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Raccolta di testi in prosa di Angela Giannelli
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Il respiro leggero di Lara




IL RESPIRO LEGGERO DI LARA



A tutte le donne
delle quali ho compreso l’anima

























Il bello della scrittura di un romanzo
è che lo scrittore può in ogni momento
manipolare i personaggi e modificare gli eventi
sulla base della propria relazione con gli stessi
(e del suo umore, quando si sveglia, la mattina)





LA VERITA’, VI PREGO, SULL’AMORE

Wystan Hugh Auden


Dicono alcuni che amore è un bambino
e alcuni che è un uccello,
alcuni che manda avanti il mondo,
e alcuni che è solo un’assurdità,
e quando ho domandato al mio vicino,
che aveva tutta l’aria di sapere,
sua moglie si è seccata e ha detto che
non era il caso, no.

Assomiglia a una coppia di pigiami,
o al salame piccante quando non c’è da bere?
Per l’odore può ricordare i lama,
o avrà un profumo consolante?
E’ pungente a toccarlo, come un pruno,
o lieve come morbido piumino?
E’ tagliente o ben liscio lungo gli orli?
La verità, vi prego, sull’amore.

I manuali di storia ce ne parlano
in qualche noticina misteriosa,
ma è un argomento assai comune
a bordo delle navi da crociera;
ho trovato che vi si accenna nelle
cronache dei suicidi,
e l’ho visto persino scribacchiato
sul retro degli orari ferroviari.

Ha il latrato di un alsaziano a dieta,
o il bum-bum di una banda militare?
Si può farne una buona imitazione
su una sega o uno Steinway da concerto?
Quando canta alle feste, è un finimondo?
Apprezzerà soltanto roba classica?
Smetterà se si vuole un po’ di pace?
La verità, vi prego, sull’amore.

Sono andato a guardare nel bersò;
lì non c’era mai stato;
ho esplorato il Tamigi a Maidenhead,
e poi l’aria balsamica di Brighton.
Non so che cosa mi cantasse il merlo,
o che cosa dicesse il tulipano,
ma non era nascosto nel pollaio,
e non era nemmeno sotto il letto.

Sa fare delle smorfie straordinarie?
Sull’altalena soffre di vertigini?
Passerà tutto il suo tempo alle corse,
o strimpellando corde sbrindellate?
Avrà idee personali sul denaro?
E’ un buon patriota o mica tanto?
Ne racconta di allegre, anche se spinte?
La verità, vi prego, sull’amore.

Quando viene, verrà senza avvisare,
proprio mentre mi sto frugando il naso?
Busserà la mattina alla mia porta,
o là sul bus mi pesterà un piede?
Accadrà come quando cambia il tempo?
Sarà cortese o spiccio il suo saluto?
Darà una svolta a tutta la mia vita?
La verità, vi prego, sull’amore.
















PERSONAGGI
(in ordine alfabetico)


ANGELICA (protagonista del romanzo)

LINA/LARA (ragazza che legge il romanzo)

MARIELLA (donna che assiste alla fiction in tv)

SONIA (attrice interprete della fiction)














LARA



Spense il cellulare, si rannicchiò sotto le coperte in posizione fetale e si addormentò.
La mano destra posata sul piccolo computer portatile …
Sognò.

- Come si sopravvive alla morte? -
- Nel ricordo di chi ci ama.






LINA



Secondo sabato di gennaio.
Ore otto e quarantacinque sul quadrante color panna sporca del grande orologio a parete, otto e quarantasette sul display rosa del cellulare nuovo.
Il bellissimo regalo di mamma per Natale.
Fuori, tutto intorno e in alto e in basso e vicino e lontano, un biancore denso, come spuma di latte, sulla valle e sui colli, sulle case e sulle strade.
L’aria gelida e ferma, come in attesa.
Dentro, nell’antico Bar del Corso, nel giallo chiarissimo diffuso dalle lampade a led, Lina sbuffava di quando in quando, per un vago senso di irrimediabile noia tra i vapori della macchina per il caffè accesa ormai da un bel po’ di tempo, mentre andava asciugando distrattamente tazze, tazzine, piattini, cucchiaini, bicchieri e bicchierini, appena estratti dalla piccola lavastoviglie fumante.
Le ceramiche bianche, il vetro e il metallo lucenti scottavano nelle sue piccole mani arrossate, ma Lina neppure le avvertiva più, quelle vampe.
La frangia scura, attraversata da qualche striatura più chiara, le danzava leggera sulla fronte quando si spostava dal bancone alla macchina, dalla vetrinetta dei cornetti caldi alla mensola sulla quale era allineata una nutrita scorta di bottiglie di alcolici e superalcolici, così come la lunga coda ramata che, partendo dalla sommità del capo, scendeva a sfiorare la base del collo candido e il colletto rosa della divisa da lavoro.
Il suo corpo da sedicenne, rotondetto e sodo, si muoveva automaticamente, quasi inconsapevole, e come senza ormai più nessuna aspirazione.
Lo sguardo se ne vagabondava da solo, di tanto in tanto, dalla porta a vetri che immetteva nel locale al grande televisore posto in alto, sulla parete, poi, inevitabilmente, verso il quadrante dell’orologio a muro sul quale le lancette si muovevano con tanta lentezza da farle pensare che la batteria fosse prossima al decesso.
Da una radiolina nascosta sotto il bancone, Celentano modulava a volume bassissimo una delle sue prime stupende canzoni.
- Azzurro, il pomeriggio è tutto azzurro e lungo per me …
«Ma che bella canzone - pensò – e che cavolo… in pieno inverno, con questo mondo tutto bianco …
Era in servizio nel Bar del Corso, aperto come ogni mattina già da oltre due ore, e aveva servito soltanto un paio di grappini e alcune tazze di caffè o cappuccino a qualche irriducibile frequentatore.
-Se almeno mi fossi portata un libro, avrei potuto occupare meglio i tempi morti - meditava cupa, immaginando, allo stesso tempo, una perentoria dieta che le togliesse da sotto i pesanti abiti invernali quei due - tre chili reduci dei copiosi banchetti dei giorni precedenti.
Le festività di fine anno appena trascorse avevano lasciato, infatti, oltre alla consueta scia malinconica e nostalgica del calore natalizio, dell’intermittenza delle luci colorate nei presepi e sugli abeti addobbati e degli inconfondibili profumi di incenso, di resina e di glassa nell’aria e nell’anima, anche la noia delle notevoli calorie aggrumate intorno ai fianchi.
Dure da smaltire.
Dopo la decina di più o meno serene e tiepide giornate che si erano snocciolate a cavallo fra il vecchio e il nuovo anno, la notte del cinque gennaio aveva portato, infine, la neve, il gelo e il silenzio, cancellando in poco più di un paio d’ore tutto il frastuono corale e colorato dei giorni precedenti.
A tratti, fra le mille riflessioni che fluttuavano incessanti come marosi mentre le mani si muovevano abili sotto lo scroscio dell’acqua, la sua mente accoglieva anche la visione di un Guido così buontempone e borioso da risultare, a volte, irritante.
Poi si riscuoteva da quel vortice molesto di pensieri per concentrarsi sul lavoro da svolgere. Sul pomeriggio da impiegare in qualche modo …











SONIA



Novembre.

La lunga auto color grigio ferro di Roberto scivolò silenziosa e cauta nella penombra del parcheggio sotterraneo dell’albergo e si arrestò accanto all’utilitaria chiara di Sonia.
Sul cruscotto l’orologio segnava qualcosina oltre mezzogiorno. Era un po’ in ritardo, come, ultimamente, gli era accaduto spesso.
Spense il motore e rimase per qualche minuto a fissare il vuoto, con le mani gelide aggrappate al volante.
Rivangò qualche remoto pensiero, poi, dopo un lungo respiro, raccolse dal sedile posteriore la borsa professionale, il leggero loden blu e una valigetta ventiquattrore, scese dall’auto e salì a piedi al piano superiore, dirigendosi verso la hall.
Si rivolse all’addetto alla reception.
-Buon giorno, sono Solari, Roberto Solari. Mia… la mia compagna, la signora Cappellini, è già arrivata, ho visto la sua auto in…
-Si, certo, è arrivata da poco, la signora è già su, in camera. La 101, mi pare.
L’impiegato controllò un computer stanziato sul bancone.
-Si, la 101, al primo piano. Se mi lascia un suo… ehm, documento?
-Grazie, naturalmente, si, eccolo. Arrivederci. Ah, scusi, per il pranzo?
-Dalle tredici in poi, quando volete…
-Perfetto. Grazie. A dopo, allora.
Pescò dal portafogli la carta d’identità, la posò sul bancone, poi si avviò, scalò le due rampe di scale a passo lento ed incerto, come per ritardare il più possibile l’incontro con Sonia, infine percorse il lungo corridoio sbirciando i numeri sulle porte delle camere, quindi bussò leggermente sulla porta della camera 101.
Quando lei gli aprì, le sfiorò velocemente la guancia con le labbra fredde senza neppure guardarla, pronunciò un flebile e circospetto - Ciao, cara, tutto bene? - quindi si infilò nella stanza quasi furtivamente e si adoperò a sistemare il bagaglio.
Uno stupido diversivo, prima di affrontarla.
Era con la mente ancora alle sue cose: il lavoro, il contratto appena firmato, gli impegni che lo attendevano, quella storia che...
-Ciao, Roby -lei aveva mormorato, esitante.
Sembrò che Roberto non l’avesse neppure udita. Poi -Ciao, So’, come va? Tutto bene? Il viaggio? Ti sei già sistemata? Arrivo… un momento solo.
Una folata gelida parve serpeggiare nello spazio fastosamente arredato, muovendo dalla moquette blu vellutata fino al soffitto decorato con tralci di erbe e fiori e al cesto di frutta posato sul tavolino del piccolo vestibolo che dava accesso alla stanza.
La voce di Roberto era risuonata sommessa.
Sonia lo scrutò con circospezione, frastornata dalla sua distrazione.
Aveva sperato di meglio.
-Bene, Roby. Tutto bene, e a te? Concluso?
-Ah, si, naturalmente, il contratto era già pronto, soltanto da firmare, lo sai anche tu che…
-Ne sono felice. No, non ho ancora disfatto la mia valigia. Sai, stavo guardando… nov… novembre, dalla finestra. Vieni qui, vedi, è…
Gli si accostò dissimulando una qualche intima esitazione e gli prese la mano per attirarlo a sé e, quanto più possibile, alle morbide curve del suo corpo, poi lo guidò dietro i vetri dell’ampia finestra della stanza, al di là della spessa tenda di seta blu notte che la nascondeva.
Un paesaggio inusitato si delineò dinanzi allo sguardo confuso di Roberto.
Novembre aveva riversato sull’ampia piazza antica una patina d’oro che conferiva un che di vetusto e misterioso - come il color seppia delle vecchie fotografie conservate nel buio dei cassetti - agli alberi secolari, alle foglie leggiadre disseminate sui selciati di sampietrini, alle insegne dei negozi, ai maestosi palazzi liberty che circondavano l’immenso slargo, alle auto in sosta e a quelle in circolazione, alla gente che passava sotto l’albergo.
Mareggiate di sfumature oro - rosso brunito si addentravano nella camera accendendo i lunghi riccioli color ebano di Sonia, fermati ai lati della testa da due pettinini scintillanti. La leggera bruma che filtrava la luce ovattava il mondo, dinanzi agli occhi, improvvisamente più attenti, di Roberto.
-È bello, vero? - Bisbigliò lei.
La sua voce fu come una musica. Fu come una sferzata.
Qualcosa si franse nell’anima di Roberto intorpidita dagli eventi recenti, che sembrò ridestarsi come da un sogno, o da un incubo.
Si riscosse e ruotò piano il viso verso di lei, poi la fissò negli occhi, per la prima volta da quando era arrivato.
La fissò intensamente.
-È bellissimo, Sonia, davvero. Solo tu, amore, sai vedere novembre, solo i tuoi occhi ne sanno leggere la dolcezza…
Soltanto allora le sue braccia si strinsero spasmodiche intorno al suo corpo caldo, mentre la baciava a lungo, come non aveva fatto prima.
Come non accadeva da tempo.
-Oh, amore mio, scusami… un po’ di stanchezza, ma ora è passata, tu sei la mia medicina. Perdonami, amore, di tutto …
La sua calda voce - voce di attore - era diventata un rauco sussurro.
-Scusarti di che, Roby? Io ti amo. Oh, si, caro … certo, ma anch’io, vedi, anche io devo pregarti di perdonarmi…, perché, sai, io, quando… tu…
-Scusami perché… Tu? Cosa? Perché? - Roberto esitò un attimo, poi continuò, febbrile.
-No, ascolta, non è il momento, amore, non parliamone più, non parliamo di nulla, mai, davvero, non dobbiamo, sistemiamo velocemente la roba poi andiamo… dobbiamo scendere per il pranzo, è quasi l’una, il ristorante è aperto… ma, poi, amore… -
La voce di Roberto si era colmata di desiderio.
-Si, certo, oh, caro, quanto ti ho aspettato…!
-Andiamo, tesoro. Hai poi deciso cosa indossare, stasera, per festeggiare?
-Si, certo, ma lo vedrai più tardi, amore, è una sorpresa…



LINA



Secondo sabato di gennaio.
Ore otto e cinquanta.
Un cupo e solitario avventore con una vecchia coppola di panno grigio sulla testa stanca, seduto ad uno dei tavolini del bar con un quotidiano inutilmente aperto sotto gli occhi stanchi, era alle prese con una birra ghiacciata.
Beveva a tratti, soprappensiero.
Abbondanti e ininterrotte fioccate abbaglianti avevano pennellato per diversi giorni il paese fino alla corona dei colli circostanti, sui quali danzavano spettrali le braccia delle innumerevoli pale eoliche mosse dalla tramontana, poi, all’alba di quel secondo sabato, era di nuovo comparso un barlume di sole che, sebbene avesse squarciato le nubi, non era riuscito, tuttavia, a scalfire quell’indefinito biancore che annullava forme e colori.
Lo spesso strato di ghiaccio che lastricava le strade e i marciapiedi diradava sia il traffico locale che quello dei numerosi furgoni e camion che abitualmente percorrevano la via principale del paese, diretti verso il Lazio o verso sud, Puglia, Calabria, Basilicata.
Il paese sonnecchiava da diversi giorni, inerte, muto, contornato dalle spirali grigie del fumo che s’involava dai camini e si esalava mescolandosi alle brume mattutine.
Radi i pedoni, grigi, ingobbiti e frettolosi. Attenti a non scivolare.
Nel Bar del Corso, il più frequentato della piccola cittadina irpina, il grande schermo televisivo appeso alla parete di fronte al bancone trasmetteva in sottofondo le solite notizie politiche ed economiche. Discorsi incomprensibili, per una sprovveduta ragazzina di paese… Poi, alla voce più o meno compassata o più o meno drammatica della giornalista, si sostituivano, di quando in quando, le allegre musichette di sottofondo agli spot pubblicitari: auto meravigliose, profumi irresistibili, gioielli inestimabili transitavano beffardi sullo schermo.
Inarrivabili, per Lina.
Dalla saletta retrostante, separata dalla zona adibita a bar da una fila di vasi bassi e rettangolari ricolmi di rigogliose piante di plastica, giungevano i commenti salaci di quattro anziani giocatori di briscola. Un mormorio che sovente esplodeva in vere e proprie bestemmie. Contro il compagno di partita, contro la neve, contro il politico di turno, contro quella sporca vita di mer…
Dietro il vetro fumé di una grande stufa a pallet addossata alla parete opposta borbottavano volteggiando deliziose fiamme vermiglie.
Il calore che si spandeva dalla stufa sembrava battersi con forza contro le folate polari che si insinuavano nel locale ad ogni apertura di porta.
Lina aveva terminato di rigovernare e guardava in direzione dello schermo televisivo senza capirci granché quando si rese conto che, sul rialzo di vetro del bancone, tra i pacchetti di cioccolatini, caramelle e gomme da masticare, restavano, della festività della Befana, un paio di vecchiette di pannolenci rosso impolverato, con la piccola scopa di saggina in una mano e un sacchetto con alcuni bonbon su una spalla.
Pensò che doveva decidersi a farle sparire presto per fare posto ai dolcetti a forma di cuore per il San Valentino ormai prossimo, quando la grande porta a vetri si spalancò introducendo due nuovi infreddoliti avventori insieme ad un fiotto di aria nevosa.

Erano loro.






MARIELLA



Novembre.

Già buio pesto da un bel pezzo, oltre i vetri appannati delle finestre.
Sospirai. Avvertivo nelle ossa e nei muscoli, anzi, proprio nel cervello e nell’anima, l’immane fatica della prolungata stiratura e la spossatezza di tutta una vita. Immane? Bah, sicuramente impegnativa …
In piedi da oltre due ore accanto all’asse da stiro rovente, più che stizzita dalla cima dei capelli fino alla punta delle dita dei piedi imbucati nelle mie sgualcite ma comode pantofole color verde marcio, levai lo sguardo verso il quadrante rotondo dell’orologio da parete.
Cinque minuti alle venti. Il tempo era trascorso veloce e inesorabile.
Indicibilmente greve.
In sottofondo la sigla musicale di chiusura del programma televisivo pomeridiano.
Assorta nel mio lavoro, neppure la udivo.
“Ma come faccio a sopravvivere ancora in questo modo scemo?” mi chiedevo sempre più spesso.
Era arrivata l’ora di smettere, decisi, avvertendo un certo formicolio al braccio destro e intorno alle caviglie.
Il freddo del pavimento stava risalendo lungo le mie gambe intorpidite, pressoché statiche da troppo tempo. Anche la schiena mi doleva un po’.
Si stava concludendo, per mia fortuna, un’altra lunga giornata trascorsa esclusivamente tra la spesa mattutina nel solito supermercato a due passi da casa, i servizi domestici, la voce anonima della televisione, senza nessun evento degno di essere annotato nella pagina dei ricordi.
Non era più tempo di eventi straordinari, per me, forse.
Il mio mondo si riduceva alle quattro strade che percorrevo a giorni alterni per le spese alimentari e alle quattro stanze più accessori della mia casa, che, ogni giorno, mi ostinavo a far brillare il più possibile. Me ne vantavo, della mia perfezione…
Ah, sì, anche quattro chiacchiere, ogni tanto, con la mia dirimpettaia. Ma ora lei non c’era più. Se n’era andata da un giorno all’altro, avvisandomi che sarebbe mancata per qualche tempo.
Strano, non mi aveva mai raccontato che sua zia si era ammalata …
Era iniziato novembre da pochi giorni senza che neppure me ne fossi accorta, e il tempo uggioso non faceva che ingrigire la città e ammutolire le persone.
A me, novembre m’immalinconiva sempre. Una leggera bruma cancellava colori e suoni, al di là del vetro della finestra della cucina.
Neppure la tendina di pizzo écru riusciva ad allontanare il grigiore e l’umidità.
Scossi il capo per mandare indietro i capelli che mi spiovevano madidi sulla fronte aggrottata - li portavo lunghi per pigrizia, così potevo raccoglierli in una antidiluviana crocchia che sistemavo alla meglio sulla nuca ogni mattina - riposi il ferro da stiro e guardai la biancheria già suddivisa in pile ordinate, una di camicie, un’altra, bella alta, di t-shirt di vari colori, poi i fazzoletti, gli strofinacci, le federe.
Con il grosso plico di biancheria calda di stiratura di mio figlio sulle braccia mi diressi verso la sua stanza, in fondo al nostro lungo corridoio, e sistemai il tutto su un angolo della scrivania. Avrebbe provveduto lui stesso a distribuire le sue cose nei cassetti, quando ne avesse avuto voglia.
Sul comodino di noce chiaro stazionava vistosa la carta argentata di un cioccolatino. Decisi di raccoglierla. Benedetto figlio, sempre disordinato!
Sul piccolo ripiano squadrato, semi seppellito sotto un paio di cd, c’era anche un libro posto di sbieco fra un astuccio di deodorante e il cellulare in carica. Allineandolo al bordo del mobiletto, ne sbirciai il titolo: “L’amore al tempo del colera”.
Mah! Chissà di cosa si trattava. Un romanzo? Un saggio universitario? Il colera non esisteva più da tanto tempo, almeno dalle nostre parti, mi pareva.
Restai per qualche momento, pensosa, nella camera, riluttante a tornare alle mie faccende.




LINA




Caspita, che “loro” arrivassero anche con la neve, Lina non l’avrebbe mai immaginato. Erano mancati per tutto il periodo natalizio, ma, eccoli, ora, arrivare puntuali quasi quanto la sua pazza voglia di andarsene.
Era la coppia di clienti che più la incuriosiva. Veniva da circa due anni, o poco più. Un uomo alto e una donna bionda, piccolina. Non erano giovanissimi, sui cinquanta, forse…
Arrivavano generalmente di sabato, pressoché ogni due settimane, a volte ogni tre. Lei portava nelle mani quasi sempre dei libri, oppure dei fogli stampati.
Quella mattina aveva con sé un piccolo libro.
Si accostarono al bancone e lui ordinò due caffè, come tutte le altre volte. Mentre Lina li preparava, lei accostò la piccola mano bianca alla guancia di lui.
-Senti amore come sono gelata!
-Uhhh! Da dove arrivi? Dalla Siberia?
-Neppure tu scherzi, tesoro, sei di ghiaccio?
- Fa freddo dappertutto, amore.
-Figurati, perfino da me, anche se non abbiamo visto la neve. Ma la tramontana sì, tesoro, e davvero ci tramortisce.
Lui accostò la bocca all’orecchio di lei e le bisbigliò qualcosa che Lina non poté udire, ma che aveva diffuso sul viso della donna un improvviso senso di complice piacere.
-Guarda cosa ti ho portato, amore. Quel romanzo di cui ti parlavo l’altro giorno. Ho finito di leggerlo ieri sera. Strana storia, sai? Racconta di quattro donne che non si conoscono, ma…
-Lo leggerò, tesoro. Appena posso. Non dirmi nulla, ora. Dobbiamo andare, no?
La donna posò sul bancone il libro, a sinistra della sua tazzina e prese a sorseggiare il suo caffè bollente.
Anche quel giorno era molto elegante, come sempre, del resto.
Indossava un tailleur di seta rosso porpora, con la gonna attillata che sfiorava il ginocchio, e una giacca dai risvolti di seta cangiante dello stesso color porpora. I lunghi capelli biondi sparsi sulle spalle. Era bellissima, agli occhi di Lina, una donna di città, insomma, davvero stupenda …
Ma, indossare un tailleur, in pieno inverno? Niente cappotto? Non aveva freddo?
Lui era alto, con la pelle molto chiara e con una massa di capelli biondi tendenti al grigio sempre spettinati. Baffetti grigi. E un caldo sorriso.
Di un uomo così, lei, avrebbe voluto innamorarsi.
Mescolava il suo caffè lentamente, con cura e con estrema eleganza, mentre continuava a parlare con la donna chinandosi affettuosamente su di lei. Un bell’uomo. Molto attraente.
Sembravano palesemente, follemente innamorati …







MARIELLA




Richiusi piano la porta della camera di mio figlio e tornai negli odori penetranti della mia vecchia cucina beige e nel borbottio della tv che mi faceva incessantemente compagnia, anche se, ormai, costantemente immersa nei miei pensieri, sempre gli stessi, ovviamente, neppure prestavo tanta attenzione a cosa andasse blaterando.
Iniziai a preparare svogliatamente la cena, rimorchiando le gambe intorpidite qua e là nella cucina: apparecchiai la tavola per due, tagliuzzai un’insalata, la condii come al solito con sale, olio e una goccia d’aceto, posai sulla tovaglia un piatto con le polpette avanzate dal pranzo e il cestino del pane, due mele e una mezza bottiglia di vino rosso, infine chiamai Pasquale con le parole solite, mai diverse una sera dall’altra.
-Pasqualeee, vieni, è pronto …
Anche la risposta di Pasquale, strascicata, era sempre la stessa, ogni sera. -Arrivoooo! Che si mangia?
Apparve dopo qualche minuto ciabattando, avvoltolato in una giacca da camera blu stinto, troppo stretta per la sua attuale corpulenza - forse gliene avrei regalata una nuova per Natale - cambiò programma al televisore mentre una fiction del pomeriggio sul secondo canale era già quasi al termine, si accomodò dal suo lato della tavola e iniziò a mangiare in silenzio.
Una buona dose del pane del cestino finiva a tocchetti nel sughetto caldo del suo piatto.
Mi immersi anch’io in silenzio nella mia razione di polpette.
Dalla bocca di Pasquale, mentre masticava rumorosamente, ogni tanto un - Uhm! - oppure - Ma vedi, tu! - e - Eh, si, ma poi… - Ma dai! - assolutamente inintelligibili.
Non capivo mai se commentasse il cibo oppure le notizie, sempre le stesse, anche loro.
-Sai, Pasquale, ho visto al supermercato una nuova salsa per condire l’insalata, si chiama, aspetta, ha un nome strano, si chiama tzatziki …
- Che dici? No, aspetta, statti zitta un po’, fammi sentire il tiggi, adesso…
Zittii. Non avevo più voglia di discutere con lui, ormai.
Terminammo di cenare, poi mi alzai stancamente, sparecchiai, lavai le stoviglie, spazzai il pavimento, spensi la luce della cucina e mi diressi nel piccolo soggiorno dove campeggiava il televisore a schermo gigante.
Bah, gigante! Solo un po’ più grande di quello della cucina. Un cubo nero antidiluviano.
Finalmente, ora mi sarei dedicata solo a me stessa. Pensai. Con un bel film, magari.
Raccolsi da un cestino di vimini verde posato sul pavimento, accanto al divano, una gonna marrone imbastita all’orlo, e un rocchetto di filo dello stesso colore, e mi accomodai nel mio angolo del divanetto a due posti a rombi beige e marrone, posizionato a bella posta dirimpetto alla tv, decisa a portarmi avanti con il lavoro di allungare la mia gonna mentre pregustavo di godermi il programma previsto.







LINA




Quando i due singolari avventori ebbero terminato di gustare i loro caffè, amaro quello di lei, una intera bustina di zucchero di canna per quello di lui, l’uomo si mosse verso la cassa, sul fondo del locale, mentre lei già si avviava verso l’ingresso e si stagliava nel riquadro di luce.
Lina si spostò verso la cassa senza quasi distogliere gli occhi dalla donna: una figurina disegnata sul paesaggio esterno immacolato, come una pennellata fiammeggiante rosso di cadmio su una tela vergine.
La ragazza ne guardò di sbieco le movenze aggraziate mentre lui pagava le consumazioni, poi ancora mentre la raggiungeva e, presala per mano, la guidava oltre la porta a vetri. Nella neve.
Li seguì mentalmente: dove si dirigevano, dopo la sosta nel bar, ogni due o tre sabati? Erano forse due agenti di commercio diretti verso qualche ufficio?
A Lina capitava, a volte, di immaginare le vite degli avventori che non conosceva personalmente, gente di fuori paese, capitata nel locale per caso o per necessità. Persone più o meno silenziose, perse nei loro pensieri, aggredite dalla molestia della loro vita consumata sempre di fretta. La sosta nel bar obbligatoria per smaltire la stanchezza accumulata nelle braccia e negli occhi per le svariate ore trascorse alla guida, con l’unico pensiero di arrivare là dove erano diretti.
Poi, qualcuno del luogo, arrivavano anche delle donne: si concedevano un caffè oppure un gelato prima o dopo gli acquisti di frutta e verdura nel locale attiguo al bar.
No, questi due non potevano essere due rappresentanti, troppo eleganti, troppo intimi…
Tornando al presente ed alla sua postazione di lavoro, Lina posò gli occhi sulle tazzine abbandonate sul bancone. Accanto alle tazzine c’era il libro che la bionda avventrice aveva posato per essere libera di prendere il caffè.
Lo aveva dimenticato.
Lo afferrò, si avviò di corsa verso l’uscita, riaprì la porta a vetri e sbirciò nella direzione che i due avevano preso.
Nessuno. Erano spariti, quasi si fossero dissolti nella neve.
Forse si erano già rintanati in una delle auto parcheggiate lungo il marciapiede.
Lina si rigirò il libro nelle mani, ne lesse il titolo.
L’autore, anzi, l’autrice, una sconosciuta. Sulla copertina l’immagine di due tizi, abbracciati.
Rientrò pensierosa e lo posò fra alcune tovagliette bianche, sotto il bancone.
-Bene, bene - pensò - avrò qualcosa da leggere, dopotutto.
Ritornò al suo abituale posto di lavoro, lavò le due tazzine, poi sedette su uno sgabello e aprì il libro alla prima pagina. Iniziò a leggere …






ANGELICA (il romanzo)



Flashback.

Ottobre. Ore 13,30 sul quadrante del cruscotto.
La lunga auto grigio ferro di Vinci si accostò con un sospiro riluttante al marciapiedi, dietro l’utilitaria chiara di Angelica.
Il sole picchiava forte, a quell’ora del primo pomeriggio.
Piccole frange di gelo si levarono dal pianale inerpicandosi alle caviglie di lei, per poi farsi strada lungo le gambe sino alla vita, sostare nella sospensione improvvisa del cuore, raggiungere il brusco vuoto del cervello.
Un’altra separazione!
-Ti amo. Vai piano, amore. Ci sentiamo più tardi.
-Si, amore, certo, non preoccuparti. Ti amo.
Vinci la baciò ancora una volta, poi lei sfilò la mano da quella rassicurante di lui, si costrinse a scendere dall’auto di lui e s’infilò silenziosa nella sua piccolina, calda di quell’inusitato sole autunnale. Sintonizzò la radio su Radio Tre, poi la spense - era in onda la pubblicità - e infilò un cd nell’apposita fessura.
Avviarono le due automobili nello stesso istante - quella di Vinci dietro - per poter raggiungere l’ingresso dell’autostrada insieme: dopo aver oltrepassato le sbarre alzate si salutarono con un bacio al volo e la mano levata dietro il vetro del finestrino. Poi imboccarono gli svincoli, diretti verso le rispettive destinazioni. Opposte l’una all’altra.
Per tornare a casa Vinci aveva da percorrere un bel tratto di strada, un lungo percorso che pareva delinearsi in uno sterminato e desolato deserto: negli occhi assorti non smettevano di avvicendarsi, come fossero state scene di un film, le immagini recenti del corpo ambrato di Angelica e dei suoi indicibili paradisi, nei quali si era inoltrato più e più volte, senza neppure averne piena cognizione.
Una compiutezza d’amore che soltanto con lei si realizzava, quasi come… come l’aver raggiunto un traguardo al termine di una corsa faticosa: la corsa era durata quasi quanto la sua vita, pensava talvolta, e al traguardo, inaspettatamente, aveva trovato Angelica.
Sul fondo delle retine, mentre guidava compiaciuto e appagato, si susseguivano le innumerevoli e intense sequenze del loro straordinario amarsi, proprio come in un film.
Le parole e la musica di Battiato si diffusero nell’abitacolo: “il senso del possesso che fu pre - alessandrino la tua voce come il coro delle sirene di Ulisse m’incatena...”
Il desiderio di possederla, che si era accumulato assillante durante la prolungata lontananza, si era espresso interamente fino a diventare dolce e sfrenata violenza.
Emozioni e sensazioni nuove che lo sorprendevano ancora, a distanza di un paio di anni da quando si erano scelti e amati per la prima volta.
E sempre, sul loro territorio amoroso, si innestavano nuove scoperte, che li rendevano ogni giorno più complici. Più profondamente legati. Ora, anche una canzone. Occorreva una canzone per cementare un rapporto?
Cosa stava sussurrando Battiato?
- La tua pelle come un’oasi nel deserto ancora mi catturaaaa. ”
Seta e oasi e deserto ed eros erano parole ricorrenti nelle loro conversazioni: il loro amore era un’oasi, avevano scoperto insieme.
Oppure un’isola. O un canto. O una poesia.
Angelica sapeva dare rappresentazione anche ai sentimenti di Vinci: lui li trasformava in parole che le comunicava con violenta passione, poi lei, a distanza di qualche tempo, glieli restituiva raccontati in un altro modo.
In poesia.
Gli aveva dedicato dei versi che, sosteneva, non avrebbe mai scritto se Vinci non le avesse ripetutamente detto in quel suo modo speciale quanto l’amava, e lei traeva ispirazione dalle sue parole: le metabolizzava, dopo averle trangugiate quasi golosamente, per poi articolare un linguaggio che, a lui, sembrava straordinario.
Per di più, con un eros neppure tanto sotteso, in alcune parti.
Vivevano insieme, appassionatamente, in quel poema, quasi quanto nella realtà.
La felicità appena provata, tuttavia, durante il viaggio di ritorno si rivestiva piano del dolore, sempre latente, sempre presente, della separazione.
-Questa è la vita - si ribadì sconsolato - E non potrebbe essere diversa, al momento.
Tornò al presente. A ciò che non sarebbe, forse, mai potuto cambiare.
Oscurò il sogno e tornò al reale, al necessario, alla strada.
Levò gli occhi per individuare a destra l’indicazione dell’uscita dall’autostrada che avrebbe dovuto imboccare per immettersi nella strada statale, in una giornata, nonostante ottobre volgesse già al termine, dall’aria chiara e mite, mentre, intorno a lui, riprendevano vita gli alberi, le siepi, le case dai tetti rossi sparse sui colli, i colori di qualche gigantesco cartellone pubblicitario, alcune pacifiche bufale scure adagiate su un prato per la siesta, tre o quattro sconquassate automobili parcheggiate a bordo carreggiata. Più in là il baluginio verde dei tendoni che avrebbero dato, a breve, l’Aglianico e il Taurasi, l’oro superbo della sua terra. Il sole, già un po’ più basso all’orizzonte, creava le prime ombre.
Uno sguardo all’orologio del cruscotto, mentre superava i rapidi tornanti che lo avrebbero immesso in paese.
Era ora di telefonarle, prima di giungere a casa.
La chiamava ogni volta, un’ora dopo che si erano lasciati, per non spezzare di botto l’incantesimo del loro incontro.
Le loro voci li legavano quanto, se non di più, dei loro corpi.







LINA




Alla luce lattea delle lampade sospese sul bancone, aveva iniziato golosamente a leggere…
“Flashback.
Ottobre. La lunga auto grigio ferro di Vinci si accostò con un sospiro riluttante al marciapiedi, dietro l’utilitaria chiara di Angelica.
Piccole frange di gelo si levarono dal pianale inerpicandosi alle caviglie di lei, per poi farsi strada lungo le gambe sino alla vita, sostare nella sospensione improvvisa del cuore, raggiungere il brusco vuoto del cervello.
Un’altra separazione!
-Ti amo. Vai piano, amore. Ci sentiamo più tardi.
-Si, amore, certo, non preoccuparti. Ti amo.
Vinci la baciò ancora una volta, poi lei lasciò la mano rassicurante di lui, si costrinse a scendere dall’auto e s’infilò silenziosa nella sua piccolina, calda di sole. Sintonizzò la radio su Rai Tre, poi la spense, era in onda la pubblicità, e infilò un cd nell’apposita fessura ... […]”
La porta a vetri del bar si spalancò per lasciar entrare un altro infreddolito avventore. Lina posò riluttante il libro e si accinse a servirlo.
Pensò a quell’incipit… A dove l’avrebbe portata. Se lo chiedeva ogni volta che iniziava a leggere un nuovo romanzo. Avvertiva uno smisurato bisogno di collocarsi in altri luoghi e in altri tempi. Di vivere altrove. I romanzi glielo consentivano.
Era soltanto uno dei suoi tanti desideri inconsci, indicibili, irrealizzabili…
Viveva in un piccolo paese di collina, dove la vita trascorreva anonima come anonimi e insignificanti erano gli autisti dei camion che entravano nel bar, si recavano frettolosamente alla toilette, poi bevevano, senza quasi proferire parola, un caffè o un cicchetto. Un commento sul tempo, qualche battuta salace, qualche insignificante complimento. Un paese sempre percosso dal vento e dal silenzio, nel quale le donne vestivano ancora perennemente a lutto.
Lina lavorava nel bar due volte la settimana di pomeriggio e il sabato mattina.
Aveva sedici anni e tanti bagliori negli occhi scuri. Tanti sogni.
Neppure si delineavano chiari, i suoi sogni. Erano solo delle grigie nebulose che le galleggiavano dentro, di sera, prima di addormentarsi, dopo aver letto pagine e pagine dei tanti romanzi che riusciva a procurarsi. Storie d’amore, per lo più.
- Sono una barista part time pagata a nero e una sognatrice full time e a tempo indeterminato, e per questo pagherò io, non so come, ma con tutti gli interessi.
Si diceva, talvolta, confusa e arrabbiata con se stessa.
I suoi sogni blindati in un cassetto, come le poesie inedite di un poeta che non creda in se stesso.





MARIELLA




Al di là della finestra del soggiorno, oltre la mia decennale tenda a fiori di cui ero tanto orgogliosa, cento altre lucine azzurre che pareva ondeggiassero nel buio, tra le chiome degli eucalipti del viale mosse dal vento autunnale, punteggiavano le palazzine situate di fronte appena rarefatte dall’umidità autunnale.
Case e lucine tutte uguali. Lucine come fuochi fatui. Come un cimitero.
Sospirai.
-Pasquale, vieni qua un momento, metti quel canale regionale, che ci sta la prima parte di un nuovo sceneggiato, mi pare… una miniserie, solo due puntate.
-Ah, vuoi guardarti quei due o tre scemi… va bene, allora io me ne vado di là, ci sarà un po’ di sport da vedere, spero, da qualche parte …
-Belli i tuoi scemi dietro ad una palla, signor Pasquale Pessoa …
Sempre lo appellavo anche con il cognome, quando lui mi stuzzicava.
Gli stessi commenti ironici di sempre, lo stesso tono di voce fra il leggermente canzonatorio e lo sprezzante, nelle nostre brevissime e rare conversazioni di ogni giorno. Per quel po’ di tempo che lui era in casa. Se ne stava spesso nel piccolo giardino del quartiere a giocare a carte con vecchiacci come lui, oppure, con la scusa della spesa, se ne usciva dieci volte al giorno ora per questo, ora per quell’altro articolo. La carne acquistata da una parte, in una macelleria piuttosto distante, la verdura al mercato rionale, i detersivi in un outlet parecchio lontano. In pratica, stava fuori quasi tutta la mattinata, lasciandomi alle mie inclementi e stupide incombenze domestiche.
Oppure mi arrivava di soppiatto alle spalle, come per sorprendermi in qualche errore. A me, che sono la perfezione in persona!!!
Ero perennemente arrabbiata con lui.
E sul mio volto, quando i miei occhi mi sbirciavano in uno specchio, leggevo tutti i segni della mia noia, della mia stanchezza, della mia rassegnazione. Forse proprio soltanto gli occhi, a volte, mi rimandavano i cenni della insofferenza che albergava, sempre meno frequentemente, nell’anima.
Pasquale entrò nel soggiorno, sintonizzò velocemente il canale per me, poi sparì in cucina. Estrassi pazientemente un ago dalla bobina e lo strinsi fra le labbra, poi spezzai un mezzo metro di filo, ripresi l’ago e mi accinsi ad infilarne la punta nella cruna, avvicinando e allontanando più volte l’ago dagli occhi.
Proprio non ce la facevo, ad infilare quel benedetto filo. Dovevo convincermi: la vista non mi accompagnava proprio più, avevo davvero bisogno di un oculista, pensai per l’ennesima volta, anche se non ci andavo mai.
Assorta nella difficile operazione, non mi ero accorta che sullo schermo del televisore era passato il titolo dello sceneggiato, accompagnato da una musica in sottofondo, né di altro, fino a che non udii una voce calda maschile che…
Posai sul grembo la gonna e la bobina di cotone marrone, dopo avervi rinfilato l’ago. Domani, ci avrei pensato domani… alla luce di Dio.
Domani, forse, io, Mariella, casalinga, madre e moglie a tempo pieno ed indeterminato, mi sarei recata finalmente dall’oculista, perché mi levasse le cataratte dagli occhi.
Sullo schermo stavano scorrendo i nomi degli interpreti e dei personaggi, del regista, di ecc… ecc….

