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Come dicevo, io scrivo poesie, ciò non vuol dire che io scriva solo ed esclusivamente poesie, certo (dato che ho anche parlato di una biografia) ma che nella mia personalissima e privatissima produzione scrittoria, i pezzi in versi sono decisamente maggiori rispetto a quelli in prosa. E parlo di versi e prosa non a caso, non perché abbia finito i sinonimi di poesia o di libro, cosa che mi renderebbe ripetitivo e ridonandante (anche se spesso e volentieri io -sono- ripetitivo e ridondante), ma perché il fatto che si parli di poesia non indica necessariamente che si tratti di versi. Dopotutto siamo nel DUEMILA e tutti conosciamo le destrutturazioni e le ritrattazioni e le abnegazioni (un sacco di -zioni!) di regole e leggi che hanno formato l’intero millenio passato e che la società moderna, quotidianamente, ci impone come prelibati e succosi frutti di libertà individuale. Ecco dunque che, per esempio, la musica perde gli spartiti, che il cinema perde le trame solide, che la poesia, come detto prima, perde la metrica, e che qualunque arte o scienza se ne vada semplicemente a fanculo. Ma non mi si tacci, adesso, di tradizionalista. Perché non lo sono. Io amo il nuovo, il non vecchio, ciò che porta scoperta, perché è innegabile che siano questi i fondamenti di ogni tipo di conoscenza. Certo, a patto, però, che si riconosca il ruolo fondamentale del passato. Che poi dico io… che cazzo ci vuole a scrivere un endecasillabo? Mi trovo a rileggermi e mi rendo conto che circa il novanta per cento delle cose che ho scritto fin qui sono in metrica (per l’appunto endecasillabi, o settenari). Cioè, come dire, la cosa è di una tale facilità che mi sale l’odio solo a pensarci. Perché è questo quello che non capisco, che non accetto e che massimamente detesto; che l’ignoranza e il non interesse vengano giustificati da una presunta e meschina idea di individualità. Essere liberi significa conoscere i propri vincoli, e non semplicemente fingere che non ve ne siano.
Id: 3288 Data: 16/07/2016 11:00:26
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Sciocchezze a parte. Il nocciolo della questione è uno, ed è che abbiamo paura, e, sì, lo so che è scontato, ma ciò non cambia il fatto che sia la realtà. È che cerchiamo un rifugio, un riparo, anche lo sputo di un angolo che possa farci star bene, che ci dia anche solo l'illusione di sentirci a casa, qualsiasi cosa questo significhi. È che la vita fa davvero spavento, il mondo è davvero terribile, e di queste due cose ci si accorge sempre troppo tardi. Cresciamo con la convinzione che ce la faremo, che in ogni caso la spunteremo, sempre, che riusciremo ad averla vinta, e, per carità, non dico che non sia così, solo che sono al massimo due o tre i momenti in cui puoi permetterti di voltarti indietro e pensare che ce l'hai fatta, che sei sopravvissuto, per tutto il resto del tempo si tratta di tenere duro, marciare a nervi tesi e a testa bassa. La vita non si ferma, mai, ed anche questo lo si capisce sempre in ritardo. Qualunque persona, fosse anche la più stupida del mondo (giacché il binomio felicità - ignoranza è un'altra di quelle cose che oggi vanno di moda) risulta sensibile all'argomento, è consapevole come chiunque altro della stancante e incessante frenesia di una turbatio rerum, a cui non riesce a sottrarsi neanche per un attimo. A conti fatti sono solo due le categorie di persone che sembrano avulse dal tempo; essi sono i malati ed i drogati, senza considerare però che questi ultimi probabilmente lo sono proprio a causa dei motivi sopracitati. O almeno così posso dire di me, che altrimenti non avrei mai potuto scrivere questo libro... che poi, la letteratura, a dirla tutta, non è altro che la raccolta dei sentimenti dei singoli, i quali, prima in potenza, sanno farsi poi in atto universali. Insomma, eccezion fatta per saggisti, scienziati e professori, uno legge per non sentirsi solo, e la stessa affermazione certo vale anche per chi scrive. Ciò che nel lettore è una sorta di affinità elettiva, nello scrittore si trasforma in empatia, in feeling, ed entrambe le manifestazioni non sono che forme di una sola volontà: quella di essere capiti, la sorprendente e meravigliosa sensazione di sentirsi come gli altri, di sentirsi e immaginarsi -dentro- gli altri. Nella speranza che anche le mie parole conseguano un giorno tal scopo.
