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Raccolta di testi in prosa di Alessandro Amoresano
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

Titoli di coda

Se qualcuno avesse chiesto in città di quella storia, nessuno avrebbe saputo rispondere. Non la conoscevano, suonava strana e assurda a sentirsi, e nemmeno si sarebbero incuriositi sentendola raccontare. Nemmeno si sarebbero incuriositi…

Lei si chiamava Astrea ed abitava in viale delle Acacie, in un palazzo ricoperto di edera con una torretta antica dalla quale si divertiva a giocare con il suo fratellino più piccolo. Pirati, navi spaziali, principesse, balli di corte e vecchie canzoni! Se ne immaginavano tante in quella casa, inseguendosi tra i corridoi, ammirando il mare in lontananza e sognando un giorno di fuggire a cavallo di un rampicante albero verde con fiori blu a forma di carrozza, trainato da mille e mille margherite rosa e viola a forma di delfini.

Sin da piccola, aveva ricevuto una strana educazione cinematografica. Non tanto in fatto di gusti, quanto in fatto di percorsi.

“Mamma! Perché non andiamo nel cinema vicino casa? Mi fanno male i piedi!”

“Un giorno te lo dirò! E poi guarda! Siamo quasi arrivati!”

“Si ma quell’altro era più vicino casa! Non dovevamo prendere la metro!”

Ogni volta era questo, traversate di strade, vicoli e quartieri per un film, e Astrea non riusciva a comprendere il perché. Perché i chilometri per un cartone animato. Perché quattro fermate per un musical. Perché l’autobus per un film romantico. Era uno spreco di tempo e di fatica, alla fine tutti i cinema trasmettevano gli stessi spettacoli più o meno alla stessa ora. Non c’era un cinema diverso dagli altri, anzi, in sostanza erano tutti uguali, cambiava solo l’ubicazione.

Gli anni passarono, l’adolescenza, gli amori, le preoccupazioni, le solitudini, i pianti… e così quando poteva si rifugiava nei cinema più sperduti, da sola, a commuoversi per quelle trame e quelle storie così simili e dissimili dalla sua vita. Amori infranti, amori impossibili, amori incatenati, sognatori in fuga, sognatori in catene, lunatici, depressi e scrittori. Pazzi, matematici, artisti e bohémien.

Titoli di coda.

“Guarda che non è tutta finzione eh…”

“Come scusa?” si voltò Astrea.

“Dicevo, non è tutta una finzione. Il film non è finzione, è verità”

“Sì, ma smette di esserlo quando esci dalla sala per ritornare alla tua vita!”

“Perché sei tu a deciderlo. Potresti benissimo essere in un film in questo momento e non te ne accorgeresti nemmeno!”

“Ma scusami, chi sei?”

“Oh nessuno, un amico del cugino del nipote dello zio del proprietario del cinema!”

“Se, vabbè… ciao!”

“Ti sei mai chiesta perché fai i giri di tutti i cinema?”

“Mia madre… e tu come lo sai? Mi segui?”

“In realtà sei tu che segui me!”

“Non è vero. Non so nemmeno chi sei, come potrei seguirti?”

“Dimmi tre titoli di film in cui vorresti vivere!”

“No.”

“Guarda che è una domanda seria!”

“No. Addio.”

Astrea uscì dal cinema, girandosi dietro diverse volte, sperando e cercando di non essere seguita da quello strano ragazzo, ma di lui non c’era traccia tra i vari spettatori. Camminò ancora un po’, e poi, quando fu sicura, si avviò verso casa ammirando il cielo, tardando il suo ritorno e immergendosi già nei suoi tristi pensieri quotidiani.

Titoli di coda.

“Allora, hai pensato ai tre film?”

“Che ci fai pure in questo cinema?”

“Sei tu che mi segui!”

“No, sei tu che mi segui!”

“I tre titoli, su!”

“Se te li dico, giuri che mi lasci stare?”

“Potrei…”

“L’incantesimo del lago, Midnight in Paris e Edward Mani di Forbice.”

“Pensavo peggio!”

“Come?”

“I tuoi gusti! Pensavo peggio!”

“Sentiamo i tuoi, allora!”

“Allora… Otto e mezzo di Fellini, C’eravamo tanto amati di Ettore Scola e Moulin Rouge!”

“I primi due non li conosco!”

“Ciao, è stato un piacere conoscerti!”

Quello strano ragazzo fece finta di andarsene e Astrea, ridendo, lo fermò.

“Dai, fermati! Rimedierò!”

Si guardarono.

“Come ti chiami?”

“Astrea!”

“Ha un ché di divinità greca…”

“Infatti è così! E tu?”

“Puoi chiamarmi Christian!”

“Come Mr. Moulin Rouge?”

“Esattamente…”

Ormai il gioco era quello: andare nel cinema più sperduto e vedere se il fantomatico ragazzo dei film sarebbe riuscita a raggiungerla. E lui lo faceva. Sempre.

Titoli di coda.

“Questo era bello come film!”

“Mhm… mi è piaciuto poco.”