- Sonia Cappellini Angelica
- Roberto Solari Vinci
- Luca Balzetti Regista



ANGELICA (il romanzo)



Tre squilli, poi la sua voce. Calda, tenera, rauca.
-Vinci, amore mio…
-Ciao, tesoro, dove sei?
-Mi mancano una quarantina di chilometri. Tu?
-Sono quasi arrivato.
-Ti amo.
-Anch’io, amore, ti amo tanto. È stato bellissimo, indescrivibile. Come sempre. Mi sento ancora in volo nell’universo, amore mio.
-Anch’io, amore, ti sento ancora dentro di me e avverto ancora il calore delle tue braccia intorno al mio corpo. Ci sentiamo nel pomeriggio su msn? Sai che a me piace…
-Gioia, se posso, nel pomeriggio oppure in serata, non so se avrò gente a casa.
-Oppure mi mandi un messaggino per… Ma… aspetta! Che diavolo… Oddio! Dioooo! Vinciiii!!!!! Un tamponame…, davanti a me, devo… Vinciiiii!!!!!
Uno schianto prolungato, un lungo istante di incomprensibili e ripetuti rumori sordi e acuti, mentre la voce di Angelica urlava il suo nome, e poi moriva nel cellulare.
-Angeeeee! Angelica, amore, ma che cazzo, dove sei? Cosa? Che diavolo è successo?
Dio mio, sembrava… non voleva neppure pensarlo, ma, ecco, si, gli sembrava che fosse accaduto un incidente.
Certo, c’era stato un incidente, senza dubbio, cazzo. Gli si raggrumò il sangue.
Non poteva essere, non dopo che ne avevano parlato, casualmente, solo qualche giorno prima.
Assurdo, ecco cos’era, un inammissibile irragionevole assurdo incubo.
Immaginò Angelica tra le lamiere, immaginò del sangue…
No, non doveva pensare al peggio, magari si era trattato solo di un impatto lieve. Ma l’urlo terrorizzato di lei lo aveva ghiacciato. Provò a chiamarla: il cellulare funzionava, ma agli squilli nessuno rispose. Bloccò l’auto al bordo della stretta strada statale, abbastanza deserta a quell’ora.
Cosa fare, ora? Avrebbe dovuto proseguire verso la propria abitazione ormai vicina, oppure andare da lei?
Che domande! L’unica cosa da fare era tornare subito indietro, ripercorrere tutta la strada fino a raggiungerla.
Due secondi: una inversione veloce, e Vinci riprese la marcia in senso contrario, pigiando sull’acceleratore al massimo consentito.
Il contachilometri schizzò come la sua paura.



MARIELLA




Il film era iniziato con la clamorosa scena di un incidente stradale, per poi proseguire con la visualizzazione dei pensieri che si affollavano nella mente del protagonista mentre guidava all’impazzata verso il luogo del disastro. Per fortuna non avevano esagerato con il sangue, io non ne sopportavo la vista…
Ma, accidenti! Fin dalle prime scene i due protagonisti, Angelica e Vinci, si erano mossi sull’onda di un passione travolgente.
Una passione smisurata…
Le immagini che Vinci visualizzava nella mente mentre guidava, ripercorrevano sullo schermo - a beneficio dello spettatore - il suo recente incontro con Angelica, erano decisamente pornografiche. Beh, non proprio pornografiche, ma erotiche, sì.
Come avrei reagito se Pasquale fosse stato un amante appassionato come lui? Me lo domandai, sarcastica, mentre andava in onda la prima delle interruzioni pubblicitarie. Mi alzai dal divano per correre in cucina a prendere un bicchier d’acqua.
Non lo avrei mai saputo, perché il mio Pasquale era tradizionale e abitudinario, per cui la questione non si poneva affatto, per me l’amore fisico era soltanto quello che lui mi offriva, ogni tanto, così come si offre un pasto da giorni feriali, senza antipasti e senza il dolce e il limoncello finali… ahahah!
E non potevo neppure dire che mi ero dovuta accontentare, perché non lo sapevo proprio che, oltre quello, potesse esserci altro e, dunque, come potevo desiderare ciò che non conoscevo? Mi facevo bastare ciò che conoscevo… La nostra vita coniugale era stata, era, ancora, comunque, una buona esperienza. Lui non era un marito che correva dietro alle altre donne, almeno così mi era sempre sembrato, e, ora, poi, che era così invecchiato, chi mai lo avrebbe voluto?
Ricordava sempre il giorno del mio compleanno, mi portava i frutti di mare da consumare crudi prima del pranzo domenicale e la guantiera di pasticcini per dopo, mi aiutava a pulire le verdure e riempiva diligentemente le bottiglie di vino dalla damigiana da cinque litri ogni sabato mattina.
Mi sentivo rassicurata, con lui, protetta…
Ma che pignolo! E che tirchio! Segnava su un suo taccuino, ogni giorno che Dio comandava, ogni soldo speso, anche i venti centesimi del prezzemolo, e mai, mai, che avesse speso cinque euro per un biglietto della lotteria di Capodanno per permettersi e permettermi un sogno.
-Soldi gettati al vento … - brontolava, cupo.
Pantofolaio e borbottone, specialmente da quando era andato in pensione. A me sarebbe tanto piaciuto fare un viaggio, magari un pellegrinaggio ad uno dei tanti santuari italiani o, addirittura, all’estero, ma su questo lui non ci sentiva.
-Soldi sprecati! - Tuonava, e io dovevo acconsentire e tacere.
A me non restava altro da fare che impegnarmi nei lavori di casa con meticolosità arrivando a farmi vanto della mia accuratezza con parenti ed amici, quando avrei volentieri gettato tutto all’aria per andarmene lontano, da qualche parte, per un po’. Da sola. Magari!
E la monotonia imperava ormai da secoli nella nostra vita e anche nel nostro letto. No, proprio nessuna scintilla, nella nostra vecchia e anonima casa… il freddo che l’autunno puntualmente ci consegnava, nella nostra casa durava tutto l’anno.
Quei due del film, invece, Angelica e Vinci, che amore romantico! Che passione! Che tenerezza!
Mi ero di nuovo seduta, nel frattempo, dopo aver dato una sbirciatina alle tenebre, oltre la tenda a fiori, cercando di capire, dai lampi lontani, se si stesse avvicinando un temporale.
Avvertii un sottile sentimento di invidia per la profonda intimità fra quei due che io non avevo mai vissuto. Ma perché non avevo mai chiesto io stessa, a Pasquale, che mi sarebbe piaciuto tanto che lui mi baciasse come Vinci baciava Angelica? No, non c’erano, tra noi, queste libertà, né verbali, né fisiche.
Uhm, lo sceneggiato stava riprendendo. Mi accomodai meglio nel mio angolino del divano.
Aspettai golosamente altre scene erotiche… un vago caldo languore all’inguine.





SONIA



Nel ristorante dell’albergo, seduti uno di fronte all’altra ad un piccolo tavolo rotondo situato dietro un basso separé in stile giapponese, con grandi peonie rosse sullo sfondo nero dei pannelli di seta, Roberto contemplava Sonia come se la guardasse per la prima volta, o come dopo una prolungata assenza per un lungo viaggio.
Sulla tovaglia candida, il calore delle loro mani intrecciate.
Di lei lo attraevano ancora soprattutto gli occhi - occhi che parlavano - aveva considerato molto tempo prima.
E, tuttavia, per qualche tempo, lui aveva scelto di non ascoltare le parole pronunciate da quegli occhi. No, non poteva mentire a se stesso: non aveva voluto guardarli per timore che esprimessero il dolore che lui le stava infliggendo.
Due erano stati i motivi, uno dei quali assolutamente assurdo persino per la propria ragione.
Aveva dovuto interpretare a fianco di Sonia, nel film, una parte che viveva, con naturalezza, nella realtà. Lui era il compagno di Sonia nella vita, ma, quando avevano girato il film, quel film, aveva dovuto spogliarsi di quella veste, addirittura sdoppiarsi, per “fingere” i comportamenti suggeriti da Luca, il regista: fingere di conquistarla, di ammirarla, di fare l’amore con lei.
Non aveva immaginato che simulare di amare Sonia per lo schermo gli sarebbe costato così tanto, sul piano della stabilità emotiva.
No, non era stato facile diventare - interpretare - Vinci, l’amante di Angelica, con Sonia nelle vesti di Angelica. Sonia nuda sul set. Sotto gli occhi di tutti!
Quella dissociazione lo aveva disorientato, quasi squilibrato: aveva dovuto immaginare con se stesso di non amarla nella realtà, per poterla amare nella finzione. Che sensazione strana! Molto complicata da spiegare perfino a se stesso. Non aveva neppure cercato di farlo, l’aveva subìta come un mal di denti o un’emicrania.
Il secondo motivo era stato quella stupida avventura che si era concesso, forse conseguente al proprio confuso stato d’animo.
Aveva maturato, forse, senza esserne neppure consapevole, l’esigenza di comportarsi da uomo e non da attore? Di rimettersi alla prova nella vita reale. Padrone di sé, non nei panni di un altro.
Ma, sì, ecco, quell’avventura era stata la terapia giusta per vincere quel suo malessere, forse.
Troppi forse, e abbastanza confusione.
Si era trattato di un tradimento breve e insensato, ma, purtroppo, o per fortuna, se n’era reso conto soltanto dopo.
Di sicuro Sonia non ne era mai venuta a conoscenza, ma una donna non ha bisogno che glielo racconti qualcun altro se il proprio uomo ha scelto di farsi attrarre da altri occhi, da un’altra bocca, da un altro seno palpitante, semplicemente lo intuisce. Serve poco, per capirlo. Basta che lui smetta di parlare e di ascoltare.
Lei non gli aveva chiesto mai niente, ma lo aveva atteso imparando a leggere novembre, e prima ancora ottobre e ancora prima settembre, il tempo necessario perché Roberto vivesse quel suo abbaglio. Che capisse che di un abbaglio si trattava.
Sonia, seduta a quel tavolo, mentre rosicchiava un grissino e sorseggiava un aperitivo in attesa che il cameriere li servisse, capì che lui era tornato a guardarla negli occhi.
E che negli occhi di Roberto era scritta una promessa.
Lei sapeva leggere negli occhi di Roberto. Lo guardò con la stessa promessa scritta nei propri occhi, lucenti di lacrime trattenute. Lacrime di pentimento e di sollievo.
Lentamente le loro voci, contemporaneamente alla riunificazione delle loro anime, tornarono ad avere lo stesso tono confidenziale e complice di circa tre mesi prima, e anche i loro - Ti ricordi di quando…? - evitavano accuratamente quel dissennato periodo.
Non c’erano troppe memorie in comune di quel lasso di tempo abbastanza recente che ancora dimorava ostinatamente in entrambi in attesa di essere blindato da qualche parte e mai più riesumato.
Il cellulare di Roberto squillò. Lui interruppe immediatamente lo squillo, senza neppure guardare il display, parve a Sonia. Senza alcuna curiosità per chi lo stesse chiamando.
Attendevano con calma di pranzare conversando del loro lavoro, di qualche progetto insieme, di una vacanza, perché no, per concedere alle loro anime il tempo di rincontrarsi.
E, tuttavia, nelle loro mani posate l’una sull’altra sul candore della tovaglia, si leggeva il desiderio di tornare di sopra, in camera. Di riannodare con cura i fili della loro vita





LINA




Dopo quel cliente, altri ne erano entrati nel bar, frettolosi e infreddoliti.
Uno scarso buongiorno bofonchiato dalle labbra rigide o manifestato da un moto veloce del capo.
Il resto della mattinata era trascorsa, come sempre, colmata dal servizio al banco di grappini, caffè, cornetti caldi e il lavaggio delle stoviglie. Un altro tizio aveva sostituito il primo seduto ad uno dei tavolini e sfogliava silenzioso un quotidiano vecchio almeno di una settimana.
Ci era restato almeno un’oretta, interpellandola soltanto una volta per farsi portare una birra gelata. Gelata? Cazzo, con la neve fuori? Ma come faceva?
Non aveva potuto continuare a leggere.
- Poco male - aveva pensato - me lo porto a casa e poi lo riporterò qui, in attesa di riconsegnarlo alla proprietaria.
Quando lei fosse tornata. Quando - se - loro fossero tornati.
Qualche tempo addietro non li aveva visti per qualche mese, forse tre.
Ricordò di aver immaginato che, sicuramente, il loro amore - perché era indubbio che i due fossero amanti - era finito…
Forse si era trattato soltanto di una avventura come tante.
Oppure lei non era altro che una squillo?
Poi, invece, erano tornati, innamorati e sorridenti come prima, e avevano ripreso ad arrivare con regolarità. Ogni due, massimo tre, settimane.
Alle due del pomeriggio entrò nel bar la collega che doveva darle il cambio. Lina infilò il libro nello zainetto, si sfilò la divisa da lavoro e indossò il suo giubbino rosa.
Mentre varcava la soglia della porta d’ingresso, il cellulare iniziò a squillare. Lo sfilò dalla tasca del giubbino e rispose.
Sapeva chi la stava chiamando. Guido.
Continuò a camminare a passo svelto nella neve ammonticchiata.
- Ciao.
- Ciao, bella, hai finito?
- Si, certo. E non chiamarmi bella …
- Sono nei paraggi, mi aspetti?
- Uhm, Guido, vado di corsa, sai che mamma mi aspetta…
- Ma non ti faccio fare tardi, ti accompagno e basta…
- Dici balle, Guido… lo sai bene che poi vuoi parlare e parlare,per non dire che …
- Che ho voglia di baciarti? Quello, sempre.
- E mi faresti perdere tempo…
Sapeva essere crudele, a volte.
- Baciarci è una perdita di tempo? Bello davvero, sai, ciò che dici… non sai che ti perdi, scema!
- Quando mia madre mi aspetta, sì che lo è … Dai, ok, vieni, sono ancora all’angolo …
- So dove sei, girati, io sono dietro di te …
Lina arrestò il passo, si voltò e lo vide a circa cinque metri da lei.
Era tipico di Guido farle questi scherzi.
Lo attese. Lui la raggiunse in tre falcate delle lunghe gambe e si chinò a baciarla.
Un metro e ottanta chino su circa un metro e sessanta… chino sui suoi occhi. Quanto amava, Guido, quegli occhi scuri e pensosi!
Nonostante tutto, Guido le piaceva. Ma forse non abbastanza. Le piaceva, certo, ma forse non le piaceva così tanto perché le chiedeva con insistenza qualcosa che lei non si sentiva di dargli.
Non ancora.
Si lasciò baciare ancora sotto casa sua, fuggendo presto e con decisione dalle braccia di Guido che reclamavano una stretta più intensa, poi sparì nel portone.
Salì di corsa le scale ed entrò in casa.
Soltanto pochi minuti di ritardo.
Posò lo zainetto su una sedia, si sfilò il giubbino, si chinò sulla madre, le prese le mani e la baciò sulle guance e sulla fronte.
Lei la ricambiò sorridendo con gli occhi.
_ Hai già pranzato, ma’? Come ti senti? Tutto a posto, ma’? Ora mangio qualcosa, accanto a te… poi leggiamo, vuoi?
Riacciuffò zaino e giubbino e si infilò nella sua cameretta per cambiarsi velocemente, dopo aver prelevato dallo zaino il famigerato romanzo. Ne squadrò attentamente la copertina, lo posò sul letto, poi tornò nell’ampia cucina.
Aveva una fame…
Sua madre la rimirava teneramente, mentre lei si preparava una frisa bagnata, insaporita con dei pomodori conditi …

SONIA




Rintanata nel grande soggiorno della loro casa, semisdraiata sul divano oppure passeggiando nervosamente nella stanza, per parecchi mesi si era immersa a capofitto nello studio del copione di quella miniserie.
Stava iniziando la sua carriera di attrice, finalmente!
Si trattava di due sole puntate, ma molto serrate e intense. Era la sua prima parte davvero importante. Le piaceva la storia e le piaceva Angelica, il personaggio che avrebbe interpretato.
L’avrebbe reso bene, lo sapeva, quel ruolo le era congeniale: una donna innamorata, passionale, seducente, che viveva l’amore solo per amore. Non cercava altre convenienze se non la pienezza dell’anima e della mente. Del corpo, anche, naturalmente. Uno stato di grazia, lo definiva.
Angelica viveva d’amore e d’arte, come Tosca, l’eroina protagonista dell’opera pucciniana.
D’altra parte, a Sonia pareva che neppure si trattasse di un film, ma di una lunga azione teatrale, con la differenza che il pubblico sarebbe stato al di là di una telecamera, dinanzi a uno schermo televisivo, anziché in una platea.
La parte più impegnativa consisteva nella lettura - nell’interpretazione - di un lungo epistolario, costituito dalle lettere che i due personaggi si scambiavano per posta elettronica che contenevano tanta parte di loro.
Tutta quella parte che condividevano, oltre a qualche accenno sulle loro vite divise, quel tanto che bastava per continuare a conoscersi e comprendersi. Per restare uniti al di là della distanza che li separava.
Le altre scene importanti - davvero essenziali per l’economia del film - riguardavano i loro incontri nell’anonima stanza di un albergo.
Incontri travolgenti, che vedevano i due protagonisti uscire dai loro sé individuali per diventare un solo respiro, una sola anima, un solo corpo.
Che fortuna, che il suo partner fosse Roberto!
Sarebbe stata così naturale, in quelle scene, con un altro attore? Forse no, solo con lui aveva potuto esserlo perché a lui era abituata e anche perché loro due si amavano nella realtà …
E, poi, erano stati importanti anche i numerosi flashback di cui si serviva la storia - il regista - per raccontare la vicenda d’amore fra Vinci e Angelica. Una vicenda d’amore bella come quella fra lei e Roberto, pensava, a volte.
Sebbene… Da qualche tempo Roberto le appariva piuttosto distratto, a volte assente.
Non se ne era preoccupata. No, non era giusto affermare che non si fosse preoccupata, forse aveva solo finto di farlo? Per non dare concretezza ad una realtà inimmaginabile?
Anche perché loro due si amavano troppo per poter assecondare la angosciosa sensazione di un qualunque pericolo.
Forse, Roberto era solo stanco. Forse non stava bene.
Aveva scelto di astenersi dall’indagare, decidendo di scivolare nel ruolo di Angelica anche nella vita. Di chiudere gli occhi.
Sonia lo aveva capito che Angelica chiudeva gli occhi per non vedere i numerosi contro della sua storia d’amore, rispetto ai pro. Ma si avvaleva di questi per viverla fino in fondo.
Finché i contro non avrebbero preso il sopravvento. Forse.
Era stata molto orgogliosa che le avessero assegnato quella parte, anche se c’era stata, di certo, una spintarella di Roberto, e voleva dimostrare, proprio per questo, le proprie capacità di attrice brillante e drammatica allo stesso tempo.
Perché Angelica era una donna soprattutto drammatica, come la maggior parte dei personaggi delle opere liriche che tanto amava. Angelica stessa lo ammetteva, in una delle sue lettere elettroniche.
A Sonia piaceva molto l’intensità di Angelica, il suo essere così passionale. Così totale. Lei pure lo era, ma forse le sue ambizioni di attrice la distraevano un po’, talvolta?
Angelica, no, lei era una 'pura', una, come dire, assoluta.
Amore ed arte erano espressioni costitutive della sua anima, non mezzi per conseguire vantaggi come la fama o il denaro.
Sonia si era tanto immedesimata in Angelica da riuscire a dimenticare il resto del mondo. Tanto da fingere che Roberto non si fosse affatto allontanato da lei.
Un ottimo trampolino di lancio, quel ruolo, e per lo più a fianco di Roberto, che era un attore già abbastanza famoso… malignavano…






ANGELICA (il romanzo)



Flashback.

- Amore, se tornando io avessi un incidente …
- Ma scherzi, amore, non lo dire nemmeno!
- Dunque, al telefono tu senti che io ho un incidente e non sai che fare se venire a vedere oppure no.
- Che stai dicendo? Se verrei da te? Scherzi?
- Verresti fino a me? Tutta quella strada?
- Sicuro correrei da te. Lo metti in dubbio? Mi offendi. Amore mio, tu sei tutto per me
- Visto che non hai numeri telefonici di altre persone alle quali chiedere notizie eventualmente … Tu lo sei per me amore mio tutto.
- Certo non ti lascerei da sola. Questo è vero mi devi dare qualche altro numero di emergenza. Tu li hai i miei…
- Ma se vieni da me, allora il problema non si pone. Ma ti darò il numero di telefono di mio figlio non si mai.
- Amore, se non dovessi trovarti al cell o a casa per un po’ di tempo, impazzirei…





MARIELLA




Lo schermo del televisore stava riproponendo quel tizio, Vinci, alla guida della sua auto sotto la chiarità del cielo ottobrino. I fiori bianchi e rosa degli oleandri mescolati al verde degli eucalipti e delle grandi foglie verdi dei fichi d’india ondeggiavano al passaggio impazzito dell’autovettura scintillante.
Non vedeva altro che il lungo nastro stradale srotolato dinanzi a i suoi occhi.
Rimuginava.
I suoi pensieri erano raccontati da una voce fuori campo…







ANGELICA (il romanzo)




Quella loro breve conversazione, avvenuta soltanto qualche giorno prima, ritornò nella mente incredula e atterrita di Vinci, mentre guidava all’impazzata verso di lei… Ma come aveva potuto immaginare, Angelica, che non si sarebbe precipitato da lei? Che pensava di lui? Che fosse un stronzo superficiale? Oh, Dio! Sospettare questo!
Un po’ era stato male per quella resistenza di lei a credere alla sua sincerità, alla sua dedizione, poi ripensò alle fragilità di Angelica. Gli aveva accennato alle sue ferite, alle cicatrici che dolevano ancora…
Né lui aveva piena consapevolezza dei suoi lunghi momenti di solitudine, durante i quali i dubbi e lo sconforto la assillavano, infiammandole il cervello, che si placavano soltanto quando lei poteva dedicare il proprio tempo a scrivere di loro nelle sue travolgenti poesie, ma neppure questo, Vinci poteva immaginare. Il timore di essere soltanto una delle solite avventure dei soliti uomini in cerca di divagazioni sessuali, la martoriava.
Comunque, non avevano avuto il tempo di segnare un qualsiasi numero telefonico, e, d’altra parte, come avrebbe potuto qualcuno della sua famiglia avere già notizie riguardo all’accaduto?
Il cielo era piombato all’improvviso nell’oscurità rivestendo di nebbiosa incredulità i mille fragorosi pensieri di Vinci. Uno di quei pensieri lo fulminò: chissà se era stata la sua telefonata a distrarre Angelica dalla guida …
Ma non era la prima volta, anzi, innumerevoli volte si erano sentiti al cellulare, anche se brevemente, certo, e sempre lui l’aveva chiamata dopo ogni loro incontro.
Mai, mai, mai, c’erano stati problemi. C’è sempre una prima volta? In tutto? Un senso di sgomento e di sconfitta lo pervase.
Tutto avrebbe immaginato, tranne quell’evento così tragico a conclusione di un mattino di straordinaria felicità. Davvero si paga tutto a caro prezzo? Quante volte aveva commentato con Angelica l’esistenza del destino che li aveva fatti incontrare?
Ma era lei a crederci maggiormente.
- Sai, io ci penso spesso alla tua solitudine. - le aveva sussurrato una volta.
- Ah! Beh, ma, vedi, io lo so sin da quando ero bambina, che sarei finita da sola … e non so neppure perché…
Gli aveva risposto lei, sorridendo triste.
Il suo destino.





SONIA



- Giriamo la scena della guida nella nebbia, oggi.
Aveva esordito Luca, il regista, una mattina, accogliendola con un abbraccio.
- Hai presente quella scena nella quale si vede Angelica alla guida dell’auto mentre la visibilità è pari quasi a zero? È tutto pronto, devo soltanto far partire la nebbia …
Di fronte alle macchine da presa era stato posizionato un fondale mobile con un tratto autostradale disegnato fra un filare di alberi a destra e il guardrail a sinistra, oltre l’altra corsia di marcia.
Mescolate agli alberi, grandi cascate di ginestre in fiore. Un giallo abbagliante, appena smorzato da volubili strati bianchi. La simulazione della nebbia in arrivo …
Sonia aveva dovuto mettersi al volante di una macchinetta chiara e fingere tutte le azioni che di solito la protagonista del romanzo, e ora anche del film, effettuava mentre guidava: cambiare le marce, accendere la radio, cercare la sua stazione preferita, spostare su hot la temperatura, sfilare una sigaretta dal pacchetto, cercare l’accendino tuffando la mano nell’ampia borsa ed estraendone carte, pacchetti di fazzolettini, chiavi, portamonete, biglietti usati di autobus, accendersi finalmente la prima delle tre o quattro sigarette che avrebbe fumato durante il tragitto.
Il tutto mentre la nebbia, in realtà quelle volute sempre più dense e scure che inondavano ad arte la scena, la avvolgeva e la inglobava. Mentre tutto il paesaggio dipinto svaniva pian piano.
Aveva dovuto simulare dapprima una sorpresa crescente per la sempre minore visibilità, seguita poi da un senso di preoccupazione che diventava man mano vera e propria angoscia.
Doveva accostare l’auto al guardrail alla sua destra, sulla corsia di emergenza e fermarsi. Infine accendere le quattro frecce.
Cioè, doveva fingere di accostare l’auto e di fermarsi. Era il fondale, a spostarsi, in realtà…
Un brusco accesso di tosse, in contemporanea con un paio di improvvisi starnuti, l’aveva costretta a interrompere la simulazione.
Luca si era precipitato verso l’auto, aveva spalancato lo sportello e l’aveva aiutata a scendere prendendole la mano, battendole poi la spalla con dei colpetti.
Il mascara si era sciolto all’angolo dell’occhio destro e lui aveva provato ad eliminare la goccia scura con un dito, poi aveva indirizzato Sonia verso la truccatrice.
- Mi dispiace, Sonia… forse tutto quel fumo…
- Scusami, Luca, non cosa mi sia accaduto…
- No, cara, nessun problema, ora ti sistemano il trucco e riprendiamo, se te la senti…
- Naturale, solo qualche momento, mi sarà andato di traverso il fumo della sigaretta, non sono raffreddata, credo, almeno non lo ero fino a poco fa…
- Tesoro, non preoccuparti, te l’ho detto, capita, no? Abbiamo tutta la mattina per…
- Tesoro - L’aveva chiamata tesoro. Mah!
Ad un suo cenno, una donna in camice bianco gli aveva consegnato due bicchierini di carta colmi di caffè bollente. Ne passò uno a Sonia mentre cominciava a bere dal suo.
Le aveva poi posato un piccolo bacio sulla fronte.
Le sue labbra roventi, sul sudore della pelle raggelata di Sonia.


ANGELICA (il romanzo)




Ne avevano riparlato al telefono il giorno successivo alla domanda di Angelica sulla disponibilità di Vinci a raggiungerla in caso di un suo eventuale incidente stradale. Se lei fosse morta…

- Ma se tu avessi deciso di scriverla, la nostra storia, ed io avessi deciso di non venire da te pur udendo nel telefono il rumore dello schianto, dell’incidente, insomma, come l’avresti fatta continuare, la vicenda?
- L’avrei fatta morire la protagonista, amore, affinché non si accorgesse che tu cioè che lui, il suo lui amato, non sarebbe arrivato. Sarebbe morta con l’illusione di sapere che stava correndo da lei, che presto le sarebbe stato accanto, che l’avrebbe visto un’ultima volta… Sai, scrivendo, e solo scrivendo, si può decidere un percorso, scegliere un destino… per il resto noi non contiamo molto. Non la scriviamo noi la vita, perlomeno non esattamente da soli.
- Oh, no, amore! Ecco vedi? Io invece ti ho risposto che verrei immediatamente così non potresti mai scrivere questa morte come dire letteraria… il problema dunque non esiste. E nessun romanzo, cara, mi raccomando, ferma la tua testolina bella, ahahah! Ma di che stiamo parlando tesoro mio. Io ci sarò sempre con te e tu con me. E per sempre, amore…
- Amore, io non sono una narratrice, non possiedo abbastanza immaginazione per poter inventare una storia, un intero romanzo, sono una persona essenziale in tutto, anche con le parole. La poesia, che vuole, anzi, che da sé sceglie un linguaggio più stringato, mi consente di girovagare nel mondo delle parole senza dover rispettare necessariamente una trama, un percorso consequenziale, come dire, una logica… io sono un’istintiva e con le logiche non ho nulla a che fare. D’altra parte, come avrei potuto vivere questo nostro amore pazzo se fossi stata una persona razionale?
No, non avevano parlato di morte, ricordò Vinci, ma di far morire la protagonista di un romanzo.
Oddio, ora si stava confondendo, mescolava i pensieri tra loro e le parole che si erano scambiati dando vita a realtà non ipotizzate quel giorno, non ipotizzabili ora.
Ma, visti i numerosi chilometri che percorrevano entrambi per incontrarsi, la cosa non era da escludere, no? Neppure per lui.
– Tutto può accadere, amore, no?
Così aveva concluso Angelica, quel giorno, la loro angosciosa riflessione.
- Ma che cavolo vado pensando? - si era poi chiesta Angelica.
- Ma di cosa stiamo parlando… - si era accusato Vinci: Angelica non doveva scrivere nessun romanzo e, soprattutto, non avrebbe mai corso nessun rischio sulla strada, e si sarebbero amati per sempre. Era scritto così.

Invece era avvenuto.
Incredibilmente era accaduto, quasi l’avessero evocato, cercato, maledizione!
E non si trattava di una storia inventata e scritta, ma della realtà.
E non sapere cosa le fosse avvenuto rendeva ancora più inverosimile credere che quel fragore di lamiere e quel grido, quasi una supplica, di Angelica, fossero stati reali, anziché soltanto uno stupido angoscioso incubo contenuto in un rigo di romanzo.
Raggiunse impaziente e impazzito l’autostrada, dove avrebbe potuto lanciare l’auto al massimo, infischiandosene dei limiti di velocità, che pure aveva sempre rispettato con rigore.
Doveva assolutamente sapere, vedere con i propri occhi.
Elaborò un po’ di conti veloci sul tempo necessario per raggiungere Angelica.
Dunque, allora, com’era? Entrambi avevano camminato già per un’ora circa, quindi a lui sarebbero state necessarie due ore buone per arrivare sul luogo presunto dell’incidente. Per le tre ci sarebbe stato, ma, a quell’ora, avrebbe trovato ancora qualcosa, la sua auto, oppure ancora lei?
Oppure i soccorsi, nel frattempo, avevano provveduto a verificare lo stato delle persone coinvolte, a liberare la strada, insomma, e, allora, dove l’avrebbe trovata, Angelica, e, soprattutto, in che stato l’avrebbe trovata?
Gli balenavano forsennate nella mente le immagini della loro meravigliosa storia.
Ancora non credeva che quel corpo e quell’anima gli appartenessero, che la passione di lei gli fosse appartenuta soltanto fino a qualche momento prima. Riassaporò il piacere del contatto con la sua pelle di seta, riascoltò i suoi sussurri, rivisse la sua dedizione.
Si concentrò su queste visioni per non lasciare a quelle senza contorni, senza alcuna verità certa sulla donna lontana, forse ferita, di farsi largo nella sua mente.
Doveva pensare soltanto al suo calore.
Come si erano conosciuti?
Vinci se ne ricordava come se fosse accaduto da un solo giorno.
Non l’avrebbe mai dimenticato, quel loro inizio.





MARIELLA




Sullo schermo del televisore c’era ancora lui, Vinci, il protagonista. Immerso nei ricordi.
Flashback.

Due anni prima. Sette luglio. Afa, stanchezza e sudore. Solitudine.
Aveva parcheggiato, come ogni giorno, l’auto nel vialetto antistante la sua abitazione, una grande villa situata alla periferia del paese.
Entrato in casa, aveva abbandonato sulla cassapanca dell’ingresso la borsa professionale, si era liberato della giacca di lino azzurro, poi si era diretto nello studio.
Triste, accaldato, annoiato.
Aveva acceso il p. c. e aperto la posta elettronica. Un messaggio c’era, in entrata. Bene.
Una voce dura, da un’altra parte della casa, lo aveva bloccato.
- Ah, sei arrivato? Dritto nello studio, mi raccomando! Come sempre. Non mi saluti neppure …
- Salutarti? Perché? Come se tu mi preparassi belle accoglienze. Comunque, ciao.
Una certa consolazione provocata da quell’inatteso messaggio lo muoveva a rispondere controllando la propria insofferenza.
- Vado un po’ fuori. Fa un caldo infernale.
Passò dal soggiorno alla cucina, poi si diresse in giardino, in cerca di fresco e di riposo.
Ad interrogarsi sul contenuto del messaggio. Lo avrebbe letto dopo cena, si disse, sperando in qualcosa che neppure lui sapeva. Una qualche novità, comunque, un cambiamento, certo.
Attese pazientemente di essere solo, dopo la solita cena e i soliti mugugni, per riaccendere il computer, entrare nella sua posta, aprire quel messaggio, comprenderne il contenuto, assaporarne il senso.
Ora Vinci, seduto dinanzi al computer, ripeteva fra sé, in maniera udibile, tuttavia, dal pubblico televisivo, le parole che aveva appena letto.
Ascoltavo attentamente…
- Accetto con piacere la sua amicizia. Mi chiamo Angelica. A presto.
Lui aveva digitato all’istante la risposta.
- Io sono Vinci, e spero che potremo conoscerci meglio. Sarò qui, domani sera, se hai la possibilità di chattare, potremo sentirci… il mio nickname è…
Poi era tornato in giardino, a chiedersi dove l’avrebbero portato quelle parole. Fantasticava. La foto del profilo di lei gli aveva mostrato due grandi occhi persi in una nuvola di lunghi e mossi capelli biondi e un sorriso appena accennato dalle labbra carnose.
Era restato lì a lungo, nella lieve improvvisa brezza della sera, con un piccola speranza accesa negli occhi e nel cuore.

Io non sapevo nulla di quei cosi, dei computer, cioè, del loro funzionamento, cioè: quelle parole che galleggiavano fra il piccolo schermo bianco sul quale erano apparse - sapevo della sua esistenza solo perché mio figlio ci giocava - e lo schermo del mio televisore, e non su un normale foglio di carta, arrivato in una busta, per posta, mi lasciarono perplessa.
Davvero ci si poteva scrivere anche così? Non è che a me il postino portasse mai lettere, ormai soltanto bollette, oppure le richieste di offerte da varie associazioni, il calendario di Sant’Antonio verso novembre e qualche cartolina a Pasqua o Natale.
Ma di lettere ormai non ne giungevano più. Se c’era qualcosa da dirsi con qualcuno, lo si faceva per telefono, no? Velocemente.
Ma ora, ecco, questa diavoleria: una lettera c’era, ma non da aprire, stringere fra le mani, leggerla, poi ripiegarla e riaprirla ancora e ancora, sentendo il fruscio della carta bianca, baciarne le parole più belle, come io avevo fatto un secolo prima, quando Pasquale era militare e mi scriveva, una volta alla settimana, di come trascorreva il suo tempo fra marce, picchetti e serate solitarie, e poi aggiungeva un rigo con qualche parola d’amore e di speranza.
Quando mi raccontava il suo sogno di tornare giù e di sposarmi presto.
Quando credevamo che quel nostro amore ci avrebbe colmato la vita.
E sotto lo scritto disegnava sempre il suo cuore sul quale scendeva qualche mia lacrima di felicità e di disperazione.
Ma come diavolo s’intitolava quella fiction?





SONIA



Quando era accaduto?
Ah, si, una sera di qualche mese prima, due o tre?
Roberto non se lo ricordava neppure tanto bene…
Tre mesi prima. Sicuramente. Forse più…
Tutto era iniziato quando aveva dovuto partecipare ad uno dei tanti meeting promozionali ai quali la sua presenza conferiva prestigio - lui era un attore affermato - attraendo molti ospiti di fama e un nugolo di ragazzetti e ragazzette aspiranti alla fama.
Solo da una settimana aveva terminato di girare, qualche giorno prima di Sonia, le ultime scene del loro primo film insieme e pregustava un periodo di riposo. Ma ecco l’invito alla festa… Una seccatura necessaria.
Sonia non aveva potuto accompagnarlo, né la sua presenza sarebbe stata opportuna, gli avevano suggerito, e Roberto vi era andato malvolentieri, conoscendo da tempo la noia di certe 'comparsate'.
Era passato indifferente da un cocktail all’altro senza neppure accorgersene, ingollandone qualcuno in più del necessario, quando gli avevano presentato una donna dai lunghi capelli rossi inanellati, sparsi sulle spalle nude.
Non ne aveva afferrato il nome.
- Una noia, vero? - Erano state le prime parole di lei.
Roberto aveva sussultato: come aveva fatto ad intuirlo?
Aveva annuito con un battito di ciglia e un mezzo sorriso.
Lei lo aveva preso per mano.
- Venga - aveva bisbigliato.
Lo aveva condotto in un’altra stanza, poi, dopo avergli fatto attraversare lunghi corridoi e salire alcuni scalini - Roberto, già brillo, neppure metteva del tutto a fuoco il tragitto - si erano ritrovati su una immensa terrazza bianca, sotto un gazebo di legno letteralmente ricoperto di gelsomini.
Dinanzi a loro, non lontanissimo, il mare.
- Un momento di relax, le va? - gli aveva offerto un bicchiere contenente del caldo liquido ambrato. Una sorta di dolce tisana.
Roberto aveva bevuto d’un fiato, mentre lei gli indicava un divanetto di bambù bianco, ricoperto di larghi cuscini in seta azzurra e oro.
- Prego, se vuole, può rilassarsi qui.
Lui si era lasciato scivolare su quel mare di seta quasi ipnotizzato, aveva allungato le gambe e aveva chiuso gli occhi, pensando di riposarsi solo un attimo nel miracoloso silenzio della terrazza, accarezzato dalla brezza odorosa di gelsomino.
Al suo risveglio, dopo forse appena una mezz’ora, lei non c’era più, ma accanto a lui, sul divanetto, era posato un talloncino bianco: un bigliettino da visita. Il suo nome, Lucilla.
Le aveva telefonato la mattina successiva, dall’albergo, appena poco prima di ripartire per tornare a casa.
Solo per ringraziarla, per nient’altro.
- Un caffè? Le va? - le aveva proposto.
Non aveva potuto vedere il guizzo di piacere negli occhi della donna, all’altro capo del telefono.
Si erano spinti verso un bar sul mare, a qualche chilometro dall’albergo, seguendo le indicazioni di lei.
- É qui che vengo per meditare. - Aveva sussurrato lei.
-Meditare? E su cosa?
-Mille cose, come la solitudine …
-Lei, sola? Ma no…! Come mai?
-Capita, ma, diamoci del tu ..
-Certo, Lucilla, allora …
-Ecco, ieri sera ho voluto conoscerti, tutto qui…
-Perché?
-Mi sei sempre piaciuto, come attore, voglio dire.
-E come persona?
La sua natura un po’ vanesia aveva preso il sopravvento…
-Beh, magari ora me ne darai l’occasione, se vorrai…
Era un invito, forse? Roberto lo aveva voluto intendere per tale, un invito…
- Sei una donna bellissima, ed io so apprezzare le belle donne, eccolo, dunque, un piccolo indizio su di me …
- Grazie, me lo dicono in tanti, ma a volte, beh, non ci credo affatto. Penso che una certa adulazione sia dovuta alla moglie di un produttore famoso…
- Ah, si? E la moglie di chi saresti? No, non dirmelo, e visto che non ti conoscevo come moglie di chicchessia, non puoi prendere le mie parole per adulatrici.
- Certo che no. Sei stato sincero, e lo apprezzo. Grazie.
- Grazie a te… e come?
Lucilla non aveva risposto, ma lo aveva preso per mano e condotto verso il cancello di una delle tante ville immerse nel verde intenso prospiciente la costa sabbiosa. Non era stata casuale, la sua scelta del bar in quel luogo, dunque?
Il salone interno, in penombra, accogliente, le finestre schermate da leggere tende di garza verde, i divani e i mobili alternavano i verdi al nero.
Roberto non pensò nulla e non si chiese nulla, quando lei gli si era accostata e aveva iniziato a sbottonargli la camicia.
- Ecco, ora fatti conoscere meglio… - la sua voce era risuonata leggera come l’eco di un batter d’ali di farfalla, ma roca e appassionata.
Non lo aveva meditato, ma lo desiderava, come per sconfiggere la noia della serata precedente con una novità assolutamente imprevista.
Balle, se l’aspettava. La voleva. La novità. Come ora voleva lei.
Forse erano stati il solleone e il favonio e la mancanza, non soltanto fisica, di Sonia, impegnata nel controllo del montaggio del nuovo lavoro - avevano smesso di girare a fine giugno e da allora lei era sprofondata nell’ansia - ad incendiargli i sensi?
Improvvisamente, e senza alcuna ragione, si era augurato di vivere sensazioni nuove, intense, trasognanti.
Era stato così. Un’emozione inaspettata. Bugiardo, scoprì che se l’era tanto augurata…
Di questi incontri senza troppo impegno - Roberto ne era naturalmente al corrente - ne accadevano spesso in quel mondo fervido di conoscenze superficiali e fugaci, spesso funzionali solo a strappare un contratto di lavoro.
Lui non li aveva mai vissuti né cercati.
Si riscoprì nuovo e diverso. Non si domandò neppure se si piaceva, così cambiato, semplicemente non riusciva a farne a meno.
Per circa tre mesi Roberto se l’era poi ritrovata accanto, nel corso dei ricevimenti ai quali partecipava, e, come per un tacito accordo, decidevano di terminare la serata insieme, febbrili, colpevoli e appagati.
Poi lei si era eclissata, senza una sensata spiegazione, anche se a volte lo chiamava ancora, per salutarlo.
Come quel giorno, mentre lui era a tavola con Sonia.
Mentre lui ritornava da Sonia.





