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Raccolta di testi in prosa di Luigi Pistis
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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Vendonsi tappeti

                                                                         

Garantisco che la vicenda di cui parlo è vera, ed è accaduta proprio nei termini che sto per raccontare. Alcuni giorni fa ne ha parlato a lungo persino la Televisione Balkaziana, che è sotto rigido controllo governativo e non può quindi mentire.

Il signor M.K.S.  era un ometto non più alto di un metro e cinquantaquattro, ma non per questo mancava della stima dei suoi concittadini per i quali,  come è noto,  le dimensioni fisiche sono un elemento imprescindibile di considerazione sociale.  Per molti anni aveva insegnato nel liceo della sua città;  ora che era in pensione, aveva molto tempo libero  e lo occupava facendo lunghe passeggiate nelle viuzze del centro, seguendo i percorsi scelti dal suo bassotto.  Fu in una di queste occasioni che la sua attenzione venne attirata dall’insegna di un negozio di cui non si era mai accorto prima. Diceva:  VENDONSI  TAPPETI  VOLANTI.  Quello  che lo colpì,  beninteso, non fu l’aggettivo “volanti”,  che giudicava una trovata pubblicitaria,  ma il verbo “vèndonsi”.

Aveva così  tante volte recriminato tra sé e sé di fronte a certi sgangherati e sgrammaticati cartelli quali  “Vendesi villette abbinate con grazioso giardino”, “Vendesi panini e tramezzini”,  che restò incantato di fronte a questo esempio di proprietà  grammaticale più unico che raro.

Decise quindi di entrare nella botteguccia per fare le congratulazioni al proprietario.

Costui era un tipo segaligno, dall’aria piuttosto trasandata, con un gran barbone nero appena segnato da qualche traccia argentea. Le congratulazioni del professore lo lasciarono del tutto indifferente tanto che questi,  per pura cortesia, visto che si trovava nel negozio, chiese informazioni sui tappeti in vendita.    Senza sprecare alcuna parola, il commerciante gli mostrò vari  tappeti di fattura e dimensioni  diverse, decantò la struttura, la lavorazione, il numero dei nodi per centimetro quadrato,  la felice armonia del disegno e dei colori.  Aggiunse poi che si trattava, logicamente, di tappeti volanti.

Il professore, affascinato dalla fluidità dell’eloquio, non si mise a ridere.  Sotto sotto pensava che un comunicatore di quel livello andava in qualche modo premiato e gli chiese quindi il costo di uno di quei tappeti.

Il commerciante lo considerò attentamente e poi estrasse da uno scaffale un esemplare che sembrava un ushak, ma di dimensioni piuttosto ridotte. Spiegò che, dato il limitato peso corporeo dell’acquirente, quel tappeto poteva bastare. L’avrebbe ceduto per 1750 balkazyn, cifra che,  giudicò il professore, ammontava quasi esattamente ad una rata della sua pensione e non era poco per un tappeto di quelle dimensioni.  Ma decise di rischiare l’acquisto, anche perché di un tappeto aveva  veramente bisogno, visto che quello che teneva in salotto era consunto in più punti.

Senza aggiungere altro, il commerciante lo arrotolò a cilindro e gli spiegò che la prima notte di luna piena si sarebbe dovuto recare in un luogo elevato, avrebbe dovuto sedersi sul tappeto a gambe incrociate e in quella posizione avrebbe dovuto semplicemente aspettare.

Così fece il professore alcuni giorni dopo su un poggio non distante dalla città, vergognandosi un poco della propria dabbenaggine. Ma trascorsa mezz’ora senza che nulla accadesse, non gli restò altro che rientrare nel suo appartamento col tappeto sotto il braccio.

La mattina seguente, fingendo una collera che in realtà non provava, tornò al negozio.  Davanti alla vetrina sostava un vecchio furgone tutto ammaccato su cui il mercante stava caricando i tappeti della bottega.    “Come ,”   disse il professore ,  “ si sta trasferendo? Chiude l’attività? “

“ Per forza,”  rispose  l’omone,   “ con la crisi in cui ci troviamo, non riesco a sopravvivere.  Son qui  da  un mese e l’unico tappeto che son riuscito a vendere è il suo ushak.” 