“Non capisci niente!”

“Sei tu il ragazzo del cinema, non io!”

Man mano, si conobbero sempre di più e puntualmente, alla fine di ogni spettacolo, iniziarono a darsi appuntamento allo spettacolo successivo di un altro multisala. E così via, e via, e via…

L’odore dei suoi capelli. Il candore della sua pelle. Le lacrime per un altro finale.

Ed un bacio mancato.

Titoli di coda.

“Scusami, non posso.” Lei disse.

“Capisco… No è normale. Ti capisco.”

“No è che per me tutto ciò è finzione. È una fuga, una fuga dalla mia realtà. Non è colpa tua…”

“Il cinema non è finzione.”

“Si, lo è. La mia vita non ha un lieto fine, non ha una linea precisa, non ha niente che abbia a che vedere con i film che vediamo. Noi qui sappiamo che ci siederemo, ci godremo un qualcosa di brutto o di bello, che ci farà commuovere oppure no, ma abbiamo la certezza che dopo un’ora e mezza o due, tutto sarà finito. Tutto. Mi dispiace… ma la vita non è un film.”

“Perché sei tu che la vedi così, e finché la vedrai così, non potrò fare nulla per aiutarti. Mi dispiace.”

“Quindi questo è un addio?”

“Non lo so.”

Astrea si alzò, singhiozzando, andandosene dalla sala.

“Astrea…” la chiamò per un’ultima volta “Sai perché tua madre ti faceva fare il giro dei cinema?”

“Perché?”

“Perché il vero spettacolo, il vero film era il percorso che condividevate, i momenti scambiati assieme... non quelli in sala.”

Se ne andò. Uscendo da quel cinema. Facendo uscire il ragazzo del cinema dalla sua vita.

Alcuni dicono che si ritrovarono dopo tanti anni in vecchiaia ricordando i film andati, altri dicono che non si rividero mai più.

Titoli di inizio.

“Ho pensato a quello che mi hai detto…” disse Astrea.

Era tornata per lo spettacolo successivo.

“E?” chiese Christian.

“E niente. Avevi ragione. Godiamoci lo spettacolo…”

Un bacio che perdurò per infinite pellicole.

 

Se qualcuno avesse chiesto in città di quella storia, nessuno avrebbe saputo rispondere. Non la conoscevano, suonava strana e assurda a sentirsi, e nemmeno si sarebbero incuriositi sentendola raccontare… ma se qualcuno avesse chiesto loro la trama di quello strano film, tutti avrebbero fatto a gara a raccontarla. Il film del ragazzo del cinema e della ragazza che riprese a vivere.

 

 

 


Id: 3605 Data: 01/05/2017 21:22:18

*

Ricordi immemori

Una sensazione impossibile. Un difetto incredibile: questa era l’essenza della mia vita. L’assenza della mia vita.

 Anamnesi dipendente, nell’accezione filosofica, incapace di scegliere e generare ricordi miei. Infatti non dipendevano da me, ma dagli altri. Capace di immagazzinare solo determinate canzoni, voci, immagini mai di mia volontà ma sempre tramite terzi.

Ricordi selezionati, così li chiamavano al mio paese. Non sapevi come li avevi, non sapevi come arrivavano, non sapevi cosa li facesse arrivare, ma erano lì, ad aumentare di giorno in giorno.

 Molti inutili, altri stupendi, altri metà e metà, ma pur sempre ricordi non miei che pian piano andavano a riempire la memoria, rimbombando in essa, e che alla fine a furia di rimanere lì depositati per giorni, mesi, anni si avvinghiavano alla tua psiche diventando parte di te: diventando i tuoi ricordi.

Ricordo volti felici e luci di notte, estati di gioia e tramonti infiniti, baci appassionati e smorfie di scena, immagini sceme ed esilaranti, gente che ride, gente che scherza, gente d’amore e piazze gremite.

Ricordo canzoni energetiche, voci soavi e sfottò celati, rutti, scorreggie e concerti ancestrali, parlate infinite, scuse sentite.

Ricordo.

Ricordo pianti celati, lettere mai mandate, conversazioni interrotte, canzoni affrante e luoghi di pioggia, luci nel buio e volti andati.

E dopo tutto questo, improvvisamente, sparivano. Come se non fossero mai esistiti, come se qualcuno li avesse cancellati o trasportati altrove. Magicamente.

Una volta mi dissero che era questo il nostro destino, immagazzinare ciò che non ci appartiene per poi assaporarlo e goderne nel momento sbagliato, quando di lì a breve sarebbe sparito, come fanno tutte le cose che hanno un inizio.

Forse è per questo che…

 

 

 

-L’avete aggiustato?

-Che marca ha detto che era?

-Samsung.

-Samsung, Samsung… ah si, abbiamo dovuto però formattarlo.

-E non me lo potevate dire? Alcune cose non le ho copiate sul pc, non si possono recuperare?

-Non so, di sicuro saranno rimaste nella memoria interna da qualche parte, ma sono molto difficili da recuperare, io non sono capace. Dovrà rivolgersi a qualcun altro.