ANGELICA (il romanzo)



Flashback.
Soltanto poche ore prima gli occhi divertiti di Vinci l’avevano sorpresa dal finestrino aperto dell’auto, all’improvviso, mentre lei era intenta a leggere.
- Amore non mi hai visto arrivare?
- Oh! ciao amore no stavo leggendo mentre ti aspettavo.
Angelica aveva richiuso in fretta il libro e lo aveva posato sul sedile del passeggero.
- Eccomi qui. Lo sai il traffico mamma mia! Una fila infinita di camion… Vieni andiamo a prendere un caffè, vediamo, come stai? Bello questo tuo tailleur... che leggevi?
- Oh, niente di eccezionale, una strana storia d’amore, appena lo finisco te lo porto…
Un bacio attraverso il finestrino aperto, poi Vinci si era sollevato e allontanato dall’auto quanto bastava a permetterle di rialzare il vetro mentre raccoglieva velocemente la borsa e i libri che gli aveva portato e scendeva dall’auto. Il cuore che batteva sordo, a vederlo, ancora come la prima volta, la mano di lui, rovente, che prendeva la sua. Un fremito nelle dita. Il secondo bacio, abbracciati sul marciapiedi, incuranti di tutto, dopo quindici lunghissimi giorni. Chiacchiere senza nessuna logica, nel bar dove entrarono, come sempre, per prendere un caffè insieme.
-Che tempo dalle tue parti?
-Bello e da te?
-Sole, caldo, è un bell’ottobre.
-Ti ho portato un libro un saggio che ogni buon politico dovrebbe leggere. Ed uno mio anche… ne ho trovata una copia in più… e anche quest’altro…
Dopo aver preso il caffè, erano saliti entrambi sull’auto di Vinci.
Affamati di un altro bacio, più intenso del primo. Lungo quanto una vita. La mano di Angelica, teneramente indagatrice, su di lui, quella di Vinci che si insinuava sotto la sua gonna, percorreva l’interno della sua coscia sinistra fino ad incontrare il bordo merlettato della calza nera, lo superava, si faceva strada verso il luogo caldo che lui definiva “il paradiso”.
- Oh, dio! Che bello. Come stai, amore?
-Bene, sto bene, ora che ti vedo, amore. Eh…? Vediamo, uhm… bene anche tu, direi?
- Amore, basta che ti sono vicino, ma mi basta anche solo pensarti che… beh, lo sai…
- Che bello vederti amore… Allora non devi pensarmi?
- Certo che voglio pensarti… e come potrei non pensarti sempre?
- E il cd? Ce l’hai?
- Eccome amore, eccolo, il lettore è già sulla nostra canzone.
Nell’auto si erano diffuse le note, la voce, le parole di Battiato: -es un sentimento nuevo, che mi tiene alta la vita… la passione nella gola, l'eros che si fa parola…-
- Bellissima vero? Nessun’altra canzone poteva essere tanto adatta a noi…
- Si amore visto che l’abbiamo trovata? Anzi sei tu che l’hai trovata, che l’hai scelta….
- Andiamo amore. Ti desidero da impazzire.




LINA




Dopo il tenero bacio a sua madre, mentre Laura, la vicina di casa che le teneva compagnia quando lei era a scuola oppure al lavoro, le spiegava che le aveva già dato da mangiare, naturalmente, e che ora, forse, avrebbe potuto addormentarsi un po’, Lina immaginò che avrebbe potuto riprendere a leggere presto quel libro…
Ringraziò Laura, poi, come sempre, accostò una sedia alla grande poltrona a rotelle della madre, per leggerle qualcosa. Aveva tirato fuori dallo zaino il libro.
- Senti questa, ma’, qualcuno ha lasciato questo romanzo, al bar, stamattina, ti leggo qualcosa da qui, oggi. Allora, comincia così …

-Flashback. Ottobre. La lunga auto grigio ferro di Vinci si accostò con un sospiro riluttante al marciapiedi, dietro l’utilitaria chiara di Angelica.
Piccole frange di gelo si levarono dal pianale inerpicandosi alle caviglie di lei, per poi farsi strada lungo le gambe sino alla vita, sostare nella sospensione improvvisa del cuore, raggiungere il brusco vuoto del cervello.
Un’altra separazione!
Ti amo. Vai piano, amore. Ci sentiamo più tardi.
Si, amore, certo, non preoccuparti. Ti amo.
Angelica lo baciò ancora una volta, poi lasciò la mano rassicurante di lui, si costrinse a scendere dall’auto e s’infilò silenziosa nella sua piccolina, calda di sole. Sintonizzò la radio su Rai tre, poi la spense, era in onda la pubblicità, e infilò un cd nell’apposita fessura...

Lina interruppe la lettura.
- Allora, che ne dici, ma’? Sembra un romanzo d’amore, vero? Continuiamo più tardi, ora cerca di riposare mentre io mangio qualcosa, ho una fame…!
Da quando un ictus aveva inchiodato sua madre su una sedia a rotelle o nel letto, privata anche della parola, Lina ogni giorno, appena poteva, le leggeva qualcosa da un quotidiano o un settimanale, a volte da un libro.
Erano rimaste sole, dopo la morte improvvisa e violenta del padre di Lina, nella piccola casa che pareva essersi ammutolita e ingrigita, e lei cercava di starle accanto il più possibile.
Smorzò la fame con un panino ripieno di frittata e una mela, poi si rifugiò nella sua camera, si distese sul letto e riprese a leggere.

-Avviarono le due automobili nello stesso momento, per poter raggiungere l’ingresso dell’autostrada insieme: si salutarono con un bacio al volo e la mano levata dietro il vetro del finestrino. Poi imboccarono gli svincoli, diretti verso le rispettive destinazioni. Opposte l’una all’altra.
[…] Il desiderio di lei, che si accumulava assillante durante la prolungata lontananza, si era espresso interamente fino a diventare dolce e sfrenata violenza.
Emozioni e sensazioni nuove che lo sorprendevano ancora, a distanza di circa due anni, da quando si erano scelti e amati per la prima volta.

Sì, si trattava decisamente di un romanzo d’amore…
Lina sospirò, pensando a Guido. Era lui l’amore? Come poteva saperlo?
Cos’era, poi, l’amore?
Si alzò di scatto e si accostò alla finestra, poi la spalancò e uscì sul piccolo balcone, scalza nella neve.
Sbirciò nella strada, quasi a cercare la figura rosso porpora che la mattina aveva visto svanire nella luce.
Una macchia di sangue stagliata sul candore della neve.
Erano quei due l’amore?
Confusa e tremante, tornò a letto.
Sognò…













ANGELICA (il romanzo)




Un tragitto di pochi minuti fino al loro albergo, situato proprio al termine degli svincoli dell’autostrada, sulla strada provinciale che attraversava il paese scelto come contesto del loro amore, un piccolo antico paese di montagna.
La mano di Angelica che indugiava sul suo desiderio dirompente, al di sopra del panno grigio del pantalone, e quella di Vinci sempre sulla coscia nuda di Angelica. In cerca del suo inguine. Della voglia di lei.
Non avevano neppure parlato finché non erano giunti all’interno della stanza. La 101.
Sapevano dove si trovava, appena a sinistra, al primo piano. Ne avevano occupate altre, prima, ma era la terza volta consecutiva che entravano lì.
-Un numero binario amore. - Aveva commentato lei, la prima volta che gliel’avevano assegnata.
Vinci aveva chiuso la porta, posato la sua borsa professionale, poi si era sfilato rapidamente la giacca e l’aveva presa tra le braccia.
Tutta la fame e tutta la sete del mondo.
E il troppo freddo e il troppo caldo e le loro solitudini, e il dolore della distanza e qualche piccola, inevitabile incomprensione, dinanzi al loro desiderio imperioso e improcrastinabile, erano trasmigrati all’istante oltre i vetri della finestra della camera 101.
All’interno delle quattro spoglie pareti bianche, tra l’armadio e la scrivania, intorno e sopra al letto dal copriletto di seta azzurra ben teso, sotto il lampadario dalla luce fioca, vivevano solo i loro corpi, le loro voci, le loro anime.
Il calore della pelle. Il loro odore. La mano di Angelica che lo accarezzava dolcemente. Un preludio d’opera.
Poi Angelica si era abbassata lentamente, si era inginocchiata dinanzi a lui. E tutto era stato, da quel momento, solo luce sfolgorante.
Loro, trasfigurati. Furono altro. Furono altri.
Orfeo ed Euridice. Tristano e Isotta. Violetta e Alfredo.
Protagonisti di passioni travolgenti che solo la morte aveva reciso.
Una morte violenta.
E, che, per merito di quella morte violenta e precoce, erano diventati immortali.








MARIELLA




Un altro intervallo. Questa volta andava in onda un telegiornale flash.
Un riassunto delle notizie politiche ed economiche, oltre a qualche rapido cenno alle cronache del giorno. I vari processi in corso, un paio di rapine a mano armata. Sempre le stesse notizie. Il mondo non sarebbe mai cambiato. Mi distrassi e fu il tempo di aprire la cassapanca dei ricordi.
Vero, lettere non ne arrivavano più, ma una mattina di qualche mese prima il postino mi aveva consegnato una busta bianca. Era indirizzata a me, proprio a me, Mariella Canale. L’avevo rigirata fra le mani, interdetta. Nessun mittente. Me l’ero portata in cucina, timorosa. Non c’era nessuno che potesse avere qualcosa da dirmi per lettera che non potesse raccontarmi per telefono. Mi ero preparata un caffè, mi ero seduta accanto al tavolo di cucina e avevo aperto con un taglierino la busta. Conteneva dei fogli ripiegati, che, aperti, rivelarono una scrittura minuta, fragile, sconosciuta. Si trattava di ben tre pagine fitte fitte di parole. Andai all’ultimo foglio, alla firma. “Clara”.
Clara! Ma era la mia vicina di casa, quella Clara che era sparita ormai da forse quasi tre mesi, senza mai farsi più sentire. Ok, ora avrei saputo, avevo pensato. Sorseggiando il caffè iniziai a leggere.

Carissima Mariella, naturalmente questa mia lettera ti coglierà di sorpresa, di sicuro ti aspettavi che io tornassi a casa e non di ricevere questa mia. Non aspettarmi più, non tornerò più né in quella casa né in quella città. Sono fuggita, questa è la verità, per mettere fine ad una vita che non sopportavo più. Non meravigliarti. Cosa non sopportavo più? Non sopportavo la brutalità di Mauro. Non l’hai mai saputo, non l’avevo mai detto a nessuno e neppure a te, che pure eri così amichevole, così affettuosa. Spero che mi perdonerai per questo. Non ne ho mai parlato, Mariella, perché mi vergognavo troppo a confessare che ero aggredita fisicamente e psicologicamente ogni giorno. Mi vergogno persino, ora, a scriverne. Chi ci avrebbe creduto che Mauro potesse essere così violento, con me, lui che è così distinto, così affabile, così elegante? Non era mio marito, questo lo sai, era soltanto il mio compagno, beh, direi il mio amante, da diversi anni, e veniva da me, insomma, stava spesso da me, quasi come un marito che manca sovente da casa per lavoro. E poi torna a riprendere il proprio posto, ad esercitare i propri diritti. Ma mai niente che gli andasse bene e bastava un nonnulla per rimproverarmi di questo e di quello, e perché non avevo innaffiato le piante, e perché non avevo acquistato le cose che mi avevo consigliato dal tal negozio anziché dal tale altro. E perché non avevo risposto alla sua telefonata al primo squillo e perché avevo invece risposto velocemente, e che, stavo con il telefono sempre in mano? E perché avevo cucinato qualcosa che sapevo che a lui non piaceva, e invece era qualcosa che aveva sempre mangiato volentieri fino a poco tempo prima, insomma, una tattica per farmi impazzire … non riuscivo a capire perché si comportasse in maniera così schizofrenica, sì, schizofrenica è la diagnosi giusta, fatto sta che, se soltanto provavo a rispondergli, mi guardava con odio, come osavo contraddirlo? e giù una sberla e qualche volta qualcosa di più. Ma lo amavo e per tanto tempo ho sperato che qualcosa cambiasse. Ma quando mi appellava con epiteti offensivi, allora la mia mortificazione era massima. Non ero una puttana, una troia, una scrofa, visto che stavo con lui senza nessun vincolo civile, e allora con quanti uomini avrei potuto stare? Anzi, probabilmente ci ero stata, no? E iniziava con interrogatori da Gestapo.
- Vero che ci sei stata? E con quanti? E che facevi con loro? Come te lo mettevano? Come ti piaceva prenderlo? Magari te ne sei fatto uno proprio ieri e non lo saprò mai… –
Era ossessivo e truce e mentre diceva tutte queste schifezze mi possedeva in tutte le maniere che aveva ipotizzato avessi già provato con i miei presunti amanti. E dire che agli inizi della nostra storia lui non era stato così minaccioso e avevo preso il suo modo di controllarmi per semplice gelosia, e mi faceva piacere che mi volesse tutta per sé, segno che mi amava, no? E, poi, i primi tempi, dopo una scenata, era capace di chiedermi scusa, voleva essere perdonato, lo perdonavo, vero? e mi portava a letto affinché gli dimostrassi che l’avevo perdonato come solo io sapevo fare, perché, a suo dire, ci sapevo davvero fare, con nessuna godeva come con me, e questo, alla fine, mi inorgogliva, povera scema che ero… ma fu proprio questo che iniziò a rodergli il cervello, piano piano, tanto da motivarlo a sempre maggiore brutalità e sempre meno controllava le sue parole e le sue aggressioni. A volte mi pareva che cercasse una scusa qualunque, una forchetta che secondo lui non avevo lavato benissimo, o un cuscino sul divano posato in una posizione diversa da quella che lui aveva disposto, per iniziare un litigio che poi sfociava in quelle assurde accuse e in quella violenza. Ma io, dopo quelle scenate non riuscivo più a seguirlo a letto e mi rifiutavo e questo lo faceva imbestialire ancora di più e mi violentava con l’odio negli occhi. Basta, glielo avevo detto che mi avrebbe persa, non mi ha mai creduta, e quando non ce l’ho fatta più, tre mesi fa, quando scoprii che, oltre me, c’era pure un’altra donna nella sua vita, direi nella nostra vita, allora qualcosa deflagrò in me e sono sparita, come ben sai, e non te lo dissi per non metterti nei guai, caso mai si fosse azzardato a chiederti qualcosa. Ho cambiato numero di cellulare, non mi troverà mai, nessuno potrà mai trovarmi, qui, dove sono ora. Ma di questo ti scriverò un’altra volta, ora sono stanca, ti saluto con tanto affetto. La tua amica Clara.
Ero sbigottita. Clara aveva subìto tutto questo ed io non ne avevo mai saputo nulla! Chissà quante volte aveva provato terrore per la follia di quello stronzo!
Comunque, no, il signor Mauro non mi aveva mai chiesto nulla, ma, un giorno, qualche tempo dopo la sparizione di Clara, avevo sentito, nel suo appartamento, un gran fracasso di oggetti rotti, come se qualcuno stesse devastando tutto. Avrei voluto poterglielo raccontare, a Clara, ma non sapevo dove si trovasse, naturalmente.
Il film stava continuando, avevo saltato qualche scena, ma il ricordo della storia di Clara mi aveva talmente presa …
Che fortuna che io avessi Pasquale! Monotono, pantofolaio, ma buono, buono, buono…



ANGELICA (il romanzo)




Che scriveva Proust? «Un'ora non è solo un'ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi».
Ciò che noi chiamiamo tempo è sempre e solo uno spazio, un luogo fisico ricolmo di pensieri, di vissuti, di percezioni, sensazioni, emozioni. Di realtà, insomma. La qualità percepita dipende dalle elementi distintivi di quella realtà che si va avverando. La sua durata, inversamente proporzionale alla qualità. Un’ora in coda davanti ad uno sportello bancario o in presenza di un noioso conferenziere, lunga quanto una vita.
Un’ora senza amore è sempre un tempo interminabile. Inesistente.
Le ore che Vinci ed Angelica trascorrevano insieme duravano un solo istante.
Il tempo era quella stanza, era il corpo di Vinci, era la passione di Angelica, era il loro amarsi con dolcezza e con furia…
Il tempo era la fusione dei loro corpi e delle loro anime, un lungo espatrio dalla coscienza verso galassie lontane, un volo nell’universo sfolgorante per un periodo indefinito, e, poi, il lento risvegliarsi e il tornare dapprima in sé e nella propria corporeità, poi nella esistenza quotidiana.
Ma mai gli stessi di prima.
Il loro tempo era il colmarsi l’uno dell’altro.
Come risorti da un’urna di tenebre, decorati l’uno dell’altra, grondanti di un nuovo senso profondo, e diverso, di felicità, arricchiti da quella consapevolezza di sé che si realizza solo nel riconoscimento da parte dell’altro, delle sue mani, dei suoi sguardi, delle sue parole.
Neppure il dolore per la immediata e inevitabile separazione e per la loro abituale lontananza poteva offuscare di un solo grado l’ampiezza di quello stato d’animo. Il loro -visus-.
Vinci che affermava - Amore, con te ho ritrovato la voglia di vivere e la mia passione…
Angelica che sussurrava - Anche per me è la stessa cosa. Stavo morendo, ma il mio amore per te mi ha ridato alla vita.
Dopo, i corpi ancora strettamente intrecciati, parlavano, leggevano, ridevano, la testa di Angelica nell’incavo del braccio di Vinci, la sua mano che lo accarezzava ancora, appagato, acquietato.
Facendolo risorgere ancora.
Il calore della loro pelle che fondeva le anime di entrambi, all’unisono ...
La voglia di non separarsi sospesa tra loro come l’alone della luce della lampada che lasciavano accesa.
Inestinguibile, come, sull’altare, la fiamma del cero pasquale.
- Non abbiamo parlato quasi mai del tuo lavoro, amore.
- Vero, quasi sempre solo delle tue poesie.
- Forse perché la poesia è stata un fatto nuovo per te. Ma voglio saperne di più, di te, il fatto è che non riesco a contestualizzarti in un luogo specifico, né nel tuo studio né nel tuo paese oppure in casa. Provo ad immaginare, ma non è facile. Tu, invece, sai dove vivo, conosci la mia casa. A proposito, hai immaginato quando potrai tornare da me?
- No, amore, ancora no, ho tante cose da fare, tanti impegni. Ma chiedimi ciò che vuoi, del mio lavoro, io ti risponderò …
- Parlavano del glaucoma, in tv, ieri. Il diabete può essere una delle cause?
- Si, certo, ma le cause sono molteplici, non è facile individuarle, una elevata pressione oculare è il primo tra i fattori di rischio che sono stati individuati.
- E cosa può provocare un’elevata pressione oculare?
- L’etnia, la familiarità, cioè l’ereditarietà, poi la miopia, lo spessore corneale centrale e anche dei fattori vascolari.
- Vuoi dire la pressione alta? La presenza di un alto tasso di colesterolo? Il fumo?
- Tutto questo, si, e tu, tesoro, sei una persona ad alto rischio… ahahahahah!
- Caspita. Ci credo. Ma, sai, io sono fatalista. Ciò che deve accadere accade …
- Ma se puoi prevenire, non è meglio?
- E tu ci rinunci al fumo? Mi pare di no, allora sei a rischio anche tu, amore. E, poi, vivere sempre al buio, non può essere un fattore di rischio? Tu sei costretto alle tenebre.
- Amore mio, tu sei la mia luce, la mia oasi. Solo con te sto bene. È tutto così sublime, quando sono con te.
Era ora. Dovevano separarsi. Fumarono, abbracciati, disperati, un’ultima sigaretta insieme.







MARIELLA




Il film andava avanti con altre scene relative agli incontri fra i due protagonisti e alle loro conversazioni sui più svariati argomenti, quando si intrattenevano, abbracciati, dopo aver fatto l’amore, sul letto, sgranocchiando cioccolatini o sorseggiando qualcosa di forte da minuscole bottigliette.
- Oggi un brandy, tesoro. - Diceva lei, dopo aver frugato nell’ampia borsa nera posata sulla scrivania. Parlavano di politica, talvolta, oppure dei loro impegni lavorativi, o della famiglia, dei rispettivi figli…
A volte sullo schermo apparivano seduti dinanzi ai loro computer, mentre si scrivevano. La solita voce in sottofondo che leggeva le loro parole.
Pausa pubblicitaria… Un’altra. Uffa, ogni quindici minuti, o anche meno, e di solito dopo una delle scene più avvincenti, ecco che l’incanto veniva interrotto bruscamente dalla musichetta che annunciava l’intermezzo commerciale.
Non lo sopportavo. Io usavo da anni sempre gli stessi detersivi, fedele e pigra, e per il resto: automobili meravigliosamente silenziose e veloci, profumi da mille e una notte, cucine fantasmagoriche, gioielli degni di Cleopatra, beh, non è che non li capissi ed apprezzassi, ma, i soldi, dov’erano, per tante bellezze?
Se ne avessi avuti, avrei fatto un lungo viaggio, per la verità, niente gioielli o profumi.
Cambiavo immediatamente canale, se avevo a portata di mano il telecomando, oppure ne approfittavo per andare in bagno, o in cucina, a bere un po’ d’acqua.
Quella volta non feci nulla di tutto ciò, ma me ne restai, seduta, a riflettere su quanto aveva visto fin lì.
Ma, poi, che raccontavano quelle lettere? Di un amore così erotico non ne avevo neppure mai sentito parlare, figurarsi a viverlo.
Cose d’altro mondo, non del mio.
Con Pasquale, poi! Era così tradizionale, senza inventiva, senza nessuna iniziativa. E, ormai, da parecchio, neppure mi cercava più tanto.
Ma, poi, di sicuro quelle scene della fiction in una stanza d’albergo erano le solite invenzioni cinematografiche - mi dissi - per attrarre lo spettatore e tenerlo inchiodato alla poltrona. Però, se fosse stato reale un rapporto così, e non soltanto una storia da film, sarebbe stato anche bello, più coinvolgente.
Insomma, di poter far l’amore per due ore di seguito, come quei due, non me l’immaginavo proprio. Né, sicuramente, mi sarebbe mai accaduto.
Mi rigirai la gonna sul grembo, guardandola con astio, come se fosse colpa di quella gonna marrone se a me non toccava altro, nella vita, che pulire la casa o cucinare. Come se fosse lei, quella stupida gonna, la causa del mio corpo appesantito e lento.
Mi ricordai di quella volta che…
Strano che mi tornasse in mente proprio allora…








LINA





Che percezione si ha del tempo del dolore?
Per Lina il tempo era sostanziato anche dal dolore. Soprattutto dal dolore.
Era iniziato, quando ci pensava su, tanti secoli prima.
Un’iperbole, certo, ma i tre anni precedenti trascorsi nel dolore erano stati inconcepibilmente lenti. Tre anni lunghi quanto tre secoli!
Tre anni prima suo padre, muratore, era caduto da un’impalcatura schiantandosi sull’asfalto.
Durante i tre giorni di agonia in ospedale Lina e sua madre non avevano neppure respirato, finché lui non se n’era andato in silenzio.
Il dolore, arrivato inesorabile come ogni anno da loro la neve, si era affacciato all’alba di una gelida mattina di febbraio e si era posato sulle giovanissime spalle di Lina. L’aveva inebetita.
Poi, non soddisfatto, aveva rinfocolato la propria virulenza, e si era avvinghiato ai suoi lunghi capelli castani: durante il funerale sua madre era crollata al suolo, disfatta da un ictus.
Era sopravvissuta, ma non era stata più quella di prima. Di quella di prima erano rimasti soltanto gli occhi, con tutto l’amore per Lina dentro.
Lina ne era stata atterrita.
Possibile che tutto ciò fosse accaduto a lei e in una volta sola? Non si raccapezzava fra tanti eventi improvvisi e malefici.
Qualcuno aveva parlato di fatture, di malocchio, di destino. Facile, in quell’antico paese campano, credere al maligno in agguato.
Il dolore divenne costitutivo, come lo erano d’inverno la neve, la nebbia, il vento, e in autunno l’odore aspro del mosto per le vie che la nauseava …
Parenti ed amici erano stati accanto a quella ragazzina ancora inconsapevole della verità della vita finché non era stata in grado di prenderne atto: si era proposta, allora, di fare la sua parte, secondo il dettato imposto dalla vita stessa. Che altro avrebbe potuto fare, se non assecondarla?
Lo aveva rimosso, quel cazzo di dolore - cos’altro avrebbe potuto fare? - si chiedeva smarrita, e aveva ripreso a sorridere, sia pure con molta fatica, ad uscire di tanto in tanto con le amiche, a guardarsi intorno, caso mai ci fosse qualcosa d’altro, qualcosa di bello, in attesa, da qualche parte, di lei.
Aveva ripreso anche a leggere, per ritrovare nelle parole scritte, nelle vite degli altri, una qualche ulteriore speranza di altra vita per sé.




MARIELLA




Era accaduto tantissimi anni prima ...
Ero ancora giovane, allora, e piacente, mi dicevano gli occhi compiacenti di qualcuno che si soffermava a guardarmi. Non guardatemi ora, con questi chili intorno alla vita e ai fianchi, con i capelli color topo aggrovigliati sulla nuca e con le mani arrossate dai detersivi. Ma allora!
Mi trasferivo ogni anno nella casa al mare agli inizi di luglio, dopo la chiusura delle scuole, con mio figlio, che allora aveva, boh, cinque - sei - sette anni. Stare lì, da sola, non era il massimo della felicità, avvertivo un grande senso di solitudine che neppure l’accudire serrato di mio figlio riusciva a mitigare. Ma dovevo andarci, perché, che ce l’avevamo a fare quella casa, se nessuno ci andava?
Così, agli inizi di luglio, preparavo armi e bagagli e me ne andavo in… esilio, come definivo, dentro di me, quel trasloco estivo, pronta a ricostruire una quotidianità che includesse anche le nostre accaldate soste sulla spiaggia.
Costruivo con lui e per lui stupendi castelli di sabbia e lo seguivo, o, per meglio dire, lo inseguivo, quando si metteva a correre all’impazzata sul bagnasciuga sparendo fra i bagnanti. Mi coglieva il terrore di non riuscire a trovarlo, in quella folla di corpi nudi in perpetuo movimento.
Quell’anno, agli inizi di un luglio smagliante e silenzioso, ancora pochi i villeggianti in quel remoto angolo della costa calabra, dopo aver dato aria alle stanze, mi ero recata nell’emporio del villaggio per approvvigionarmi di detersivi e altre minuzie che potessero servire nell’immediato.
Il gestore del negozio, un giovane alto e bruno, forse sui trenta anni o poco più o poco meno, che già conoscevo di vista dagli anni precedenti, mi aveva accolta, inaspettatamente, con delle parole assolutamente calorose.
- Ora sì, che qui comincia davvero l’estate! Buongiorno, signora, come sta?
- Come? Cosa?
- È lei l’estate, signora, aspettavo che arrivasse lei …
- Ma no… ma che sta dicendo …!
Mi ero spostata fra gli scaffali simulando indifferenza, in realtà ero stata coinvolta e sconvolta da quelle parole inaspettate. Mi avevano emozionata come non mi accadeva da tempo. In realtà, mi intimorivano, quasi, rimbalzando dal petto al cervello. Dio mio, da quanto qualcuno non mi salutava con tanto entusiasmo, con tanto smisurato calore nella voce?
Me ne ero innamorata all’istante? Certamente no, però non avevo mai mancato di passare dinanzi all’emporio ogni volta che dovevo accompagnare in spiaggia il mio bambino e di entrarci spesso con la scusa di dover acquistare ora un gioco per lui, ora del sapone, o qualunque altra cosa potesse, più o meno, servirmi, per il solo gusto di riascoltare quella voce che continuava ad essere particolarmente suadente, anche se soltanto si intratteneva sul tempo o sulla gente in vacanza, oppure sul viaggio che avrebbe compiuto al termine della stagione estiva…
Parole sempre condite da un accorto complimento sulla mia grazia, sulla mia raffinatezza, sul mio contegno riservato, superbo…
Atteggiamento superbo? Che scemo. Ero miope, ma lì, in vacanza, non inforcavo mai gli occhiali, così dovevo stare attenta alla strada, ai marciapiedi, ai pali, agli alberi, e non potevo guardarmi di certo intorno…
Vero è che mi agghindavo in modo particolarmente seducente… Lo provocavo? Una tattica per avvicinarmi, la sua? Per un’avventura estiva?
Forse si, ma io non mi ero posta affatto il problema, semplicemente bevevo quelle sue parole che mi ridavano una qualche consapevolezza della mia “esistenza in vita”. Erano come la ricarica di un telefono cellulare. I miei sensi, all’erta. Pasquale non mi rivolgeva complimenti da una vita, era avaro di parole e di calore.
Dimenticai, per la prima volta e solo per un attimo, per qualche giorno assolato, la mia cultura fondamentalmente tradizionalista, e mi compiacqui di quelle attenzioni, sebbene non ci pensassi affatto ad un tradimento vero e proprio. Semplicemente, mi piaceva troppo essere oggetto dell’ammirazione di quel tale, così giovane e bello, mi piaceva il sorriso che gli guizzava negli occhi quando mi vedeva, mi piacevano le sue chiacchiere e la voce con cui me le porgeva.
Poi tutto era terminato, dopo qualche giorno, con l’arrivo di Pasquale. Ero dovuta rientrare nei ranghi e rinunciare a quella consolazione.
Ecco cos’era stato: una ventata di emozioni, e nulla più… Ma ci avevo fantasticato un bel po’. Mi ero sentita trasportare in un altro mondo, come l’Angelica del film? Avevo poi davvero dimenticato?
Dovetti farlo, ma non obliai mai le dolci sensazioni e le fiamme del turbamento che quelle parole di benvenuto avevano acceso nel mio piccolo io più intimo.
Un tesoro, riposto in uno scrigno da riaprire ogni tanto, solo quando Pasquale mi sembrava più laconico del solito, più distante che mai.
Solo quando la mia routine quotidiana mi uccideva più del solito.











SONIA




Avevano deciso per un pasto leggero: un antipasto e un secondo piatto, ed ora aspettavano che il cameriere portasse loro qualcos’altro da bere.
La sala ristorante era quasi deserta, a parte un altro tavolo occupato da quella che pareva una quieta famigliola, e a un giovane pianista che suonava, in un angolo, una musica antica.
- Amore, come sono felice che… - le stava dicendo Roberto, stringendole forte la mano attraverso il piccolo tavolo rotondo, sulla tovaglia bianca. In quel momento il suo telefono, una macchia nera posata alla destra del piatto insieme alla chiave della stanza, accanto al piatto, aveva squillato.
Una sbirciatina di cui Sonia non si avvide, e Roberto aveva interrotto immediatamente lo squillo senza curarsi di rispondere, continuando a stringere la mano di Sonia.
- Nessuno d’importante… - Aveva sussurrato, sincero, guardandola fisso negli occhi.
- Bene, amore… allora…
- Solo noi siamo importanti, Sonia.
Davvero, non era nessuno d’importante al telefono, e nulla era accaduto d’importante, anche se lui per qualche settimana aveva creduto che potesse esserlo.
Come era potuto accadere? Per un attimo Roberto si concentrò sulle cause del suo tradimento.
Non aveva scuse, lo sapeva, nonostante ne avesse trovate centomila quando aveva deciso di concedersi quella improvvisa quanto assurda storia.
Ora, a posteriori, tutto ciò da cui si era fatto coinvolgere gli appariva davvero una stupidaggine assolutamente superflua nelle loro vite.
Nessuna poteva uguagliare Sonia, in amore.
Si era trattato soltanto di uno sciocco smottamento seguìto, aveva creduto, all’impegno profuso da lei nell’affrontare quel loro lavoro. Per la prima volta avevano lavorato insieme e questo l’aveva soggiogata. Isolata da lui. Per di più, per Sonia si era trattato della prima parte da protagonista, e si era gettata nell’interpretazione di Angelica con foga e passione, e a lui era parso che un po’ lo stesse trascurando …
Si era allontanata da lui? Che sciocco era stato, a non capire che per nulla al mondo Sonia avrebbe potuto amarlo di meno!
Ma Roberto aveva avuto bisogno di crederlo, quando aveva incontrato Lucilla e aveva desiderato di concedersi una sorta di consolazione e, forse, una ulteriore prova del proprio fascino. Vanità da attore, che qualche volta lo induceva a pensare troppo a se stesso. Un attimo di smodato narcisismo.
Del resto, anche per Lucilla non si era trattato che di una relazione di scarso impegno, un passatempo, e questa scoperta lo aveva perfino un po’ deluso.
Non era durata molto, quella storia, ma Roberto era certo che Sonia lo aveva percepito che lui stava sottraendo qualcosa al loro amore. Oppure no?
Non gli aveva mai rimproverato nulla e questo lo aveva anche disorientato, aveva addirittura temuto che, alla fin fine, non gliene importasse molto di lui, ma non lo aveva dissuaso dal fatto che fosse lei l’unica donna della sua vita.
La malinconia che per tre mesi le aveva aggrottato la fronte e ombrato lo sguardo senza che neppure ne fosse consapevole, ora, dopo il sorriso e il bacio e l’abbraccio di Roberto, segno inconfondibile del suo rientro nel cerchio della loro reciprocità, aveva ceduto il passo, nei suoi occhi, allo splendore del colore del bosco autunnale.
No, lei non gli aveva mai chiesto o rinfacciato nulla solo perché aveva fiducia nell’amore di Roberto per lei ed era certa che questo avrebbe vinto. Il loro amore.
E l’essersi perdonati a vicenda per qualcosa che avevano preferito non confessarsi rendeva più entusiasmante l’essersi ritrovati.
Attendevano il cameriere con le bevande e gli antipasti, ma nessuno dei due aveva molto appetito …









ANGELICA (il romanzo)




Il display del cellulare di Angelica si era illuminato d’improvviso, qualche giorno prima, mentre l’acuto bip bip segnalava l’arrivo di un messaggio.
Vinci. Strano… Alle 8,43. Lavorava in ambulatorio, a quell’ora.
- Ciao, amore. Cerca su internet la canzone sentimiento nuevo di battiato. Ti amo.
Il cuore pericolosamente in una doppia capriola.
La risposta di Angelica alle 8.58.
- Amore, sei grande! La conosco e mi è sempre piaciuta tanto. E sembra che il testo lo abbiamo scritto noi due… (l’eros che si fa parola). Ti amooooo!!!!
Finalmente l’avevano trovata, una loro canzone!
Vinci, l’aveva trovata, e nessun’altra sarebbe stata più adatta. Una musica e un testo speciali per rappresentare loro due, insieme, per sempre, anche quando… Quando… cosa?
Nessun quando, per sempre e basta.
Non ci aveva impiegato molto, dal giorno in cui Angelica gliel’aveva fatto notare.
- Amore, non abbiamo una canzone nostra. Sai… mi serviva una parola che terminasse in -ata-, per una poesia che ho in lavorazione… e avevo pensato ad una sonata ahahhahah… perché noi non abbiamo una canzone tutta nostra.
- È vero, gioia, non ci abbiamo pensato. Dobbiamo…
- Però, ad entrambi piace Battiato, no? Potremmo scegliere una delle sue che più ci piacciono…
- Certo, amore. Ci penserò. Ci penseremo. Tu quale sua preferisci…?
- Mah, ce ne sono parecchie, dai, si, ci pensiamo, amore, la troveremo.
Una breve conversazione avvenuta appena due giorni prima. Vinci non aveva perso tempo. Se ne sorprendeva ancora, dell’amore di Vinci per lei.
Si stupiva della violenza del proprio amore per lui. Due quasi matusa con l’anima e le aspettative da ragazzini, ecco cos’erano, proprio due adolescenti che, nelle inevitabili strettoie della vita, riuscivano ancora a ritagliarsi uno piccolo spazio semplicemente per darsi niente di più che una canzone.
Un’altra emozione da aggiungere alle precedenti, nel curriculum di quel loro amore così speciale. Un curriculum da aggiornare continuamente, pressoché ogni giorno, un diario d’amore che ora aveva raggiunto una lunghezza ragguardevole.
Un percorso denso di gioia, ma anche di recondita malinconia. Poco più di tre anni, da quando un destino singolare aveva deciso che si conoscessero, che si incontrassero, che si amassero. Una storia, una passione grandiosa proprio da scrivere, la loro, degna di restare nella memoria… Chissà!
Ma lei non era una narratrice…
Fra le cosce di Angelica, il noto brivido, segno del suo insopprimibile desiderio. Della sua fame, che soltanto per lui si accendeva, come mai le era accaduto prima.
Si sentirono al telefono, più tardi. Come ogni giorno, o quasi. Un appuntamento imprescindibile.
- Porto il cd, sabato, tesoro, così la ascoltiamo insieme.
- Si, amore mio, intanto ti invierò il testo per e-mail. L’ho trovato su you tube. È straordinario. E, amore, non vedo l’ora di vederti …
- Anch’io, amore, ti desidero tanto. Sabato è vicino. Lo sai come ti voglio, voglio possederti, violentarti, farai tutto ciò che voglio. Ho bisogno di te, amore.
- Certo, amore, lo sai quanto mi piace essere nelle tue braccia. Io ho bisogno di te. Ti amo.
- Ti amo tanto, gioia, già mi sento dentro di te.
- Ed io sogno solo di averti …
- Uhm… ormai mi conosci bene, nessuno mi conosce come te. Ora vado, amore, ho ancora da lavorare un bel po’, e ne ho per un’altra mezza giornata. Ci risentiamo più tardi, gioia. Un bacio, amore mio.
Ancora due giorni prima di vedersi. Un’eternità.
Vinci era tornato ad esaminare occhi, nel buio del proprio studio, in ospedale.
Ma sorrideva, tra sé e sé.
Piccole cose, fra loro, che contavano moltissimo.







LINA



Martedì.
Aveva studiato in fretta un capitolo di storia, l’aveva soltanto letto, per la verità, poi aveva risolto un paio di equazioni e effettuato una breve ricerca di letteratura, ansiosa di tornare alla sua lettura.
Un’ansia che faceva male.
Potette farlo soltanto dopo aver provveduto alla cena per sua madre, averla preparata per la notte e averle letto qualche notizia di cronaca da un quotidiano.
Finalmente si era potuta ritirare nella sua camera e, accucciata sotto la coperta, al calduccio, aveva riaperto il libro. Quella storia l’aveva irretita, come neppure Guido aveva saputo fare.