“ Ma non dipenderà un poco  dal fatto che i suoi tappeti  in realtà non si alzano da terra?”  ribatté ironico il professore.  E  proseguì  lamentandosi  perché il tappeto non aveva affatto preso il volo e reclamando uno sconto adeguato al mancato funzionamento.

L’omone parve sorpreso dalle parole del cliente,  rifletté un attimo e poi gli chiese:

“  Ma come era vestito, quando si sedette sul tappeto?”

“ Così come mi vede! “  rispose impermalito il professore.

“ Ecco,”   ribatté l’omone ,  “è proprio questo che non va.  Nelle illustrazioni con tappeti volanti lei ha mai visto il passeggero in giacca e cravatta, con le Timberland ai piedi?  Credo di no. Il   tappeto non l’ha riconosciuta e per questo non si è mosso.  Deve procurarsi un vestito tradizionale, completo di caffettano,  babbucce ai piedi e turbante in testa.  Vedrà che la cosa funzionerà .”

Il professore sentiva puzza di canzonatura,  ma era un uomo di principi e decisamente pignolo.  Si ricordò che in soffitta doveva esserci un abbigliamento simile appartenuto a qualche trisavolo.  Si propose di rispolverarlo, e quella notte stessa ritornò sul poggio.

 La luna,  bianchissima e tonda,  stava sorgendo tra la fitta vegetazione sottostante.

Cominciò subito a cambiarsi di abiti: piegò diligentemente pantaloni, camicia e giacca, si tolse le Timberland e si infilò le pantofole ricamate.  Infine distese il tappeto sull’erba e vi si sedette sopra con le gambe perfettamente incrociate.

Un po’ più sotto,  una coppia di fidanzati in vena di effusioni,  si erano imboscati tra i cespugli e  osservavano la scena incuriositi.

I due ragazzi dissero che dopo pochi secondi il tappeto cominciò a frusciare, come se una forza misteriosa lo spingesse verso l’alto. Poi videro il tappeto su cui stava seduto un uomo vestito in modo strano,  prendere l’abbrivio,  pencolare un poco,  ma assestarsi subito dopo e scivolare con grande levità verso la luna piena.  

*

Uccelletti

 Il contabile alzò lo sguardo dal foglio su cui stava lavorando da troppe ore. Si tolse gli occhiali, spinse con un gesto di stizza la calcolatrice più in là e si massaggiò le tempie. Niente, tempo sprecato, i calcoli non tornavano, sembrava quasi che non volessero tornare.

 Si alzò dalla scrivania e, avvicinatosi alla finestra dello studio, guardò fuori  ( la cosa non succedeva spesso).  Si accorse che c'era il sole e sentì il bisogno di fare una passeggiata (anche questo non succedeva molto spesso). Benché la temperatura fosse dolcissima si infilò un cardigan nocciola e un cappello a tesa larga.

 Poco dopo camminava lungo una viottola che si inoltrava tra i campi dietro casa.  Era un territorio sconosciuto, per lui. Il suo sguardo non era adatto a comprendere l'orizzonte e i prati che stavano intorno, era allenato a padroneggiare uno spazio di poche spanne, grande più o meno come la sua scrivania. A ciò che era più distante non sapeva dare alcun senso.

 Il fondo sconnesso del sentiero, con buche e ciottoli vaganti, lo infastidì ben presto. Fu sul punto di cadere e decise di sedersi su una specie di paracarro che spuntava dall'erba del ciglio. Si trovava quasi di fronte a una casa di campagna stretta e lunga, che si affacciava direttamente sul sentiero. Su un lato un bambino stava disegnando appoggiato a quella che sembrava una sbilenca tavola di legno sorretta da quattro pioli. Era talmente compreso nel suo lavoro che non aveva nemmeno alzato lo sguardo per vedere chi stesse passando. Dopo un po' il contabile, incuriosito, si alzò dal parcarro e si mise alle sue spalle. Vide una casa, le montagne sullo sfondo, alcuni alberi e, su un prato che stava diventando verde sotto il pastello del bambino, una figura e alcuni animali.