- Un po’ come il nostro subconscio…

-Come?

-Niente. Se lo tenga. Me ne comprerò uno nuovo.

 

 


Id: 3381 Data: 21/11/2016 20:46:40

*

The Asocial Network - Il paramecio del ventunesimo secolo

Immagina di svegliarti. Proprio ora, in questo preciso istante.

Ti alzi, prendi i tuoi vestiti e vai in bagno per rinfrescarti ed affrontare questa nuova lunga giornata.

Mentre apri la porta di scatto, trovi tua sorella di quindici anni seminuda che, poggiato il piede sulla vasca da bagno, si mette in posa per fotografarsi da sola con il suo cellulare lasciando intravedere le pudende senza minimamente inquadrarsi il volto, quel bellissimo volto mediterraneo.

«Cazzo! Esci! Non si bussa?!» ti urla contro.

Pensi che avrebbe potuto chiudere la porta a chiave come tutti noi tristi umani che andiamo al gabinetto.

Lasci correre, chiudi la porta ed aspetti che esca.

 

 

Ti lavi, ti vesti dopo aver scelto accuratamente i vestiti e scendi per andare a scuola, con la speranza di non essere interrogato e pronto a convertirti a millemila religioni nel caso ci fosse questa possibilità.

File disarmonicamente ordinate di studenti, ragazzi e ragazze, amici, col capo chino, le mani unite ed un barlume di luce che illumina loro il volto si dirigono verso quell’edificio comune denominato “Scuola”. Non sono dei santi che i loro volti sono illuminati, il loro capo chino non è quello di una sofferente modestia o tristezza da martire, le mani unite con dita frementi non stanno ad indicare un atto di fede o di preghiera: sono tutti sommersi nei loro cellulari.

E tu stai lì, a guardarli, come l’unico spettatore dell’ultima fila dell’ultimo spettacolo che ha comprato l’ultimo ed unico biglietto, ignaramente consapevole del mero e mesto evento.

Senti vociferare. Ridere. Un gruppo di ragazzine . Avranno avuto su per giù tredici o quattordici anni. Ti osservano e ti deridono puntando i loro smartphone su di te e scattando una decina di fotografie e autoscatti. guardandoti come se fossi vestito da clown, o da alieno. O da uomo di un’ altra epoca.

«… e comunque ieri quel tipo mi ha “stappata”» rideva una di loro, forse la più piccola. Dodici, massimo tredici anni. “Stappata”. Gergo per dire “perdere la verginità”.

È l’ultima ora di greco, ma in questo momento i versi di Callimaco non riesci proprio a farteli scendere e dato che sei nella fila di centro non ci sarebbe niente di meglio da fare che mettersi a chiacchierare col tuo amico e gli altri per organizzare qualche partitella o uscita.

«Non rompere ora, dai! Stiamo giocando a Temple Run, ci sentiamo più tardi su Whatsapp!»

Escluso dal gruppo primordiale ammiri la vasta fauna della tua classe: le femmine sono intente nel scattarsi autoscatti osé ed ammiccanti.

«Questa la metto su Instagram! Poi su Twitter e te la condivido su Facebook!»

Esci, recandoti al bar in piazza dove sei solito incontrare gente, sfaccendati, artisti, notando intorno a te persone che camminano solitarie, con capo chino, volti illuminati e mani unite, frenetiche. Nemmeno loro sono dei santi, su questo non ci piove. Si ripete la stessa scena di stamattina, solo che ora le dodicenni che ti fotografano sono venticinquenni che ridono e sono sedute al bar.

Vedi ragazzi con le cuffiette che passano davanti ad un povero musicista di strada.

Vedi genitori al ristorante che fanno fotografie ai loro piatti mentre il loro bambino non mangia.

Vedi due fidanzati che litigano per l’orario dell’ultimo accesso su Whatsapp.

Vedi due fidanzati che chattano mentre si baciano e abbracciano.

Vedi ragazzine che in mezzo alla strada perseguono nel loro intento di farsi foto provocanti innanzi a ragazzi maturi con intenzioni poco nobili. Ed inviandogliele, giustamente.

“Seguimi su Instagram –Twitter – Facebook”

Partecipi a feste dove i partecipanti scrivono sui cellulari e mostrano loro foto.

Alla fine ti fai coraggio, e provi a porre una domanda ad una tua amica:

“ Scusami, perché non lo spegni?”

“Ma sei impazzito?! Sto parlando col ragazzo al piano di sotto e gli sto chiedendo scusa per il baccano che stiamo facendo! Poi mi devono arrivare delle info da una mia amica che interessano anche a Giulia, e poi…Senti ma tu che problemi hai? Cioè, perché non mi lasci stare?»

Ed allora ti arrivi a porre la domanda fatidica: ma fossi tu lo stronzo?

Forse sei tu l’ἰδιώτης, nell’accezione greca, il privato cittadino che non si occupa di cariche pubbliche, cioè chiuso nella sua identità, isolato dal mondo. Loro sono il frutto ben riuscito del ventunesimo secolo e tu la mela marcia da estirpare.

