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- Poesia
L’onestà e l’indipendenza della poesia oggi
Pubblicato su valentinacalista.wordpress.com il 29/03/2013 1
L’onestà e l’indipendenza della poesia oggi in Italia.
La poesia, quando essa è ben radicata nella sua vera natura poetica, è sempre attuale. Ma non voglio qui parlare dell’attualità del testo poetico, piuttosto voglio riflettere nel tentativo di cogliere i segni della sua funzione ed evoluzione attuale nel sociale, nella quotidianità, nell’ identità di un paese chiamato Italia. La funzione della poesia nel mondo contemporaneo spesso viene sottovalutato. Dato storico è che il poeta non ha mai vissuto per danaro. Bene, non sarebbe un poeta. Ma in Italia talvolta è possibile anche questo perché il poeta (tutto italiano e contemporaneo) tranne alcuni rari casi, gode di un’ aurea di prestigio totalmente legata al marcio universo accademico, quello delle università popolate dagli innumerevoli “baroni”. Forse è ora di far uscire la poesia dalle università italiane, forse sarebbe anche ora di togliere questa veste istituzionale alla poesia come status dell’uomo di cultura. La poesia non è semplice frutto della cultura coatta. Essa è la massima esponente delle arti, e come sublime pratica artistica, poi di cultura, dovrebbe godere di un certo rispetto prima di tutto umano. La poesia è un’azione sociale, artistica, etica. Mi capita spesso di leggere testi poetici di autori italiani “affermati” che con tutta l’aria cementata in uno spicciolo intellettualismo, vanno girando anche in programmi televisivi, spesso canali privati, proclamando la lo arte poetica come quella novità, come quella raffinata e colta sostanza letteraria che sicuramente vedremo anche in taluni manuali scolastici. Anni fa intervistai per la mia tesi di laurea la poetessa Alda Merini. Sottolineando il mio immenso amore per questa donna, poi autrice (ricordate bene questo binomio “donna-autrice”/ “uomo/autore”) vorrei riportare qui la sua risposta alla mia semplice domanda «Cosa pensa della poesia di oggi e dei giovani scrittori?». Lei mi rispose semplicemente : «Scrivono tutti e non dicono quasi niente… ma io non me ne curo più». Ecco la questione. Caro lettore, la mia vuole essere una pura riflessione su ciò che è fondamentalmente una visione olistica della letteratura e dunque della vita . La letteratura può, anzi deve, rientrare in questa visione. Il problema è la coscienza e la consapevolezza dell’autore contemporaneo. Tralasciando i virtuosismi della critica letteraria che spesso riduce a sterile “materiale” il testo poetico proclamando la sua indipendenza dall’autore (a mio avviso non c’è massacro letterario più grande), io vi chiedo in modo diretto e semplice : «come può una poesia essere tale, se l’animo dell’autore che la compone non è onesto e coerente con se stesso? È qui che entra in gioco la famosa onestà della poesia di cui tanto Saba parlava? La risposta è certamente sì. Possiamo parlare quindi dell’ “onestà poetica” come quella fortissima corrispondenza (quando è vera) tra la poesia e il poeta, il binomio prima citato “uomo/donna- poeta”. È la perfetta e rigorosa correlazione tra la poesia (onesta) e la vita (o visione della vita) del poeta. Saba metteva a confronto due grandi autori dell’epoca: Manzoni, con Gli Inni Sacri e l’Adelchi, e D’annunzio, con le Laudi. Il primo portava con sé il verso umile di chi non vuole superare se stesso e la propria anima, restando in quella così cristiana umiltà che rende la semplicità del verso espressione altissima di bellezza, il secondo era trainato dall’eccentrico virtuosismo del superomismo, rendendo i versi preziosamente sonori ma onestamente poco umani. Eppure è sempre presente l’abisso tra valore etico e valore estetico tanto da far apprezzare “esteticamente” al vecchio Saba, D’Annunzio piuttosto che il Manzoni, e di questa contraddizione Saba ne era consapevole. Nel mondo contemporaneo potremmo utilizzare questo semplice criterio per valutare le poesie che amiamo leggere ma soprattutto quelle che vogliamo scrivere. Non si può scrivere poesia senza portare nell’attimo pensante, prima della scrittura, l’onestà poetica. Spesso mi capita di leggere autori le quali parole purtroppo (o per fortuna) scivolano sulla mia attenzione e lentamente, allontanandosi dal centro del sentire, spariscono senza lasciare traccia. Questa non è corrispondenza tra poesia e poeta perché laddove essa è presente, inevitabilmente l’emozione (se pur sommessa) si aggancia al gusto e all’animo del lettore. Ma come la contraddizione tra etica ed estetica insegna, spesso la critica letteraria si abbaglia dinnanzi all’altezza sonora dei versi carichi d’intenti intellettualistici soltanto perché portanti un nome già monopolizzato dal