 - Cosa stai disegnando?

 - Non vedi? - disse il bambino senza interrompere il suo lavoro - questa è la casa degli uccelletti e questo sono io che vado a visitarli.

 - Ma io non vedo uccelletti - disse il contabile - quelle sul prato sono delle mucche, o delle pecore...

 - Certo che non li vedi; gli uccelletti sono tutti dentro la casa, ora si stanno riposando perché hanno volato tutto il giorno. Non vedi che le finestre sono tutte chiuse? Poi fra poco arriverà il temporale e loro hanno paura di bagnarsi.

 - Ma dai - disse il contabile - gli uccelletti non hanno paura di bagnarsi, io li vedo che volano anche sotto la pioggia.

 - Beh, questi hanno paura, e se ne stanno in casa.

 - Poi, dov'è il temporale? Qua il cielo è tutto azzurro - disse il contabile - non si vede nemmeno una nuvola!

 Il bambino indicò la fila di cime aguzze dietro la casa. - Ecco, - disse - il temporale sta dietro le montagne, ma fra poco arriva...

 - Eh già, disse il contabile - sei furbo, tu. Ma hai troppa fantasia!

 - Non è vero - rispose il bambino - sei tu che non sai le cose - e senza più badarlo continuò a colorire di verde lo spazio ancora bianco del prato.

 - Accidenti, - pensò il contabile, - anche qui è difficile far quadrare i conti!

 

*

Amare il padre

 Il mercoledì c'era l'appuntamento con la composizione di italiano. Le cose si svolgevano così. Si portava a scuola un quaderno a righe per la bella copia e qualche foglio per la brutta, si disponevano sul banco il nettapenne, la gomma, la matita e si controllava che il pennino fosse in ordine. Il capoclasse tirava fuori dall'armadio un vecchio vocabolario, lo appoggiava sulla cattedra e tutti aspettavamo l'inizio della lezione.

Quando la classe era al completo la maestra, che fino a quel momento era stata sulla porta a chiacchierare con la collega della classe vicina, saliva in cattedra e dettava il titolo. Non c'erano mai troppe sorprese. Si trattava di un argomento di cui avevamo parlato e discusso durante la settimana e ognuno di noi poteva scrivere qualcosa in proposito.

Una delle ultime settimane dell'anno però, la maestra si ammalò e venne sostituita da una supplente. Di lei ricordo che aveva un viso pallido, malaticcio ed una gonna nera così lunga che spazzava il pavimento. Si sedette in cattedra senza nemmeno guardarci, poggiò la borsetta sulla destra e chiese:

- Cosa fate il mercoledì?

- Tema, signora maestra - disse volenteroso il capoclasse.

- Composizione, quindi - ribatté lei, e dopo pochi secondi: - Bene, scrivete questo titolo: Vi spiego perché voglio bene alla mia mamma.

Seguì un silenzio imbarazzato. Poi il capoclasse disse: - Signora maestra, Lia e Giovanni non hanno più la mamma...

Lei non si scompose affatto e domandò: - E il papà l'avete tutti?

- Sì - disse il capoclasse.

- E allora scrivete: Vi spiego perché voglio bene al mio papà.

Dopo alcuni minuti di sconcerto qualcuno cominciò a scrivere; le compagne per prime, che brillavano sempre nella composizione e altri seguirono. Io invece rimasi completamente bloccato con la testa vuota come un guscio d'uovo dopo che qualcuno ne ha estratto il contenuto.