[…] All’interno delle quattro spoglie pareti bianche, tra l’armadio e la scrivania, intorno e sopra al letto dalla sopracoperta azzurra ben tesa, sotto il lampadario dalla luce fioca, vivevano solo i loro corpi, le loro voci, le loro anime.
Il calore della pelle. Il loro odore. La mano di Angelica che lo accarezzava dolcemente. Un preludio d’opera.
Poi Angelica si era abbassata lentamente, si era inginocchiata dinanzi a lui. E tutto fu, poi, solo una luce sfolgorante. Loro, trasfigurati. Furono altro. Altri.Orfeo ed Euridice. Tristano e Isotta. Violetta e Alfredo. […]

Colta da un improvvisa ondata di calore, Lina sgusciò precipitosamente dalla coperta e, a piedi nudi, si accostò alla finestra e la spalancò, poi uscì nella neve del balcone… Di cosa stava parlando, quello strano romanzo?
Levò lo sguardo verso la corona di colli innevati e inaspettatamente fu ferita dal senso di clausura che quel paesaggio imponeva alla sua esistenza.
Quanto avrebbe, invece, preferito vivere in un paese sul mare!
C’era stata un paio di volte, d’estate, su una spiaggia del Tirreno, e, guardando quegli spazi senza confini, aveva provato una sensazione inebriante di universo, di infinito, di libertà. Aveva seguito con lo sguardo alcune gigantesche navi bianche che avanzavano placide al largo per poi svanire dietro il promontorio per chissà dove. Da quella costa si sarebbe potuti andare ovunque, in qualunque momento, senza che l’oppressione della neve che ogni inverno si ammassava in cumuli a volte insormontabili nelle strade del paese potesse condizionare la sua voglia di avventura, di conoscenza.
Mentre il gelo della sera le accarezzava il volto, avvertì il suo grembo infiammarsi sotto la lanetta della camicia da notte umida del suo sudore, i seni inturgidirsi, le cosce contrarsi, un dolore sordo all’interno del ventre…
Si accarezzò il grembo, gli inguini.
Il desiderio di andare via, lontano di lì, verso spazi nuovi e inattesi, si fuse agli spasmi misteriosi del suo giovane corpo. Era quello l’amore? Quell’improvvisa smania? Desiderò che qualcosa, qualcuno calmasse quel fuoco… estinguesse la sua voglia.
Desiderò un altro corpo sopra, accanto, sotto, dentro al suo.
Desiderò che qualcuno, le venne in mente Guido, l’accarezzasse come non aveva mai immaginato.
Le piante dei suoi piedi nudi non l’avvertivano neppure, il gelo caldo della neve …







ANGELICA (il romanzo)



Era già molto tardi e nella casa buia, silenziosa e fredda, il computer era ancora acceso, ma Angelica non lo aspettava più. Che la contattasse on line, cioè.
Stava concludendo qualche piccola faccenda domestica prima di trasferirsi in quella che aveva denominato “la stanza verde”, dove si accucciava sul divano dinanzi al televisore, quando la musichetta che significava una connessione in corso la richiamò davanti al suo p. c.
La lucina rossa era accesa sul bordo inferiore dello schermo. Vinci! Aveva aperto la pagina di msn.

Angelicaaaaaaaaa, ci sei?
Siiiiiii, ci sono
ciao, amore
ciao, amore mio
che stavi facendo?
infilavo qualcosa in lavatrice, amore
come stai? come va? cosa hai fatto nel pomeriggio?
sto bene, che facevo? niente di speciale, un po’ di servizi, poi, per un po’, ho scritto qualcosa. E tu?
Visite, nel pomeriggio, al solito. Ho finito tardi. Ma volevo salutarti. Penso a sabato prossimo, amore. Non vedo l’ora di averti …
Anch’io amore. Altri due giorni e intanto... mi manchi così tanto, amore...
sapessi quanto mi manchi tu! Avresti mai immaginato tutto questo? Questa nostra passione che ci tiene in vita, che ci realizza così tanto
mai l’avrei immaginato, amore. Ma da dove sei sbucato?
e tu, dov’eri? Ma ora che ti ho trovata, e chi ti…
per fortuna ci siamo trovati, amore
sabato, amore, è vicino, ti desidero da impazzire
io ho bisogno di te dentro di me
ed io di possederti averti tutta, come sai darti tu mi fai impazzire
mi darò tutta, sabato, tutta e di più, amore
si devi farti fare tutto ciò che voglio
insieme io solo con te e tu solo con me ciò che vogliamo tutti e due, tesoro mio
si certo, diventiamo un solo corpo, è un paradiso, amore non sarebbe mai la stessa cosa, con un'altra persona
tu sei proprio come volevo che fosse la mia donna, per fortuna ci siamo trovati ed ora…
amore, era destino che ci incontrassimo
sei la mia droga, non potrei mai più fare a meno di te
sei tu che mi hai fatto una fattura aahahahaha
è questo il bello fra noi, la nostra sintonia in tutto, un corpo solo e una sola anima e non solo quando siamo insieme, ma sempre
si, amore mio, questa alchimia che ci fonde insieme è una cosa grandiosa
amore, ci sentiamo domani, è già tardi
certo, amore a domani
ti amooooooooooo
ti amooooooooo
un bacio, amore. Chiudo
ok. Un bacio a te amore mio.








MARIELLA





Impossibile sottrarsi alla pioggia infuocata di quelle parole che le due calde voci si scambiavano. Ero disorientata.
La conversazione avveniva fra i due attori che sullo schermo apparivano, sorridenti e pensosi allo stesso tempo, seduti dinanzi ai loro computer, ognuno nella propria stanza, ovviamente, in due riquadri accostati.
Che cavolo volevano dire quelle parole che raggiungevano la mia mente quasi sconosciute?
“sabato, amore, è vicino, ti desidero da impazzire - io ho bisogno di te dentro di me - ed io di possederti averti tutta, come sai darti tu mi fai impazzire - mi darò tutta, sabato, tutta e di più, amore - si devi farti fare tutto ciò che voglio - insieme io solo con te e tu solo con me ciò che vogliamo tutti e due, tesoro mio - si certo, diventiamo un solo corpo, è un paradiso, amore
Faticavo ad immaginare il senso di quel ”devi farti fare tutto ciò che voglio”.
Cosa poteva volere quel tipo che a me non fosse stato mai chiesto?
Cosa poteva desiderare quella tizia che a me era stato negato da sempre?
Anche quel “diventare un solo corpo” mi pareva soltanto una fantasia.
Io non mi ero mai sentita così, “un solo corpo”, quando Pasquale mi penetrava nel buio della nostra camera da letto, appena prima di addormentarsi…
Qualche volta la mia mente se ne andava addirittura alla spesa del giorno dopo, alla lavatrice da far partire, a mio figlio che non studiava come avrebbe dovuto…
E tutto quel parlare d’amore, poi… come se non esistessero altre parole, altre circostanze, al mondo…
Storie da film, mi dissi, niente a che vedere con la realtà.
Pasquale era la mia realtà.
Me lo dicevo anche mentre mi versavo, di nascosto anche a me stessa, un bicchierino di grappa o di amaro, quello che c’era, e ricordavo…












ANGELICA (il romanzo)




A volerlo contare, il numero di volte che, nel corso delle loro conversazioni telefoniche oppure on line, pronunciavano o scrivevano la parola -amore-, e tutte le altre parole importanti dell’amore - tesoro, gioia, vita mia, per sempre - non si sarebbe smesso molto presto.
Potenza delle parole!
Un’urgenza dell’anima quella di pronunciare un vocabolo quasi desueto e di proclamare un sentimento che, a quanto pareva, disertava gli umani da tempo? Il bisogno di riportare in vita significante e significato. Suoni e visioni quasi dimenticati. Lenimenti dell’anima.
Il linguaggio dell’amore molto spesso dimenticato nella frenesia della vita quotidiana, nelle competizioni, nelle convenienze, nelle formalità, nelle rimostranze.
Se ne parlava, a volte, tra amici: anche i sentimenti avevano acquisito caratteristiche -consumistiche-: tutte le relazioni, anche quelle semplicemente amicali, erano diventate una convenienza, un -usa e getta- sempre più frequente, piuttosto che un valore da preservare, e le parole che le rappresentavano erano relegate nei vocabolari, ad ammuffire. No, no, come non sentire più il bisogno di pronunciarle quelle parole dal gusto così delizioso, dal significato così profondo?
Eppure… Suo padre le aveva pronunciate fino a qualche istante prima di andarsene, fissando con infinita tenerezza sua moglie…
Un’esigenza dell’anima… un’esigenza dell’anima…
- Ti amo - Ti amo - Ti amo …
Per alleviarle il dolore il personale medico dell’ambulanza le aveva versato negli occhi delle gocce di anestetico e praticato una leggera narcosi generale, in attesa di liberarla dalle lamiere.
Fra veglia e torpore, le tornavano alla mente quelle considerazioni.
In effetti, ridacchiava tra sé, il loro linguaggio si era arricchito anche delle parole che evocavano il loro eros … un dire un po’ fuori dalle righe, a volte, ma quanto era bello poter parlare senza reticenze del loro vissuto comune! Se lo erano confessato, che era la prima volta che riuscivano a parlare di sesso e di eros e dei propri corpi in maniera così esplicita… la prima volta che riuscivano ad esprimere i loro desideri senza remore e pudori inutili.
Un eros da letteratura, scherzavano, che solo dal sentimento d’amore traeva origine e sostentamento! Che solo di sé si nutriva.
E, se amore era, e lo era, un amore dai toni epici, ahahahahah…! questo legame tra loro solo per amore, Vinci sarebbe arrivato presto, a salvarla.
A salvare i suoi occhi.
Vaneggiava?
Purtroppo … oddio! non aveva ancora consegnato alcuni documenti all’agenzia delle entrate, e, ora, nessuno l’avrebbe salvata dalle grinfie della burocrazia, pensò in extremis, nel suo faticoso dormiveglia, affogando in un ulteriore panico.
Cosa le aveva scritto Vinci, in un messaggino telefonico, qualche settimana prima?
- Tesoro mio, sapere che mi ami mi rende la vita più bella. Vivo per quando ti vedrò e ti stringerò a me. Sei il primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera. Ti amo.
Parole che curavano l’anima di Angelica più di qualsiasi medicina.
Una consolazione, ora, anche ora, durante quella incredibile, orribile esperienza.







LINA




Avvertì il gelo sotto i piedi nudi. Se li guardò, ammutolita. Era scalza nella neve?
Era proprio impazzita, davvero…
Era stato quel romanzo a instillarle nell’anima e nel corpo quelle sensazioni mai immaginate prima?
Rientrò nella stanza rabbrividendo e gemendo come se avesse la febbre, tornò a letto, si avvolse nella coperta con una spaventosa confusione nel cervello, spense la luce sul comodino e si rannicchiò.
Serrò le palpebre come per escludersi dal mondo reale, dalla neve, dai pensieri, sperando di addormentarsi presto.
Aveva la sua mamma, aveva tante amiche, aveva anche Guido, ma avvertì uno immenso sconsolato senso di solitudine e di non appartenenza.
Le tornò alla mente la conversazione avuta con Gabriella soltanto qualche giorno prima. Era stato uno scontro, più che un colloquio sensato.
All’uscita dalla chiesa, dopo la messa, era domenica, Gabry le aveva sussurrato:
- Lina, c’è Guido, l’hai visto?
- Si, l’ho visto, ma non ho voglia di parlarci…
- Come sarebbe a dire che non hai voglia di parlarci? Ma sei scema? Quello smania per te. Cosa aspetti, che qualcuna te lo rubi?
- Che se lo rubino pure, io non ci ho testa per lui…
- Ma si può sapere chi cazzo vuoi? Chi meglio di lui? Qui, in questo paese di vecchi e di morti di fame? Guido sta studiando, almeno, suo padre ha un po’ di soldi, è pure un bel ragazzo, ma perché non lo vuoi? Stai ad aspettare il principe azzurro? Hai voglia, allora! Magari ti arriva su un bel camion bianco come un cavallo, con le mani dure, callose e unte di grasso…! Altro che principe. Un condottiero di tir…
- Ma fatti gli affari tuoi, Gabriella, io non aspetto il principe azzurro, io aspetto solo di innamorarmi, di essere amata come dico io… come mio padre amava mia madre, fino all’ultimo momento, e glielo sussurrò pure… sul letto di morte. E, poi, chi lo sa davvero, cos’è l’amore? Tu lo sai?
- Tu, bella mia, nella testa c’hai solo le eroine dei tuoi romanzi. La passione e niente nel piatto. Ti sei fatta fregare il cervello dalle pupattole dei libri, quelle che mettono una vampata… una sbandata davanti alla famiglia, ai figli, alla realtà. Sei proprio scema.
- Se sono scema, non mi frequentare. Io voglio altro, dalla vita. Voglio andarmene da qui. E, poi, tu, tu lo sai davvero cos’è l’amore? Tu e tutte quelle cretine come te, lo sapete? Pur di avere un ragazzo che vi gira intorno, ve lo fate mettere così, senza emozione, senza sentimento. Io non ci sto. Io non passo la mia vita ad aspettare questo, né nessuno che io non ami pazzamente. Anche Guido, lo so, da me non vuole altro che… Ma l’amore è un’altra cosa, ne sono sicura.
- Ora sei ingiusta, Lina… Guido ti ama veramente, non ha occhi che per te… Magari si fosse innamorato di me…
- E prenditelo pure. Anzi, sai che c’è? Sono stufa di queste chiacchiere. E c’è che me ne vado a casa e non voglio vedere né te né Guido e non so fino a quando e se…
Si era allontanata di corsa, sgusciando farneticante fra la folla domenicale ferma in chiacchiere sulla piazza del paese.
Negli occhi la pioggia delle lacrime.

















ANGELICA (il romanzo)




Si può intuire uno stato d’animo dagli occhi?
Vinci rammentò, mentre stava andando verso di lei, che Angelica gli aveva detto, una volta, di aver letto una tristezza infinita in fondo ai suoi occhi. L’aveva notata soprattutto in alcune fotografie, scattate in momenti diversi della sua vita, che lui le aveva mostrato. Anzi, qualcuna gliela aveva donata, e lei le conservava in uno scomparto segreto della borsa.
Vinci le aveva accennato ai motivi della sua infelicità. Motivi vecchi come il mondo. Soddisfatto dei propri diversi ruoli sociali, gli mancava da molto tempo un calore umano, un affetto sincero. Così le aveva spiegato.
Angelica gli aveva bisbigliato che voleva far tornare prati verdi e braci ardenti nei suoi occhi, per la consapevolezza di essere amato. Ne era stato consolato, tranquillizzato.
Ora, quando si guardava allo specchio, gli pareva che i suoi occhi sorridessero.
E, di certo, il verde chiaro delle sue pupille si accendeva di lampi fioriti quando pensava a lei e di luci dorate quando si incontravano, perché quelli erano i soli momenti in cui Vinci sentiva che nelle vene tornava a scorrergli la vita.
Sapeva di averne diritto. Nessuno poteva immaginare quanto. E niente e nessuno gli avrebbe impedito di prendersi quanto gli spettava. Tutto il suo mondo affettivo, ora, era lei, e non l’avrebbe lasciata andare. Glielo ripeteva ogni momento, e lei rispondeva che non ci pensava affatto a lasciarlo.
Non si sarebbe liberato mai di lei… ahahahahah!
Ma l’ansia di perdersi era sempre in agguato e nei suoi occhi addensava nubi. Era geloso e sospettoso, e non riusciva a non chiederle dove andasse, se lei gli annunciava un’uscita.
- Un incontro letterario. - Gli rispondeva, serena, oppure - Al supermercato.
- Ti ammazzo, se mi tradisci. - La minacciava, scherzando. Oppure no?
Ma, quanto a gelosia, neppure Angelica scherzava …
Allora, anche lei vacillava fra i dubbi e le accuse.
Si smarriva.
Diventava dura e sfuggente.









MARIELLA




Guardavo ipnotizzata lo schermo…
Un altro flashback.
Sullo schermo Vinci e Angelica pronti a lasciare la stanza.
Stavano raccattando borse, chiavi, sigarette.
Il cellulare di Angelica aveva squillato. Lei aveva guardato il display e interrotto lo squillo.
- Chi era? - le aveva domandato Vinci, con aria indifferente.
- Ma…
- Perché non hai risposto?
- Mah, nessuno, cioè… ecco, era il mio ex …
- Perché ti chiama?
- Per un saluto, penso.
- Potevi rispondere, allora…
- Non mi andava, stiamo uscendo e…
- Perché ti chiama ancora, non capisco…
- Forse perché non mi vuole mollare? Scherzo, dai… non lo so, lo fa, ogni tanto. Non è che siamo nemici.
Il viso di Vinci si era irrigidito.
- Andiamo, dai, è tardi.
Non l’aveva baciata, prima di lasciare la stanza, come di solito.
Angelica l’aveva fermato sulla soglia.
- Amore, l’ultimo bacio…
Le aveva posato sulle labbra un bacio freddo e breve.
Nessun messaggio di buonanotte, quella sera, né una telefonata, il giorno successivo. Angelica ne aveva intuito la gelosia.
Il lunedì mattina l’aveva chiamato lei. Sullo schermo del vecchio televisore brillavano gli occhi umidi della donna.
- Amore, hai ancora il broncio? Lo sai che solo tu conti per me.
- Uhm, è che non mi va che quello che ti chiami ancora.
- Bene, nessun problema, glielo dirò di non farlo più. A me non interessa sentirlo, lo sai. Io amo te.
- Ok, amore. Ci sentiamo più tardi. Ti amo e sono geloso…
Gelosia. Parlavano di gelosia.
Cercai di ricordare quando avevo smesso di essere gelosa di Pasquale.
Sicuro, mi avrebbe dato fastidio se Pasquale avesse avuto un’altra donna, ma, questo, secoli fa.
Quando pensavo ancora che un’altra donna nella vita di Pasquale avrebbe significato un’alterazione della mia quotidianità, della mia tranquillità. Della mia stabilità.
Avrebbe significato mettere in discussione tutta una vita programmata, accidenti, senza neppure averla davvero programmata, è vero, ma che doveva per forza svolgersi secondo i canoni: senza scosse né turbamenti.
Soprattutto, senza dover cambiare abitudini. Il ritrovarlo accanto a me al risveglio. Sapere che gironzolava per casa quando non era al lavoro oppure che bofonchiava dinanzi alla tv. Vivere in quella casa, con quelle finestre sulla strada, con quei mobili ormai antiquati ma confortevoli, e il mio angolino sul divano per guardare la tv e scivolare nel sonno senza avvedermene.
Le nostre conversazioni sempre uguali, scontate, monotone, a volte astiose, delle quali non avremmo mai potuto a fare a meno. Le vacanze estive sempre nello stesso luogo, il Natale, ogni anno, con le stesse persone, una serie di allegre tavolate per tutta la durata delle festività, per poi tornare alla monotonia di sempre, ai conti, alle bollette, alla spesa, ai telefilm, ad addormentarmi, la sera, di botto, qualche volta dopo l’amplesso veloce di Pasquale.
Mentre lui mi entrava dentro, pensavo al bucato, alla minestra dell’indomani, a niente.
Ma andava bene così, cosa mai avrei potuto desiderare di più?
Forse ciò che vivevano quei due della fiction, Vinci e Angelica, era meglio di ciò che avevo io? Un grande amore, sì, certo, ma si vedevano di rado, non condividevano niente altro che qualche ora di sesso eccezionale, e poi?
Cosa ne era della vita di lei, quando se ne tornava nella sua casa vuota e trascorreva il tempo a rivivere le loro ore di passione, a soffrire per la sua assenza? Scriveva, certo, per lunghe ore, ma bastava per risarcirla dell’assenza di lui? Che se ne faceva di quel pascolare in un sentimento d’amore certamente sfrenato e senza fine, ma anche senza nessun progetto?
E cosa faceva lui, mentre rientrava nei ranghi di marito fedele, padre integerrimo, medico indefesso e ammirato? E come mai lei non si accorgeva che lui non era altro che il solito “maschio” in cerca di avventure che raccontava di essere solo, deluso da una moglie che lo trascurava, soltanto per provare un’altra “f…”? Così la pensavo, io. L’ultima parola mi si era affacciata silenziosa nella mente … Oppure lei lo sapeva e fingeva con se stessa che non fosse così … Solo finzioni, per lei, e per lui. Mentivano a se stessi, nell’illusione di stare vivendo qualcosa di straordinario?
Eppure, anche se per una sola volta, Pasquale avrebbe dovuto guardarmi così, parlarmi così, possedermi così.
Sentivo la voglia di qualcosa d’altro. La voglia di perdere i sensi.








SONIA





Avevano terminato di girare la scena in cui Angelica, sola in casa, si rodeva nell’attesa di un segno, un messaggio o una telefonata, di Vinci.
Aveva dovuto simulare l’inquietudine della donna che immaginava che, all’improvviso, Vinci non l’amasse più …
Aveva dovuto passeggiare dalla finestra della cucina al tavolo sul quale stazionava il suo p. c., con il telefono cellulare sempre a portata di mano e di orecchie, con una sigaretta sempre accesa a portata di bocca e un accendino sempre a portata di mano.
Lei che neppure fumava!
Uhhhh, ma com’era catastrofica, quella tizia! Un esempio tipico di dipendenza affettiva?
Bastava un nonnulla per farla entrare nell’anticamera dell’angoscia che poi la portava dritta - dritta nella stanza di un vero e proprio orrore.
Vivere senza Vinci? Impossibile! Come respirare senza di lui? - si raccontava farneticante, quando non le arrivava per qualche ora un segno da parte di lui. Qualche ora? Era proprio una deficienza insopportabile …
Sonia, che ne condivideva la totalità nell’amare, era però infastidita da quell’atteggiamento così drammatico. E che cavolo, ma Angelica doveva per forza teatralizzare tanto la propria vita? Era davvero amore il suo, oppure soltanto bisogno di un sostegno nei suoi giorni di solitudine, dopo la partenza del figlio?
E non è che, in fondo in fondo, era il timore di perdere quel sesso travolgente, mai vissuto prima, a sconvolgerla tanto?
Lei era, sì, altrettanto passionale, però maggiormente capace di comprenderli e razionalizzarli, gli eventi …
Luca la bloccò mentre si accingeva a recarsi in camerino per cambiarsi.
- Hai un minuto?
- Sì, certo, ma …
- Dai, prendiamo qualcosa, non hai sete?
- Più che sete, vorrei cancellare il sapore della sigaretta …
- Bene, ti aspetto al bar.
Il bar del set non era altro che un angolo della immensa stanza adibita alle riprese delle scene da girare all’interno. Una macchina per il caffè posata su una scrivania e un piccolo frigorifero ne costituivano tutto l’apparato. Più in là, un tavolino rotondo con un paio di sedie pieghevoli di legno. Una segretaria si prestava a servire qualcosa di caldo o qualcosa di fresco a chiunque ne avesse necessità.
Luca si accomodò su una delle due sedie.


LINA





Avvertiva il mondo come estraneo, quasi ostile. La opprimeva.
L’angustiava non riuscire ad immaginare un futuro.
Si sentiva sola. Si sentiva triste. Si sentiva diversa.
Il suo unico conforto era la lettura. Lo era sempre stato. Razziava romanzi dalle amiche, saccheggiava la biblioteca comunale, qualcuno lo acquistava con i magri guadagni del lavoro nel bar.
Nei romanzi trovava quella fragranza di vita che le pareva che a lei fosse negata.
Donne belle, donne realizzate, donne che partivano, donne che amavano, soffrivano, sceglievano.
Lì, in quel paese che l’autostrada aveva da anni tagliato fuori dai percorsi turistici, ormai si moriva.
Lei vi sarebbe morta.
La consapevolezza di non poter continuare gli studi l’ammutoliva, perché frequentare l’università avrebbe richiesto una grande quantità di tempo che lei avrebbe dovuto sottrarre alla cura della madre. Avrebbe dovuto, peraltro, trasferirsi in città, e sapeva che non l’avrebbe mai potuto fare: sua madre sorrideva soltanto quando lei era a casa. Quando le si sedeva accanto per leggerle qualcosa o raccontarle fatti e fatterelli del paese. E i soldi, poi, dov’erano?
Era il suo destino. Era una sua scelta. Una scelta piccola, ma importante. Sua madre non avrebbe retto se anche lei se ne fosse andata, dopo aver già perso il marito.
Bah, avrebbe chiesto a Guido di insegnarle ad usare un computer per collegarsi con il mondo. Il computer aveva una grande importanza nel romanzo che stava leggendo: prima aveva permesso ai due protagonisti di conoscersi e poi di essere costantemente in contatto.
Forse le avrebbe fatto compagnia, un piccolo p. c., nelle lunghe sere invernali. Le avrebbe permesso di trascendere l’ostilità dei monti circostanti, di portarla verso il mare o verso altre conoscenze.
E … chissà, forse avrebbe stretto qualche nuova amicizia, se si fosse iscritta a qualche gruppo in rete. Gabriella lo faceva e anche Guido.
Il fatto era che Lina non lo possedeva proprio, un computer, né aveva ancora la somma sufficiente per comprarselo. Ma li avrebbe racimolati, i soldi, si ripromise, e intanto avrebbe chiesto consiglio a Guido.
Gli telefonò quella sera stessa.




ANGELICA (il romanzo)




Se Vinci avesse potuto conoscere i suoi pensieri, mentre andava macinando chilometri e chilometri nella sua scatolina grigia, ne sarebbe stato sorpreso, ma anche felice.
Tra le immagini che si susseguivano nella mente di Angelica di quanto avevano appena vissuto insieme: Vinci dentro di lei, dappertutto, Vinci che la mordeva sull’omero, che la girava sul lenzuolo bianco stropicciato, il peso del corpo di Vinci sul suo, il calore dei loro corpi indistinguibili, il loro muoversi insieme, l’annullamento totale delle coscienze, beh, dopo aver pensato e ripensato a tutto questo, Angelica si era “visualizzata” nella sua cucina a… preparare delle pietanze.
L’avrebbe fatto davvero, un paio di giorni dopo: pietanze per suo figlio che sarebbe ripartito per il suo lavoro in un’altra città con una bella scorta di cibi da consumare durante i primi giorni: sughi vari, parmigiane, sgombri affogati nell’olio, polpi lessi o seppie con piselli.
Lei scriveva, leggeva o cucinava sempre molto presto, al mattino.
Amava la fugacissima aurora e le ore dell’alba molto più delle altre.
Si svegliava prestissimo, e, dopo aver ingurgitato frettolosamente il primo caffè, iniziava le operazioni previste.
La notte, intanto, si colmava pian piano di luce, più o meno intensa, in relazione al tempo meteorologico, e dei trilli dei passeri e delle allodole che si involavano, tra buio e chiaro, dall’alto e fitto abete posto al centro del cortile agli alberi circostanti.
Un abbaiare lontano, qualche volta.
Nessun altro suono, intorno a lei, se non quelli che la natura offriva.
Una sorta di silenzio mistico, del quale si gratificava, prima di affrontare i frastuoni e le complicazioni del giorno. Un sorso di beatitudine, prima di sottoporsi al peso di una giornata sempre abbastanza frenetica.
Anche quando era previsto un pranzo domenicale, con tutti, o quasi tutti, figli e nipoti, iniziava a preparare il ragù quando era ancora notte.
Tanta cipolla affettata su un lauto fondo d’olio, sulla quale piovevano i piccoli pezzi di carne che lei aveva provveduto, prima, a sgrassare il più possibile. Poi, una lunga e lenta soffrittura, durante la quale rimestava il tutto più volte. Soltanto dopo un paio d’ore, ma ormai era giorno fatto, versava il passato di pomodoro nella pentola e lasciava cuocere per altre tre ore.
Una tradizione della quale non avrebbe mai privato i suoi cari.
Le donne meridionali, aveva letto una volta da qualche parte, dimostrano il loro amore cucinando quintalate di cibo, ahahahahah!
Ad Angelica piaceva molto cucinare per le persone che amava, e avrebbe voluto farlo ancora anche per Vinci.
Sapeva che la preparazione dei pasti non era una priorità, in casa di Vinci, ma a lui piacevano i cibi ben preparati. Assaporava con gusto tutto ciò che era bello e buono, della vita.
Lo aveva constatato quando Vinci era venuto da lei, qualche tempo prima. Si era complimentato per la sua cucina, mentre brindavano con un bicchiere di buon vino rosso.
Oh, Vinci! La sua vita, ora, era piena solo di lui. Ed anche il suo corpo ne era ricolmo, rifletté, beata, ripensando a lui dentro di lei.
Mentre se ne tornava a casa felice e triste contemporaneamente, ne avvertiva già tutto il vuoto, la privazione, l’assenza.
Quella fisica, certo: averlo accanto la faceva sentire completa, tutta intera, insomma, mentre, ora, dopo, da quando si erano lasciati con un ultimo bacio, era come se… come se avesse subito una vera e propria amputazione.
Ma, di più, avvertiva all’altezza del cuore come una fitta sottile: l’assenza della sua voce, delle sue parole, del suo respiro.
Per quanti giorni ce l’avrebbe fatta a resistere colmando quell’assenza solo con il ricordo della voce di Vinci, degli occhi di Vinci, del corpo di Vinci? Sarebbe stato sufficiente a farglielo sentire vicino parlare con lui attraverso un telefono oppure scrivere messaggi su una pagina bianca di computer?
Ora che la sua auto, tamponata da un furioso furgone bianco, era andata a sbattere violentemente dietro quella che la precedeva, e lei si trovava compressa fra il volante e il sedile che si era ribaltato, la fitta al cuore era diventata davvero insopportabile, mentre i mille frammenti del vetro anteriore che si era spaccato nell’urto, insieme a quelli delle sue lenti da vista, la pungevano dappertutto, sulla fronte, sul collo, e anche negli occhi.
Non riusciva ad aprirli.
Gli occhi, Cristo!!!






SONIA




- Volevo chiederti, beh, come sta andando? Tutto a posto? Ti trovi bene? Sarai stanca, ora, magari …- Luca parlava piano, come per farle giungere le parole ben distinte.
- Sì, certo, tutto a posto. E, no, non sono stanca. Ma perché me lo chiedi? Mi hai vista a disagio, per caso? Mi piace tutto, di questo lavoro, e… ti sembra che stia andando bene oppure hai qualche appunto da farmi?
Luca era scoppiato in una breve risata.
- Appunto? A te? Ma no, cara, è solo che volevo essere certo che i panni di Angelica non ti sconvolgessero troppo… Il fatto è che nei romanzi, come nelle sceneggiature teatrali o cinematografiche, si tende sempre ad esasperare i caratteri, per consentire una maggiore presa del racconto sul pubblico…
- Guarda, in effetti, stavo proprio pensando quanto Angelica sia estremista in ogni suo atteggiamento. Insomma, non mi pare affatto una persona serena, che sappia collocare al giusto posto le cose… forse si tratta, fondamentalmente, di una donna poco sicura di sé, non credi?
- Non mi sono concesso questa riflessione, sai, piuttosto volevo chiederti cosa ne pensassi tu di questa storia delle chat e di queste “affettuose” amicizie… nate, come dire, in rete… Aveva sottolineato la parola -affettuose-.
- Ma, non so, il fatto è che … sì, tutto molto strano, molto, come dire, moderno … innamorarsi di qualcuno che non conosci neppure, mi pare inverosimile, o no?
– Ehm, hai ragione, neppure io potrei mai innamorarmi a distanza, di un volto, delle parole che si scambiano… insomma, devo vederla, io, la persona… l’innamoramento, per me, è sempre prima visivo e tattile….
Qui Luca aveva riso ancora.
- Insomma, è sempre prima l’occhio a volere la sua parte, no? E, poi, lo sai, no, l’odore dell’altro, le luce negli occhi, il calore delle mani, scusa, nel mio caso, dell’altra, la sensazione immediata di qualcosa che… Insomma, ti ritrovi a desiderare di conoscerla senza un motivo razionale… Tu come hai conosciuto Roberto? Cosa ti ha fatto innamorare di lui?
- Cosa? Come mi sono innamorata di lui? Non saprei… è bastato guardarci negli occhi… ma perché tutte queste domande?
- Niente, niente, Sonia, è che in questa fiction stiamo trattando questa novità, le relazioni che possono nascere in rete… Sai di cosa si tratta, no?
- Ah, si, vagamente, ma non me sono mai curata, ci so fare poco con il computer…Un’assoluta, virginea innocenza, sul volto abbronzato di Sonia. Negli occhi improvvisamente spavaldi.










ANGELICA (il romanzo)




Cosa aveva attratto di più Vinci, di lei?
Gli occhi, ecco, decisamente quei suoi occhi scuri lampeggianti che sapevano entrargli nell’anima e leggerla sino al nucleo più nascosto.
Ma questo l’avrebbe capito col tempo. All’inizio li aveva trovati soltanto molto affascinanti: un mare di notte, con il riverbero di mille faville. Carico di mistero, di aspettative e di promesse.
Avevano cominciato a parlarsi al telefono e a scriversi. Uno scambio di numeri telefonici, di indirizzi elettronici, alla luce di quegli occhi lucenti come branzini a fior d’acqua, mentre si guardavano sullo schermo del computer, poco più di un paio di anni prima.
Utilizzavano le moderne tecnologie, come i ragazzini, ma forse non era più vero che le usassero solo gli adolescenti: i cellulari, e, della rete, la posta elettronica o Messenger … erano alla portata di tutti e di uso corrente.
Era diventato sempre più importante, per entrambi, essere in continua comunicazione. Sapevano che i lunghi silenzi, a volte, possono essere corrosivi.
Dapprima erano stati molto cauti, sospettosi, guardinghi, indagatori, come se temessero una illusione e una delusione immediata.
Lei, di pochissime parole. Poi, pian piano, le conversazioni avevano preso una piega più serena e personale.
Più intrigante, anche.
Lui le aveva svelato con garbo le sue idee circa l’amore e circa il sesso, per come lo intendeva lui …
Le aveva confidato che sentiva il bisogno di amare. Di sentirsi amato.
Lei gli aveva risposto che provava lo stesso bisogno. Gli aveva detto anche che le piaceva moltissimo la sua voce, così chiara e decisa. Vinci aveva ricambiato il complimento. Anche quella di Angelica era una bella voce calda, un po’ rauca, magari …
Forse l’aveva avvolta, come un ragno, nella sua tela sottile?
In seguito Angelica gli aveva confessato che, se di una tela di ragno si era trattato, le era parsa una tela di morbidissima seta.
Che scemi!!! Sembravano davvero due adolescenti!!!
Quando avevano desiderato di incontrarsi? Dopo pochissimo tempo, non più di dieci o quindici giorni. Quando avevano deciso di farlo? Immediatamente.
Angelica più titubante, un po’ più distaccata, aveva accettato di incontrarlo.
- Sicuro che non sei un serial killer? - Aveva abbozzato, scherzosa.
Lui aveva riso, poi le aveva elencato le sue credenziali, mostrandosi anche su una famosa piattaforma sociale con nome, cognome, professione.
Una persona di tutto rispetto.
- Ah, beh, allora, ok…
- Cercheremo un luogo al chiuso, dove poter stare da soli - Aveva suggerito Vinci.
- Un bar oppure una chiesa… - aveva ipotizzato Angelica.
In seguito ne avrebbero riso a lungo. Una chiesa?
Avevano deciso per una stanza in albergo.
Vinci lo aveva deciso, Angelica, già impudica, lo aveva assecondato.
Lei, il corpo dai contorni ambrati dalla stagione di mare, i lunghi capelli biondi danzanti sulle spalle, soltanto gli occhi truccati di nero, gonna e top neri, Vinci la ricordava bene.
Prima l’aveva accompagnata a prendere un caffè, come avrebbero poi fatto sempre.
Ma, ancora prima del caffè, appena si erano visti, quando si erano accostati e guardati con un’emozione tutta sconosciuta, al primo tocco delle mani, la scossa che li aveva attraversati era stata la scintilla decisiva, dopo secoli di vuoto affettivo.








SONIA




Che bugiarda! Perché aveva mentito con Luca su quella storia delle chat?
Vero che si era trattato sempre di brevi conversazioni, solo un passatempo, per curiosità, solo tentativi, abbozzi di conversazioni superficiali, tuttavia, certo che le conosceva, e, beh, insomma, anche piuttosto bene…!
Tutte le volte che Roberto la lasciava da sola per il suo lavoro o per le attività di promozione dei suoi film, quando non riusciva ad addormentarsi nella loro casa vuota e le notti erano spaventosamente interminabili, Sonia si collegava.
Per pochi minuti, ogni volta, solo un tuffo breve in quel mondo così irreale e, tuttavia, così sollecitante…
Ce n’erano tanti online, anche in piena notte, intorno alle diecimila persone. Possibile che ci fosse così tanta gente insonne? Di sabato e domenica fino a cinquantamila – sessantamila.
Gente sola? Tanta, davvero. Possibile?
Qualcuno la contattava.
Dopo i primi convenevoli piuttosto sommari capiva subito che tipo c’era, dall’altra parte. Una volta aveva chiesto ad uno che mondo femminile gli si presentava, in quel sito di incontri.
Quello le aveva risposto che molte donne si offrivano in cambio di denaro. Qualcuna era disponibile al sesso virtuale. Poche le donne -sane-.
- In che senso, sane? Nel senso che si danno gratis?
- Ma che dici? È un dare e prendere, no? Uno scambio onesto, non ti sembra?
- Senza amore?
- Non è che ci vuole sempre l’amore, per fare sesso…
- Io direi di sì…
- Lo cerchi qui, l’amore? Allora sei un’illusa.
- No. Io non cerco niente.
- Allora che ci fai qui?
Così la pensavano. Chiudeva.
Puniva Roberto, per le sue assenze, per i suoi tradimenti, con quelle chiacchiere in rete? Lo tradiva? Ma no!
Si trattava soltanto di poche parole sul nulla, tanto per colmare i suoi tempi vuoti! I suoi tempi malinconici. Immaginava qualche tradimento, da parte di Roberto. Era un così splendido uomo!
Ma, stare lì, a chattare, era pure un inganno? Forse lo era o forse non lo era, tuttavia il gioco le aveva preso la mano.
Poi, una sera, ne era restata scossa. Ammutolita.
Quando un tizio che l’aveva contattata, durante quella che pareva una innocente conversazione in audio - video, le aveva sussurrato - Aspetta un attimo, bella, ti mostro una cosa…
Quando lui si era alzato, il suo viso si era defilato dallo schermo piatto del p. c. ed era stato sostituito dalla sua mano destra che manovrava freneticamente il proprio pene in erezione, rosso, grosso, stimolante…
Sonia aveva chiuso il sito immediatamente. Non se lo aspettava. Ne era stata offesa e schifata.
In altre circostanze, l’approccio era stato - Lo vuoi?
- Uffa! - Chiudeva immediatamente.
Altre volte era andata meglio. Qualche confidenza sulle rispettive occupazioni, sulle proprie aspettative, poi i saluti, con la promessa di risentirsi presto, magari.
Accadeva di rado, che si rincontrassero.
Del resto, Sonia ci restava poco in chat, giusto il tempo di staccare dal lavoro stressante di imparare la parte di Angelica, aspettando il rientro di Roberto.
Il tempo di ingannare l’insonnia. Un diversivo scemo, ma pur sempre una distrazione…
Ma una sera…







MARIELLA




Pausa pubblicitaria …
Il tempo di ricordare che da Clara mi era poi giunta un’altra lettera. Forse un mese dopo della prima. Sempre senza mittente. Dal timbro postale avevo capito che era stata spedita da un luogo che non conoscevo. All’interno della busta altri fogli scritti fittamente, ma la grafia mi sembrava leggermente più grande e più sicura, rispetto all’altra volta.
Avevo letto avidamente. Strano come quella storia mi prendesse, come se si trattasse di una importante variante della mia vita.