sistema accademico o editoriale italiano, tralasciando e sottovalutando la semplicità della bellezza che spesso i versi di molti altri autori hanno lasciato nella storia letteraria. Per non parlare delle nuove generazioni di giovani scrittori che devono fare i conti (in Italia) con il muro di cemento armato di editori (la maggior parte dei quali a pagamento), università (docenti accademici, baroni, ecc.ecc.), corsi e scuole di scrittura creativa e workshop per “diventare” scrittore, poeta, (come se la scrittura fosse una materia da modellare a piacimento con certezza di riuscita), programmi radiofonici pilotati dal sistema del monopolio editoriale e televisivo (Sei un giovane scrittore con tutte le carte in regola? Non ce ne frega nulla se non hai qualcuno che ti presenta come “nuova e geniale scoperta” dell’editoria). Già, perché in Italia scrivere è diventato uno status symbol, fa tendenza, appare “intellettuale” aver scritto un libro e si vede sui volti dei molteplici autori che si celano dietro i tanto spudorati occhiali dalla montatura nera e grande, tanto in voga e di dubbio gusto. Si pubblica tanto e “di tutto un po’”: la qualità è spesso accantonata per dare spazio a nuove voci che romanzano ogni aspetto della vita, persino quello culinario. Ormai in Italia si ama romanzare e la poesia, specialmente quella onesta, sta morendo nella morsa del grande monopolio della cultura: fare poesia in Italia purtroppo (spesso) non vuol dire essere indipendenti: circoli culturali, case editrici come sette, calendari per Natale con poesie proprie (a pagamento) , cene di poeti e poetastri, quote associative da pagare affinché una tua poesia possa entrare nella nuova antologia dell’anno, pedinare gli “autori affermati” a tutte le manifestazioni culturali, festival, presentazioni in libreria, per lasciare loro qualche cosa da poter “visionare”, scrivere decine e decine di e-mail a persone, redattori, direttori di riviste di saggistica letteraria (forse un po’ in questo settore ancora ci si salva perché nel saggio si parla di altri), direttori di case editrici, riviste on-line che tutti i giorni prolificano per dare spazio a “nuovi talenti”. Le poltrone della cultura italiana sono ancora piene di persone che con la cultura hanno a che fare ben poco, soprattutto se parliamo di cultura di qualità. Ho parlato di poesia perché è quello che amo ed è la strada che ho voluto tracciare per la mia vita, la poesia onesta però. L’indipendenza e l’onestà della scrittura è per me qualcosa per cui vale la pena ancora combattere, specialmente in questo paese.
Id: 978 Data: 25/01/2014 22:04:31
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- Cultura
Vita mia, non ti riconosco più.«Torniamo ...
31 luglio 2012 Vita mia, non ti riconosco più. «Torniamo ai giorni del rischio». Il sogno oggi ha l’aria di una chimera, di un’isola lontana e onirica dove rifugiarsi al riparo dal male del mondo. Sì, il male del mondo. Quello c’è, c’è sempre stato, e sempre sarà tale. Ma di queste proporzioni non è mai stato visto. Il secolo Novecento ha ospitato l’orrore e l’ha fatto accomodare sul divano della propria casa, sul divano dell’umanità. Immobili, fermi, in apnea, aspettiamo qualcosa da questi anni, un bagliore. O forse il danno peggiore è che non ci aspettiamo più nulla da questi inganni. Offesi, derisi, derubati e umiliati. Questo siamo diventati. Ma la cosa più triste è che abbiamo lasciato le redini della nostra esistenza nelle mani sbagliate, mani lontane, non più le nostre e dei nostri fratelli. Noi stessi artefici di questa nebbia che ci divide l’un l’altro. Nel male da soli si muore. Una lontananza abissale che affonda le radici nelle ferite dell’emarginazione, della diversità. Nel dolore non c’è più trasformazione, evoluzione, ma abuso di potere. L’unica cosa che sappiamo fare (perché non c’è più nessuno che ce lo insegna e ce lo tramanda) è digrignare i denti e mostrarli al prossimo, spesso al prossimo più prossimo: madre, padre, fratello, compagna, compagno. Una volta il presente era un letto caldo dove la giornata andava a coricarsi, felice di avere un luogo. Oggi, quello stesso presente è diventato un non luogo, un passaggio che dobbiamo quotidianamente attraversare improvvisandoci nel caos che ci viene proposto e iniettato nel sangue dal sorgere al calar del sole. Non ci vogliono far dormire con la pace nel cuore. Ma siamo noi che con le nostre stanchezze continuiamo a vivere, spesso in ginocchio, raccontandoci che “domani passerà”, “domani è un altro giorno”. No. Non è così. Apriamo questi occhi avvelenati da ciò che ci uccide e continuiamo a sperare, a lottare, a gridare a grande voce che è arrivato il momento di ribellarsi a questa schiavitù dell’anima che abbrutisce la gentilezza del cuore, che violenta