Inizi a renderti conto anche tu che non è possibile che di tante persone che conosci sono tutte loro mele marce e tu l’unica buona. Dev’essere per forza il contrario, sei tu ad essere il marcio della società.

Ancora non sei del tutto convinto di questo fatto, ma provi ad adeguarti.

Apri Facebook. Apri Instagram. Apri Twitter. Apri Whatsapp.

Decidi con un’ultima frase di dire addio a quello che eri tu, il “Fu Te Stesso”, e di dare il benvenuto al tuo nuovo Ego… pardon, Profilo! Qui si dice “Profilo”!

Oggi dico addio alla mia vecchia vita! Benvenuto Iphone! Strumento incommensurabile che mi avvicinerà alle persone lontane  e mi allontanerà a coloro che mi sono accanto!

Due, tre, quattro minuti: milioni di “like”, “condivisioni”, “followers”.

Contento, ti giri intorno per scrutare i tuoi amici che hanno apprezzato la tua frase, speranzoso del fatto di non essere l’unico, il solo.

Invece no, tutti immersi nei loro cellulari. Nessuno che abbia fatto un minimo gesto, un cenno, un qualcosa.

O tutti ipocriti o tu stronzo.

Che domande! Sei tu lo stronzo! Oppure sei vittima di un grande esperimento sociale tipo “Truman Show” o “Grande Fratello”. Il libro s’intende…

“Se non puoi combatterli, unisciti a loro” diceva un famoso proverbio. Chi l’ha detto non aveva visto gli effetti del 3g e del Wifi sulle persone.

 

Sette anni e già hanno uno smartphone. Dodici anni, già voglia di sverginarsi.

A sette anni tu volevi i pastelli a cera. A dodici la chitarra.

Ormai stai diventando come loro, senti dentro la connessione nascere, senti che sulle dita ti stanno crescendo i calli da tastierina e i tuoi occhi iniziano a incavarsi nelle orbite facendo fuoriuscire occhiaie di un nero pece. E dentro di te, dentro di te ti assale l’irrefrenabile schizofrenia e paura della batteria, quella batteria che ogni due secondi passati su Facebook o Whatsapp passa dal cento per cento di carica al dieci per cento.

Una trasmutazione, come Mr, Hyde, come Hulk, come il cerebroleso medio che ragiona solo con aforismi e frasi fatte senza avere un pensiero proprio. Ormai sei uno di loro, un mediocre, un paramecio.

Sei pronto a sparare e condividere aforismi, video di gattini e foto di te al cesso con la nonna quando…

Quando ti appare quell’aforisma di Albert Einstein che gira, gira e gira, ma nessuno mai comprende a pieno:

“Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà popolato allora da una generazione di idioti”

Gira, gira,gira per gli altri. Per te invece, resta. E spegni, ti disconnetti, chiudi l’account.

Silenzio.

 

Ti rendi conto che è al passo coi tempi non chi possiede uno smartphone, ma chi nonostante tutto è capace di spegnerlo.


Id: 2906 Data: 24/09/2015 17:51:08

*

Il Circolo Doppia P

Massoneria,  illuminati, templari, club dei suicidi,  poeti estinti.

Molte sono le storie e le leggende narrate circa questi gruppi esoterici, gente unita per piaceri culturali, sessuali oppure con a capo un messaggio di vitale importanza per il genere umano.

Un fitto alone di mistero e di paura circonda queste persone: chi erano? Perché si riunivano? Che cosa facevano?

Certo, queste nominate erano e sono tuttora sette terribili, ma nessun essere umano avrebbe mai potuto immaginare quel che succedeva nel più terribile gruppo massonico, esoterico ed estremista mai esistito sulla faccia di questo insulso pianeta: il circolo della doppia P.

I membri sono sempre rimasti a noi ignoti. L’unica cosa a noi pervenuta tramite infiltrati (i quali per ovvi motivi non possiamo nominare)  è che la formazione del club era di sole quattro persone: quattro persone a dominio del globo.

 

 

«Ma non è puccioso Pascoli, con quei suoi baffoni? Io lo amo!»

Allen amava tutto ciò che era puccioso, a partire dalla cioccolata, dai bambini, e a finire con il suo professore di filosofia, un uomo di un metro e ottanta, sui sessant’anni, con un paio di baffoni alla Tom Selleck ed un fisico e un modo di fare che ricordavano non vagamente, bensì direttamente, Winnie the Pooh.

« E comunque banane!»

Il suo classico intercalare. Banane. Ovviamente, quando lo pronunziava, le sue amiche non potevano far a meno di pensare al doppio senso, ma la forza dell’abitudine e il sentirlo costantemente sopprimeva in loro ogni ilare e malnato pensiero: il doppio senso ormai era così dichiarato che quasi era celato.