Id: 3286 Data: 15/07/2016 12:23:04
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Secondo capitolo. Cazzo. Del tipo: e adesso che faccio? Io mica ce li volevo i capitoli in questo libro. Avrei voluto una scrittura bella e ininterrotta fino alla fine, una lunga autostrada di parole senza spazi e fermate. Poi però ti rendi conto che così non funziona, non va, neanche questa cosa si muove come vuoi tu. Che a un certo punto ti blocchi, non sai cosa dire, e che fai? Cambi capitolo.
Id: 3285 Data: 15/07/2016 12:22:10
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Distendermi. Cadere supino nel letto e rilassarmi. Stare come dopo un bicchiere di vino e un lorazepam, sereno, con la mente sgombera. Eppure no, non ci riesco. Anzi se mi distendo è peggio, il sangue sale alla testa e le pulsazioni del collo aumentano da una al secondo a due, addirittura anche tre. A volte penso di poterci morire davvero. Eppure da fuori è tutto calmo, pacato, immobile. Il mio volto non mostra dolore, non sudo, non respiro affannosamente. Questo inferno si concentra solo nella testa e nella testa rimane, non sa uscire, non trova vie di fuga. E allora penso a mio padre, a mia madre, a mia sorella, a mio zio, a mia nonna, alla mia ragazza, a suo padre, a sua madre, ai suoi fratelli e a noi, a noi prima, a noi adesso, a noi nel futuro. Penso, penso, penso. E non so come smettere. Penso al sesso, ai pompini, alla scrittura, penso che questo incipit avrei potuto scriverlo diverso, magari parlando di erba e whisky, gin, rhum… e invece parla di vino ed ansiolitici. Il problema è che quando si scrive ci si rende conto di avere un bagaglio personale assai limitato, ma soprattutto che non si può attingere che da quello, non si può pescare nei bagagli degli altri, fare proprie le altre esperienze, ricucire le stesse parole. Tutto ciò che si scrive ci passa attraverso, dalla vita alla pelle, e dalla pelle poi al foglio. Tutto il resto è roba inutile, spazzatura, segatura con cui coprire il vomito di finte indigestioni. E non serve nemmeno avere una storia, o almeno non è tutto lì, che poi avere una storia che cosa vuol dire? Raccontare di cosa ho fatto stamattina all’università? Di cosa ho mangiato oggi a pranzo? Dell’ennesimo litigio avuto con la mia fidanzata? No, o almeno in linea di principio. Perché se non studi elfico e la tua ragazza non è Belen e non mangi e caghi diamanti a pranzo e a cena allora nessuno se ne fotte un beneamato cazzo della tua storia. Non vale niente, davvero. Ci ho provato anche io una volta, un’autobiografia, fu distrutta dalla critica in men che non si dica, e non se ne è parlato più in nessun quotidiano. Adesso però penso che sto facendo lo stronzo, come a dire, quello duro, quello che scrive che tutto fa schifo e fa tendenza, che mette sulla carta la sua sofferenza e non sa fare altro. Questo è forse il più terribile cliché di cui ho paura, perché non sono un distruttore, non sono un nichilista, sono anzi uno di quelli che ama il mondo e la vita, che crede all’amore, e non quello finto da romanzo o da poesia (checché anche io, di poesie, ne abbia scritte a iosa), non quello da film o da cinema, ma quello che ti costa, a conti fatti, più dolore che gioia. Io sono un sognatore, ma conosco la vita. E la conosco perché alla vita non si sfugge, nessuno scampa all’esistenza se non gli eremiti, o gli inetti, o gli insulsi. Un tempo avrei detto che nessuno scampa al proprio destino, ma la realtà è che nessuno scampa al caotico e brutale ciclone del caso, cui siamo sottoposti ogni giorno. E la fregatura è che nessuno lo sa, davvero nessuno, almeno fino a quando quel ciclone non si abbatte sulla sua testa. È lì che cambia tutto, sai, e si finisce col non crederci più.
Id: 3284 Data: 15/07/2016 12:19:52
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