l’Amore. Padre Davide Maria Turoldo l’aveva detto: «Torniamo ai giorni del rischio […] Torniamo a sperare come primavera torna ogni anno a fiorire». Viviamo una perenne tensione mai superata, un eterno conflitto tra bene e male, un conflitto che metaforicamente si rende (da sempre) persino geografico tra Oriente e Occidente, un paradosso che si manifesta nella compresenza di “nulla” e “Nulla” , finito e infinito, dove Dio assume due aspetti, uno di luce, passione, furor d’amore, l’altro invece è «Bellezza che annienta» e «Nulla che annulla» . Hanno imprigionato anche Dio, l’hanno svalutato, violentato, l’hanno descritto con parole sconosciute, lontane, hanno ingabbiato la bellezza dell’Assoluto, del divino, i sentimenti oceanici legati all’amore e alla vita. Ci hanno tolto i sorrisi, il corpo, la mente. Ci hanno raccontato che il corpo viaggia su una strada diversa da quella che percorre il cuore e che la mente ha la stessa voce del cosmo, dell’Assoluto. Dove siamo finiti? Questa è vita? È mondo? Oppure è tutto ciò che si cela dietro le violenze fatte, subite, pensate, programmate? Giobbe ha intrecciato il suo lamento nei secoli e per secoli, accompagnato dall’eterno problema del dolore dell’innocente che davanti allo sfacelo della sua vita, continua con pazienza infinita a benedire Dio, da cui viene ogni bene e ogni male. «Tornare ai giorni del rischio» significa unirci nella profonda spes che viene da un sentimento cosmico di unione e forza, tutta riunita in un cerchio d’umanità che potremmo ancora ricomporre, se solo lo volessimo. Invece noi ci perdiamo nella via più facile, quella del maledire: il prossimo, il vicino, l’amico, l’amica, l’amato, l’amata, e Dio, sempre in prima fila ad essere lapidato da bestemmie. Non riconoscere la propria vita e non saperla più guardare nel profondo porta a maledire l’esistenza, il tempo, l’odore del mondo e il profumo stesso della vita. Non ribellarsi alla violenza vuol dire soccombere e morire. Nella rivoluzione, nella ribellione condivisa anche Dio è dalla nostra parte. Anche l’universo ci abbraccia potente. Ma noi non lo capiamo, e continuiamo a spargere veleno nelle nostre parole, nei nostri sguardi, nelle nostre azioni. Questo tempo non da spazio al sogno, all’onirica presenza di vita che si costituisce mediante intuizione, creatività e passione. Oggi ci dicono che bisogna programmare. Programmare la vita, programmare le giornate, i minuti, le pause, i sogni, le speranze, il lavoro: tutto ha un programma stabilito. Anche fare l’amore è programmato. Ma noi, abbiamo scelto davvero di programmare? Abbiamo perso l’istinto cruento e stupendo della salvezza, della spinta ultraterrena che lega la vita all’Oltre possibile. Nel 1904, nei suoi Poemi Conviviali, Giovanni Pascoli ci diceva che «Il sogno è l’infinita ombra del vero». Testimonianza, questa, di come già l’autore avesse intuito che la grandezza umana del periodo classico, simbolo di stabilità e integrità d’animo, stesse inarcandosi su se stessa volgendo ad una chiusura e ad un’incertezza interiore manifestata negli smarrimenti labirintici dell’esistenza dell’uomo moderno. Possiamo, indubbiamente, ancora sentire come profondamente vero il verso di Pascoli. Quante volte, nel raro istante di silenzio che ci ricollega alla nostra vocazione, alla nostra anima, possiamo ascoltare l’eco di questo sogno? Quell’istante è un dono prezioso per ricordarci che possiamo cambiare, evolvere e non avvelenare più il cuore. Seguire quella voce è dare ascolto al vero che c’è nel mondo e dentro la nostra vita. Troppo spesso invece ci ritroviamo a fare un lavoro che non ci piace, ad amare una persona che davvero non amiamo, a chiudere gli occhi davanti ad una ingiustizia percepita, subita o attuata. Troppo spesso camminiamo con l’omertà, col silenzio della codardia. Abbiamo paura di perdere. Ma io dico che chi ha paura di perdere qualcosa è perché non ha sentito il pulsare autentico della propria vita. Una volta una signora anziana mi disse: «Non devi preoccuparti perché quello che ti appartiene davvero non te lo può portare via nessuno». Aveva ragione. Credo in un poema scritto sugli spartiti invisibili del tempo e del creato, delle storie atemporali dove gli archetipi ciclicamente inondano le nostre vite e dove il suono silente del mondo fa pulsare i destini delle vite. Qualche volta questo suono arriva alle corde delle nostre anime risonanti. Altre volte cade nell’acqua torbida del nostro cuore affondando nell’incoscienza. Molto spesso ci ricordiamo della musica solo quando rischiamo di morire. Ma infinite altre volte ne sentiamo il rintocco. E quello è il nostro momento, « l’infinita ombra del vero». Valentina Calista
Id: 736 Data: 27/02/2013 17:43:33
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