A differenza della maestra, che passava regolarmente tra i banchi e controllava, suggeriva, correggeva, distribuendo, se necessario, qualche ruvido scappellotto, la supplente se ne stava arroccata in cattedra a sfogliare una rivista di ricamo e cucito. Così rimasi per un'ora abbondante a fissare le ombre del soffitto succhiando il portapenne. Ero abbastanza sicuro di voler bene a mio padre, ma altrettanto sicuro di non saperne spiegare il motivo. Invidiavo i mie compagni che di motivi invece dovevano averne parecchi, visto che stavano riempiendo pagine su pagine senza dubbi o ripensamenti. Possibile che non avessi nulla da dire in proposito? Eppure era così e il foglio continuava a restare bianco. Alla fine mi decisi: urtai con il gomito il compagno di banco che aveva già a proprio favore un bottino di tre pagine fitte fitte. Silvano era talmente concentrato che non sentì il mio segnale e dovetti chiamarlo di nuovo. Mi guardò con aria trasognata e infastidita, come se l'avessi tirato giù a forza dall'empireo.

- Cosa c'è?

- Ma cosa stai scrivendo? - dissi con un groppo alla gola - dimmi qualcosa, perché non mi viene in mente niente!

Silvano capì che dovevo trovarmi in una situazione difficile e mise sotto il banco il braccio sinistro, con cui fino a quel momento aveva, per inveterata abitudine, "protetto" il suo lavoro, in modo che potessi dare una sbirciatina. Mi disse, coprendo le labbra con la mano: - Io ho detto che gli voglio bene perché lavora tutto il giorno per mantenere la famiglia, perché non mena mai mia madre, perché non si ubriaca... tutte cose così, insomma, ma non copiare troppo, perché altrimenti quella se ne accorge. E' facile! - E ripiombò nel suo slancio creativo.

Io rimasi interdetto: ubriacarsi? picchiare mia madre?  non avevo mai pensato che potessero verificarsi situazioni del genere... chi poteva combinare cose simili? Volergli bene perché lavorava tutto il giorno? Mi sembrava che fosse del tutto normale per un uomo lavorare per mantenere la famiglia. C'erano dei padri che non lavoravano? Io non ne conoscevo, tutti i genitori dei miei compagni di scuola e dei miei amici lavoravano senza tanti problemi, non mi sembrava che fosse un motivo per volergli bene.

La campanella della supplente infine squillò, scotendomi da queste elucubrazioni. Il tempo era finito.  Bisognava consegnare. Nel brusio che seguì, scostai per un attimo il capoclasse che aveva il compito di raccogliere i quaderni e scrissi: "Io voglio bene a mio papà perché è mio papa".

Alcuni giorni dopo la supplente ci consegnò i quaderni corretti. Quando giunse il mio turno disse: - Ecco qua uno che ha dormito due ore. Quattro meno! Il meno te lo sei guadagnato perché non sei capace nemmeno di scrivere in modo corretto la parola papà! - La supplente non si era certo risparmiata l'inchiostro rosso: l'errore era sottolineato più volte e il voto occupava tre quarti del foglio.

Poi, siccome le disgrazie non vengono mai da sole, disse che sarebbe stato bello far firmare il lavoro ai nostri genitori, perché capissero quanto gli volevamo bene. La proposta fu accolta con grande entusiasmo da buona parte della classe.

Tornato a casa pranzai ancor più velocemente del solito e mi dileguai nei prati vicini cercando di distrarmi, ma senza riuscirvi. Qualsiasi cosa vedessi, mi riportava lì, a quel quattro gigantesco che dovevo mostrare a mio padre. Mi pareva di aver ingoiato e dover portare in giro una croda di due chili. A cena fui silenziosissimo e distratto, tanto che la mamma mi chiese se mi sentivo bene.

Verso le nove, come ogni sera, mio padre disse: - E' ora di andare a letto, hai fatto la cartella per domani? -  Come un sonnambulo mi alzai dalla sedia, mi avvicinai alla mensola su cui avevo appoggiato la cartella, tirai fuori il quaderno e glielo diedi dicendo: - C'è una cosa da firmare...

Avevo le labbra secche e pronunciai queste parole quasi piangendo.

- Di che si tratta? - disse lui curioso, e cominciò a sfogliare le pagine. Giunto al punto dolente, dopo un breve momento di sorpresa, la sua bocca si piegò in una smorfia che poteva essere anche un lieve sorriso e firmando disse: - Beh, anche io non avrei saputo dire molto di più.

Quella notte dormii profondamente.