 

« Allen,  comunque quello era un pedofilo! Sempre a pensare ai fanciullini, al nido… Se, se, non mi ha mai incantata. Noi critichiamo tanto D’Annunzio, ma almeno quello mostrava a tutti apertamente quello che era. Poi vabbè, vogliamo mettere Pascoli a paragone con Oscar Wilde? Non possiamo, Oscar Wilde era astonishing, marvellous…»

Liz era la sapientona del gruppo, specializzata in dandylogia applicata ( ovvero “l’arte di fare ed essere un dandy”). Beveva solo Earl Grey Tea proveniente dalle colonie inglesi e non si abbassava mai ad interloquire con gente di infimo rango sociale. Il mondo si divideva in due parti per lei: chi aveva fatto il liceo classico, e chi non aveva fatto il liceo classico. Il resto era caccapupù.

«LIZ ODDIO, GUARDA, UN DANDY!»

« Sei pessimo, Aaron!»

Aaron era lo “scemo del villaggio”. O meglio, del gruppo, nonché unico membro di sesso maschile. Era anch’egli una persona di grande cultura ma, a differenza delle altre, non lo dava a vedere. Preferiva esibirsi in discorsi sconclusionati e depistanti senza né capo né coda o, ancora meglio,  elargire al mondo la sua vasta conoscenza di battute così squallide che persino uno scimpanzé inebetito con aerofagia se l’avesse sentito gli avrebbe tirato un qualche oggetto contundente sulla fronte. L’unica cosa che si poteva dire in suo favore è che era un ottimo pittore.

«Aaron, sei un’idiota! Sono due secoli che aspetto quel ritratto che non mi hai mai fatto!»

Questa che aveva appena bofonchiato era Carmen, la neofita del gruppo. Era quella che aveva i voti più bassi, nonché la più bassa del gruppo. Ma come si sa, spesso nella botte piccola c’è il vino buono… E che vino! Aveva un caratterino tutto pepe, e se avesse voluto e si fosse incazzata, cosa che non era affatto rara, avrebbe potuto instituire un nuovo ordine mondiale in autonomia.

Questi loro ameni colloqui si scatenavano durante le tediose mattinate scolastiche in quello sperduto liceo classico della più infima città del meridione.

« Ragazze, la stronza domani interroga in greco, che facciamo?»

«Io ci vedo un’assenza per motivi di salute» disse Aaron.

«Io ci vedo uno sciopero dei mezzi» disse Allen.

« Io ci vedo la morte del mio criceto» disse Carmen.

La guardarono estraniati.

«Sarebbe il quinto in due settimane, Carmen…»

« Qual è il problema? Lei non sa quanti criceti ho…»

Mentre progettavano il da farsi, una voce, in fondo all’aula, segnò il destino della civiltà occidentale.

«Professoressa, abbiamo fatto il sorteggio ed abbiamo deciso che domani vengono in greco: Carmen, Ginny, Allen e Liz!»

Le vittime sacrificali erano uscite, e per mano di Milly: la più odiosa leccaculo della classe. Il suo fisico da top model da urlo avrebbe fatto arrapare e diventare lesbica una suora di castità.

Purtroppo , quando distribuivano cervelli, lei era in prima fila per la quarta di seno: sapete, c’erano i saldi…

Comunque, nel preciso istante in cui chiamò quei nomi si ebbe un mutamento facciale nei volti dell’ameno gruppetto.

Liz era entusiasta perché sapeva tutto, ogni cosa dello scibile umano, e le sue interrogazioni finivano sempre con interrogatori rivolti alla professoressa del tipo:

“Dimmi stronza, dov’eri tu quando Troia è caduta?! Dov’eri tu quando nel 476 d.C. l’Impero Romano d’Occidente si è sfaldato?! DOV’ERI TU QUANDO DISTRUSSERO LA LEGA DELIO ATTICA?! ALLORA?”

Si, un qualcosa di simile.

Aaron trasudava gioia da tutti i pori, come un ergastolano a cui era stata concessa la libertà. Era salvo.

Allen era rimasta indifferente, le cose le sapeva. Pensava solo a cosa avrebbe mangiato la sera prima dell’interrogazione: latte e cioccolata e zucchero, o zucchero latte e cioccolata? Il quesito era arduo.

E Carmen, bè, la povera Carmen stava invocando tutte le divinità dell’oltretomba. Era la sua fine, sarebbe stata bocciata dato che era l’ultima interrogazione dell’anno. E lei aveva campato di rendita per tre mesi con un sei strappato allo scritto.

Non ci sarebbero stati criceti morti che l’avrebbero salvata, e il non presentarsi la sesta volta avrebbe comportato automaticamente l’espulsione: doveva agire.

« Ragazzi, chiedo l’aiuto del gruppo della doppia P!» esclamò.

«Doppia P?»

«Si, Pascoli Pedofilo!» esclamò Allen euforica.

« Io accetto l’invocazione a patto che si cambi nome al gruppo! “Puny Punishers”! Che ne dite?» propose Liz.

Tutti acconsentirono al battesimo ufficiale del gruppo, soprattutto perché non avrebbero retto ad un altro dibattito con Liz e le sue manie anglofone.

« Stanotte, all’una, sotto casa della stronza…»

«Hai un piano?»