Carissima, come ti avevo promesso, ti racconto dove sono e come sto. Intanto, sto molto meglio, sai, decisamente. Il posto dove vivo ora contribuisce molto a farmi stare bene. No, cara, non sono in un ospedale per pazzi! Semplicemente in un paesino di montagna, nascosto al mondo ed io nascosta al mondo, ma finalmente libera di essere felice, almeno ci sto provando. È stata mia zia a propormelo, poiché una sua vecchia amica è di queste parti e le ha offerto di accogliermi nella piccola casa che era stata della sua famiglia. Un buco meraviglioso in un posto così sereno e silenzioso che mi pare di essere Alice nel paese delle meraviglie. Beh, insomma, poca gente, si tratta di un paese di anziani, qualcuno centenario, dicono, con poche strade e nessuna in piano, ma salite e discese, e tante scale. Che fatica abituarmi alle scale! E ortensie e gerani a profusione, accanto ai portoni delle abitazioni e sulle scale di accesso, sai che ti dico, che proprio l’aver dovuto imparare a salire e scendere mi ha consentito di prendere le distanze da tutto ciò che ho lasciato in città. Agli inizi mi facevano talmente male le gambe e mi mancava tanto il respiro che tutte le mie energie le spendevo in queste faticose, se pure brevi, escursioni in giro, per conoscere il paese. Per trasportare a casa quel po’ di spesa che mi occorre, un po’ di cibo, non mi serve molto, qui. E la mia casetta si trova proprio quasi sul cocuzzolo della collina, e dalla mia finestra vedo panorami stupendi, la linea dell’orizzonte interrotta dall’altra metà del paese, arroccata sulla collina di fronte a me e poi da altri paesi lontani, che, di sera, si segnalano per la fiammata di luci. Mi dicono che d’inverno qui fa molto freddo, e spesso nevica tanto, e nessuno esce più di casa per tutto l’inverno, perché il vento è gelido e soffia spessissimo, e già ora spira un giorno sì ed uno no. Allora, l’estate la trascorrono a fare provviste per l’inverno, soprattutto di legna, perché in tutte le case c’è il camino e già da qualche canna fumaria si vede uscire del fumo. Mi sono portata un computer, così, a parte che posso sapere cosa succede nel mondo, sto provando a scrivere. Cosa? Tutto ciò che mi passa per la mente, senza pormi nessun obiettivo se non quello di riprendere confidenza con quella me stessa che in città era morta. Sai il piacere di non dover stare sempre in ghingheri, ben vestita sopra e sotto, truccata alla perfezione, perché al signor cazzo dovevo piacere tanto, per non perderlo? Che cavolata! Qui la mia faccia è abbronzata dal sole e i massaggi me li fa il vento. La dieta la faccio camminando, tanto, quando ne ho voglia. Se no, chi se ne frega, ho pure preso un paio di chili giusto sui fianchi, ma sto bene, veramente bene. Finalmente, almeno ci provo, ad essere, se non felice, se non altro serena, ed è già tanto. Non ti scrivo il nome del paese, ma, chissà, fra qualche tempo ti inviterò a venirci, lasciamo passare l’inverno, poi … Un forte abbraccio. Pensami. Clara. P.S. Chissà, se all’epoca mi fossi confidata con te, tu avresti saputo o potuto aiutarmi.

Non l’aveva fatto, e non lo avremmo mai saputo, né lei, né io.
Mi preparai a ricevere una sua prossima lettera, magari con l’invito a raggiungerla. Ma doveva passare tutto un intero inverno! Mah! Chissà se l’invito sarebbe davvero arrivato?










ANGELICA (il romanzo)




In quella anonima stanza d’albergo Angelica, quella loro prima volta, era restata un po’ discosta da lui, intimidita, forse, ma Vinci, appena le era stato accanto, aveva provato soltanto un improvviso e smisurato desiderio di possederla.
Si era sentito in dovere di raccontarle qualcosa di sé, mentre posava su una sedia la sua borsa professionale e si liberava della giacca di lino.
- E, volevo dirti … Sai, io ho davvero bisogno di una donna tutta per me, una donna che mi capisca, con mia moglie non divido più niente da tanto tempo, ormai, sono dieci anni che… lei è una…
Lei lo aveva stoppato.
- Una stronza, vuoi dire? Ma non dirmelo! Sicuramente anch’io sono stata una stronza per il mio ex marito… almeno, penso che anche lui mi definisse così con le donne che voleva conquistare, dai, evitiamo queste chiacchiere… Poi, magari è vero che lei lo è quanto lo sono stata, o non lo sono stata, io… Parliamo d’altro…
L’aveva fissata sorpreso. Non si era aspettato una risposta simile, così dura, così franca.
Già, era stato davvero uno sciocco, a iniziare in quel modo… con un cliché…
Ma, se prima aveva desiderato incontrarla, conoscerla meglio, ora che l’aveva accanto a se, seduta pudicamente sul bordo del grande letto matrimoniale, la voleva con tutto se stesso.
Il suo cervello glielo comandava. Il fremere del suo corpo glielo dimostrava.
Le prese la mano a l’avvicinò a sé.
Si consegnarono l’uno nelle mani e nelle braccia e alle labbra dell’altro.
Le aveva sfilato il top, la gonna, e tutto il resto, poi, amarla, era stato, per Vinci, come morire. La prima delle altre innumerevoli morti che avrebbe cercato con lei e in lei.
Per Angelica fu come rinascere, anzi, fu un nascere per la prima volta.
Fu stupore e gioia, fu consapevolezza del proprio corpo, del proprio desiderio e del proprio appagamento: Vinci non aveva lasciato neppure un centimetro della sua pelle senza un suo bacio, nessun suo tenero incavo senza colmarlo di sé e della sua passione.
L’aveva travolta e sconvolta, l’aveva fatta morire.
L’aveva riportata in vita.
Era stato sin da quella prima volta che lui l’aveva definita la sua “via della seta”.
E quella stanza, l’anonima camera d’albergo che aveva assistito a quel miracolo, era diventata una radura luminosa attorniata da siepi fiorite.
No, anzi, era diventata una cattedrale, e il letto sul quale si erano amati solenne come l’altare maggiore di una cattedrale.
O, meglio, pareva che quella piccola stanza d’albergo si slargasse fino a diventare un lago dalle profonde acque blu, increspate dal respiro della loro passione.
No, non erano due adolescenti, sebbene una qualche giocosità si intrufolasse nelle loro conversazioni - perché era anche davvero bello ridere, qualche volta - erano, invece, due persone che avevano appreso come, nella maturità, si possa amare con maggiore consapevolezza e profondità.
E poi c’era stato il gioco delle foto.
Una serie di scatti di loro due mentre si amavano.
Mentre lui entrava in lei, che lo accoglieva calda e smaniosa, vibrante di aspettative …
- Angelica, Angelica, Angelica …
Il suo nome come una preghiera, mentre guidava concentrato sulla strada deserta e sui ricordi, nel sole abbagliante del primo pomeriggio.









SONIA




Le era parso una persona a posto. Lo aveva conosciuto in chat qualche tempo prima e avevano scambiato le consuete chiacchiere. Soltanto dopo un paio di brevi conversazioni online, lui le aveva confidato di essere paralizzato alle gambe, a causa di un incidente stradale. Ah, ecco perché i suoi movimenti le erano parsi limitati…
Se qualche allusione indagatoria sulla sua vita privata c’era stata - Vivi da sola? – Cosa indossi, di notte? - lei l’aveva glissata abilmente, poi, una notte, quando ormai si erano parlati, del più e del meno da oltre un mese, il discorso si era fatto più personale ed era scivolato sulla solitudine.
Sul silenzio.
Sulla tenerezza.
Sulle mille cose che c’erano e su quelle che mancavano.

- Sonia … - All’improvviso lui, attraverso lo schermo, l’aveva fissata negli occhi.
- Si, dimmi …
- Spogliati. - Aveva ordinato.
- Cosa?
- Voglio vederti …
- Ma … già mi vedi, sono qui.
- No, non ti vedo, tu non ci sei.
- Eh? Come?
- Voglio vederti… nuda.
- Sei matto?
- Si. No, non sono matto, semplicemente voglio vedere il tuo corpo per poterlo sognare quando non siamo qui.
- Assolutamente no. Sognarmi? Perché mai?
- Mi sono innamorato di te.

Innamorato? Quella sua dichiarazione così disarmata, così diretta, l’aveva intenerita?
A Sonia era parso che quel suo ordine celasse una preghiera.
Non l’aveva neppure considerato, di negarsi, ricordava, poi, quando ci ripensava.
Aveva sbottonato piano la camicetta bianca, l’aveva schiusa e se l’era sfilata fino a mostrargli i seni rosei e sodi, mentre lui la guardava senza muovere un solo muscolo del viso, né un battito di ciglia, poi, come soggiogata dal silenzio e dall’immobilità di lui, si era alzata lentamente, aveva mandato giù la gonna e si era sfilata gli slip bianchi.
Un attimo, e poi, senza neppure rendersene conto, si era allontanata dal computer per permettergli di guardarla tutta intera. Era certa di fargli piacere.
Venti, trenta secondi … Si era riaccostata al computer e aveva chiuso la video-chat. Un dono.
Ecco cos’era stato, un dono per quell’uomo che le aveva raccontato di essere solo da molto tempo.
Si era concessa, si raccontò poi, come, un tempo, la Monaca di Monza. Che cavolata! Ne aveva provato piacere anche lei …
Dopo, da allora, lo aveva evitato, anzi, era entrata nella chat sempre meno frequentemente per evitare di incontrarlo ancora. E neppure lui l’aveva più cercata.
Aveva tradito Roberto? Se di tradimento si era trattato, non lo avrebbe più commesso, aveva promesso a se stessa.
Ma perché aveva mentito a Luca come una sciocca ragazzina, affermando di non conoscere quel mondo virtuale?










LINA



Mercoledì pomeriggio.
Era distesa sul letto, sbocconcellando un’intera tavoletta di cioccolato fondente alle nocciole. Scioglieva in bocca il cioccolato e sgranocchiava le nocciole con la stessa avidità con cui proseguiva nella lettura. Con la lingua brunita dal cioccolato raccoglieva i frammenti delle nocciole che si fermavano tra le labbra, sui denti candidi, tra la lingua e il palato.

Tra le immagini che si susseguivano di quanto avevano appena vissuto insieme: Vinci dentro di lei, dappertutto, Vinci che la mordeva, che la girava sul lenzuolo bianco stropicciato, il peso del corpo di Vinci sul suo, il calore dei loro corpi indistinguibili, il loro muoversi insieme, l’annullamento totale delle coscienze […] e -Lei era così , come dire … così docile nelle sue mani, e così sensuale e così imperiosa … Sì, gli si dava tutta e gli chiedeva tutto … […]

Che senso avevano quelle parole? Chiedere cosa e dare cosa? Come?
Saltava, a volte, le pagine che riguardavano quella tizia più anziana, Mariella, che le pareva un personaggio molto lontano da lei per età, e alquanto noioso, e cercava morbosamente quelle che parlavano di Angelica.
Affascinata. Commossa. Turbata...
Poi tornava indietro, alle pagine su quella Mariella, un romanzo va letto per bene, da cima a fondo, si diceva, e si sforzava di capire anche il senso della vita di quella donna così spenta, così stanca…

E lei, era cresciuta troppo in fretta o non era cresciuta affatto?
E come sarebbe diventata, un giorno?
La morte precoce del padre e la conseguente irreversibile malattia della madre avevano innalzato un muro tra Lina e la vita, tra Lina e il futuro.
E lei non sapeva come e quando avrebbe potuto demolire o superare quel muro. Era prigioniera della malattia della madre, del paese troppo piccolo, della corona dei colli innevati, di quel ridicolo lavoro nel bar.
La neve aveva ripreso a scendere fitta, la stanza si raggelava, ma Lina avvertiva risorgere quello strano fuoco agli inguini che nessun cioccolato poteva spegnere.
Era quello l’amore? Era quello?
A tratti la coglieva una certa tenerezza per Guido, anche per la sua testardaggine nel corteggiarla, ma, forse, era proprio il fatto che dava per scontato che lei non potesse desiderare un altro, che subito la tenerezza veniva scacciata dalla rabbia: non aveva conosciuto nessun altro, fino ad allora, come poteva sapere se era davvero Guido quello che lei poteva amare, che poteva desiderare?
Poteva Guido spegnere le sue fiamme?
Ma l’amore, non ti coglieva sempre all’improvviso?
Ed era l’amore che accendeva sempre quel fremito dei capezzoli, quel calore pazzesco fra gli inguini, nel grembo, nel cervello?
Aveva letto già abbastanza in quei cinque giorni da che aveva iniziato.
Doveva sapere.
Accese il cellulare, gli telefonò.
- Ciao, Guido, che stai facendo?
- Pensavo a te. E tu?
Non osò confessargli cosa la stava tormentando.
- Niente, volevo chiederti se sabato sarai libero. Devo chiederti un consiglio.
- Un consiglio? Uhi! A me? Di che si tratta?
- Te lo dirò sabato. Abbi pazienza. Ti saluto. Ciao
- Ciao, tesoro mio.
Tesoro, l’aveva chiamata tesoro, come Vinci chiamava sempre la sua Angelica …




SONIA




In attesa di pranzare, mentre Roberto studiava la carta dei vini, le tornò alla mente la visione della minuscola auto bianca posizionata di fronte al gigantesco sfondo innevato che era servito per un tragitto invernale - sarebbe risultata, nella trama del film, una vera e propria impresa - che poi sarebbe stato assemblato con un frammento tagliato da una pellicola girata in altre circostanze che mostrava le alte pale eoliche che ruotavano le braccia nel vento sul biancore dei colli.
Mentre si impegnava a fingere di guidare sorpresa e intimorita, si era identificata con l’Angelica che, nell romanzo, si inoltrava in quel panorama inusitato.
Si era sentita devastata, persa, come doveva essersi sentita la protagonista…
Per la maggior parte delle scene che, nelle vesti di Angelica, Sonia aveva girato all’aperto - il percorso che il personaggio compiva in auto per arrivare al paesino dove incontrava Vinci - il regista si era servito di enormi fondali adatti o adattati.
Panorami verdi macchiati dal giallo delle ginestre e dal rosso dei papaveri, ombrati a tratti dalle fluenti chiome degli eucalipti che costeggiavano l’autostrada nelle giornate assolate, oppure squarci grigi, velati dai rivoli di pioggia sui vetri, nei mesi autunnali e invernali.
Ma, per un tragitto più estivo, in un maggio sorprendentemente caldo e fiorito, Luca aveva deciso che lei guidasse per un breve tratto di autostrada. Un passaggio reale.
Le aveva imposto un abito di voile in seta fiorata con delle balze sulle spalle che il vento, entrando dal finestrino aperto, faceva danzare sulla pelle accaldata. I capelli sciolti le carezzavano la fronte e le spalle.
Si sentiva bellissima.
Tutta la troupe si era trasferita su quel tratto rettilineo per poter filmare le gazze che svolazzavano da una siepe ad un albero, da un traliccio elettrico al bordo metallico del guardrail, da una chiazza d’ombra ad uno slargo assolato.
Erano state le uniche compagne di viaggio di Sonia/Angelica per quei pochi chilometri, in quell’ora così mattutina di un sabato poco trafficato.
Pur consapevole che la troupe seguiva o fiancheggiava la piccola utilitaria, Sonia aveva avvertito la stessa profonda solitudine della protagonista, nomade per amore.
Si era chiesta se stesse riuscendo ad esprimere quella sensazione di sentirsi sola e indifesa su una strada potenzialmente molto pericolosa, sia pure intrisa del piacere di vedere, di lì a poco, il suo amante.
Il volto doveva apparire fra il trasognato e il preoccupato.
Difficile, ma, dopo parecchie repliche, le era sembrato di esserci riuscita. Era soddisfatta di se stessa. Stava andando bene. L’avrebbe raccontato a Roberto.
Al termine delle riprese Luca si era accostato all’auto, aveva aperto la portiera e le aveva teso la mano per aiutarla a scendere.
- Tutto bene?
- Si, certo, come sono andata?
- Perfetta, Sonia, davvero, belle inquadrature… sei stata grande, davvero, sai…
- Oh, grazie, sei gentile. Ero così ansiosa di riuscirci, e tu hai saputo suggerirmi le espressioni giuste …
- Sono io che devo ringraziarti per esserti applicata tanto. Parevi davvero l’Angelica del romanzo … Ma io sapevo che avresti saputo farlo.
Lei allora l’aveva abbracciato e gli aveva stampato due baci sulle guance, con gli occhi scuri che brillavano per la soddisfazione.
Luca non si lavò il viso fino al giorno seguente. Per conservare l’odore umido delle labbra di lei.








ANGELICA (il romanzo)




La casa di Angelica, Vinci la rammentava bene. Ci era andato, qualche tempo dopo essersi conosciuti. Riusciva a visualizzarla, in seguito, Angelica, mentre si muoveva nelle stanze, oppure stava seduta davanti al p. c., in cucina, di spalle alla finestra del cucinino. A scrivere. Ad aspettarlo.
Altissimi abeti e grandi pini tutt’intorno allo stabile e cespugli di rose fra le siepi di pitosforo e una grande mimosa verdeggiante nella brezza. Un esteso parcheggio inondato di sole.
Di tutte le stanze, rivedeva con più chiarezza, intorno a sé, solo la cucina e quella spaziosa camera da letto tutta bianca, con tanti quadri e fotografie alle pareti e sulle mensole, una stanza dalla quale si erano allontanati soltanto per mangiare qualcosa.
Per non disperdere neppure una stilla del calore dei loro corpi.
Neppure un istante dei loro sussurri.
Due giorni di passione e di dolcezza indicibile.

Ricordava anche ciò che lei gli aveva preparato per il pranzo, ne rivedeva i colori, ne risentiva i sapori. Sapori di mare e aromi di lei nelle stanze.
Nella sera dolce di settembre erano usciti per un giro in città e per una piccola cena. Vinci, che già l’aveva visitata molti anni addietro, ne aveva riconosciuto gli angoli più caratteristici: il lungomare, il Castello, la città vecchia.
Una passeggiata lungo un mare meravigliato di fine estate, calcato da qualche lontana barca a vela, nel riverbero della luna e dei lampioni liberty, e, dopo, le mani sempre intrecciate, il zigzagare nel centro storico, affollato di voci e di insegne luminose, alla ricerca di un ristorante.
- Sei fortunato, amore, a vederla ora, la nostra città vecchia. Fino a qualche anno fa era impraticabile, perché vi dominava una microcriminalità che non dava scampo. Poi, con il piano Urban, l’ex sindaco è riuscito a ripulire la zona. Ora finalmente ci si può venire.
Dopo la cena, avevano ripreso l’auto e Angelica lo aveva indirizzato verso l’ingresso monumentale della Fiera del Levante, dove, sulla costa, imperava un Caffè straordinario, con una terrazza sul mare.
- Anche questa zona è miracolosamente frequentabile, ora - Aveva sussurrato Angelica - Questo era un posto a luci rosse, un tempo.
Avevano gustato un ottimo gelato con gli occhi fissi sulle luci lontane di alcune navi da crociera in transito e sulle barche da pesca che dondolavano al largo. Un paesaggio incantato.
Dopo, entrati in macchina, Angelica, mentre Vinci avviava il motore, si era girata e aveva posato istintivamente la mano su di lui.
Un gesto da moglie, lui aveva poi considerato, che gli era tanto piaciuto. Il segno del possesso, ma, soprattutto, un gesto d’amore.
Il fatto è che si era ritrovato immediatamente duro, smanioso, come ogni volta che pensava a lei.
Ad averla accanto, poi!
La mattina successiva, dopo una notte di indescrivibile calore, lo aveva destato un delizioso coro di uccelli.

Voleva ritornarci, a casa di Angelica, certo che lo desiderava! Come poteva essere altrimenti? Al diavolo il lavoro, la famiglia, gli impegni sociali e politici…
Stare con lei per qualche tempo più lungo, era in assoluto la cosa più bella, fare l’amore con Angelica, il massimo. Farlo nel calore della sua casa, il paradiso. Lei era così, come dire, così docile nelle sue mani, e così sensuale e così imperiosa…
Si, gli si dava tutta e gli chiedeva tutto …
Anche quei brevi video che avevano girato a più riprese nel corso del tempo, testimoniavano il loro reciproco donarsi e prendersi.
A volte Vinci se ne riguardava qualche fotogramma, rivivendo l’eccitazione di ogni più singolare sensazione, di ogni più profonda emozione.
- Sai, oggi ho guardato il nostro ultimo filmino, amore, m’è venuta una voglia pazza di te, sapessi… Farei meglio a non rivederli, ci sto così male - Le aveva detto, una volta.
Mentre guidava assorto, il suo pensiero si muoveva lento nelle stanze della casa di Angelica alla ricerca spasmodica dei caldi colori che lei vi aveva profuso, dalle tende ai quadri, dai mobili liberty della sala a quelli più moderni e divertenti del suo soggiorno - studio, dalle fotografie disseminate qua e là sulle mensole ai titoli incisi sui dorsi degli innumerevoli libri allineati negli scaffali.





MARIELLA



L’immagine sul piccolo schermo - un altro flashback - del lento muoversi di Vinci nelle stanze della casa di Angelica alla ricerca di lei in ogni cosa che le apparteneva, mi rimandava al “pellegrinare”.
Quasi che lui stesse compiendo un viaggio di devozione necessario per la preservazione del loro tempo insieme. Della loro storia.
Così tanta manifesta dedizione rappresentava la loro reciproca e imprescindibile appartenenza, tanto che la domanda mi si ripresentò ossessiva.
Come avrei reagito io, se Pasquale fosse stato così passionale? Se mi avesse cercato come Vinci cercava e viveva Angelica?
Come amante e non solo come moglie.
Non lo avrei mai saputo, questo era sicuro, e non potevo neppure dire che mi ero dovuta accontentare, perché mi bastava ciò che conoscevo e non potevo sapere che, oltre quello, potesse esserci altro.
La nostra lunga vita insieme, dovevo riconoscerlo, era stata, era, ancora, comunque, una buona esperienza. Mi sto ripetendo, forse? Il fatto è che ormai i miei pensieri sono così esigui, così ripetitivi… perché - sì, mi ripeto - me lo ridicevo continuamente, lui non era un marito che correva dietro alle altre donne, almeno così mi sembrava, che ricordava il giorno del mio compleanno, mi accompagnava dal medico senza fare storie, mi aiutava a pulire le verdure e riempiva diligentemente le bottiglie di vino dalla damigiana da cinque litri ogni sabato mattina. Ma che pignolo! Segnava su un suo taccuino, ogni giorno che Dio comandava, ogni soldo speso, anche i centesimi del prezzemolo, e mai, mai, che avesse speso quei cazzi di cinque euro per un biglietto della lotteria di Capodanno per permettersi e permettermi un sogno. Pantofolaio e borbottone, ecco, cos’era, specialmente da quando era andato in pensione.
A me sarebbe tanto piaciuto fare un viaggio, magari, ecco, un pellegrinaggio verso uno dei tanti santuari italiani o, addirittura, all’estero, ma su questo lui non ci sentiva.
- Soldi sprecati! - Tuonava, e io doveva acconsentire e tacere. E la monotonia imperava ormai da secoli nella nostra vita e nel nostro letto.
Soprattutto nel letto, per la miseria!
Poteva chiamarsi vita, la mia, attraversata soltanto da una sequela di spese effettuate il sabato mattina nel supermercato, dalla preparazione di pasti sempre uguali, dalla monotonia di infiniti giorni senza mai alcuna novità?
Senza mai alcun guizzo di passione?
Quei due del film, invece, Angelica e Vinci, che amore straordinario!
Che tenerezza!
Lentamente iniziò ad insinuarsi nelle pieghe della mia anima insoddisfatta ed inquieta un sentimento di immensa invidia per quella profonda intimità che non avevo mai vissuto.
Rinfocolata dall’immagine di quella fotografia così reale, quella del pene imperioso del protagonista, che era passata sullo schermo, sia pure velocemente!








SONIA





Aveva chiesto a Roberto di perdonarla per qualcosa che lui non aveva voluto ascoltare. Lui aveva glissato le sue parole, dicendo che non dovevano parlarne proprio. Mai.
Poi, mentre il cameriere posava sulla tovaglia candida i piatti degli antipasti, Roberto le aveva chiesto di scusarlo, andava in bagno un attimo.
Fu proprio per quel perentorio invito di Roberto a non riesumare nulla di ciò che li aveva allontanati, che il pensiero molesto si era riaffacciato alla mente assorta di Sonia.
Lo stesso pensiero che l’aveva angustiata mentre lo aveva aspettato in camera, guardando novembre dalla finestra.
Era giusto che Roberto sapesse. Pensò. Che la perdonasse. Se lo era ripetuto mille volte.
Ma lo era davvero, giusto, oppure sarebbe stato meglio che lei per prima fosse riuscita a perdonare se stessa? Se lo era chiesto mille volte. Ci sarebbe riuscita?
E, perdonarsi, poi, di cosa, e perché?
E, in fondo, non era stata anche colpa di Roberto che l’aveva ignorata completamente per tutte le tre – quattro ultime settimane di riprese?
Che orrore! Cercava giustificazioni al proprio comportamento che non esistevano proprio. Ma si era già rimproverata tanto… Per una sciocchezza…
Davvero soltanto una sciocchezza? Un tradimento, una sciocchezza? Ma non erano loro, gli uomini, ad affermare che un tradimento del corpo non era grave quanto un tradimento del cuore? Perché questo giudizio non doveva valere anche per le donne? Lei aveva sempre amato Roberto anche quando…
E dunque? Perché si sentiva così sporca? Doveva raccontarglielo? E cosa sarebbe accaduto, dopo?
Come mostri enormi e famelici la rodevano il dubbio e la rabbia che toglievano spazio al pentimento. Ma se ne era davvero pentita?
La solitudine che Roberto le aveva inflitto in quei giorni non bastava a giustificarla?
Nessuno è santo.
Lei era una donna con tutte le fragilità delle donne.
Era una donna di carne e sangue.
E non era stata una ripicca, di questo era certa. Assolutamente. Le circostanze, a volte, hanno la meglio sulla volontà. Non lo aveva voluto, ma era accaduto.
Anche se amava Roberto con tutta l’anima.
Ora si erano ritrovati e riconquistati, ma l’amore vive sempre come un equilibrista su un filo sospeso nel vuoto, e basterebbe un soffio più forte di vento a farlo precipitare.
Meglio tacere, dunque, per il momento.
Senza malizia, solo per salvarlo, quel loro amore …









ANGELICA (il romanzo)




Conversazioni a volte anche puerili, ingenue, ripetitive, raccontandosi di tutto e di niente, solo per ubbidire al bisogno di parlarsi, di comunicare.
Un linguaggio libero e spregiudicato. Era davvero liberatorio, potersi parlare con tanta intimità!
E, poi, senza le loro conversazioni - lei considerava - cosa sarebbe stata la loro storia? Soltanto una serie di appuntamenti erotici? Non male, ma l’amore era un’altra cosa.
No, lei non ci sarebbe stata, ad una cosa del genere.
Le parole contribuivano a far vivere il loro amore.
Le parole stesse erano l’amore.

angelicaaaaaaaaaaaa
eccomiiiiiiiiiii
apri la cam, amore, un momento, voglio vederti
ok, ecco, mi vedi
si, tesoro, e tu, mi vedi’
certo, vita mia
fammi vedere il seno
ora?
si, ti desidero tanto
e tu cosa mi fai vedere?
ecco amore, lo vedi come ti vuole?
si, mi fai venire una voglia di te
anch’io ti desidero tanto, cuore mio
presto amore, ci vediamo presto
un bacio, ora devo andare, gioia
ti amoooooooooooooo
ti amooooooooo
buonanotte amore
ciao amore mio buonanotte








SONIA




Era stata dura, realizzare quella scena della webcam.
Era stata dura anche girare la scena di loro due che si fotografavano mentre facevano l’amore.
Guardare o toccare il pene di Roberto come se fosse quello di Vinci, e fingere desiderio e commozione come a vederlo per la prima volta, mentre si rendeva conto che anche lui non era affatto autentico, sotto gli occhi della troupe, l’aveva sconvolta.
Certo, erano simulazioni, non azioni realmente vissute, tuttavia…
- Ma è proprio necessario? - Aveva chiesto lui a Luca.
Il regista era stato categorico e anche duro.
- Voi siete una coppia di amanti del nostro tempo. Queste cose si fanno, nella realtà. Dov’è il problema? Del resto, non è che non vi conoscete, voi due. Tutte queste remore… - Aveva risposto, quasi con scherno.
Dopo aver girato quelle scene sotto gli occhi di un mare di gente, forse non proprio un mare, ma di sicuro c’erano almeno cinque o sei persone, lei e Roberto si erano ignorati sessualmente per un bel po’: nessuno dei due aveva provato desiderio.
Poi era stata la volta della scena di lei appena ricoverata in ospedale.
Una delle ultime. Un’altra faticata.
Roberto già lontano, per un altro lavoro.
Avevano ripetuto quella recita almeno una ventina di volte.
Era stanca. Non era stato affatto facile fingere di avere uno sguardo sognante e contemporaneamente un’espressione di dolore sul viso per le ferite negli occhi, per il dolore alla gamba fratturata. Con in più qualche lacrima che doveva scorrerle sul viso.
Luca non sembrava mai soddisfatto. Si accostava al lettino d’ospedale sul quale lei era distesa e le girava e rigirava la testa, le spalle, le accomodava le braccia, le mani, ora le diceva di stendere le gambe, ora di tirare su solo una, quella non rotta, per assumere una posizione quasi fetale. Uno strazio… non ne poteva più…
Il tocco della mani di Luca. Il suo respiro caldo quando le era vicino. La sua voce. Suadente?
Era stanca.
- Buona questa! - annunciò Luca, quando lei non sperava più di terminare.
Lui l’aiutò a rialzarsi prendendola per le mani, l’aiutò a scendere dal lettino, l’abbracciò.
- Sei stata brava, cara. Ora va a vestirti. Cioè a spogliarti e poi a rivestirti.
Sonia si era avviata come in trance, quasi avvolta nella nebbia della stanchezza come nel camice bianco da ospedale, i piedi nelle pantofoline bianche che lui le aveva infilato con delicatezza.
Nel camerino si era cambiata, aveva passato un velo di cipria sul viso, sciolto i capelli. Le morbide onde scure le incorniciavano il volto quasi assente.
Luca la stava attendendo fuori, nel corridoio dello studio cinematografico.

- Ti do un passaggio? Vai a casa? Roberto…?
- Cosa? Non ho capito, scusami ..
- Ti chiedevo se stessi andando a casa, e se volessi un passaggio…
La voce di Luca non tradiva alcuna impazienza.
- Sì, vado a casa, grazie, accetto il passaggio. Sono proprio stanca.
- Ok, sono stanco anch’io, ho bisogno di rilassarmi anch’io.
La guidò fuori, nel parcheggio, verso la sua auto. Accese la radio. Avviò il motore e partì.
-Un boccone prima? Io ho anche un po’ di fame …
Roberto chissà dove. Sonia pensò alla casa vuota.
- Un boccone? Ma sì, dai, vai … hai in mente un posto?
- Uhm … vediamo, ti va un tavolo vista mare?
- Certo, con questo tempo bello, il mare merita.
Si parlavano guardinghi?
Luca guidava piano, cercando uno svincolo che portasse verso il litorale.
Il cielo, un lenzuolo azzurro, disteso su di loro.



ANGELICA (il romanzo)




Pareva, ad Angelica, di essere la protagonista di un film, tanto avvertiva inverosimile, talvolta, quella sua improvvisa ed imprevista storia, e quella gioia che stava vivendo: non le era mai accaduto di ascoltare che ne esistessero di altrettanto folli.
Pur vivendola in ogni sua coinvolgente sfaccettatura, la sentiva irreale, inventata quasi soltanto per farsi raccontare.
-Amore, ma sei vero? - gli chiedeva
-Io si, sono verissimo, ma tu dov’eri nascosta?
-Ah, ero in una vita non mia, quando non avevo conosciuto né te né me stessa.
-Tesoro… ah, se ci fossimo conosciuti prima, amore mio, quanto saremmo stati felici …
- Puoi dirlo, amore, quanto ci siamo mancati, per una vita intera.
- Ma davvero non avevi mai vissuto un eros come questo fra noi?
- No, te l’ho raccontato. Il fatto è che occorre essere in due a desiderare le stesse cose, cioè, a considerare… insomma, a riconoscere il corpo dell’altro tutto per intero e non soltanto una possibilità di sfogo fisico …
- Si, vedi, io starei senza far l’amore periodi anche lunghissimi, se non potessi farlo come piace a me, e devo amarla la persona, sentirla mia, per amare il suo corpo… tutto.
Le scene più importanti della rappresentazione, negli occhi di Vinci offuscati dall’ansia, erano quelle che vivevano insieme, quando, travolti dal desiderio, si abbandonavano all’unica realtà che li rendeva esistenti: la fisicità del loro amore.
Questo, si, indimenticabile e incancellabile. La vita, così densamente illuminata, era degna di essere vissuta.
Le pagine del diario poetico di Angelica si infittivano di riflessioni.
Poi ne parlava con Vinci, quando si scrivevano online.
Vinci era intrigato dalle sue elucubrazioni: Angelica amava andare all’origine e al nocciolo delle questioni, sempre chiedeva e si dava spiegazioni.
Dubitava e asseriva.

e questa cosa della poesia e del fatto che tu mi ispiri poesia, è un valore aggiunto rispetto alle tue precedenti relazioni?
aggiuntissimo
un qualcosa di diverso o di più?
(Angelica amava sempre spaccare il capello - sosteneva Vinci)
di sicuro è vivere la nostra relazione in modo molto più intenso e sublime
visto che non l'ho inventata io l’associazione fra eros e parola?
elevarla ad un livello superiore si certo
amore, bellissima la tua considerazione, si, ecco, si eleva e la eleviamo ad un altissimo livello
amore … eros e parola, sei contento?
certooooooooooooooo amore con te volo fra le stelle …
ed io volo con te, amore, con il corpo e con l'anima …
quando sto con te non esisto più, ma siamo una entità nuova che nasce da due corpi che si fondono
se tu non mi -penetrassi- con la tua passione, non potrei scrivere neppure una parola, che so, un articolo o un aggettivo, la mia poesia esiste perché esiste questa meravigliosa fusione
e la tua poesia è il dono più bello che ho ricevuto nella mia vita
che mi ispiri oh, Vinci, ne sono felice che tu lo accetti e lo apprezzi, anche se sono solo parole
si certo amore è bellissimo ciò che tu scrivi per me, nelle tue poesie ci sono solo io e sempre io
con te, amore, con te, perché tutto ciò che scrivo lo viviamo insieme
ciò mi fa capire quanto mi ami e sono importante per te
non lo avevi ancora capito? ahahahahah
certo che si amore ma io non so scrivere poesie altrimenti te lo farei capire anche io, so solo dire quanto ti amo …
la poesia è anche una lettura degli strati più profondi della nostra anima... ma non c'è bisogno di scrivere versi per dire quanto si ama, e forse un giorno mi scriverai una lettera nella quale me lo racconterai in maniera più ampia, quanto mi ami, se ne avrai voglia
si è più semplice, stasera che fai amore?
allora aspetto una tua lettera? sto a casa, amore
si
e tu che fai?
nessun incontro? io torno ceno e mi metto un po’ in poltrona
no, finiti quelli in casa… le home poetry
poi a letto e ti sogno…
ti amoooooooooooooo
ti amooooooooo
buonanotte amore
amore mio buonanotte

Inevitabilmente, mentre macinava chilometri come un pazzo, Vinci andava ripercorrendo quella loro conversazione di qualche giorno prima, che ricordava abbastanza bene, tante volte l’aveva letta e riletta, dopo averla salvata in una cartella del suo p. c.
La sua vita era così viva, così intensa, da quando c’era Angelica!
Per distrarsi dal pensiero di Angelica sicuramente ferita, pensava soltanto a lei.





MARIELLA




Pausa pubblicitaria … Uffa, un’altra!
Me ne restai lì, seduta nel mio angolo di divano, a riflettere su quanto avevo visto fino ad allora.
Le parole delle conversazioni in – come la chiamavano? – chat - scorrevano sullo schermo mentre le solite due calde voci fuori campo le leggevano.
Ma, poi, che raccontavano quelle lettere? Di un amore così intenso non ne avevo neppure mai sentito parlare, figurarsi a viverlo. Cose d’un altro mondo, non del mio.
Quelle scene della fiction dei due protagonisti in una stanza d’albergo dovevano essere le solite invenzioni cinematografiche - mi dissi - usate per attrarre lo spettatore e tenerlo inchiodato alla poltrona.
Però, se fosse stato vero, un rapporto così sarebbe stato anche bello, più coinvolgente. Mi rigirai la gonna da cucire sul grembo, guardandola con astio, come se fosse colpa di quella stupida gonna marrone se a me non toccava altro, nella vita, che allungare gonne o pulire la casa o cucinare. Tanto da farmi desiderare che finisse. La vita. Quella insulsa sequela di momenti ordinari.
Ormai di me, di Pasquale, della nostra casa, della strada dove la casa si trovava, conoscevo ogni più minuscolo e recondito angolo. Dopo tanti anni che eravamo lì, in quel quartiere, conoscevo tutte le persone, i loro orari, i negozianti e la qualità delle loro merci.
Sapevo che la bionda signora quarantenne del quarto piano del palazzo di fronte al mio usciva dal portone alle sei del mattino, alle quindici del pomeriggio e alle ventuno, con ogni tempo, per portare il suo cane a spasso e che, appena uscita dal portone, si accendeva una sigaretta e la aspirava come se fosse la sua ultima sigaretta.
Sapevo che ogni venerdì pomeriggio la figlia di un tizio molto anziano che abitava dallo stesso lato della mia abitazione, assistito da una possente donna ucraina, veniva a trovarlo e si tratteneva un paio d’ore.
Lo sapevo perché la vedevo parcheggiare la sua auto in un piccolo slargo situato praticamente di fronte alla mia finestra, sulla destra del mio caseggiato, poi attraversava la strada per sparire alla mia vista. Portava, di solito, un pacchetto, che pareva essere una piccola guantiera di dolci.
Sapevo che due ragazzi, un maschio e una femmina, sui sedici anni, appartenenti a due famiglie diverse che abitavano una ad un capo della via, l’altra al capo opposto, si incontravano sotto il mio balcone, poi andavano a sedersi ad una delle panchine dello slargo, e chiacchieravano abbracciati.
Quando li vedevo, invidiavo la loro giovinezza e la loro possibilità di immaginarsi e raccontarsi un futuro.
Intendiamoci, non è che trascorressi tutto il mio tempo a sbirciare dalle mie finestre, è che, quando sei da trent’anni nello stesso posto, ti capita di farlo, no? Era il mio unico modo di evadere.
Strano che conoscessi tante cose di tante persone del quartiere, e non avessi mai saputo niente della mia dirimpettaia di pianerottolo!








LINA




Giovedì.
Non aveva fretta di terminare la lettura del libro.
Mancava ancora qualche giorno al ritorno dei due amanti. Se fossero tornati secondo programma, ogni due settimane. Distesa sul suo lettino, lasciò cadere il libro aperto accanto a sé e rifletté che aveva pensato spesso a quei due.
Erano amanti, certo. Lo capiva da come, quando entravano nel suo bar, si prendevano le mani, da come si guardavano imbambolati, si sussurravano appassionatamente le parole più ordinarie, anche banali, le conversazioni sul tempo, sui libri o i fogli stampati che lei intanto gli mostrava.
Avrebbero potuto essere i protagonisti di un romanzo. Di un romanzo d’amore come quello che lei stava leggendo…
Non ricordava che Guido l’avesse mai guardata come il tizio guardava quella tipa bionda mentre erano nel bar a bere i loro caffè. Per lo più, lui scherzava.
Non conosceva i loro nomi. I nomi dei due tizi, cioè.
Provò ad inventarne qualcuno: Michele e Maria, oppure Carlo e Rosa.
No, troppo insignificanti. Si illuminò. Avrebbe dato loro i nomi dei personaggi di qualcuno dei romanzi che aveva letto.
Cercò di ricordarli.
Constance e Oliver, oppure Rossella e Rhett, o Jurij e Lara.
Lara, sì, Lara le piaceva molto come nome. Quasi simile al suo.
Lei si sarebbe fatta chiamare Lara, decise.
Prese il cellulare, digitò un numero.
- Guido? Sì, sono io. Ti meravigli che ti chiami? Ecco, ma no, niente di importante, solo che… vorrei che da ora in poi mi chiamassi Lara. Perché Lara? Lo so io, ti dispiacerebbe chiamarmi Lara?
Chiuse la comunicazione e immaginò Guido disteso sul letto accanto a sé, che le accarezzava il seno sussurrando il suo nome: Lara… Lara… Lara.
Il cellulare squillò.
- Sì, dimmi, Guido.
- Ti amo, Lara.
Riprese a leggere mentre il calore di quelle tre parole l’avvolgeva come una coperta di calda seta, poi si dilatava a riscaldare la stanza, tutta la casa, e il paese addormentato, e il mondo intero.








