituata, come tutti i figli unici.
Invento dei giochi solitari, parlo con personaggi che invento lì per lì, a volte, faccio il bucato delle bambole.
In un catino, appoggiato sulla mia seggiolina, con un pezzo di sapone di Marsiglia rubato alla nonna o con un po’ di detersivo in polvere, lavo i loro vestitini e la loro biancheria.
La scelta, in fatto di detersivi, è fra il ‘Tide” e l’‘Olà’, io preferisco il “Tide” perché dentro la scatola ci sono delle piccole sorprese, ci sono proprio dei giocattolini piccoli piccoli, tanto che quando qualcuno di noi ha dei giochini poveri ci viene spontaneo chiedere se l’ha trovato nel “Tide”.
Sotto il portico c’è un rubinetto e me ne servo per prendere tutta l’acqua che mi serve, poi vado a stendere il mio bucatino insieme a quello “dei grandi”
Quando il cortile ricomincia a tornare in ombra ed il sole si arrampica sul muro della casa di fronte, tutti ritornano in cortile la vita ricomincia.
I giochi riprendono vigore.
Si gira in bicicletta, si gioca a nascondino o ai quattro cantoni o ad acchiappacolori.
Stiamo “qua davanti” a guardare le “macchine” correre sulla circonvallazione oppure ce n’andiamo “là di dietro” a chiacchierare con le mamme e le nonne di quelli di noi che che ci abitano.
Ogni tanto, si va in casa di Anna a vedere la “Tv dei Ragazzi”, però questa è una cosa che facciamo soprattutto in inverno.
“Là in fondo”, davanti ai magazzini, giochiamo a palla, a boccette o alle figurine per poi tornare qui davanti, quando ormai tutto il cortile comincia a diventare scuro e del sole non rimangono che gli ultimi bagliori sui vetri delle finestre dell’ultimo piano del casermone.
A quell’ora le rondini stridono alte nel cielo, nel fervore dell’ultimo pasto prima del buio e, mentre compare la luna in un cielo ormai fra l’indaco e il blu, noi ci raduniamo in giardino a giocare ”al mondo dichiara guerra a” fino a quando non ci richiamano nelle case per i lavaggi serali con i quali ci ripuliamo dalla polvere di tutto il giorno per essere pronti per la cena.
Dopo cena, in ogni caso si torna in cortile con le nonne a goderci l’agognata frescura.
La mia amica Fabrizia ed io, ceniamo spesso in cortile, portandoci la scodella piena di pasta, un bicchiere d’acqua e un po’ di pane sulla nostra sedia che apparecchiamo trasformandola in tavolo, ci sediamo su di uno sgabello…e …stiamo meglio che al ristorante.
Il sole si è messo il pigiama ed è andato a letto prima di noi che siamo ingorde di giochi, canti e risate nella nostra stupenda e spensierata infanzia nella quale le ombre sono solo quelle che si rincorrono sui muri.
Elegia della crosta di formaggio.
La pulivamo, raschiavamo la patina nera che la ricopriva, soffiavamo in terra le impurità che rimanevano poi la mettevamo sulla stufa, nel mezzo, dove il calore è più forte.
Lei sfrigolava, “chiamava la neve”, si abbrustoliva, nell’aria si doffondeva un profumo celestiale.
Quando ritenevamo che fosse pronta affondavamo la forchetta nel suo ventre molle ed incominciava il rito.
Toglievamo le parti più annerite e gnamm…entravamo nel paradiso dei ghiottoni.
Lei era la crosta del formaggio “grana”, quella che rimane dopo averlo grattugiato tutto.
Nel momento in cui addentavamo la nostra crostra tutto il palato cominciava a ridere, con lui ridevano il naso, la lingua e persino le orecchie.
Iniziavano dei cori di mugolii di delizia.
Sì, dei cori, perché ognuno metteva la “sua” crosta” sulla stufa, era come una terapia di gruppo.
C’è chi va dallo psichiatra per avere qualcuno con cui parlare, noi ci radunavamo intorno ad una stufa a legna ad attendere che le nostre croste di formaggio si abbrustolissero per iniziare la tereapia del gusto.
Fuori nevicava o pioveva o c’era la nebbia e noi eravamo lì al caldino in cucina accando alla stufa a legna a mangiare croste di formaggio ed a raccontarci le sensazioni di delizia provate insieme alle nostre quotidianità.
In altre stagioni o contemporaneamente le croste venivano messe nel brodo o nel minestrone: al momento di “fare i piatti” iniziava la gara a chi se la ritrovava nel suo.
Pensa ad un bel piatto di quadrettini o di maltagliati fatti in casa con dentro la tua crosta di formaggio, morbida, saporita e gustosissima.
Intorno al tavolo era tutto un uggiolio soddisfatto, finita la mia andavo a cercare quella della nonna che non riusciva a mangiarla con la dentiera: doppia razione di paradiso.
Mangiavamo il nostro nettare degli dei tuttti accanto alla stufa o alla tavola mentre, in cortile, ai topini “cadeva la goccia”.
I tram verdi
A quei tempi giravano per la città degli autobus, che noi chiamavamo “tram” anche se non andavano sulle rotaie, verdi come ramarri.