«Io ho una chitarra! Facciamo un complesso!» esclamò Aaron.

«Tu sei complessato, è diverso!» disse Carmen

«Io porto il tè!» disse Liz.

«Io porto pasticcini!» disse Aaron.

«Io porto BANANE!»

Lo sguardo ricadde su Allen.

 

Gli orari della prof di greco erano semplici: alle 21:00 cenava, alle 22:30 parlava con i suoi gatti, alle 00:00 attaccava con il film porno, alle 01:00 attendeva giù al palazzo l’arrivo del cingalese ultrasettantenne che le dispensava favori in cambio del vitto. Nonostante lei avesse trentacinque anni, portati decisamente da matusalemme, non aveva mai trovato un’anima pia al di sotto dei sessanta che volesse frequentarla. A parte i gatti ovviamente, ma questa è un’altra storia…

 

Gli orari furono puntuali. Alle 01:00 la stronza era giù al palazzo ad aspettare il cingalese.

Alle 01:01 una macchina, una vecchia Fiat punto, passò innanzi all’abitazione.

Dalla Fiat uscirono due membri del gruppo, mascherati con pacchetti di pasticcini andati.

Appena li vide, la stronza pensò a qualche nuovo gioco erotico del cingalese, soprattutto perché avevano dei caschi di banane in mano. Gli incappucciati iniziarono a menarle le banane in testa cercando di tramortirla, ma ella non faceva altro che ridere e gridare “Più forte!”.

Alla fine la legarono e la chiusero nel portabagagli. Non ci fu opposizione da parte della rapita, sembrava quasi eccitata per quello che le stava accadendo. Anzi, senza dubbio lo era.

«Allora, avete visto che servivano le BANANE?»

«GUIDA E TACI! Questa è l’ultima volta che ti diciamo di portare il materiale! Per non parlare di questi cazzo di sacchetti di biscotti muffiti!»

«Quello è colpa di Aaron, oh…»

«Sentite, ma noi ve l’avevamo detto! Io porto i biscotti, Allen le banane e…»

Atroce dubbio.

«Liz, mica avrai portato l’Earl Grey vero?» chiese Carmen.

«Ma per chi mi hai preso? Per questi due? Parti un po’, va…»

«Ah, meno male. VAI ALLEN!»

 

Dopo un viaggio un po’ movimentato, condussero la vogliosa prof di greco nei sotterranei dell’edificio scolastico dove, durante i mesi di nullafacenza nelle ore di educazione fisica, avevano allestito una vera e propria sala torture.

Bendarono e legarono stretta la stronza ad una sedia. Poi iniziarono il rituale.

«Ma… ma voi non siete Omar? Chi siete? Che volete farmi?»

«TU! Tu domani hai intenzione di interrogare, non è vero?»

«Cosa?»

«Ti sfido, ti sfido due volte stronza! Tu domani hai intenzione di interrogare vero?»

«Cosa?»

«Cosa è un paese che non ho mai sentit… Ah scusami! ALLEN CAZZO, LEVALE QUELLE BANANE DALLE ORECCHIE!» urlò Carmen.

«Scusami, è stato più forte di me. Ma non chiamarmi più Allen, che se no quella mi riconosce! Ora le tolgo le banane! Comunque ci tenevo a dire che ho portato le merendine! Se ne volete un po’…»

«Sono circondata da incapaci! Che stavo dicendo… Ah si, HAI INTENZIONE DI INTERROGARE DOMANI?»

«Si, perché?»

«Perché tu non lo farai!»

«E perché?»

«Perché se lo fai, noi ti veniamo a prendere e ti torturiamo»

« E perché?»

«BASTA! TORTURIAMOLA! L. portami la tortura!»

Liz si avvicinò con una bacinella ricolma di tè verde.

«L. cos’è sta roba?» chiese Carmen

«Tè verde. Per la tortura cinese»

«Ma avevi detto…»

« Che non ho portato l’Earl Grey. Non lo spreco per infime torture, preferisco berlo»

«Ah, e poi siamo io e Allen che…»

«AARON SEI UN COGLIONE! NON  DOVEVI DIRE IL MIO NOME!»

« MA ORA PURE TU HAI DETTO IL MIO! CHE CAVOLO!»

«VIA, VIA, FUGGIAMO!» urlò Liz.

« SIETE DEGLI INCAPACI! ADESSO DOVRO’ FAR MORIRE UN ALTRO CRICETO!» gridò Carmen.

Fuggirono, lasciando l’insegnante chiusa nel sotterraneo ancora rintronata dalle troppe banane ricevute in testa. In realtà non aveva capito nulla di ciò che stava succedendo, pensava Omar le stesse facendo uno scherzo e volesse girare con alcuni suoi amici un film porno tipo “Maestrina ed alunno”. Già si vedeva nelle categorie di Youporn, sognando il successo e la gloria da pornostar.

Allen tornò un secondo indietro: aveva dimenticato le merende.

«Sentite ragazzi e ragazze, ma quand’è che entriamo nel vivo della faccenda?» chiese la prof.