ANGELICA (il romanzo)




Sempre talmente sorpresi per una realtà inimmaginata fino a qualche tempo prima, la consideravano, scherzando, il risultato di una magia.
Esisteva, dunque, sempre, un deus ex machina, da qualche parte, o un regista sconosciuto. Come per i film.
Chi aveva voluto che vivessero quella storia? E perché? Forse per una sorta di consolazione prima di essere raggiunti dalla vecchiaia?
Si erano incontrati per caso e, senza nessun progetto definito né nella mente né nel cuore, avevano pronunciato i loro sì, scegliendo di percorrere insieme lo stesso sentiero al bivio che si era presentato dinanzi ai loro occhi cupi di solitudine, all’offerta appena intravista nelle mani del destino.
Una fattura, scherzavano. Avevano bevuto entrambi un filtro misterioso? Una strana magia li ammaliava. Mossi soltanto, forse, dal bisogno di quel sentimento -nuevo- che, da quando si era insediato, si era tradotto nel desiderio continuo di condividere tempo e pensieri. E corpi. E anime.
-Nuevo in che senso? Gli aveva chiesto lei, dopo che lui aveva suggerito quella canzone come leitmotiv della loro storia. - Nel senso di un altro amore, un amore in più, insomma, rispetto ai precedenti? Oppure di assolutamente inedito? Insomma, nuovo come se fosse la prima volta che ami in questo modo?
Sottilizzava, come sempre.
-Si, amore, nel senso che per la prima volta sto vivendo un’esperienza così totale e coinvolgente. Me ne accorgo dal fatto che sei sempre nei miei pensieri, e anche dal fatto che ti desidero anche solo a pensarti, ed è la prima volta che mi accade.
- Uhm, amore, che bello, e anch’io sono profondamente diversa. Oltre a farmi provare ancora un sentimento forte, mi hai fatto scoprire il piacere di far l’amore, la sua bellezza. Alla mia età! Ci credi? E, poi, mi piace sapere che ispiro tanto il mio tesorino… ahahahah!
Alla mia età, aveva detto, e dopo una vita…
- Sai, amore, io sono vissuta abbastanza fra le donne, per il mio lavoro, e ho potuto capire quanto siano deluse anche dai loro rapporti intimi, dai loro uomini, ed erano tutte abbastanza inacidite, aride, qualcosa veniva sempre fuori, dalle conversazioni… qualcuna parlava in maniera abbastanza chiara, alludendo alla noia di un sesso sempre uguale, sempre per un bisogno fisico e mai più per amore e con amore.
- Ci credo, se l’uomo non ama il sesso fatto bene, con dedizione, ma, se soprattutto quella donna non la ama con tutto se stesso, se la usa soltanto, è normale che lei ne resti delusa e lo rifiuti, e rifiuta il sesso.
Cosa si erano scritti qualche sera prima? Aveva sentito il bisogno di sentirla prima di andare a letto e l’aveva chiamata in chat.

Ed è sempre più bello, ora sei mia e solo mia
Si, amore, dal primo giorno sono tua e solo tua
E il nostro desiderio non si colma mai
e come potrebbe calmarsi, se stiamo così bene insieme? Come tu dici, è un muoversi fuori dalla realtà
È una sensazione celestiale un piacere incommensurabile, amore. La tua tenerezza …
La tua, amore … e la tua passione
Per me è essenziale la voglio e la do, e tu lo sei, tenera, la sento in te
ed io te la do? senti che io te la do, la tenerezza?
è il presupposto dell’amore si certo amore e tu me ne dai tanta non mi sarei innamorato di te altrimenti [ …]

Anche per loro sarebbe arrivata la stanchezza, la noia?
Ma come faceva, Angelica, a pensare solo a questo, ora, con quel dolore acuto che avvertiva dappertutto? Non riusciva neppure a distinguere dove si fosse fatta più male, se fosse ferita seriamente, se qualche osso si fosse rotto.
Un cumulo di dolore, e lei che pensava a Vinci.
Stava sragionando.
Dov’era, ora? Stava arrivando? Lo avrebbe rivisto? Sicuramente aveva
sentito al cellulare che qualcosa doveva esserle accaduto. Stava andando da lei, di certo.
La sua mente si rifiutava di formulare una qualsiasi altra ipotesi e sceglieva accortamente quali immagini srotolare per consolarsi.
Che male atroce negli occhi! Non riusciva ad aprirli, per il bruciore insostenibile, e non poteva neppure muovere le braccia, imprigionate fra il suo corpo e il volante e lo sportello sinistro che era stato letteralmente sparato nell’auto… L’avrebbero soccorsa presto? E tutti quegli aculei infilati dappertutto …
Pensare che solo poco più di tre ore prima era stata vibrante di passione tra le braccia di Vinci …
Lui aveva mormorato, mentre moriva e rinasceva dentro di lei - Dio, dio, sono aria, sono spirito nell’universo - che lei aveva udito appena, scossa dal loro fremito.
Le sue parole avevano sottolineato e coronato un’altra esperienza sconvolgente.
Non si erano sciolti subito dall’abbraccio, né avevano parlato, per luminosi eterni minuti, impossibilitati a rompere l’incantesimo.
Come le bruciavano gli occhi!
L’avvolse una densa coltre di nebbia. Svenne.







LARA




Aveva poi dovuto interrompere la lettura del romanzo a causa di un paio di interrogazioni importantissime, ma non smetteva di pensarci. Chissà come sarebbe finita, quella storia. I due amanti si sarebbero davvero amati per sempre? Chissà se da quel romanzo se ne sarebbe potuto trarre un film, pensava, la sera, dopo lo studio, nel dormiveglia.
La trama le pareva suggestiva, e c’era qualcosa in particolare che l’affascinava maggiormente, cioè i lungi tragitti che quell’Angelica compiva per recarsi in un fantomatico paese così simile al suo, per incontrare il suo Vinci.
I paesaggi che attraversava, ai quali si alludeva nel romanzo, sempre diversi: l’autostrada innevata, l’invisibilità nella nebbia, la vegetazione rigogliosa percossa dalla tramontana, il nastro d’argento rilucente di sole attraversato dalle gazze. Molto simili a quelli che attorniavano lei, che strano!
E ognuna di quelle situazioni meteorologiche poteva ben rappresentare lo stato d’animo della protagonista, che passava dall’ansia all’euforia, dal panico alla felicità.
E lei che non riusciva a lasciare il paese neppure per mezza giornata! Le scene nella stanza dell’albergo… Quelle erano dense di felicità, tanto erano intensamente vissute.
I due corpi avvinti per ore, raccontava il romanzo, senza saziarsi mai del contatto della loro pelle che rappresentava il congiungimento delle due anime.
L’estasi della sintonia fisica intrecciata alla consapevolezza delle loro affinità …
E, poi, il gioco delle foto, dei video… La loro felicità affrescata sui volti, sulle pareti, disegnata nei corpi, proclamata dalle loro parole, dai loro respiri.
Tutto era descritto nei minimi particolari, tanto che lei riusciva quasi a vederli davvero. Avrebbe voluto parlarne con Guido, raccontargli dell’esistenza di quell’amore così straordinario, così intenso, che sapeva dare origine a quell’eccitazione, a quella passione, a quel senso di appartenenza, ma chissà lui come le avrebbe prese, queste confidenze.
Digitò il suo numero.
- Tesoro, dimmi…
- Quando ci vediamo, ti parlerò di un romanzo che sto leggendo, è così strano…
- Ascolterò sempre tutto ciò che vorrai dirmi, cara… a presto.






ANGELICA (il romanzo)




Si era avviata presto, come di solito. Non voleva assolutamente correre, mettendo a rischio la propria vita, anche se l’ansia di vederlo la incitava a pigiare sull’acceleratore senza neppure volerlo, poi, quando si rendeva conto, sbirciando il contachilometri, che aveva aumentato di molto la velocità consentita, recuperava la pazienza e rallentava.
L’alba, grigia e avvilita, non smorzava affatto i colori del film che andava tratteggiando nella sua mente sul piacere dell’incontro prossimo.
Il volto sorridente di Vinci, i suoi intensi abbracci, le carezze delle sue mani calde, la lingua indagatrice nella sua bocca, erano a portata di mano, doveva solo aspettare di giungere fino a lui.
Fu dopo aver percorso una trentina di chilometri che il paesaggio iniziò a dileguarsi dinanzi al suo sguardo sognante: ampie volute di nebbia le venivano incontro per poi ammassarsi, d’un tratto, in un muro impenetrabile sulla strada, tutt’intorno all’auto.
Cielo e terra indistinguibili, nessuna lucina di posizione davanti, a indicarle la direzione, scomparsi i cartelloni pubblicitari e le indicazioni solite degli svincoli per le uscite, niente di niente. I fari fendinebbia, inutili.
Accostò dubbiosa piano l’auto a destra, nella corsia d’emergenza, e si fermò accendendo le quattro frecce intermittenti. Doveva aspettare, oppure tentare un’uscita per tornare indietro o, ancora, andare avanti, seppure a tentoni?
Cercò il pacchetto delle sigarette, ne pescò una, l’accese con la fiammella tremante dell’accendino, poi guardò l’ora sul display del cruscotto. Non era tardi.
- Maledizione! - Pensò, in un impeto di paura e di rabbia.
Lui, ingabbiato in mille impegni, aveva potuto scegliere solo quella giornata, per incontrarla, ma si stava rivelando un massacro, per lei.
- Cazzo, che sfiga! Devo smetterla, non posso andare avanti così, non è giusto! Devo smetterla, con questa storia. Rischio la vita!
Nell’abitacolo l’aria si stava raffreddando e il parabrezza anteriore si ammantava dal lato interno di vapore. Dovette passarvi un fazzolettino di carta per riavere un minimo di visibilità. Respirò profondamente e riavviò l’auto, con il cuore in gola e le gambe tremanti. Per continuare il viaggio.
Nella nebbia.
Verso di lui. Verso il paradiso.







SONIA



- Pesce?
- Pesce, sì, va bene anche per me …
Luca ordinò, poi chiese del vino bianco, fresco …

- Allora, Sonia, che te ne pare di Angelica? Ti sembra credibile, come donna, come, sì, insomma, come personaggio?
- Certo, mi ci ritrovo perfettamente. È una grande, con quel suo amare senza riserve.
- Tu come ami?
- Io? - La domanda di Luca l’aveva sorpresa.
- Penso che bisogna conoscerlo, quel tipo di amore, per apprezzarlo, non ti pare?
- Certo, sono d’accordo …
- Quel tipo d’amore, dici? Nel senso che è un amore che ha per progetto solo se stesso? In fondo anch’io … forse, amo così. L’unico progetto dell’amore fra Roberto e me è quello di restare insieme per sempre. Ecco, se è questo “quel tipo d’amore”, lo conosco, no?
Ecco, Roberto era riapparso fra loro.
Lei l’aveva evocato, forse per non restare da sola con Luca. Negli occhi e nei pensieri di Luca.
- A proposito, dov’è?
- Fuori, per lavoro. Un nuovo contratto. Sai, per scaramanzia, non se ne parla molto, prima di …
- Naturale. Quando torna?
- Fra qualche giorno, venerdì, penso.
-Ecco, fra tre giorni, allora. Speriamo di terminare le riprese, per venerdì. Così finalmente vi riunirete, no?
Sempre leggermente sarcastico.
-Manca solo il finale, alla storia. Cioè, la scena in cui tu aspetti l’intervento agli occhi. La scena del suo arrivo l’abbiamo già girata, così il film ora sarà completo. Poi ci sarà il montaggio, insomma ci vedremo ancora, dopo, quando sceglieremo le scene migliori. Ottimo il vino, vero?
Gliene versò ancora. Era leggero e fresco.
- Un brindisi? Solo fra noi due…
- Ci vedremo ancora - Luca le aveva sussurrate, quelle tre parole.
Aveva scaraventato con maestria Roberto fuori dalla loro conversazione, fuori dalla magia di essere da solo con lei, finalmente, dopo averlo tanto desiderato.
Rilassati, quasi amici, avevano brindato, avevano chiacchierato ancora del film, delle chat, dei personaggi del romanzo e di come lo sceneggiatore li aveva resi “reali” nella fiction, dell’impatto che questa avrebbe avuto sul pubblico, poi, terminato il pasto con un ultimo brindisi, si erano avviati verso l’auto.
Il sole, alto nel cielo, bruciava i respiri.
Sul vialetto di terra battuta Sonia aveva incespicato, forse per i tacchi troppo alti, forse per il troppo vino, e lui l’aveva afferrata per un braccio.
Com’era stato, poi? Cos’era accaduto?
Si era ritrovata la bocca di Luca sulla sua e non si era sottratta.
Non aveva potuto.
Non aveva voluto.
Il freddo della solitudine che Roberto le aveva inflitto, e non solo per la lontananza, si era dileguato sotto il sole.
Non parlarono molto, mentre Luca le apriva lo sportello dell’auto, lo richiudeva, poi si metteva al volante e partiva.
Una mano sulla coscia calda di Sonia. La mano di Sonia su di lui.
L’appartamento di Luca non era molto distante.











ANGELICA (il romanzo)



Flashback.

- Amore, come va? Sarai stanco, dopo una giornata intera di lavoro …
(Mah, chissà quanta gente lavorava più di lui … Angelica lo pensava davvero, qualche volta, senza dirglielo mai, ovviamente).
- Si, abbastanza, amore. Casi su casi, e poi, in corsia, al pronto soccorso, consulenze, un trottolare di qua e di là. Ma sai, è il mio lavoro e lo amo, naturalmente.
- Capisco, mi dispiace…
- Oggi… sai… Si è presentata, oggi, in ambulatorio, una vecchina, per un problema, io… ma… scusami, mi chiamano, devo lasciarti. A dopo, amore.
- Vinci, appena hai tempo, parlamene per iscritto, di questo caso. Una lettera. Al telefono ci stiamo poco, lo so che tu hai sempre tanto da fare …
- Lo farò, amore, mannaggia, che mi fai fare… io scrivo solo ricette e diagnosi e leggo anamnesi… Va bene, tesoro, ci proverò, magari stasera, prima di andare a letto… Ciao, gioia, ti amo…
- Ti amo anch’io, Vinci, amore, a presto …

Gliela aveva inviata la sera tardi, con una e-mail, la descrizione di quel caso …
Oh, Vinci…! Altro che solo ricette …
«Gli ultimi sprazzi di luce stavano cedendo ormai al buio della sera. La giornata lavorativa era quasi al termine, dodici ore interrotte solo da una mezz’ora di pausa pranzo erano dure e la stanchezza si faceva sentire. Gli ultimi pazienti attendevano nella sala d’attesa. L’infermiera era entrata per prendere in consegna il paziente che avevo appena visitato, un bambino accompagnato da sua madre. Un po’ birichino, dapprima riluttante, che, alla fine, si è sottoposto alla visita con rassegnazione … Ora doveva introdurre il successivo: ce n’erano tre, in attesa, tra i quali una vecchietta sofferente, seduta su una poltroncina, che pareva raggomitolata su sé stessa. Avevo da tempo impartito la disposizione di dare la precedenza a persone molto anziane o palesemente sofferenti, così l’infermiera le si è avvicinata e l’ha accompagnata nell’ambulatorio. La vecchietta è venuta lentamente verso di me, seguita dal suo accompagnatore, un uomo corpulento, sulla cinquantina, che si è presentato come suo figlio. La donna, ottantaduenne, era magra, piccola, un po’ incurvata, vestita di nero. Ho immaginato un lutto recente.
– Da oltre vent’anni, dottore, da quando è morto mio padre, veste di nero. Non se lo è più tolto. Il figlio parlava cercando di modulare la voce forte e un po’ rozza, per conferirle il tono di rispetto che riteneva di dovere verso la persona alla quale si stava rivolgendo. A me.
- Dottore, ci manda il medico di famiglia, mia madre ha gli occhi rossi da circa quindici giorni, il nostro medico aveva pensato che si trattava di una congiuntivite, e l’ha curata con dei farmaci, ma mia madre peggiorava, per cui ha detto che era meglio se la visitava uno specialista … La donna, seduta davanti a me, mi guardava offrendomi un flebile sorriso misto alla sofferenza. Mostrava tanta rassegnazione, nella sua fragilità … Fissai i miei occhi nei suoi: l’occhio sinistro sporgeva ed era deviato verso l’esterno. Chiesi spiegazioni circa la fascia nera che, passando attorno al suo collo, le sorreggeva l’avambraccio sinistro. Mi rispose che aveva dolore al braccio e che si stava sottoponendo a delle sedute di fisioterapia. Aggiunse che alcuni anni prima dalla mammella le era stato asportato un carcinoma. Il quadro clinico era abbastanza chiaro, e, alla luce della mia lunga esperienza, indirizzai la diagnosi verso una ben precisa patologia. Alla palpazione, infatti, dell’occhio, si notava una massa che lo spingeva fuori dell’orbita, e lo stesso braccio presentava una grossa tumefazione. Una radiografia fatta d’urgenza confermò il mio sospetto diagnostico: si trattava di un carcinoma metastatico dell’orbita e dell’omero, che risultava fratturato e scomposto. Chiamai il figlio in disparte, ma non mi fu facile spiegargli la patologia che sua madre presentava: grosse lacrime caddero sulle sue guance.
Angelica, questo è ciò che assolutamente non mi piace, della mia professione, dover riferire delle diagnosi così infauste. A lei, che nel frattempo non aveva mai parlato, ma mi sorrideva soltanto, non dicemmo nulla, ma, al termine della visita si fece coraggio - Dottore, voi che sapete tante cose, aiutatemi, fatemi stare bene.
Mi alzai dalla mia sedia, mi avvicinai a lei, le feci una carezza su una guancia e la salutai. - Farò tutto ciò che mi sarà possibile per farvi stare bene, ora andate a casa e state con i vostri figli e i vostri nipoti.»
Angelica lo amava anche per la sua umanità e per la sua sensibilità.
Vinci era davvero una persona speciale. Anche molto paziente con lei, quando si adombrava, qualche volta, a causa della sua infantile, saltuaria, mancanza di fiducia verso di lui. Quando lo accusava di cercare un’altra opportunità.
Temeva che lui non l’amasse davvero, e si riesumavano le antiche ferite, le sue precedenti paure.
Allora diventava un po’ scostante, ma Vinci riusciva sempre a rassicurala.













MARIELLA




Ormai gli occhi a tratti mi si chiudevano. In effetti ero sveglia sin dalle prime ore del mattino, e il bisogno di dormire si faceva sentire sempre più, ma ora volevo resistere, vedere come andava a finire …
Quell’Angelica, che donna! Una donna viva. Una donna passionale e viva. Intraprendente.
Fissavo lo schermo incredula.
Una scena che incantava. La neve!







ANGELICA (il romanzo)



Flashback

Gennaio. Era caduta un bel po’ di neve nei giorni che avevano preceduto quello fissato per uno dei loro appuntamenti, e temettero di non potersi incontrare.
Lui le aveva telefonato molto presto, la mattina, per avvertirla che avrebbe potuto essere un’imprudenza, ma, se lei se la sentiva, anche lui si sarebbe avviato.
Angelica non aveva avuto dubbi: come rinunciare, quando i momenti da trascorrere insieme erano già così pochi? Avrebbe attraversato un oceano in burrasca pur di vederlo, sorvolato una montagna in mongolfiera, lottato contro un uragano.
Semplicemente, si avviò un po’ prima del solito.
Si sentiva quasi una pioniera, mentre si avventurava sulla strada deserta che si snodava verso l’alto spaccando i colli spruzzati di bianco. Tuttavia, il paesaggio era talmente luminoso da non farle temere alcun pericolo, anzi, le pareva che tutto quel bianco le infondesse un coraggio nuovo. Sembrava rassicurarla, anziché spaventarla.
Le alte pale eoliche disseminate sui colli, che ruotavano lentamente le loro braccia contro il cielo, le sembrarono dei giganti buoni che vegliavano sul suo cammino. Molto più belle ed eleganti di quegli orrendi e massicci tralicci di ferro dell’alta tensione. L’aria, intorno, pareva fragile, trasparente, come di cristallo, e i rari fiocchi bianchi oltre il parabrezza, erano solo farfalline bianche di primavera, le palombelle.
Si scambiarono qualche telefonata, lungo il tragitto, ma soltanto per controllare che tutto, sulla strada, andasse bene. Poi, il ritrovarsi all’ora e nel posto previsti, fu come aver conseguito un premio al termine di una corsa.

Angelica sceglieva sempre con cura l’abito da indossare per gli incontri con Vinci, e per quel giorno aveva deciso per un tailleur di seta rosso porpora.
Una macchia di sangue nel biancore raggelato della strada: tale gli apparve, appena lei si era delineata sul marciapiedi innevato.
Un rubino del fuoco, che emanò fiamme, colpito da un freccia di sole trapelata dalle nubi.
La seta dell’abito si insinuò fra le dita di lui, accendendole.
Entrarono nel solito bar per il solito caffè.
- Sei tu a riscaldare la galassia, tesoro… Le bisbigliò.
- Amore, voglio riscaldare solo te, e me con te…
- Sei bellissima. Oggi, come sempre.
Ai tuoi occhi, non potrei esserlo meno. Tu mi ami!
La ceramica bollente della tazzina del caffè, quella mattina, non aveva aggiunto altro calore all’ardere delle loro dita.
Nell’andare via, lei dimenticò sul bancone del bar il libro che gli aveva portato.

- Vedi, amore, il linguaggio poetico dell’amore consente al poeta delle navigazioni più spericolate nell’oceano delle parole, lo obbliga, quasi, ad indagare angoli e slarghi diversi, ad appropriarsi di sempre nuovi saperi e a creare realtà nuove… Di solito gli scrittori di narrativa bazzicano situazioni già note, direi stantie, ritrite, devono seguire una logica, ma non aggiungono quasi nulla alla conoscenza né riescono a suscitare molte emozioni, commozioni, trasalimenti. Io non saprei scriverlo, un romanzo.
Gli aveva sussurrato quel giorno, quasi sopra pensiero, come se quelle riflessioni le avesse elaborate mentre si amavano.
(Ma lei sapeva che non era sempre così, perché anche la prosa poteva essere avvincente quanto la poesia. L’aveva detto soltanto per sottolineare la sua scelta di scrivere in poesia).
Gli aveva poi raccontato dei settantasette nomi dell’amore, citati nel Corano.

Quando avevano lasciato l’albergo, la neve si era già sciolta tutta ed erano riemersi i colori soliti di una strada senz’anima, imbruttita dai piccoli cumuli di neve fangosa.







MARIELLA





Mi passai le mani sugli occhi, che erano rimasti fissi sulla neve e su quella macchia porpora. Poi sui loro corpi, sul loro amarsi. Sulla loro reciprocità.
Mi alzai dal divano per l’ennesima volta. Sollevai la tenda della finestra del soggiorno e guardai all’esterno, pensierosa.
Il vento faceva ondeggiare le chiome degli alberi, lì, intorno allo slargo che serviva da parcheggio. Le panchine, inondate della luce dei lampioni, o della luna, non sapevo, deserte. Qualche cartaccia, frammista a qualche foglia, volteggiava tra le gambe arcuate di ferro battuto.
L’avrei fatto, io? Avrei percorso tutta quella strada nella neve, per raggiungere il mio amante? Per provare qualche momento di felicità?
Non avevo mai avuto un amante. Non me lo sarei mai neppure sognata, di averlo.
Nella strada un cane randagio trotterellava accanto al marciapiedi. Una vecchina si trascinava lungo il muro del palazzo di fronte, una luce si accese in alto, a destra, poi si spense.
Sotto la finestra rombò una motocicletta.
Tornai a sedermi. Sempre più infelice.








ANGELICA (il romanzo)




Vinci avrebbe saputo di sicuro curare anche i suoi occhi, se fossero stati danneggiati dai minuscoli pezzi di vetro…
Le bruciavano tanto, soprattutto in quello destro le pareva di averci il fuoco...

Si collegava con lei, saltuariamente, quando i suoi pazienti si sottoponevano a dei particolari test visivi nel silenzio dell’ambulatorio. Dieci minuti per ogni test. Lui l’avvisava, tra un paziente e l’altro: aspetta un attimo, amore…

angelicaaaaaaaaaaaaaa
eccomiiiiiiiiii
sono ancora pieno di lavoro, sono al buio e non so se scrivo bene, sono appena arrivato
si, scrivi bene, senza errori di battitura, per ora. un pronto soccorso?
si
capito, grave?
qui non si finisce mai
immagino, amore
una scheggia di ferro nell’occhio, non andava via, un fabbro
come l'hai tolta, con una pinza?
si una pinzetta adatta
ovviamente adatta
dopo anestesia
nell'occhio o generale?
certo altrimenti è impossibile locale
ok, giusto
ma poi se ne va a casa, sono molto stanco, tesoro, si certo
ci credo, amore mio
lo controllo giovedì
vorrei poter accogliere la tua stanchezza
ormai è routine, magari …!
eh, capisco
e quando torno a casa ho un altro ps che mi aspetta
ps? pronto soccorso, vuoi dire? ancora? ma ti aspetta in studio?
si allo studio, mi hanno tel
poi, però poi ceni e ti riposi
sai cosa è bello quando arrivano da me
cosa?
vengono gridando dal dolore e se ne vanno ridendo
ahahahah, li fai divertire? non è come dal dentista, allora
tolgo loro i patemi, no, io li faccio stare bene
li rassicuri certo, se curi il danno
come faccio stare bene te ahahahahaha
amore, non sai quantooooooo, sono rinata con te
sono per sempre tuo ora niente può dividerci
assolutamente niente, amore
ti desidero sempre di più
anche io, ma ci rifacciamo sabato, di quest'astinenza …
sicuramente amore ora devo andare ti tel io domani buona serata amore ti amoooooooo
ti amoooooooooo, buona serata anche a te, amore mio


LARA




Venerdì pomeriggio.
Aveva portato il libro con sé, al bar, e, approfittando di un momento di calma, seduta accanto alla enorme stufa di ghisa nella quale le fiamme vertiginavano, aveva ripreso a leggere da dove aveva messo un segnalibro, quando aveva interrotto la lettura, la sera precedente.

- Ed è sempre più bello, ora sei mia e solo mia - Si, amore, dal primo giorno sono tua e solo tua - E il nostro desiderio non si colma mai - E come potrebbe calmarsi, se stiamo così bene insieme? Come tu dici, è un muoversi fuori dalla realtà - - È una reazione celestiale un piacere incommensurabile, amore. La tua tenerezza … - La tua, amore … e la tua passione - Per me è essenziale la voglio e la do, e tu lo sei, tenera, la sento in te - ed io te la do? senti che io te la do, la tenerezza? - è il presupposto dell’amore - si certo amore e tu me ne dai tanta non mi sarei innamorato di te altrimenti [ …]”

Qualcuno entrò nel bar, chiese un cappuccino. Poi, un altro, cornetto e caffè …
Porca miseria! Lara dovette richiudere il libro. Serviva gli avventori con in mente solo le parole che aveva letto.
Tornata a casa, ne lesse ancora qualche passo a sua madre.

Le parole, con tutti i loro fantastici significati, costituivano un dono. Sceglierle, di volta in volta, un piacere e un impegno. Ma, in effetti, non le sceglievano: le parole nascevano, desiderate, come fiori di campo in fondo al cuore, come farfalle nello stomaco, come lucciole di giugno nel cervello. Le loro parole erano il contesto indispensabile affinché si realizzasse una unione fisica totale e totalizzante che fosse, come dire … la ciliegina sulla torta.

- Bello, vero, mamma? Le parole sono un dono, dice. E nascono come fiori di campo in fondo al cuore…
Anche la loro casa, vecchia e anonima, sembrava colmarsi di quei fiori, come se fossero stati partoriti dal libro.
Lara continuava a leggere il romanzo non appena poteva, fra una pagina di storia e due problemi di geometria, quando la madre dormiva e non aveva bisogno di lei, quando era libera dal lavoro al bar.
Era anche uscita con Guido un paio di volte, due lunghe passeggiate lungo il viale della stazione.
Lui non l’aveva più ossessionata con la sua richiesta di averla in maniera più intima e lei si stava adattando a quel ragazzone tutto mani, capelli e tenerezza.
Strano che non l’avesse mai notata prima, la tenerezza di Guido.
Sapeva essere anche molto carino: la riforniva di cioccolatini di ogni specie, che acquistava in città, dove si recava ogni giorno per la scuola.
L’aspettava fuori dal bar, al termine del lavoro, e la riaccompagnava a casa.
Lara era come in attesa: sollevata e sorpresa dal nuovo atteggiamento di Guido. Sembrava che volesse più che altro proteggerla, ora, quando prima era stato sempre un po’ sbruffone. Sembrava che ora lui provasse più piacere a chiacchierare, a confidarsi, a prospettarle probabili e felici futuri. Le parole “passione” e “tenerezza”, che aveva più volte incontrato nelle conversazioni tra i due protagonisti del romanzo, l’avvincevano e la sconvolgevano. Ma, non si contraddicevano fra di loro, la passione e la tenerezza?
Lo aveva creduto, prima.
Ma sabato gli avrebbe parlato chiaro, a Guido …
No, non avrebbe parlato affatto, si sarebbe soltanto rifugiata fra le sue forti braccia e avrebbe cercato la sua bocca.

Era pronta, ora.







ANGELICA (il romanzo)




Giugno. Un’altra défaillance di Vinci. Era stanco, diceva, il caldo improvviso lo uccideva, aveva tanti impegni …
Lei ammutoliva, impotente. I giorni si susseguivano dolenti.

Una mattina, mentre rileggeva il suo stesso dolore dispiegato su una pagina word del computer - alcuni versi pungenti e disperati - il suono improvviso del citofono la riscosse.
- Si? - Pensò al postino.
- Sono Paolo.
- Chi?
- Paolo, quanti ne conosci, di Paoli?
- Mah ... Aspetta. Paolo. Ah, si, certo, che ci fai qui?
- Mi apri?
Dopo qualche minuto era davanti a lei.
Un amico di vecchissima data, che non aveva più visto da qualche anno, né aveva voluto incontrare al funerale della moglie. Lei non c’era andata, a quel funerale, perché quella morte precoce e ingiusta di una delle sue amiche più care l’aveva ferita profondamente. Avrebbe dovuto, in seguito, presentare alla famiglia una qualche sua partecipazione all’evento, magari anche con una semplice telefonata, ma non se l’era mai sentita.
Ed ora Paolo era lì.
- Ciao, come mai…?
- Passavo da queste parti e mi sono detto perché non salutare la mia amica?
Passava di lì? Mah …!
- Ok, ma, ecco, avrei dovuto essere io a farmi viva con te, allora, quando… non ne ebbi la forza… allora. Scusami.
- Non ti preoccupare, ho cercato di capire…
- Prendi un caffè?
Si intrattennero a chiacchierare per un’oretta, aggiornandosi sulle questioni familiari, poi lui le chiese se le andasse bene di frequentarsi un po’.
Che occasione ghiotta, un vedovo che conosceva da trent’anni! Poteva essere un’ancora di salvezza? Un salvagente?
Angelica accettò.
Paolo tornò il giorno dopo. Altre chiacchiere, altri ricordi di tavolate imbandite per venti, trenta persone e di gite e feste alle quali le loro rispettive famiglie avevano preso parte insieme.
Poi ci fu un cinema, un pranzo fuori, una passeggiata sul lungomare.
Angelica sperò ardentemente che le facesse dimenticare Vinci.
Sperò di poter incominciare a vivere una confortante normalità.
Un giorno arrivò, senza preavviso, con del cibo pronto.
- Ho voglia di calore familiare. Annunciò, con l’aria di farle un piacere.
Quel giorno fecero l’amore.
Nessuna vibrazione, nessuna gioia.
Nessun piacere.
Troppa quiete.
- Ma stai sempre al computer?
- Lo sai che scrivo …
- A me sembra una gran perdita di tempo …
Angelica era sobbalzata sulla sedia, inorridita.
- Io sono questa, quella che scrive… se non ti piace che io lo faccia, non è un mio problema…
- Scusami, ma almeno quando io vengo qui…
- Ecco, è proprio questo il problema, tu ci stai troppo qui… Io conducevo già da prima questo genere di vita… devo starci quanto serve, al p. c.
Voleva invadere la sua vita. Stravolgerla. Devastarla.
Dopo qualche altro incontro, Angelica desistette dal proposito di avvalersi di lui per una vita più ortodossa. Più facile. Più concreta.
C’era ancora troppo Vinci, in lei, non riusciva a disfarsene.
E, forse, Paolo era fin troppo disponibile.

Quando Vinci le propose di incontrarsi ancora, Angelica salutò Paolo per sempre. Con una sottile sensazione di dispiacere, subito ignorata e sostituita da quella più a lei consona, di riconquistata libertà.
Era lei, la “strana”?
Ancora una volta aveva messo al primo posto l’amore, rispetto alle convenienze.







SONIA




Si era risvegliata a pomeriggio inoltrato. Annebbiata dal vino e disperata per ciò che era accaduto.
In un letto che non era il suo. In una stanza che non era quella che divideva con Roberto.
Un letto e una stanza che le risultarono presto ostili. Li guardò con un atroce senso di nausea.
Sulla pelle il suo sudore misto a quello di Luca.
Si vergognò del proprio corpo, coperto a mala pena sino alla vita da un lenzuolo azzurro.
Alzò gli occhi e lo vide.
Luca sedeva, rivestito solo dei jeans, accanto alla finestra aperta e la guardava fumando.
Sonia non parlò. Stette con il capo poggiato sulle braccia per lunghissimi minuti, il volto nascosto dai lunghi capelli neri sconvolti.
Poi si scosse, si alzò e cercò i suoi abiti.
Li indossò in silenzio.
- Vado via.
- Sonia…
- Scusa, ma…
- Sonia!
- Vedi, io…, mi dispiace, ma non dovevamo… no, io non dovevo. Devo andare, ora. Luca…
- Ti accompagno, siamo lontani da casa tua.
- Ok, grazie.
- Il tempo di vestirmi…
- Luca…
- Dimmi.
- Luca, Roberto non deve saperlo.
- Certo, sono d’accordo.
Il tono di voce di Luca sembrava voler contraddire la promessa.
- Ti aspetto di là.
La voce di Sonia fu un sussurro.
Si spostò nel soggiorno e sedette su un basso divano di seta azzurra, fissando la parete di fronte. Un quadro di azzurri e gialli, forse un mare iridescente sotto il sole.
Cosciente soltanto della propria debolezza. Della propria colpa. Del proprio piacere.
A Roberto l’avrebbe raccontato lei, decise. Forse. Ma forse no.
Giunsero a casa di Sonia senza più parlare per tutto il tragitto. Luca parcheggiò e spense il motore dell’auto.
- Guardami. - Le ordinò dolcemente.
Lei alzò lo sguardo.
- Lo sapevi che ti volevo. Te n’eri accorta, no?
- Forse, non lo so. Non voglio parlarne.
Luca non aveva parlato d’amore, ma solo di desiderio. Di voglia.
Che squallore!
- Ti desideravo e ti desidero ancora. Devi saperlo. Non ho fatto altro che immaginare di averti, sin da quando sei arrivata per il provino. Ti ho voluta io, nel film. Non devi niente a Roberto, sappilo.
- Non devo niente neppure a me stessa, dunque? Non mi hai presa per la mia bravura… Che scema che sono stata…
- Aspetta, cara, aspetta, ti ho scelta perché eri fisicamente giusta per quella parte, poi hai dimostrato di saper recitare… Ho fatto bene, ti pare?
- Ora non so che risponderti, Luca, desidero soltanto andare a casa. Scusami.





ANGELICA (il romanzo)




Angelica si era chiesta più volte se quel loro sentimento fosse diventato così intenso grazie anche alla possibilità di poter conversare spesso e a lungo utilizzando tutte le moderne tecniche di ultima generazione: telefoni cellulari e internet.
Ricorrere soltanto ai telefoni fissi avrebbe limitato di molto i loro tempi di relazione verbale. Lei aveva un sacro terrore dei silenzi, a volte neppure voluti, certo, che, tuttavia, scavano baratri e innalzano muri. E poi, Vinci aveva una così bella voce!
La non consuetudine alla comunicazione, causata dal doversi impegnare in mille altri diversi interessi, poteva, da sola, innescare il meccanismo diabolico che conduce lentamente, ma inesorabilmente, ad una situazione irreversibile di incomunicabilità. Issava ostilità.
Capita che anche le più grandi amicizie - pensava - si perdano, nel tempo, se non sono sorrette da comunicazioni frequenti, dalla condivisione delle vicende, dal sostegno che, semplicemente con una chiacchierata, si può offrire. Certo, possono restare per sempre nel cuore, le persone con le quali si è condiviso un tratto di vita, ma, a volte, si perdono perfino le tracce di tutto ciò che è stato, di quel rapporto, che davvero, un tempo, era stato tanto significativo.
Grazie al cielo, la possibilità di scambiarsi anche soltanto un breve messaggino, in qualunque momento, quando non potevano sentirsi in altro modo, consentiva loro di restare costantemente in contatto e il filo che li legava non aveva modo di interrompersi, anzi, diventava sempre più indissolubile: era sufficiente un Ti amo - un Mi manchi, amore - oppure - Ti penso, cuore mio- per informare di luce anche una giornata di assiduo lavoro e di dura lontananza. Lei salvava i più belli, tra i messaggi che Vinci le inviava, nella memoria del cellulare, e se li rileggeva spesso, la sera, quando di più lui le mancava.
E, stranamente, ma non tanto - rifletteva - quelle voci mute che portavano vita, erano sempre annunciate da una luce: la luce bianca del display del telefonino, quella rossa, minuscola, del collegamento online.
Era proprio la luminosità l’elemento nuovo che Angelica avvertiva con forza, la fonte energetica di entrambi: dopo essere entrata nella sua vita, pervadeva con prepotenza il giorno e i versi di Angelica, sconfiggeva le tenebre nelle quali, spesso, Vinci viveva, a causa della sua professione e della sua solitudine.

Negli occhi chiusi e doloranti di Angelica, mentre la deponevano sulla barella dopo averla liberata dall’involucro accartocciato della sua automobile, balenò l’immagine della piccola fiamma che ornava il cuore del Cristo, sovrapposto al torace, in una figurina sacra che aveva posseduto un tempo.
Forse la conservava ancora, da qualche parte?
Le fiamme che brillavano nei loro petti si nutrivano anche di quel continuo essere in relazione, cercando di inviare e ricevere in tutti i modi possibili i suoni e i segni che denotavano mirabilmente il loro amore.
Le parole, con tutti i loro fantastici significati, costituivano un dono. Sceglierle, di volta in volta, un piacere e un impegno. Ma, in effetti, non le sceglievano: le parole nascevano, desiderate, come fiori di campo in fondo al cuore, come farfalle nello stomaco, come lucciole di giugno nel cervello.
Le loro parole erano il contesto indispensabile affinché si realizzasse una unione fisica totale e totalizzante che fosse, come dire… la ciliegina sulla torta.
Vinci aveva riso tanto, a sentire questa metafora.
Ed era stato più che d’accordo: di sesso senz’amore se ne trova quanto se ne vuole, ad ogni angolo di strada… ma non faceva per lui, per loro, aveva decretato.
Nessun altro poteva essere già a conoscenza di quanto le era accaduto, pensava Angelica, avvolta in una coltre di dolori indistinguibili nella penombra rassicurante dell’ambulanza che stava avviandosi a sirene spiegate.
Soltanto Vinci ne aveva avuto consapevolezza.
Sarebbe arrivato?
Ma non l’avrebbe trovata più lì.