Negli anni sessanta prima del boom economico, non c’erano molte linee tramviarie.
Ricordo la linea 1 Foscato- Albinea (forse), la 2 Villa Cella-Villa Masone,
la 3 Gardenia-via Wibickj, la 4 Santa Croce-via Bismantova, la 5 che andava a Baragalla, la 6 Piscina comunale-Rivalta.
I tram facevano dei percorsi obbligati che attraversavano la città nel decumano e sulla via Emilia.
Il 4, il 5 e l 6 transitavano su Corso Garibaldi.
Il 2 serviva tutta la via Emilia, direzione est-ovest, il 3 andava verso il foro boario ed il 5 e il 6 andavano verso villa Rivalta provenedo da diverse direzioni.
Noi, la mamma ed io, per andare dai nonni avevamo a disposizione il 4, il 5 e il 6 e ..la bicicletta.
Stante la situazione di non disponibilità nei miei confronti dei nonni paterni, occorreva, ogni matttina, prendere un tram in V.le Umberto I° per andare a S.Croce esterna, “al Gas”.
Che storie con quel tram!
Ogni mattina occorreva prendere quello delle 7,19 lo ricordo come fosse oggi…che fatica rincorrere quel tram e non potersi permettere di perderlo.
Non potevo avere la pipì, meno che meno la cacca: il tram non aspetta…
Se dicevo di aver un bisognino poteva anche capitare di avere una sculacciata.
Mamma non poteva permettersi di arrivare in ritardo.
La pagavano poco e con contributi dimezzati, ma non poteva perdere il lavoro, era il nostro sostentamento più sicuro.
Mio padre era spesso disoccupato.
Cosi, piove, nevica o tempesta, il tram partiva alle 7,19 e bisognava essere in fermata, dall’altra parte della strada, di fronte al sanatorio, alle 7 e1/4.
“mamma, la cartella è pronta, io sono pronta, andiamo?”
“dai nanoun che è tardi.”
Ero la prima ad arrivare a scuola, stavo con la bidella o con la gnoccara fino a che suonava la campanella.
Sul tram di solito mi facevano sedere, ma non sempre, allora stavo davanti alla porta per non essere schiacciata e per poter respirare.
Ricordo le “maniglie” alle quali si aggrappavano “i grandi”: erano di ferro e tirandole mostravano delle pubblicità, spesso chiedevo alla mamma di farmela vedere, ma lei era piccola di statura e non ci arrivava bene, allora stavo a guardare i più alti….mi passavo il tempo.
Appena saliti c’era il bigliettaio. Con la sua postazione, in fondo, con una barriera intorno, un sedile e la cassa.
I biglietti erano arancioni e costavano 25-30 £, io non pagavo in quanto la mia statura era inferiore a 1 mt. e me ne rammaricavo moltissimo.
Scendevamo lì dall’hotel Astoria, in estate, ed andavo dalla nonna mentre, durante l’anno scolastico si scendeva di fianco alla Banca d’Italia e di lì alla mia scuola c’erano due passi.
La mamma poi tornava indietro per essere sul posto di lavoro, in piazza Piccola, entro le 8,00.
A quei tempi tutti i negozi aprivano alle 8,30 ma occorreva arrivare prima per preparare l’apertura.
Così iniziava la nostra giornata di lavoro, io a scuola e lei da Panciroli.
Mio padre andava dove doveva lavorare in quel momento.
La cosa più dura era tornare a casa a San Pellegrino la sera.
Il tram aveva la fermata sotto il sottopassaggio di via Makkallè, dove, in inverno, fischiava un vento siberiano, coi temporali si allagava e con la bella stagione era comunque scomodo.
Alle 8 di sera i tram giravano vuoti.
Speravo sempre che passasse di lì lo zio Remo con la sua 1100 Fiat, ma non succedeva quasi mai.
Una volta arrivai a dire a mia madre che mi ero proprio stancata di dover fare tanta fatica solo perché lei voleva andare a letto con “quello là”, io volevo stare a dormire dalla nonna Aurora e chi se ne frega di mio padre, viene poi lui se mi vuole vedere….!
Qualche volta è venuto e per me è stata una festa, ma di solito il percorso era “gas” –S.Pellegrino e viceversa….sgrunf.
Là non era casa mia era quella di mio padre e non ci andavo neanche d’accordo con mio padre.
La nonna Ida mi voleva bene, ma gli altri non mi volevano neanche vedere…
Che cosa ci andavo a fare io?.
Adesso voglio bene a quella casa, ma allora non mi piaceva.
I miei cugini, non mi volevano ed io stavo bene senza di loro, mio nonno Ulderico, non mi voleva, le zie si facevano i dispetti fra di loro e non mi degnavano di uno sguardo, tutte, tranne la zia Fernanda che subiva le angherie delle cognate….
“Mo’ che cà cla tin al fom.!”
Eppure, la domenica, si stava bene là a S.Pellegrino.
Avevamo un appartamentino simpatico, comodo, che si scaldava con poco, c’era un panorama bellissimo davanti alle finestre, ma la mia casa era a Reggio.
I tram verdi ci portavano avanti e indietro ed io crescevo senza troppe storie, ma con un po’ di fatica.