Allen la guardò sospettosa. Era pur sempre bendata, e forse non li aveva riconosciuti.

« Ragazzi, potete dirmi almeno come vi fate chiamare? Almeno il nome da cercare su Youporn, sapete…»

Allen trattenne le risate, avrebbe voluto farle un video in quel momento ma aveva il cellulare scarico. Si guardò circospetta, sperando che nessuno del gruppo la sentisse e sussurrò alla stronza…

« Siamo il Circolo Doppia P»

«E sarebbe?»

«Pascoli Pedofilo!»

 

 

 

 

 


Id: 2851 Data: 12/07/2015 15:28:39

*

La Sognalibri

Seduta. Stava seduta.

Chissà da quanto tempo, chissà perché, chissà per come, per cosa.

Ma lei stava seduta, con i suoi capelli mori ed i suoi occhi fissi sulle pagine, come una visione o un miraggio.

Tutti la conoscevano ma nessuno la conosceva.

Ogni giorno sedeva in qualche zona della città, a caso, anche a chilometri dalla sua seduta precedente, quasi come uno spettro.

Tutti sapevano chi era ma nessuno la conosceva.

Chi le si avvicinava per posteggiarla, chi per chiederle indicazioni, chi per parlare, chi per insultarla, riceveva sempre ed in egual modo lo stesso trattamento di congedo: uno sguardo. Uno sguardo di quei due puri occhi blu. Uno sguardo di tristezza e rimprovero allo stesso tempo. Uno sguardo che diceva “Vattene!” e “Non sei tu chi aspettavo…” allo stesso tempo.

Silenzio, silenzio, sempre silenzio.

E si allontanavano. Tutti.

In molti passavano ma nessuno rimaneva. Nessuno lei voleva che rimanesse.

La conoscevano tutti come la “Sognalibri”, perché era capace di rimanere ore e ore a leggere in quelle sue sedute, ed ogni giorno il libro cambiava. Ed anche il segnalibro.

Una volta era “Il piccolo principe”, ed il segnalibro era un ramo di betulla.

Una volta era “Il visconte dimezzato”, ed il segnalibro un foglio di carta igienica.

Una volta era “Le età di Lulù”, ed era un pezzetto di stoffa.

“L’ombra del vento”, uno stuzzicadenti.

“L’Odissea”, una ciocca di capelli.

 

Un giorno la vidi anch’io, in piazza, e spinto dalla curiosità mi avvicinai cercando di rivolgerle la parola.

Non ero diverso dagli altri ai suoi occhi ed istintivamente mi guardò con quegli occhi blu, congedandomi come aveva sempre fatto con tutti.

A quello sguardo feci per andarmene, percorsi un paio di metri, e mi fermai.

Mi ricordai di avere un libro che stavo leggendo nello zaino. “Zorro” di Isabelle Allende.

Mi sedetti accanto a lei, senza proferir parola, con il libro sulle ginocchia.

Lei si voltò, lentamente, sempre con la testa china, attratta da quell’involucro di carta e parole.

Lo aprii e prima che si distraesse cerchiai con la matita delle parole per comporre un frase.

(Come) (ti) (chiami)(?)

Non rispose, né tentò di comunicare con me alla stessa maniera.

Ma c’era una cosa, una cosa incredibile e spaventosa.

Nel suo libro non c’erano parole. Pagine giallognole, usate, completamente vuote. Anche se avesse voluto comunicare alla mia bizzarra maniera, non avrebbe potuto.

Fece una cosa però. Tolse il segnalibro e me lo diede.

Era lei.

Era lei bambina.

Cercai subito un aggettivo nelle pagine del mio libro che potesse esprimere al meglio la mia gratitudine ed apprezzamento.

(Armoniosa)

Lei sorrise, appoggiò la sua testa sulla mia spalla e se ne andò.

 

Passai la notte a guardare quella foto, non riuscivo a smettere di pensare a lei, chi era, quelle pagine bianche,  quella foto.

Come potevo rintracciarla? Sapere chi era?

Misi un annuncio su un giornale, il caporedattore mi doveva un favore.

Cercavo questa bambina. Qualcuno che la riconoscesse per quello che era stata.

Nessuno rispose.

Passarono due settimane e stranamente da quel giorno nessuno più vide in giro la “Sognalibri”.

Mi misi l’anima in pace ed andai avanti con la mia vita finché un giorno, mentre facevo la mia consueta pennichella pomeridiana, non sentii bussare al mio citofono.

«Si?»

Vi era una donna con una bambina. E, fossi matto, la bambina era lei! Quella della foto! La Sognalibri!

«È lei che ha messo l’annuncio sul giornale? Quello della foto?»

«Si, sono io. Prego, si accomodi…»

«Assolutamente no! Sappia solo che è in corso una diffida penale… Per lei ed il direttore di questo giornalaccio! Pubblicare la foto di mia nipote, senza consenso, una minorenne per giunta!»

Ero stato avventato. Troppo avventato. Io cercavo una donna, una fu bambina, non avrei mai immaginato che…

«Come posso spiegarle? Quella foto l’ho trovata!»