MARIELLA




Gli occhi mi si erano decisamente chiusi, appena era iniziata un’altra pausa colma di meravigliose proposte.
Avevano colto di sfuggita una piramide di cioccolatini avvolti in carta dorata posati su un vassoio che un maggiordomo… poi le palpebre si erano abbassate, dolcemente. Inavvertitamente.
Con il sonno era arrivato il sogno.
Era tornato, a dir la verità, dopo mille anni.

Mi vedevo distesa su un prato inondato di sole. Le gambe leggermente divaricate, a crogiolarsi al calore intenso. La luce abbagliante smorzava i colori dell’erba, degli alberi, dei fiori. Stavo leggendo un libro, ma dopo qualche pagina, dinanzi agli occhi avevano cominciato a danzare minuscoli punti neri.
Dovetti chiuderli: non sapevo se non sopportavano il nero formicolante della scrittura in tanto chiarore o se fosse semplicemente sonno.
Il libro mi era ricaduto di fianco, spalancato sull’erba.
Avvertivo intorno a me il saltellare di un uccello, forse una gazza, ce n’erano molte da quelle parti, poi, schiudendo le palpebre per un attimo, avevo intravisto di fianco a me una fila ordinata e indaffarata di formiche, mentre il ramo ricurvo di una pianta di malva ondeggiava pianissimo sfiorandomi la fronte.
Un senso di beatitudine, eppure anche di angoscia, in fondo all’anima.
La solitudine del luogo mi spaventava. Tuttavia non potevo rialzarmi, quasi inchiodata al terreno dai raggi del sole.
Tastavo leggermente la gonna dell’abito che indossavo: un vestitino bianco con delle margherite rosa sparse che mi aveva cucito mia madre per l’estate, quando avevo, forse, nove anni.
Soltanto nove anni …
Ma non era accaduto lì, caspita, ma dove, allora?
E, cosa non era accaduto lì?
Non riuscivo a mettere a fuoco il posto, forse un capanno, forse una grotta? Avevo serrato le palpebre calde di sole sulle immagini confuse che si disegnavano nelle pupille.
Attesi.
Sentii che, mentre una mano mi sollevava lentamente l’orlo della veste, un’altra mi sfiorava l’interno di un ginocchio, poi mi accarezzava fra le cosce, poi, pian piano, si avvicinava, mi frugava …
Avevo provato vergogna? Oppure il sottile senso di piacere aveva cancellato ogni remora? Non capivo. Non mi ero sottratta.
Quando la mano si era fermata, e poi mi aveva riabbassato dolcemente la gonna sulle gambe nude, avevo soltanto spalancato gli occhi ingoiando il cielo, disperata.
Deprivata?
Ero restata sull’erba. Immobile. Raggelata.
Il prato era piombato nel silenzio e nell’oscurità, come se un’improvvisa gigantesca nuvola si fosse frapposta tra il sole e me.
Quando ero tornata a casa, avevo cancellato del tutto quell’evento dalla mia mente. Per sempre.
Sicuramente l’avevo soltanto sognato.
Più tardi, da adulta, quando avevo incontrato Pasquale, avevo castrato ogni desiderio fisico, senza neppure saperlo.
La mia pudicizia si accordava perfettamente con il comportamento di lui, così “parco”, in amore.
Avevo persino concepito un figlio senza mai comprendere il piacere.














ANGELICA (il romanzo)




Mancavano ancora una decina di chilometri al luogo presunto dell’incidente …
Il guazzabuglio di pensieri non gli consentiva più alcuna lucidità.
Nell’auto, in sordina, la voce di Battiato - Se tu sapessi quanto ti amo …
Vinci gliel’aveva detto, quando le aveva donato una copia del cd: quelle parole lui le dedicava a lei.

Ora, di nuovo nelle tenebre. Qualcuno, o qualcosa, il destino, il caso, o chiunque o qualsiasi cosa fosse, il famoso deus ex machina, aveva spento, imperturbabile, ancora una volta, la luce. Perché il troppo bello doveva avere a tutti i costi una fine?
Perché non durava mai per sempre?
Ne avevano già avuti, di momenti cupi, quando lui non era stato affatto bene e non aveva dovuto potuto incontrarla per un lungo periodo. Un malore che poteva significare qualcosa di pericoloso, e lui ne aveva avuto paura.
Ma pareva che Angelica non volesse capire, che non accettasse le sue spiegazioni. La sua naturale diffidenza aveva preso il sopravvento, si era arrabbiata e l’aveva trattato molto male.
Angelica immaginava delle menzogne, raccontate per giustificare un improvviso disinteresse, sebbene accettasse di aspettare l’evoluzione degli eventi, come lui stesso le suggeriva, le chiedeva, quasi umilmente.
Per Angelica l’incomprensibile rasentava l’irrazionale.
E lei stessa diventava irrazionale, dura, ostile. Vivevano in luoghi troppo distanti fra loro, perché potesse verificare la verità delle cose.
Lui se ne era adombrato molto, e dispiaciuto, di quella insofferenza.
Aveva provato un invincibile timore a mettersi alla guida su percorsi più lunghi, mentre stava male, così le aveva raccontato, e perciò non si erano incontrati per tre lunghi mesi, senza smettere di sentirsi, tuttavia, anche se non frequentemente.
Lei lo immaginava mentre faceva l’amore con qualcun’altra.
Smaniava.
Al telefono le loro parole d’amore inframmezzate a quelle accusatorie, i sospetti ai desideri, l’ansia all’accettazione. Accuse seguite da scuse.
La pazienza di Vinci rasentava un senso di fastidio, diventava malumore. Diventava malessere.

- Tutti mentono, dice House, lo sai? Lo conosci, House? - gli diceva.
Lei conosceva le proprie menzogne, seppure mai confessate per non turbare quel precario equilibrio che intesseva il loro rapporto. E, dunque, anche lui mentiva, ne era certa.
Buio per lui e buio anche per lei.
Un lungo inverno che era stato un inferno.
Un inferno gelido. Solitudine. Nostalgia.
Poi la situazione si era chiarita, la paura scomparsa insieme ai suoi malesseri, il desiderio di incontrarla più forte di prima.
Aveva vinto lei. Su tutto…
Iniziò ad aguzzare gli occhi, caso mai Angelica avesse sbagliato quando gli aveva risposto - Mi mancano una trentina di chilometri a casa.
Rammentò che una volta Angelica era giunta all’appuntamento molto turbata.
Gli aveva raccontato che per quasi tutta la strada aveva viaggiato in una densa nebbia. Aveva avuto paura. Era stata tentata di tornare indietro, ma poi aveva continuato, coraggiosamente, pur di vederlo.
Lo squillo del suo cellulare, improvviso.
Chi mai…? Lui aveva già avvisato a casa sua che avrebbe tardato molto. Guardò il numero in entrata sul display. Era il suo numero, quello del telefono di Angelica. Angelica? Ma, allora? Pronunciò il suo nome, guardingo…
- Angelica?
Una voce maschile.
- Pronto, scusi, lei è il sig. Vinci? La sto chiamando perché il suo nome è collegato all’ultimo numero registrato in entrata su questo telefono. Penso che lei conosca la signora, la proprietaria dell’auto, no?
- Si, certo, ma cosa è successo? Stavamo parlando quando ho udito uno schianto…
- Si, senta, purtroppo, mi dispiace, ma la signora ha avuto un incidente. Abbiamo recuperato il telefono sotto il sedile. Così, se lei è un parente…
- Dov’è?
- Un’ambulanza la sta portando presso il Policlinico. Pronto soccorso, poi reparto oculistico, credo.
Cristo, i suoi occhi!!!







LARA




Era distesa sul letto con il romanzo, una fetta di pane e una mela da sbocconcellare durante la lettura. Dopo aver letto un paio di pagine, posò il libro accanto a sé, a faccia in giù sulla coperta: caspita, quella donna sola, in ospedale, quella donna, sola, sempre.
Ma non se ne accorgeva da quanta solitudine era circondata?
Da quanti silenzi era afflitta?
Era la sua copia…
Valeva un amore, per quanto grande, tutto questo?
Quell’Angelica viveva soltanto brevi intervalli di sogno, ma la sua realtà era molto più che dura, era avara.
Perché quel Vinci non la sceglieva per sempre, invece di incontrarla così di rado, forse quando gli pareva, forse solo quando poteva, ad essere misericordiosi con lui?
E lei subiva!!!
Incredibile!
Ma che se ne faceva di un tizio così?
Amarsi tanto, certo, andava bene, ma un amore non doveva porsi un progetto, un cammino, una meta?
Lina si ritrovò sconcertata e rattristata per la vita assurda di Angelica.
L’amore l’accecava, questa era la verità, ma era amore quello di lui?
Ripensò ai due amanti del sabato, anzi, di un sabato sì e uno no, ad andar bene.
Fino a quando sarebbero tornati nel suo bar a prendere insieme un caffè? Fino a quando si sarebbero amati?
Sperava che ritardassero il loro ritorno, per poter terminare la lettura del romanzo che la tipa aveva dimenticato sul bancone del bar. Non ne mancava molto, ancora, da leggere. Quale finale era stato previsto? I romanzi devono avere sempre un lieto fine, no?
Pensò alla insormontabile corona di colli intorno al suo paese.
Pensò al percorso che Guido disegnava per loro due.
Le sembrò possibile. Fattibile. Meraviglioso.
L’amore di Guido le avrebbe fatto varcare i confini.







ANGELICA (il romanzo)




Quell’inverno, il primo da che si conoscevano, lui non aveva voluto vederla da gennaio a marzo, adducendo seri motivi di salute. Mah! Ad Angelica pareva davvero strano che da un momento all’altro potesse stare tanto male da rinunciare a lei.
Aveva anche diradato i messaggini serali e gli appuntamenti sulla piattaforma del sito che usavano per comunicare.
La lucina rossa non si accendeva, né risuonava la musichetta che annunciava il collegamento in corso.
Angelica era piombata nella paura e nella disperazione. Per la prima volta era completamente sola nella grande casa, stordita da silenzi mai uditi prima. Di rado si sentivano al telefono.
Vinci la rimproverava di non capire il suo stato, lei gli chiedeva se dovesse aspettarlo.
- Certo, amore, ci vedremo, appena starò meglio. Io ti amo.

Non gli credeva.
Il gelo assediava le finestre e l’anima. La solitudine, un macigno sull’anima.
Niente e nessuno riusciva a compensare l’assenza di Vinci.
Per farsi compagnia, aveva incominciato ad accendere delle candele che posava sulla tavola, accanto al computer muto. Intorno il buio della sera nella cucina vuota.
La fiammella delle candele sostituiva quella lucina rossa che non si accendeva quasi più, al bordo del suo computer?
Una sera, consumate tutte le candele, aveva acceso un cero antifumo contenuto in una base di latta colorata. Quando la cera si era sciolta tutta, per tenere in vita la fiamma aveva gettato nella base metallica dapprima dei fiammiferi, poi dei pezzi di carta. Per interminabili minuti.
Aveva poi dovuto attendere che il metallo si raffreddasse, per spostarlo, prima di andare a letto, ma, quando aveva potuto toccarlo senza scottarsi, si era accorta che aveva bruciato il tavolo: un cerchio bruno sul piano del tavolo. Avrebbe potuto provocare un incendio?
Si era data della pazza incosciente.
Aveva aperto un sito di incontri. Uno squallore, soltanto tizi assatanati, in cerca di squallide eccitazioni online.
- Vuoi coccole? - Era l’approccio più gentile.
Interrompeva la conversazione.
Poi aveva incontrato un tizio che pareva passabile, amabile e colto quel tanto che a lei poteva interessare, e aveva accettato di incontrarlo.
Per rabbia, per sconfiggere la solitudine.
Erano andati al cinema, poi a mangiare una pizza orrenda.
Lui aveva proposto un bicchierino a casa sua.
Aveva accettato, pur comprendendo il senso di quell’offerta.
Era entrata col magone nel piccolo appartamento del tizio, scansando giornali, libri, scarpe, disseminati sul pavimento del salotto, si era poggiata appena sul bordo del divanetto rosso, aveva atteso che lui le porgesse il bicchierino colmo per metà di un liquido trasparente, grappa, forse, oppure vodka, lei non se ne intendeva molto, per trangugiarlo in fretta, quasi si trattasse di un veleno.
Gliene aveva versato ancora, e di nuovo Angelica aveva bevuto tutto d’un fiato, come per sbrigarsi...
Infatti lui non aveva indugiato oltre.
Gli si era data, sperando in una qualsiasi emozione, un fremito, una palpitazione, ma provando solo un sentimento di negazione di se stessa.
Estranea a sé stessa.
Nessun piacere.
Soltanto una ginnastica da letto, come lei definiva questi “congiungimenti”.
Aveva solo aspettato che il tutto si compisse per potersene tornare a casa. A piangere. Dentro.
Quando alla fine di marzo Vinci le aveva proposto di rivedersi, non gli aveva raccontato nulla, naturalmente.








SONIA




Appena entrata in casa, aveva sbattuto con rabbia la porta d’ingresso alle sue spalle, si era spogliata di corsa, lì, nell’ingresso, e si era precipitata in bagno, sotto il getto bollente della doccia, sperando di cancellare, insieme ad ogni traccia di ciò che era accaduto, anche quel minaccioso senso di colpa che l’aveva colta in casa di Luca.
Soltanto dopo essersi rivestita, aveva chiamato Roberto.
Dai suoni che le giunsero all’orecchio insieme alla voce di lui, capì che doveva essere in un luogo affollato, un centro commerciale, forse, oppure un bar. Non era proprio il momento di parlarne. Non al telefono, poi.
La distanza fra loro cominciava a pesare… A separarli…
Si salutarono con le voci di sempre.
- Quando torni?
- Qualche altro giorno, tesoro, stiamo discutendo la sceneggiatura, i tempi delle riprese, i luoghi… quando tutto sarà definito, firmerò il contratto e poi sarò da te…
- Fa presto, amore, ho bisogno di te.
- Anch’io.
Fu soltanto dopo che ebbe chiuso la comunicazione che decise.
Non avrebbe confessato nulla a Roberto: il suo errore apparteneva soltanto a lei, e non doveva pesare sulla loro relazione, sul loro amore.
Non appena lui fosse arrivato, tutto sarebbe tornato come prima.
Del resto, Roberto non l’aveva mai tradita? Era sicura che l’avesse fatto, e non soltanto una volta. Ma non le aveva mai raccontato niente, naturalmente.
Si impose di non pensarci più.
Chiamò un’amica e si infilò con lei dapprima in un cinema, poi in un caffè, poi tornò a casa e se ne andò a letto.
Sì, tutto doveva continuare come prima di quella maledetta giornata.
Maledetta era, certo, perché in quelle ore aveva scoperto qualcosa di sé che non conosceva, che non immaginava: anche lei era stata non solo capace di tradire, ma, soprattutto, era stata capace di provare piacere tra le braccia di qualcuno che non fosse Roberto, assente dal suo grembo da troppo tempo.
Il suo corpo, la sua carne, il suo sangue pulsante, avevano reclamato la loro parte.
Imperiosamente.
Animalescamente.
Non pensarci più? E come? Incancellabilità del vissuto!
Il tradimento fisico che si camuffava sotto le vesti di un immaginario sentimento, anche se, nel suo caso, non se lo era neppure immaginato, il sentimento. Eppure, ne era stata capace. Che orrore!
Vaneggiava, come febbricitante.
Un tradimento fisico è davvero tanto importante da poter far crollare un amore importante come il loro?
No, non gli avrebbe mai raccontato nulla. Forse. No, sicuramente.
Versò un bel po’ di gocce rilassanti in un mezzo bicchiere d’acqua, le ingurgitò e attese di sprofondare nel sonno, per sfuggire quella orribile realtà che aveva vissuto senza averla desiderata. Magari si fosse trattato di un sonno eterno…









ANGELICA (il romanzo)



Avevano ripreso a rivedersi abbastanza regolarmente.
Gli occhi di Angelica avevano ripreso a brillare.
I suoi occhi. Le iridi scure sempre punteggiate di curiosità.
Di perplessità. Di domande. Di tempesta.
Di desiderio …
Quante volte vi si era specchiato? Quante volte, scrutandoli, ne aveva intravisto e riconosciuto la sua stessa anima? Gli occhi di Vinci, abituati al buio dei vari ambulatori nei quali lavorava, ricevevano e riflettevano la luce dagli occhi di lei.
A volte, però, le mareggiate della gelosia e della sfiducia li avevano intorpiditi, e il fondale… no, non il fondale, a che stava pensando… il fondo di quegli occhi, gli era sembrato offuscato dalle alghe dell’inquietudine. Picchi ed abissi. Sabbie. Sabbie mobili, nelle quali lei si nascondeva. Nelle quali nascondeva le sue solitudini, le sue amarezze di donna, i silenzi della sua casa vuota.
Talvolta vi si leggeva anche il senso della morte.
Angelica aveva piena consapevolezza dell’ineluttabilità della fine di tutte le cose.
Ora temeva che la sua fine potesse giungere nel momento più bello della sua vita. Nel corso del loro splendido amore. Prima che la vita stessa glielo sottraesse.

Gliel’avrebbe sottratto? L’avrebbe sopportato? Quanto ne avrebbe sofferto?
Come aveva detto, una volta?
Un poema per salvare il loro amore dall’oblio.
Glielo aveva inviato per posta elettronica, mentre ne scriveva le pagine, una o due per volta, una specie di diario, stupendolo per la sua capacità di usare le parole e di costruire, anzi, di ricostruire, la loro storia in maniera assolutamente insolita.
Un linguaggio al quale lui non era abituato, ma che lo affascinava. La versione poetica del loro amore era potente quanto la realtà e altrettanto coinvolgente.
E, quando erano insieme, lei gliene leggeva alcuni versi con quella sua voce rauca e musicale, e Vinci ne era commosso e turbato. E capiva che la loro follia costituiva, per Angelica, anche uno strumento poetico. Soprattutto uno strumento poetico?
Era lui ad essere usato, inconsciamente, certo, da parte di Angelica, se ne rendeva conto, ma non ne era affatto disturbato.
Se Angelica aveva desiderato di scrivere di loro, di parlare del loro eros, se ne aveva sentito il bisogno, Vinci era orgoglioso di aver contribuito alla stesura dei suoi versi. Le aveva suggerito anche di dedicargli la raccolta con una locuzione abbastanza significativa.

Questo è soltanto il primo libro, amore, voglio che ne scrivi tanti, all’infinito…
ho bisogno di te, amore caro
a chi lo dici, anche io, come il pane quotidiano
noooooo, come il pane quotidiano, ecco l'inizio di un’altra poesia ......
ahahahahahaahahahhha ecco la poetessa
sei tu che mi svegli anche poeticamente
lo so amore mio
credo che tu abbia delle belle metafore in testa ma forse sono
io che te le motivo? forse ce l'hai nel cuore
certo amore, sei tu che me le fai uscire
hai mai desiderato prima una donna in particolare come il pane quotidiano? Ah, che domanda scema e retorica
ma scherzi amore, mai
davvero? cioè, solo me?
certo amore solo te ora ti devo salutare amore
mah... che ho di speciale?
non lo so amore, l’amore non è razionale
ok... un bacio e ci vediamo domani mattina
ti amooooooooooooo
a domani amore ti amooooooooo

Ma Angelica non gli faceva sconti, se parlavano di politica o di economia. Lui se ne occupava attivamente. Allora lei inalberava ragionamenti accaniti sui temi della giustizia sociale, del potere politico che si arroccava nei propri privilegi dimenticando i compiti che gli erano stati affidati dal popolo, e di come si sarebbe potuti uscire dalla situazione di corruzione dilagante che, di fatto, bloccava ogni speranza di ripresa economica.
Era, in quelle conversazioni, lucida e spietata.
Le due facce di Angelica: quella romantica che la portava verso l’amore e la poesia e quella razionale che la induceva ad analizzare concretamente il proprio tempo.








LARA



Sabato. Ore tredici.
I due amanti, quella mattina, non erano venuti. Ne fu contenta: non avrebbe dovuto restituire il libro e avrebbe potuto, così, terminarne con calma la lettura.
Dopo una mattinata frenetica trascorsa al chiuso opprimente del bar, non vedeva l’ora di uscire all’aperto, nell’aria frizzante di un freddo mezzogiorno invernale chiaro e vibrante.
La gente aveva ripreso a circolare, dribblando i monticelli di neve ammucchiata sotto i marciapiedi. Numerose le auto lungo la strada. Qualche camion. La vita riprendeva, dopo la parentesi delle nevicate intermittenti.
Guido l’attendeva all’esterno, nel sole, passeggiando ansioso. Un sacchettino di carta bianca nascosto sotto il giubbotto di pelle nera.
Quando lei lo raggiunse, lui l’abbracciò dolcemente, poi le sussurrò:
- Chiudi gli occhi e apri la bocca.
- Perché?
- Dai, non chiedere… fallo!
- Ok, niente scherzi, però…
- Ma va…!
Lara obbedì. Qualcosa di solido si posò sulla lingua allungata verso l’esterno, fra le labbra. Verso di lui.
Capì dal profumo che si trattava di un cioccolatino. Richiuse la bocca e lo infranse con i denti, poi lo assaporò pian piano. Dall’interno del cioccolatino fuoriuscì un sapore intenso di liquore.
- Allora?
- Divino! Dove l’hai preso?
- Ho trovato una cioccolateria nuova in città. Li fanno loro. Questo è ripieno di liquore, è Strega. Ma ce ne sono di tanti gusti.
- Eccezionale, davvero… Grazie, Guido, sei un tesoro.
- Tieni, allora…
Guido estrasse dalla tasca del giubbotto il sacchettino di carta e glielo porse.
- Un piccolo assortimento, così mi penserai sempre, ogni volta che te ne mangerai uno…
- Ma così mi farai ingrassare… - Si lamentò, toccandosi il punto vita - non vedi come… Aspetta, dammene un altro…
Lara scartò un altro involto dorato e posò tra le sue labbra la pralina scura, la trattenne un attimo nella bocca calda, assaporandola, poi si sollevò sulla punta dei piedi e accostò la sua alla bocca di Guido e posò il cioccolatino sulla sua lingua.
- Ecco, così sarai tu a pensare a me, quando…
-Io penso sempre a te, tesoro. Ma cosa volevi dirmi? Mi avevi preannunciato che volevi parlarmi…
Parlargli del romanzo? Parlargli dell’amore?
- Vorrei qualche dritta per un computer. Voglio comprare un computer… uno piccolo piccolo, ma, insomma, voglio imparare ad usarlo anch’io.
- Davvero? Perché? Ok, ne parleremo stasera, perché ci vediamo, stasera, no?
- Sì, dovrò fare delle commissioni, magari ci incontriamo sotto casa mia, verso le otto?
- Alle otto, tesoro, va bene. Lo sai che ti amo?
- Ti amo anch’io.
Le parole le vennero fuori senza alcuno sforzo. Guido l’abbracciò con forza.
- A più tardi, piccola. - Sussurrò.
La strinse forte fra le braccia. Si scambiarono il primo vero bacio della loro storia… L’incipit del loro amore, come in un romanzo…








ANGELICA (il romanzo)




Ancora pochissimi chilometri, pensò Vinci, da percorrere, e poi avrebbe dovuto anche cercare l’ospedale dove l’avevano portata e poi rintracciare il reparto di oculistica.
E, poi, poi, poi avrebbe saputo.
Ancora il deserto, intorno, né alberi, né guardrail, né oleandri, né cielo, né automobili sulla strada. Soltanto le innumerevoli garrule gazze a fargli compagnia, che svolazzavano sulle corsie laterali della strada, o, imprudenti, l’attraversavano radenti.
Una volta Angelica gli aveva letto un verso che parlava della voce delle gazze “il tuo grido ricordava subito la corteccia delle querce” di un certo Bacchini. Se ne ricordò con tenerezza.
Lei lo faceva, a volte, di portargli dei versi di poeti più o meno celebri, e glieli leggeva in auto, oppure, dopo, quando restavano abbracciati, con i corpi ancora caldi d’amore.
Un mondo nuovo, per lui, quello della poesia, che non gli dispiaceva affatto. Anzi! E, poi, quanto gli piaceva la sua voce, mentre leggeva! Una musica …

mi sei mancata tanto, amore ma sai, ho avuto tanto da fare
beati i primitivi, senza nulla da fare se non andare a caccia, niente bollette, niente lavori ad orari fissi
infatti, spesso sono complicazioni
infatti, li invidio. senza luce elettrica, ma con il fuoco sempre acceso
si però il pc ci vorrebbe altrimenti come comunichiamo
solo il pc ma forse potremmo comunicare come gli indiani, con i segnali di fumo o come in africa, con il tam tam
cmq anche allora sicuramente se ci fossimo stati io sarei stato con te
visto che da qualche parte tu stavi aspettando me ed io te?
Oh, l’inconsapevolezza delle parole dell’amore!
Si sarebbero cercati e trovati e riconosciuti anche agli albori della storia dell’umanità, e avrebbero continuato sempre e per sempre.
No, non si sarebbero mai persi, di questo Vinci era certo… soprattutto ora, ora che Angelica aveva bisogno di lui.
Eccola, la città, dopo il casello d’uscita, ora si trattava di cercare l’ospedale. Di cercare Angelica.
Glieli avrebbe curati e guariti lui, gli occhi, come le aveva guarito l’anima.




MARIELLA




Un boato secco, come un colpo di cannone, seguito da altri colpi, a ripetizione, come di una mitraglietta, meno forti, ma altrettanto inaspettati.
Una porta, o forse una finestra dell’appartamento attiguo, sbatté furiosamente, mentre una raffica di vento sortita dal vasistas aperto del soggiorno dove me ne stavo seduta strappava alla sua compostezza la tenda di seta a fiori che divideva la stanza dal mondo esterno, anzi, proprio dalla curiosità morbosa della mia dirimpettaia. Sempre al balcone, quella, a spiare la strada e i portoni e chi entrava e chi usciva.
Frastornata, con gli occhi arrossati dal sonno e dalla stanchezza, adagiata nella mia porzione di divano, dinanzi al televisore, spalancai gli occhi e mi scossi sobbalzando. Uscivo da un incubo? Cosa mi aveva spaventata tanto?
Oddio, un temporale, e che temporale! Un tornado vero e proprio!
Ma, dov’ero? E il prato, il sole, le formiche? Avevo sognato. Quel maledetto sogno, che ogni tanto tornava.
Guardai dinanzi a me: sullo schermo del televisore stavano scorrendo i titoli di coda della fiction, accompagnati da una musica e da una voce.
Battiato, certamente. La stagione dell’amore ….
Restai lì, senza muovermi, con una momentanea amnesia: cosa stavo guardando, in tv, prima di addormentarmi… ?
Ah, sì, la prima puntata di una nuova soap… ma, caspita, era già terminata, e dunque…?
L’ultima scritta avvisava che la seconda parte sarebbe stata trasmessa di lì a una settimana.
Oh, no! Mi ero addormentata, e proprio sul più bello. Ancora una volta avevo perso la fine della puntata... Certo le mandavano in onda troppo tardi, quelle fiction, ed io non reggevo mai fino in fondo…
Però, che linguaggio ardito! Due bellissime voci fuori campo avevano letto quelle che le erano sembrate delle lettere, ma non scritte sulla carta, come si faceva un tempo, scritte al computer… Roba davvero strana!
Descrivevano tutti i loro desideri sessuali, mentre gli attori interpretavano scene altamente sensuali ed io mi ero sentita altalenare tra curiosità, stupore, offesa e vergogna. E invidia…
Poi sempre la stessa voce suadente femminile leggeva delle poesie. Non me ne intendevo, ma le parole, che scorrevano in sovraimpressione sul video, mi parevano belle.
E seguivo tutte le fiction avidamente e regolarmente, quasi ogni sera ne trasmettevano una diversa, con repliche pomeridiane per chi avesse perso qualche scena o tutta una puntata, e me ne sentivo consolata, come, forse, un tempo, mia madre, che si era nutrita di fotoromanzi che ora non si stampavano più, che peccato!
E guardavo quelle stupide fiction - sì, Pasquale aveva ragione - soltanto per poter sognare esperienze ed avventure esaltanti che movimentassero un po’ la mia vita anonima e senza più emozioni, mentre quel mio marito, corpulento, burbero e noioso, continuava a brontolare che erano tutte schifezze, scemenze belle e buone, filmetti di quart’ordine per rincretinire le donnette come lei, che già lo era, cretina.
Ma glielo diceva ridendo…
- E senza offesa, sai cara…
Io gli rispondevo a tono.
- E tu, a guardare una palla che rotola, che ci trovi di bello? Io, almeno, sogno…
Intanto mi ero addormentata sul più bello, forse, ed ora mi ero svegliata e dovevo andarmene a letto senza aver visto neppure il finale.
Dopo quel cazzo di sogno…










SONIA




Nell’ampio salotto dell’albergo un piccolo drappello di persone aveva assistito alla messa in onda del film.
Al termine della visione il regista, i due attori, il produttore, la costumista, lo sceneggiatore, mollemente adagiati su divani di velluto rosso, con un calice di champagne ghiacciato nelle mani levate, avevano brindato alla riuscita di quel lavoro che, sin dall’inizio, era apparso di difficile realizzazione. Poi, finalmente… Ce l’avevano fatta.
Era andata… Un po’ di baldoria ci voleva.
Avevano appena appreso che lo share era stato ottimo, sebbene il film fosse stato programmato su un canale regionale. L’euforia era al massimo.
Pacche sulle spalle e strette di mani.
Luca e Sonia avevano sfiorato i loro calici senza neppure guardarsi.
I due attori, raggianti, erano poi saliti in camera per cambiarsi d’abito, si sarebbero poi incontrati di nuovo per completare tutti insieme, con una cena, i festeggiamenti.
Non avevano inteso fare del porno, continuavano intanto a ripetersi, o raccontare una storia che accattivasse, per l’eros così tanto esaltato, un pubblico annoiato e stanco della vita, avido di pruderie, ma, piuttosto, regalare una visione diversa della vita, che sottolineasse la necessità di conservare un animo sempre predisposto all’amore. Fino al sacrificio.
In camera, intanto, mentre si andava sistemando i riccioli scuri, lunghi e lucenti, Sonia ripensava al pomeriggio, quando lei e Roberto… dopo il pranzo…
Avevano fatto l’amore per un tempo interminabile, come non accadeva più da tanto tempo, poi si era addormenta abbracciata a lui, nell’incavo del suo braccio. Quando si era svegliata, Roberto era già vestito.
- Scendo da loro, amore. Torno fra un po’. Tu intanto preparati.
Si stava preparando. La porta della camera si aprì e sull’uscio riapparve Roberto.
Si arrestò sulla soglia e la guardò: un sogno, nel suo tailleur di seta rosso porpora.
Una macchia di sangue disegnata contro il copriletto azzurro, uno splendido “rubino del fuoco” che emanava fiamme sotto la luce del lampadario della stanza.
Le si avvicinò. La seta dell’abito si insinuò fra le dita di lui, riaccendendole.
- Allora, amore, che ne dici? - gli domandò Sonia, abbracciandolo. - Pensi che siamo stati credibili come amanti, nel film?
- Tesoro mio, mi auguro che agli spettatori sia piaciuto. Credo che tutti siamo stati bravi, e noi in particolar modo, e io e te abbiamo recitato benissimo, anzi, noi non abbiamo affatto recitato… non ne avevamo bisogno. Perché noi ci amiamo davvero, come Angelica e Vinci. La nostra è stata soltanto una trasposizione sulla scena di questa nostra meravigliosa realtà. In amore non si può fingere, né mentire, lo sai. Soltanto, che a volte il lavoro ci divide, e… mi dispiace se...
- Questo è sicuro, ma io lo so che il nostro amore non cambia, per questo, e... ed io non ho provato nessun imbarazzo a mettere sotto gli occhi di tante persone la nostra… ehm… felicità. Ed anche nel girare le scene più intime, più erotiche, ora posso dirlo, mi sono sentita, come dire, a mio agio, perché, nel film, il mio amante sei stato proprio tu… Recitare con te è stato bello, perché mi ha lasciata libera di esprimermi… di essere il più possibile me stessa, oltre che Angelica… non posso pensare cosa sarebbe accaduto con un altro partner, di sicuro non ce l’avrei fatta, no, proprio non avrei saputo…
- Sei la solita meravigliosa romantica, cara. Solo tu sai leggere novembre… e solo tu sai credere nell’infinitudine dell’amore. Ma basta, ora, tesoro, con le nostre riflessioni esistenziali, giù ci aspettano, per festeggiare…
- Posso confessarti una cosa, Roberto? Sono felice che noi, dopo il film… ci siamo ritrovati, perché è così, vero? Ti amo, Roberto.
- Anch’io, Sonia. Ma ora andiamo… tesoro… ti amo….
Richiusero la porta della camera dietro di loro e dietro le loro colpe taciute e perdonate, e si avviarono per il lungo corridoio abbracciati, con le mani strettamente intrecciate.
Restò, sulla sopra coperta stropicciata di seta azzurra, un piccolo libro con l’immagine del Bacio di Hayez sulla copertina.
Il romanzo dal quale era stato tratto il film.









MARIELLA




Chissà se Angelica sarebbe morta per l’incidente, o avrebbe soltanto perso la vista. Oppure l’avrebbero guarita?
E se non era morta, chissà se Vinci l’aveva poi trovata, in quell’enorme ospedale.
E chissà come sarebbe a andato a finire quell’amore così potente, tra quei due, se lei non avesse avuto l’incidente. Mah!
L’avrei appreso all’indomani, durante la replica pomeridiana, se c’era stato un lieto fine. Certo che sì, altrimenti, come avrebbe potuto continuare quella fiction per un’altra puntata?
Come diceva mio figlio? Una happy end. E c’era da vedere ancora, per l’appunto, la seconda puntata.
Mi restavano nella mente le voci calde dei due attori che leggevano le lettere, le poesie, che raccontavano i pensieri dei protagonisti, tanto che anche gli argomenti più, come dire, scabrosi, in fondo non mi erano parsi così forti, così … impudichi!
Mi balenò l’idea di chiedere a mio figlio di insegnarmi ad usare il computer che stazionava sulla scrivania della sua stanza, sulla cui tastiera picchiettava per numerose delle sue ore libere.










ANGELICA (il romanzo)




Avrebbe riavuto l’amore di Vinci?
Un flash. Quella terribile giornata di vento. La sua piccola utilitaria che sbandava ad ogni giro di ruota, e lei che non pensava di rallentare, tanta era l’ansia di vederlo. Nel punto più alto della strada le sferzate erano tanto violente che si era sentita tremare e sbiancare.
- È l’ultima volta - si diceva - se sopravvivo, non rischierò mai più la vita per questo.
Si era morsicata le labbra per la bestemmia: come poteva pensare di negarsi e negare a lui l’estasi dei loro incontri?
A ondate la travolgevano i ricordi dei momenti più difficili, frammisti a quelli più felici.
Il giorno della nevicata, quando l’aveva fermata la polizia per controllare se avesse le catene, facendola ritardare sull’orario e tutte le volte che lui, all’ultimo momento, aveva disdetto l’appuntamento per un impegno imprevisto, e la gioia del calore delle loro pelli avvinte e di lui dentro di lei.
Forse nulla di tutto ciò si sarebbe ripetuto. Forse lui se n’era tornato a casa e non l’avrebbe più visto. Dolore su dolore.
Ed ora, gli occhi! Avrebbero saputo curarli? Come avrebbe potuto scrivere più, altrimenti? Altro che romanzo!
Poi ne udì, quasi tangibile, l’odore.
Era arrivato. Era arrivato!
Lei era già pronta per l’intervento, distesa su una lettiga, bianca sotto il lenzuolo bianco. Sembrava che le avessero tagliato i lunghi capelli biondi. No, erano stati raccolti sotto una cuffietta.
Lui le prese le mani, le strinse, se le portò alle labbra. Lei lo intravide accanto a sé, e, sebbene fosse già stordita da una preanestesia, ne avvertì l’affanno e il calore. Il dolore.
Una gioia infinita l’affrancò dall’angoscia.
Liberò una delle mani dalla stretta di quelle di Vinci e gliela passò sul viso, carezzandone i contorni, con gesti leggeri, da cieca.
- Sei qui… - sussurrò.
- Certo, amore. Andrà tutto bene, vedrai.
- Sono gli occhi, amore. Non ci vedo più, non ti vedo.
- Lo so, tra un po’ andrà tutto a posto. Io sono qui. Mi vedrai presto. Ti amo.
- Ti amo anch’io.
L’avrebbe più rivisto, quel volto amato?
Un’infermiera iniziò a spingere la lettiga verso la sala operatoria.
- È ora di andare. - disse.

MARIELLA





Al mio fianco, c’era Pasquale, riverso sullo schienale del divano, che dormiva. Mi sembrò strano: non era rimasto nella cucina a guardarsi il suo adorato sport? Era venuto di qua! E come faceva, con tutto quel fracasso del temporale, a non svegliarsi?
A dire il vero i suoni che emetteva dalla bocca, anzi, proprio dal fondo della gola, sicuramente adiposa anche all’interno come all’esterno, pareggiavano i fragori del temporale. Aveva sempre ronfato come un cinghiale, e non l’avrebbe mai smessa, pensavo sconsolata, quando, a causa di quel sordo e monotono grugnire, perdevo molte ore di sonno. Ma ci ero, ormai, così abituata, che non avrei potuto farne a meno. Mi faceva compagnia …
A queste considerazioni se ne sostituì fulminea un altra: ma, della vita di Angelica, non si diceva nulla? Delle sue solitudini tra un incontro e l’altro con Vinci?
Sul mio grembo la gonna marrone che avrei voluto allungare mentre guardavo il film si era appallottolata tutta, mentre dormicchiavo, anzi, no, mentre avevo dormito davvero profondamente. Anche se solo proprio verso la fine. Si, avevo visto fino a quando lui era arrivato nella città dove avevano portato la donna ferita.
Poi… fine della prima puntata.
Allora, con le mani, cercai il bordo superiore della stramaledetta gonna e la alzai davanti a me: non ero riuscita ad andare avanti nel cucito perché, tra la scarsa luminosità dello schermo televisivo nella stanza in penombra e una incipiente presbiopia, non avevo potuto infilare il filo di cotone nella cruna dell’ago, mi rammentai.
Era proprio l’ora di andare da un oculista, magari ne avrei incontrato uno carino come l’attore che impersonava Vinci, nella fiction… alto, asciutto, una bella chioma argentea, e una voce calda e una bocca …
Ma che andavo mai a pensare, io aveva Pasquale da quasi trenta anni, e dovevo farmelo bastare.
Però, a sognare, non è che si paga. Meditai, quasi sorridendo.
Era bello fantasticare sulla possibilità di vivere una storia d’amore così avvincente.









ANGELICA (il romanzo)




- A presto, amore …
- Certo, cuore mio, a dopo, anzi, sai, ora vedo, vengo con te, un attimo solo.
Si chinò su di lei e le baciò la fronte, poi si avviò nel corridoio.
Chiamò a casa.
- Un contrattempo - comunicò - l’auto ha avuto un grosso problema, non riesco ad arrivare in serata. Per domani mattina, si, ci vediamo domani.
Tornò accanto a lei. Gli porsero un camice ed entrò nella sala operatoria con lei.

Lei si risvegliò in piena notte, con il nero totale intorno a sé.
Gli occhi, naturalmente, erano bendati.
Lui le prese prontamente la mano.
- Tesoro, sono qui. Come va?
Le umettava le labbra, intanto, con una garza imbevuta d’acqua.
- Sei ancora qui, amore?
Aveva farfugliato lei, ancora stordita.
- Come è andato l’intervento? Tu c’eri?
- Si, amore, ero con te, ho assistito all’intervento, tutto bene, solo qualche giorno di bendaggio, poi tornerai a vedere. E domani dovranno anche ridurti la frattura ….
- Frattura? Dove? Che mi sono rotta?
- L’anca destra amore, il femore, ma andrà tutto a posto, vedrai.
- Che ore sono?
- È notte, cuore mio, cerca di dormire ancora…
- Notte? Allora tu sei rimasto qui …
- Sì, vado via domattina, ma poi torno, non preoccuparti… fra un paio di giorni sarò di nuovo qui, amore.
- Certo… ti aspetterò… per sempre …
Si riaddormentò, con la bianca mano gelida in quella calda di lui.
Sognò il momento già lontano nel tempo in cui lui era entrato nella sua vita.
Quel giorno di luglio triste ed assolato, quando aveva aperto la sua posta elettronica.
- Accetto con piacere la sua amicizia. Mi chiamo Angelica.
- Io sono Vinci, e spero che potremo conoscerci meglio. Sarò qui, domani sera, se hai la possibilità di chattare, potremo sentirci… il mio nickname è…
Così era cominciato tutto: tutta la felicità e tutto il dolore che ne erano scaturiti.
La mattina successiva lui non c’era più, ma arrivò il figlio, arrivarono gli amici.
Tornò a casa, cominciò a guarire, lentamente, e sempre più pronta per lui. Si sentivano ogni giorno al telefono, si scambiavano messaggini, si amavano ancora.
Angelica viveva solo con la speranza di poterlo incontrare ancora, presto. Non poteva essere diversamente.
Era accaduto nel corso del loro precedente appuntamento.
Era stata un’apoteosi.
Dopo, mentre si accingevano a rivestirsi, Vinci le aveva posto una domanda strana.
- Amore, non è che quando starai via, farai l’amore con qualcun altro?
Angelica sarebbe dovuta partire, a fine ottobre, per un festival poetico.
- Non dirlo neppure per scherzo, tesoro. Io amo te
- Non permettertelo, tesoro, altrimenti ti uccido.
Ah, la sua gelosia! Ma le faceva piacere, le faceva sentire di appartenergli.
Quel loro incontro aveva impressionato di erotica felicità un lungo passaggio poetico che era andato ad aggiungersi al percorso già disteso da tempo sulle pagine bianche del suo computer.
Gli aveva portato il libro, appena pubblicato, proprio la mattina di quel giorno.
Il diario del loro amore.







MARIELLA




Mi girai piano verso Pasquale e posai la mano fredda sul suo braccio, per farlo smettere di ronfare.
Lui spalancò gli occhi all’istante, si stiracchiò, poi allungò una mano verso di me, mentre mi si accostava e con l’altro braccio mi circondava la vita.
Aveva finto di dormire allora! Ah, che scemo!
- Beh, allora, ti è piaciuta la storia? E, mo’, che ne dici? Ce ne andiamo a letto? - Mi borbottò.
- Caspita, mi sono addormentata proprio alla fine. Un attimo, poso questa gonna e bevo un po’ d’acqua, poi vengo di là…
-Non tardare, ti aspetto…
-No, faccio presto.
Che aveva detto, Pasquale? Ti aspetto? Ma quando mai…!
Forse ne aveva voglia, quella sera, dopo tanto tempo. Era da un bel po’ che ci addormentavamo come fratello e sorella, senza neppure sfiorarci, dopo un - Buona notte - biascicato a fior di labbra.
Mi sforzavo di non pensarci, ma un po’ mi mancava, a dire la verità. Non era tanto per l’atto sessuale, quanto per il contatto dei corpi, il calore della pelle, dell’abbraccio. Mi mancavano. Ne ero molto delusa, cioè, lo ero stata, questo sì, ma ora non me lo raccontavo neppure più. E forse era meglio così.
Per quel che era…
Entrai nella camera da letto in penombra e mi spogliai lentamente mentre Pasquale sembrava già addormentato, coperto anche sulla testa da un lembo del lenzuolo bianco. Mi infilai sotto la coperta cautamente, per non svegliarlo.
Appena mi fui sdraiata, protetta dalla mia vecchia camicia da notte di lanetta bianca, la mano di Pasquale si avvicinò lentamente, mi prese la mano e se la posò sul basso ventre. Era nudo.
L’altra mano si diresse decisa verso il mio grembo.
- Togliamola, questa camicia, amore.
Mi sembrò un po’ timoroso, quasi si vergognasse …
- Com’è che hai detto? Come mi hai chiamata?
- Amore, ti ho chiamata, perché, non lo sei più?
- Si, certo che lo sono… amore…
- Vieni qui, anzi, no, aspetta …
- Aspetto? Cosa? Pasquale…?
- Com’è che facevano l’amore, quei due, Vinci ed Angelica? Vediamo un po’ se riusciamo a…
Si chinò su di me, iniziò a baciarmi il collo, poi sempre più giù, i seni, poi ancora più giù…
Cominciai a tremare per un calore improvviso. Cominciai a sognare.
Un sogno nuovo, diverso, finalmente.
Al diavolo quella stupida fiction! E al diavolo la mia stupida gonna marrone!
L’indomani, mi ripromisi, sarei andata dal parrucchiere a farmi sistemare i capelli. Basta con la testa da befana.
- Ah, vedi di prenotarlo, domani mattina, quel viaggio che volevi fare, tesoro, buonanotte - mi sentii bofonchiare, dopo, all’orecchio, mentre la sua mano cercava la mia e la stringeva forte.













ANGELICA (il romanzo)



Ottobre terminò.
Lui non tornò, come le aveva promesso.
Al telefono le spiegò, con poche parole confuse, di certi improvvisi impegni.
Dopo il ritorno a casa, durante la lenta ma progressiva convalescenza, quasi inavvertitamente iniziarono a diminuire, da parte di Vinci, i messaggi, le telefonate, le parole d’amore.
I giorni si erano ormai notevolmente accorciati e folte nubi oscuravano il cielo. Arrivò dicembre. Tornarono il maestrale, il gelo e, sugli Appennini, la neve.
Che stava accadendo?
La pioggia immalinconiva il cortile deserto. Ingrigiva l’anima.
- Quando ci vediamo, amore? Io ho bisogno di te… io ti amo.
- Presto, tesoro, non mi sto sentendo tanto bene… ti amo anch’io.
A volte non le rispondeva neppure, quando lei gli telefonava.
La sua voce, distaccata, impersonale. Sempre di più.
Impazziva.
Lo chiamava, lo supplicava, ma Vinci non era mai disponibile.
-Presto, forse, spero, amore. Poi, ora è Natale, sai quanto da fare ho a Natale…
…Gli impegni, la salute… E, poi, tanta strada per vedersi, ogni volta più di duecento chilometri, fra andata e ritorno, dal suo paese a quello dei loro incontri… troppi, per lui. Stava invecchiando.
Stronzate. Lei ne percorreva molti di più, ogni volta, avvertendo tutte le pericolosità del percorso, ma senza rammaricarsene mai…
Man mano che i giorni passavano, iniziarono a sommarsi le settimane, divennero mesi. La galassia d’amore nella quale aveva fluttuato per poco più di tre brevissimi anni, deflagrava in mille buchi neri.
Lui non le scriveva, né le telefonava più.
Il gelo e l’oscurità inondavano le stanze e il cuore.
Lo chiamava lei.
- Amore, che succede? Voglio vederti.
- Mah…
- Voglio vederti.
- Amore… non sto bene
- Voglio vederti.
Aveva pensato, sino a qualche tempo prima, di conoscerlo bene.
Lui stesso se ne compiaceva.
- Ormai, amore, solo tu mi conosci davvero, solo con te parlo di me, solo a te dico tutto, di me…
Non lo conosceva affatto. Non aveva capito niente.
Bastardo.
Se avesse potuto, l’avrebbe ucciso. Pugnalato. Spinto giù da un dirupo. Sparato.
Ricordava la sua gelosia. Dov’era finita? Com’era possibile cambiare così tanto in così poco tempo?
Nello stomaco, un groviglio di vipere.
Più passavano i giorni e le settimane e i mesi, più lo stomaco e la testa e il cuore impazzivano.
Gli occhi le si offuscavano.
La casa era buia, silenziosa, ostile.
Le pareva che nulla si fosse compiuto, nella sua vita: il matrimonio spezzato, i figli che l’amavano e che lei amava tenacemente lontani, l’amore l’aveva vissuto sempre soltanto a piccoli sorsi. Lei stessa era un’incompiuta, e non aveva realizzato nulla, nella sua vita, si diceva. E non c’erano né un luogo, né una persona che l’accogliessero per sempre.

Si infilava, qualche volta, nella sua macchinetta bianca e guidava verso la litoranea, raggiungendo i posti più isolati, laddove il mare invernale, cupo ed agitato, si infrangeva contro la scogliera.
Le alte creste bianche delle onde infuriate sembravano spingersi fino al cielo confondendosi con i densi nuvoloni scuri.
Nel fragore che l’assordava, i suoi pensieri si intessevano di rabbia, di malinconia, di nostalgia.
Una mattina, mentre era alla guida dell’auto, la striscia bianca di mezzeria alla sua sinistra iniziò a deviare verso destra, anzi, no, si biforcava proprio. Pareva che la indirizzasse verso la cunetta a bordo strada. Il dolore la stava accecando?
Ebbe paura.
L’unico sentimento che provava, ora, era una enorme fottutissima paura.
Le faceva paura guidare e le facevano paura e orrore la solitudine, il silenzio e il gelo invernale.
Allora accendeva il televisore giorno e notte. Neppure ne udiva i suoni.
E uno scaldino elettrico che ronzava e scaldava la cucina.
Si nutriva disordinatamente, un bicchiere di vino sempre pronto, per stordirsi.
Non usciva di casa se non per acquistare qualche alimento e le sigarette, altrimenti non si lavava né si cambiava neppure, abulica e noncurante.
L’appartamento in un disordine cosmico.

Si aggirava nelle stanze come un’estranea, come se vivesse lì dentro per caso, fra quei mobili che tanto aveva amato e quegli scaffali sui quali stazionavano alla rinfusa souvenir riportati dai viaggi e infinite file e pile di quei libri che aveva scelto per anni con tanta cura e che, ora, pareva non le appartenessero più. Ammutoliti e disordinati come il suo cuore.
La opprimeva il “come” Vinci avesse concluso la loro storia, più che il fatto che l’avesse conclusa. Uno strappo feroce.
Lei era sempre stata più che consapevole che un giorno o l’altro sarebbe giunta la fine, ma avrebbe voluto che lui glielo dicesse in una volta sola, chiaramente, senza quello stillicidio del “vedremo, quando starò meglio” e tutte le altre scuse che per sei mesi, sei lunghi e atroci mesi, aveva addotto.
Che razza di vigliacco!
Stava delirando? Dopo averlo amato tanto, dopo aver creduto di amarlo tanto, ora lo vedeva solo come un nemico. Lo odiò.









LARA




Sabato sera. Ore diciannove.
Avevano appuntamento per le otto.
Un’oretta sarebbe stata sufficiente per i suoi acquisti, prima di incontrare Guido.
Aveva ripreso a nevicare a larghe falde, nel pomeriggio. Una neve lenta ma costante, poi aveva smesso. Il freddo della sera ghiacciava le strade.
Lara si era chiesta se fosse proprio il caso di andare in giro con quel tempo, però, poi, aveva deciso che, insomma, non era la prima volta che camminava nella neve. Dalle sue parti era normale.
In realtà era ansiosa di incontrare Guido...
Si sorprese della limpidezza di quel suo nuovo desiderio.
Si era avviata intorno alle sei e mezza verso il centro, dove si trovava la maggior parte dei negozi, e, dopo aver sbrigato le sue piccole commissioni, si accinse al ritorno.
Mancavano venti minuti alle otto.
Aveva tutto il tempo necessario per arrivare nei pressi di casa. Era lì che dovevano incontrarsi.
Guido di certo già la stava aspettando e lei desiderava vederlo, stringersi a lui, baciarlo sulla bocca, raccontargli di aver scoperto di amarlo…
Lui le aveva preannunciato una sorpresa. Altri cioccolatini?
Si incamminò lungo il viale che costeggiava il folto boschetto quasi al limite del paese.
Sotto le luci soffuse dei lampioni, Lara rabbrividì nella strada deserta innevata.
Era sola.
Nel silenzio della neve e della notte incipiente soltanto qualche puff puff puff causato dai piccoli accumuli tra i rami che decidevano all’improvviso di cascare, qualcuno anche su di lei.
Un uccelletto intirizzito saltellava sulla neve.
Lara allungò il passo stringendo fra le mani il sacchetto di plastica contenente ciò che aveva acquistato: un paio di penne, un quaderno, delle matite colorate, ma, allo stesso tempo, temendo di scivolare sulla neve ghiacciata, non poteva affrettarsi più di tanto.
Proseguiva con cautela, sondando la neve per evitare le chiazze ghiacciate, ma con tanta ansia di vederlo …







ANGELICA (il romanzo)




Il dolore le trapanava la testa, poi si raggrumava e le scendeva nella gola, infine si fermava nello stomaco che divenne ben presto un grosso masso. Quel dolore l’avrebbe distrutta, lo sapeva, l’avrebbe uccisa.
Smise di nutrirsi perché quel masso impediva al cibo, persino ad un sorso d’acqua, di passare.
Non occorreva avere un pistola e sparare, per uccidere.
Bastava essere negati e rinnegati, per sentirsi morire.
Bisognava condannarle a morte, le persone che rinnegavano e uccidevano l’amore.
Uno shock, come se fosse stata investita da un camion, da uno tsunami. Un trauma irreversibile. Un altro trauma irreversibile, possibile?
Anche Vinci, come spesso accadeva, aveva cercato e vissuto con lei soltanto una stupida avventura?
E, dunque, tutte quelle sue meravigliose parole d’amore erano state solo una menzogna?
Non poteva crederci, quelle parole erano tutte lì, archiviate nel suo computer.
Lei aveva salvato tutte le loro conversazioni, ricopiato quasi tutti i suoi messaggini in una sotto-cartella nascosta in un’altra cartella, sul desktop del computer.
Testimoniavano un grande attaccamento, era indubbio. Era innegabile.
Nessuno saprebbe e potrebbe fingere così bene…
Nessuno dovrebbe farlo.
E aveva ancora tutte le loro foto e i filmini…
Se li riguardava, ogni tanto, cercando la verità nel volto estatico di Vinci fotografato, filmato, mentre si amavano. Ricordando il suo prolungato gemito di piacere, quasi un pianto, quando la inondava.
Non riusciva a razionalizzare, ad accettare che lui non volesse più vederla. Immaginava che solo un altrettanto grande amore aveva potuto distrarlo da lei. Lo visualizzava mentre faceva l’amore con un’altra.
Dava volto e voce a quell’altra. Una bionda, sicuramente, a lui piacevano le bionde, una piccolina - a lui piacevano le donne piccole - da “avvolgere” tutta.
Ora era sicura di aver capito chi fosse, Vinci.
Di sicuro non era un serial killer, ma uno scopatore seriale, quello, forse, sì. Anzi, sicuramente lo era. Non le aveva raccontato perfino qualcuna delle sue precedenti avventure? Che scema era stata, a credere che lei potesse essere l’ultimo amore della sua vita!
Il dubbio e la gelosia la dilaniavano.
E neppure più un verso, né dal cuore, né dal cervello.
Si domandò quando avesse sofferto così tanto, prima.
Tante volte, ma mai in maniera così violenta.
Neppure quando aveva scoperto che il marito la tradiva.
Neppure quando aveva capito che non era stata la prima volta.
Allora se ne era andata, semplicemente, giacché lui aveva tradito non soltanto lei, ma la sua idea del matrimonio e dell’amore.
Indissolubili, certo, ma soltanto se si teneva fede insieme ad un progetto di convergenza. Una strada comune.
Allora, tanto tempo prima, era entrata nell’inferno.
Poi qualcuno era entrato nella sua vita e l’aveva posta su un piedistallo, riconoscendola …
Allora, tanto tempo prima, si era costruita, pian piano, un’altra esistenza.
Si era data allo studio e alla scrittura.
Aveva amato ancora, ma mai come, ora, amava ancora Vinci.
E, ora, cosa avrebbe fatto?
Chi le avrebbe ricolmato la mente l’anima il grembo?
Di quali ricordi avvalersi? Come cancellare quelli dolorosi?
Come ci si poteva ridurre, per amore! Alla morte dell’anima, come era accaduto ad Eloisa, tanti secoli prima, quando Abelardo l’aveva costretta a rinchiudersi nel convento.
Oh, quale ingiustizia, il sentirsi morire prima di morire!
Poi, un giorno, dalle brume della memoria, un flash.
Ricordò i suoi quasi diciassette anni.
Frequentava il penultimo ultimo anno della scuola superiore.
Era una ragazzina in attesa dell’amore.
Rivide il giovane volto di Marco.
Riudì le sue antiche parole, così dolce e tenere alle sue orecchie di giovanetta assetata d’amore.
Nient’altro che un bacio, forse, con lui.
Un mese di gioia pura, autentica, meravigliosa.
- Avremo una cucina con i mattoni in gres porcellanato rosso …
Un solo mese. La madre di Marco gli aveva proibito di rivederla. Si era fatta cogliere da un attacco di cuore, per convincerlo, qualcuno le aveva raccontato, in seguito.
Lui aveva obbedito.
Non l’aveva più visto.
Quello era stato l’inizio del suo “destino”?
Ad Angelica, innumerevoli anni prima, era scoppiato il cuore.
Come, ora.
Ah, se avesse potuto cancellare tutto quel nero su bianco che aveva scritto per lui e con lui, forse quell’amore e quel dolore si sarebbero disciolti come sulla pagina le parole! Una volta, tanto tempo addietro, aveva elaborato una poesia dal titolo “Epilogo scritto a matita”, ipotizzando che, usando una matita per scrivere, anziché una penna, sarebbe bastata una gomma per cancellare, sulla pagina e nella realtà, una sorte infausta. Arzigogoli letterari!
Impossibile depennare la loro storia, scritta e pubblicata! Ci sarebbe andata più leggera, con la mano, con le parole, con il cuore, con la passione, in futuro.
Giornate intere senza udire una sola voce umana. Giornate assurde, macabre, tombali.






LARA



Sabato sera. Cinque minuti alle venti.
Pensava al romanzo, mentre si recava incontro a Guido.
Anche Angelica si muoveva nella neve per raggiungere il suo amato. Ne avrebbe terminato la lettura al più presto, si ripromise, magari l’indomani, di domenica aveva sempre un po’ più di tempo per sé.
Tutti si muovevano, nella vita, anche sfidando imprevedibili pericoli, per conquistare la propria felicità.
Come le tartarughine appena nate che, uscite faticosamente dal loro guscio, si scrollavano di dosso la sabbia e, istintivamente, correvano verso il mare.
Era anche lei una tartarughina, che intravedeva in Guido una qualche felicità. Una possibilità di felicità, dopo tanto dolore. E gli andava incontro, con tutta la sua fiducia racchiusa in un giubbino rosa.
Camminava nel buio e nel silenzio, pregustando Guido.
Il suo abbraccio caldo.
Nessuno per strada.
L’uccelletto era volato via.
Sarebbe stata sola soltanto per altri cinque minuti.
Poi, Guido, con lei, per sempre.

Accadde a metà del viale.
Non si era accorta di nulla. Non aveva visto nessuno né udito alcun rumore…
Una mano le afferrò con forza il braccio destro e la trascinò furiosamente tra i cespugli e gli alberi del boschetto, mentre altre mani la spingevano.
Udì il sussurrio di brusche voci concitate: - Presto, forza, e tu stai zitta. Zitta, capito?
Poi una di quelle mani le tappò la bocca.
Fu scaraventata a terra, dietro un folto cespuglio di pitosforo.
- Apri le gambe, bella, forza… Apri! E dai, apriii…
Uno le stava ginocchioni davanti e cercava di sfilarle le calze, gli altri due le tenevano ferme le braccia, un’altra mano le copriva ancora la bocca con violenza …
Un’altra sugli occhi.
- Fai presto, porca mise… che dopo tocca a noi…

Un urlo animalesco irruppe in tutto quell’osceno bisbigliare.
A corpo morto Guido si gettò su quello che stava inginocchiato davanti a Lara sferrando pugni all’impazzata. Gli altri due mollarono la presa e si precipitarono sui due corpi ammassati.
Brevi momenti di lotta affannosa. La voce disperata di Guido nelle tenebre.
Qualche istante dopo, tutto si fermò.
Le foglie degli alberi si arrestarono, i fiocchi di neve si arrestarono, i suoni lontani del paese si arrestarono.
Mentre i tre fuggivano, Guido crollò sul corpo di Lara.
Un filo rosso gli attraversava il collo e si allargava sempre più …
- Guido, alzati, tesoro, è finita, sono scappati.
Lo scuoteva dolcemente …
- Guido …
- Guido? Guidooooooo!

Restarono così, un groviglio, sul gelido letto di neve e di foglie, abbracciati per la prima volta come due amanti, per l’ultima volta, mentre il grido di Lara risvegliava la valle.
Dallo zaino di Guido era fuoriuscito un piccolo computer.
Il dono per la sua Lara.
Il computer era scivolato sulla chiazza calda del suo sangue.
Ai soccorritori quella chiazza sulla neve sembrò un drappo di seta color porpora.









ANGELICA (il romanzo)




- Ci colleghiamo con il nostro inviato da…, dove qualche minuto fa è stato commesso un orrendo omicidio… (orrendo… perché, esistevano omicidi non orrendi?). Un giovane di circa venti anni è stato barbaramente assassinato (barbaramente… perché, esistevano assassinii non barbari?) mentre difendeva strenuamente la sua fidanzata da un tentativo di stupro. Gli aggressori, almeno due o tre, con un coltello gli hanno reciso la gola… egli si è abbattuto sul corpo della ragazza, che chiameremo Lara e…
Angelica era seduta dinanzi al suo portatile, posato sul tavolo della cucina. Di fronte a lei, sulla cassettiera, la TV accesa. Il telegiornale. Un panino al tonno sul piatto. Nell’abisso di crudele silenzio che colmava la sua casa, irruppero alcune voci concitate.
Sullo schermo, tra alberi, neve, cameraman, giornalisti e poliziotti, si intravide il volto folgorato di una ragazza bionda, dall’apparente età di sedici anni o poco più.
Subito dopo la telecamera aveva inquadrato le sue mani insanguinate, qualche goccia di sangue anche sul viso e sui capelli castani striati di biondo, sconvolti.
Sul video, in primo piano per un’istante, la sua muta disperazione. Il suo racconto sbrecciato.
Dio mio! Quel viso… Chi era? Ma era la ragazza del bar nel quale lei e Vinci prendevano il caffè, il sabato mattina, prima di recarsi nel loro paradiso… Com’era possibile?
Lara si chiamava, dunque, Angelica non l’aveva mai saputo.
O, forse, era un nome fittizio, per rispettarne la privacy.
Una ragazza che sorrideva sempre, quando prendeva l’ordinazione, poi mentre posava le tazzine bollenti sui piattini, e poi chiedeva, gentilmente - Acqua? Liscia, vero?- Una giornalista decisamente inopportuna le stava chiedendo - Come si sente, ora?
Angelica crollò su una sedia, inorridita e inebetita, mentre seguiva le immagini e ascoltava il resoconto dettagliato del cronista televisivo.
Dio mio, tutto era assolutamente pazzesco!
- Pochi minuti fa - aveva detto il tizio, durante il telegiornale delle venti del secondo sabato di febbraio. C’era la neve… il gelo… dappertutto…
Com’era accaduto? Perché era accaduto?
Tutti gli amori finiscono, in qualche modo?
Era l’amore ad uccidere le persone, oppure erano le persone che uccidevano l’amore?
Era questo il destino dell’amore? Quello di morire, in qualche modo?
A chi era riservata la felicità?









LINA




Non volle essere presente al processo che vedeva sul banco degli imputati i tre delinquenti.
Erano stati acciuffati presto, ancora ubriachi e con le tracce del sangue di Guido sugli abiti e sulle mani.
Nel corso di un interrogatorio a tu per tu con un giudice, Lina si limitò a dire che non li conosceva, e, difatti, erano arrivati da un altro paese.
Uno dei tre, riferivano i cronisti nei vari servizi televisivi che seguivano il caso morbosamente, aveva tentato di affermare che era stata la ragazza a fermarli, a invitarli, ma gli altri due si erano chiusi in un silenzio osceno. Non avevano né confermato, né negato.
Vagò per lunghi mesi in una nebulosa fatta di incubi e di sogni spezzati, tra feroci fitte di dolore e larghi squarci di pazzia, prima di poter riprendere una qualche forma di vita normale.
Fu un tempo colmo di silenzi e di assillanti domande che non avevano risposte.
Spesso le si presentavano alla mente i ricordi - insieme agli incubi delle scene di quella raccapricciante sera - di quel meraviglioso futuro che non aveva potuto vivere, ma, in parte, soltanto immaginare: l’abbraccio infinito di Guido che la sorte aveva troncato sul nascere.
La dolcezza che si era prefigurata e che non aveva potuto assaporare.
Allora le veniva soltanto voglia di urlare, di morire anche lei.
Doveva elaborare il lutto, la rassicurava lo psicologo, ci voleva pazienza.
Il tempo l’avrebbe guarita. Le solite frasi consolatorie.
Trascorsero, lentamente, la primavera e l’estate, prive di colori e di calore. Dimenticata del tutto la fascinazione del mare.
Il suo pensiero non travalicava più la corona dei colli che ora si avviavano ad ammantarsi del dorato colore dell’autunno.
Quasi non provasse più nessuna emozione, nessun desiderio.
Non riprese neppure la lettura del romanzo. Al diavolo, il romanzo, la lettura, le stronzate.
Solo il dolore era vivo e tangibile. Quello la teneva in vita, e sapeva che non l’avrebbe mai abbandonata. Il massacro continuava.
Tornò la neve. Lei restò chiusa in casa per tutto l’inverno.
La madre le teneva la mano, affranta.






ANGELICA (il romanzo)




La mattina successiva, dopo una lunga nottata insonne e un’ennesima sterile conversazione con Vinci, al quale aveva raccontato la sciagura accaduta alla ragazza del bar (Chi? - lui aveva domandato, distante anni luce dai loro due di un tempo) e poi gli aveva chiesto ancora una volta quando si sarebbero visti, se si sarebbero rivisti, alla sua risposta sempre reticente qualcosa si spense in lei, per poi riaccendersi e deflagrare.
In preda ad una razionale follia, capì che doveva fare qualcosa.
Doveva cercarle dentro di sé le ragioni del suo amore sconfitto e del suo dolore infinito.
Ma, come?
Rivisse tutta la sua vita. Rilesse tutta la sua poesia.
Ricordò ciò che aveva detto a Vinci tanto tempo prima.
- Sai, scrivendo, e solo scrivendo, si può decidere un percorso, scegliere un destino… per il resto noi non contiamo molto. Non la scriviamo noi la vita, perlomeno, non esattamente da soli.

In ultimo rivide la giovane urlante nella neve, alla quale il destino, il famoso deus ex machina, aveva sottratto l’amore.
Ce ne sarebbe stato un altro, per la ragazzina del bar?
Comprese.
Lo doveva a Lara, e lo doveva a se stessa.
Doveva salvare entrambe dall’oblio …
Doveva usare le parole.
Prima per uccidere e poi per rinascere.

(Solo chi scende nelle viscere dell’inferno può scrivere poesia – le aveva sussurrato tanto tempo addietro l’amico poeta vietnamita, mentre ascoltavano i versi aridi e inutili di una loro collega).

Loro due avevano raggiunto il fondo. L’inferno. Ora dovevano risalire.
Si sottopose ad una lunga doccia alternando acqua bollente ad acqua gelida, pettinò accuratamente i lunghi capelli biondi, li accomodò in una crocchia sulla nuca, si vestì, orlò gli occhi di nero.
Spalancò tutte le finestre per arieggiare le stanze sature del fumo e del tanfo delle innumerevoli sigarette consumate, ripulì e riordinò con cura l’appartamento, poi si recò al supermercato per un approvvigionamento alimentare decente.
Non ne poteva più di uova tonno e pomodori.
Nel pomeriggio, dopo un breve riposo, si sedette con calma dinanzi al computer, lo accese, lesse la posta, entrò in internet, indagò in alcuni link, rilesse il “loro” poema, già pubblicato l’anno precedente, aprì alcuni dei file contenenti molte delle conversazioni online che aveva scambiato con Vinci soprattutto nel primo anno della loro relazione, poi riguardò con rabbia e tenerezza le foto e i video che li mostravano amanti, e dopo un solo minuto di ripensamento, gettò nel cestino del p. c., con calma, tutto il materiale che testimoniava quell’amore, ormai finito.
Morto. Da seppellire.
Infine aprì con decisione un nuovo documento di Word, sullo schermo del computer.
Era tempo di chiudere, per ricominciare.
Avrebbe dato al mondo dei lettori la sua storia.
Al mondo delle lettrici, soprattutto, poiché erano le donne che volevano leggere di ciò che non conoscevano o non si permettevano.
Di ciò di cui non parlavano e di cui non chiedevano.
Del loro dolore .
Lei avrebbe fornito loro una storia vera. La vita delle donne, quella vera, reale, non quella televisiva, che aveva sempre un lieto fine.
Quella intrisa, quasi sempre, di infelicità.
E, probabilmente, narrare la storia di Lara e la propria, impregnate entrambe di amori, di disperazioni, di presenze e di assenze, storie come tante, in fondo, le avrebbe finalmente consentito di riconoscere ed accettare fino in fondo quella verità che aveva sempre avuto dentro di sé.
Aveva amato Vinci, l’aveva amato davvero e tanto, affinché potesse diventare uno strumento.
Per il suo piacere. I suoi piaceri. Quello erotico e quello della scrittura.
Grazie a lui aveva scritto quel poema faticoso e meraviglioso.
Come altre volte già era accaduto.
Non era stato certo il primo: decise che lui doveva saperlo …
Anche se le altre volte ci aveva impiegato meno tempo a disamorarsi, perché solo con lui aveva conosciuto, per la prima volta nella sua vita, l’apoteosi dell’eros e l’estasi.
Poi, aveva conosciuto il dolore infinito della perdita. L’inferno.
Lui era stato bravo.
Eros e Logos. E Pathos.
Questo era stato. Questo era.
L’Eros era Energia pura, che, per sprigionarsi, aveva bisogno del suo contrario, del Pathos. Lo strazio della mente, insieme a quello del cuore.
Lei, inseminata, partoriva, nel dolore, i suoi versi.
Lei, dunque, l’aveva amato solo per poter scrivere? Ebbene, si, doveva convincersene.
Nessuno avrebbe potuto capire questo percorso.
Nulla accade senza una ragione, ma tutti hanno bisogno di visioni. Di illusioni.
E di un credo. Di una fede. Di una logica astratta. Irrazionale.
Quasi da doverlo ringraziare per essere entrato nella sua vita: roba anche da riderci, fino alla fine dei giorni.

Ma sarebbe passata anche questa. Questo episodio. Quest’Ade.
E, tuttavia, come lei lo aveva inventato, sulla pagina e nel suo cuore, tre anni prima, così lei, ora, doveva smitizzarlo, minimizzarlo, rinnegarlo.
Scacciarlo dal cuore.
Cancellarlo dalla pagina.
Come un’Ape Regina.
L’Ape Regina sugge la vita dai suoi amanti.
L’Ape Regina non ama. Usa e divora.

“La regina in una giornata calda e soleggiata vola fuori dell'alveare per accoppiarsi con 12-15 fuchi … È il volo nuziale … ”












LINA




Era autunno inoltrato. Aveva ripreso a frequentare la scuola, sarebbe stato l’ultimo anno. Frugando svogliatamente tra i libri, ritrovò il libro che non aveva terminato di leggere. Il romanzo di Angelica e Vinci. Lo riaprì.
L’aveva lasciato al punto in cui Vinci salutava Angelica, in ospedale, promettendole di ritornare presto. Era tornato? Gli occhi si posarono sull’inizio del capitolo.

…Lui non tornò. Al telefono le spiegò, con poche parole confuse, di improvvisi impegni. Dopo il suo ritorno a casa, durante la lenta ma progressiva convalescenza, quasi inavvertitamente iniziarono a diminuire i suoi messaggi, le telefonate, le parole d’amore. Che stava accadendo?
- Quando ci vediamo, amore? Io ho bisogno di te … io ti amo.
- Presto, tesoro, non mi sto sentendo tanto bene … ti amo anch’io.
A volte non le rispondeva neppure, quando lei gli telefonava.
La sua voce, distaccata, impersonale. Sempre di più.
Impazziva.
[…]Non le scriveva, né le telefonava più.

Ah, così era andata a finire? Dopo tanto amore e tante parole? Tante promesse? Ma, il “per sempre”, davvero non esisteva da nessuna parte?
Lina si morse le labbra. Ecco un’altra che soffriva, come lei soffriva, come lei aveva perso tutto. Più o meno di lei?
Si identificò con Angelica. Avrebbe voluto che Guido la lasciasse, piuttosto che vederlo morire in quel modo? Perderlo da vivo sarebbe stato meglio o peggio dell’averlo perso in quel modo orrendo?
Di tutte le tartarughine che corrono verso il mare, molte non ce la fanno. Muoiono preda di falchi e avvoltoi.
Quelle più fortunate raggiungono l’acqua.
La vita.
La felicità.
A ognuna il proprio destino.








ANGELICA (il romanzo)





Si aggirò nelle stanze, passando in rassegna la mole di libri che aveva accumulato negli anni saccheggiando tutte le librerie del territorio. Alle storie d’amore si erano aggiunti, nel tempo, anche testi di economia, di politica, di storia, di filosofia. E tanti poeti, tanti!
Sorrise, pensando alle sue letture adolescenziali e poi a quelle della giovinezza e anche della maturità.
Tutte quelle eroine per amore! Erano state loro le colpevoli del suo aver idealizzato tanto l’amore? Sentì di doverle perdonare per perdonare anche se stessa. In fondo, si trattava semplicemente di storie letterarie.
Nulla di reale. O forse no?
Sedette finalmente dinanzi al computer e iniziò a scrivere.
Dopo, soltanto dopo aver scritto tutto, avrebbe pensato al titolo.
Ci avrebbe pensato con calma.
Prima, la storia.
Una storia nella quale anche la piccola Lara avrebbe avuto un ruolo.

Scrisse forsennatamente per oltre un mese, nutrendosi appena e dormendo soltanto proprio quando sentiva di non farcela più, e man mano che scriveva e riviveva tutta la sua passata felicità e tutta la sua nuova pena, il dolore nello stomaco lentamente si scioglieva e subito dopo anche il cuore iniziò a pulsare più regolarmente.
Avrebbe ancora sofferto per un po’, naturalmente - il cuore non era certo un robot da accendere e spegnere a comando - però la sua mente riusciva pian piano a divergere dal pensiero ossessivo di lui, a razionalizzare gli eventi e ad elaborare “il lutto”, e iniziava anche a disegnare e a sorridere a nuovi progetti.
Anche il dolore, a volte, è segno di esistenza in vita.
Del resto, al dolore, le donne, ci si abituano. Ne aveva conosciute molte, per il suo lavoro. Ne rivide, di alcune, i volti stanchi, segnati, delusi, depressi. Poche, felici. Possibile che fosse così facile ferire una donna?

Chiuse il documento, dopo averlo riletto e corretto una decina di volte, aggiungendo ogni volta il racconto di una particolare sensazione, di un altro passaggio, scavato nella memoria, della sofferenza dal cuore al cervello, dal grembo vuoto agli occhi indomati.
La mattina successiva all’ultimo giorno di lavoro, un giorno assolato e senza vento, era già quasi estate, dopo aver preso un caffè ed essersi accesa una sigaretta, digitò sul cellulare un numero.
- Il dottor Iacobellis? Salve, dottore. Si, sono io. Vorrei un appuntamento, per una visita. Credo che i miei occhi abbiano bisogno di una controllata. Non ci vedo molto bene. Cataratta, forse? Può essere? Quando? Domani? Grazie, verrò.

Si recò sul balcone assolato, quello che si affacciava sull’intenso verde di giugno: nell’aria ricca di profumi lo svolazzare delle api in cerca di nettare da consegnare alla Regina.
Offrì il corpo al sole e spalancò alla luce la sua anima.
Ce l’avrebbe fatta. Da sola.













LINA





Aveva terminato la lettura del romanzo senza più l’interesse di un tempo.
Se la vita andava così, a che serviva vederla stampata anche sulle pagine di un romanzo?
Lo ultimò a fatica, anche se le era tanto piaciuto, prima.
La disperazione si era tramutata adagio in una incancellabile tristezza che nascondeva con un trucco degli occhi neppure tanto giovanile.
Sulle palpebre e intorno ai grandi occhi scuri dominava il nero.
Anche il suo corpo era cambiato, si era molto assottigliato, somigliava sempre più ad un giunco, come se quella tempesta dell’anima l’avesse modellato a suo piacimento come fa il vento di maestrale con i tronchi degli ulivi.
Infine, pian piano, aveva ripreso ad accudire la madre, a frequentare la scuola, a servire part time, nel bar, gli anonimi camionisti di passaggio, a rispondere con un sorriso al loro misurato saluto.
La sera, rannicchiata sotto le coperte, accarezzava sopra pensiero il piccolo computer che Guido aveva comprato per lei e che le aveva donato posato sul proprio sangue. Era come se accarezzasse il volto stesso di Guido.
Si riconciliò con il romanzo. Aveva riposto il libro sotto il bancone, in attesa che i due amanti tornassero e lo richiedessero. Lei glielo avrebbe riconsegnato. Forse. Oppure avrebbe mentito, negando di averlo trovato lì, nel bar.
Lo riteneva, ormai, pressoché suo.
Era pur sempre il romanzo che l’aveva avvicinata a Guido.
Ma era ormai un sacco di tempo che non li vedeva.
Non erano più tornati, probabilmente. Lei non aveva lavorato nel Bar del Corso per molti mesi.
Non poteva sapere.
Desiderò conservarlo per sé, per rileggere, ogni tanto, le parole che l’avevano condotta a lui.
Per rivivere attraverso quella strana e inverosimile storia d’amore raccontata nel romanzo lo sbocciare imperioso del suo amore per Guido.
Del suo fulmineo e tenero desiderio di lui …
Anche se quel finale così mortale … anche quell’amore era finito, dunque.
Una mattina di inizio inverno, già fredda, ma inondata di sole, attese che la clientela della prima ora diradasse, poi iniziò a leggere.
A rileggere …




“L’AMORE, AL TEMPO DELLA RETE”
(titolo provvisorio)



“La lunga auto grigio ferro di Vinci si accostò con un sospiro riluttante al marciapiedi, dietro l’utilitaria chiara di Angelica.
Piccole frange di gelo si levarono dal pianale inerpicandosi alle caviglie di lei, per poi farsi strada lungo le gambe sino alla vita, sostare nella sospensione improvvisa del cuore, raggiungere il brusco vuoto del cervello.
Un’altra separazione!
- Ti amo. Vai piano, amore. Ci sentiamo più tardi.
- Si, amore, certo, non preoccuparti. Ti amo.
Angelica lo baciò ancora una volta, poi lasciò la mano rassicurante di lui, si costrinse a scendere dall’auto e s’infilò silenziosa nella sua piccolina, calda di sole. Sintonizzò la radio su Rai tre, poi la spense, era in onda la pubblicità, e infilò un cd nell’apposita fessura […]”.

Chiuse il libro e restò per qualche istante soprappensiero, poi guardò il piccolo computer. Lo accarezzò e ne sollevò lo schermo.
Guido non aveva potuto mostrarle come farlo funzionare, ma lei ce l’avrebbe fatta. Da sola.
Spinse il pulsante di accensione. Lo schermo si illuminò mostrando una piccola casa di legno circondata da abeti in un fazzoletto di sole.
Sorrise. Appena. Senza neppure accorgersene.

La tartarughina avrebbe raggiunto il mare …









ANGELICA (il romanzo)




Si vestì e truccò di tutto punto. Si infilò nella macchinetta bianca. Meta: il supermercato.
Acquistò un mucchio di cibarie: frutta, verdure e ortaggi, carne, frutti di mare, latticini, uova, farina, latte, formaggi vari, tutto ciò che le passò per la mente che potesse servire per i manicaretti di un tempo.
Si figurò le composizioni nei piatti, le fragranze, i colori …

Ce n’erano di persone care che avrebbero apprezzato. Avvertì forte il loro calore.




Id: 4964 Data: 29/09/2020 19:26:33