«Ci vedremo in tribunale!»

Un impeto incontrollato. Uscì dalla mia bocca.

«La Sognalibri! È… è lei che me l’ha data»

La bambina sorrise. La donna si bloccò al primo scalino.

«Mamma! Mamma!» disse alla zia. Avrà avuto sei, sette anni.

Non capivo.

«Aveva un libro di pagine bianche, anzi giallognole. Mi ha dato questa foto»

La zia cercò di nascondere le lacrime, si voltò e con gli occhi lucidi…

«Era “Oceano Mare” questo libro?»

Ricordavo. Si, era quello. Tacqui.

«Possiamo accomodarci?»

«Prego»

 

«Elettra, vai a contare le macchine gialle che passano, una caramella per ogni macchina gialla»

«Siiiiii zia, che bello!»

«Mi scusi, non le ho chiesto se poteva…»

«Non si preoccupi, non c’è bisogno di chiedere. La c’è il balcone, Elettra! Aspetta, tieni un biscotto! Posso?»

«Si, ma solo uno, Elettra!»

La bambina corse felice verso il balcone con il biscotto in bocca.

Versai due tazze di latte di mandorla.

«Lei è la figlia di mia sorella Dafne. Mia sorella… mia sorella è la persona che tutta la città chiama la “Sognalibri”»

«Aha»

Ci fu un lungo silenzio. E non fu l’unico. Ci mise molto tempo, molto, molto tempo, ma nessuno andava di fretta, ed Elettra più tempo aveva, più macchine gialle vedeva, più gioiva per le caramelle che avrebbe ricevuto.

La Sognalibri, anzi, Dafne era sparita a quanto pare poco dopo il nostro incontro, mi disse. Aveva ventidue anni, la mia età.

La figlia era nata quando era appena sedicenne.

Frutto di un amore sconsiderato.

Un abbandono da parte dell’amato, “amato” poi… lei lo amava, lui non fino a tal punto di prendersi le sue responsabilità. E lui aveva ventiquattro anni.

Dafne volle comunque tenere la bambina, che mantenne con l’aiuto della sorella che allora aveva trent’anni.

Amava leggere. Amava andare in giro per la città a farlo. Amava essere libera, e non amava il destino che le era stato assegnato.

Non avrebbe più dato il suo cuore a nessuno, non si sarebbe più concessa a nessuno, solo ai libri ed alla sua bambina.

Con quelli, oh, con quelli avrebbe continuato a vivere milioni di vite. Tutte tranne che la sua.

«Quando avrò letto il mio primo libro, il mio primo acquisto sbagliato, il mio primo sbaglio, il libro dalle pagine vuote, quello per cui tutti mi prendeste in giro perché avevo scelto l’unico errore di edizione e non me n’ero nemmeno accorta, allora me ne sarò andata»

Era questo che ripeteva sempre, per quattro anni lo aveva ripetuto, ma nessuno in famiglia le aveva mai dato credito.

Sfoghi adolescenziali.

Erano troppo occupati a rimediare agli errori che aveva fatto.

Poi… poi aveva incontrato me, il ragazzo curioso. Aspettava questo momento da anni per poter sentirsi libera, per attuare il suo piano. Ci sperava. Ed aspettava.

Sapeva che nessuno si sarebbe accorto della scomparsa di “Oceano Mare” se non li avesse indirizzati. Aveva lasciato indizi.

L’indizio era la foto. L’indizio ero io.

Io e la mia curiosità.

Il corpo non era stato ancora trovato, mi disse, sospettavano si fosse buttata in mare.

“Oceano Mare”.

Le premier chagrin du jour
C'est la porte qui se ferme
La voiture qui s'en va
Le silence qui s'installe

La bambina che fino a quel momento aveva cantato ad alta voce non si sentiva più.

«Elettra, a quante macchine gialle sei arrivata?»

Nessuna risposta.

«Elettra!»

Silenzio.

Entrambi corremmo verso il balcone.

Elettra non era più lì, sparita, né sulla strada, né sul cornicione, né per casa.

Andai a vedere se la porta era stata aperta.

Era aperta.

Non poteva esser stata lei: la maniglia era molto alta e la serratura difettosa.

In silenzio, singhiozzando, la donna mi fece vedere una lettera legata alla ringhiera del balcone.

«C’era… c’era questa dentro la lettera» mi disse.

Mi mostrò la foto.

La foto di Elettra.

La stessa foto che io avevo ricevuto da Dafne.

Che avevo nella mia tasca.

Che non era più nella mia tasca.

 

“Forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si uniscono” da Oceano Mare

Dafne, con amore

 

Udimmo il canto della bambina, accompagnato da un’altra voce: la voce di Dafne.

La voce di Sognalibri.

Ma non veniva da fuori.

Né dal cortile.

Né dalla casa.

Veniva dalle nostre teste.

 

Mais bien vite tu reviens
Et ma vie reprend son cours
Le dernier bonheur du jour
C'est la lampe qui s'éteint.


Id: 2850 Data: 08/07/2015 23:19:55