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- Alimentazione
tra arte e scienza: tecnica
Ogni Autore, ogni Poieta, ogni Giuridico, attraverso il suo Diritto, e cioè attraverso la sua capacità interpretativa del passato del presente e del futuro, che sia esso Scrittore, Pittore, Musico, Scultore, Giurista, Fotografo, Economista, si dà una sua Legge e questa Legge, in modo patente o latente, la trasmette anche agli altri. Alcuni ne danno una forza superiore alle altre. La Forza e il processo di questa Legge, in generale, sono sempre le stesse: identica è infatti la meccanca della Logica e della Ragione. Sarà Salvador Dalì la coercitiva Legge (quella che adesso verrà chiamata la ‘Legge dell’Elefante’), sulla quale, da Giuridici, ci si eserciterà, e si eserciterà il proprio Diritto, la propria Interpretazione, il proprio Diritto di Parola, e, soprattutto, alla Parola. E non si potrebbe fare altrimenti per poter in poche righe cercar di delimitare la sua figura: solo ad armi pari, e cioè con le stesse armi, è possibile riuscire in una tale impresa. Ci si riferirà dunque, necessariamente, alle opere del Dalì stesso; e, anzi, il riferimento a questo grande classico del novecento, attraverso questa terminologia giuridica, è già in atto: Dalì stesso era ben consapevole della forza del registro giuridico, che, da Scrittore, più volte utilizzò. Ad esempio è interessante a quest’ultimo proposito riportare la fine del famoso libro I cornuti della vecchia arte moderna: “Letto, approvato e sottoscritto: Salvador Dalì”: sembra proprio che egli abbia approvato e promulgato un testo legislativo. Ma non è certo su questo aspetto che si ha intenzione di soffermarsi, perché, sempre nel rispetto del Dalì e della sua opera, essendo egli un grande immaginifico, è meglio rifarsi, appunto, a delle immagini, per tentare d’inquadrarlo, ed in particolare ad un’immagine ‘sua’: quella del ‘suo’ elefante (ed anche perché, se proprio ci si dovesse soffermare sulla terminologia daliniana, sarebbe sicuramente più divertente prendere in considerazione, ad esempio, quella gastronomica: registro che egli utilizza per le sue dissertazioni critiche e filosofiche ). E ciò, prendere in considerazione la figura daliniana dell’Elefante, per due motivazioni: la prima è che questa figura, la figura dell’Elefante di Dalì, riconduce a Roma, città magnifica, che sembra, apparentemente, ma è proprio quest’apparenza che si vuole adesso sfatare, una delle città, per così dire, minori del pittore; e la seconda è che, se si dovesse mettere insieme un bestiario di Dalì, l’Elefante è una delle bestie meno rappresentate: e forse, esattamente per questo, è la più rappresentativa di salvador Dalì stesso. Ed è rappresentativa proprio perché permette, ad attenta analisi, di parlare di lui in modo corretto e breve, dando la possibilità d’apprendere del suo passato e del suo futuro in modo chiaro e conciso, e, quindi, del suo eterno, e presuntuosamente infinito, presente: sono, infatti, gli elementi minori che spesso è possibile utilizzare come viatico per gli elementi maggiori: essi ne sono come un frattale degli altri, parlando geometricamente , o, parlando grammaticalmente, è come se i primi fossero metonimia dei secondi (o questi sineddoche dei primi). L’Elefante, simbolicamente, è l’animale della saggezza e dell’intelligenza, della memoria, della purezza, della forza: tutte significazioni positive e recondite che è probabile, se non sicuro, che Salvador Dalì, vista la sua smodata passione per la simbologia, conoscesse: non è certo un caso che egli desiderasse disseminare il suo giardino a Port Lligat (ove si trova la sua stabile dimora, ora traformata in un museo, poco lontano da Barcellona) di crani d’elefante . Inoltre l’elefante è un attributo del dio Ermes o Mercurio, deità famosissime di cui sono ormai arcinote le caratteristiche e le proprietà, in particolare quella di avere le ali ai piedi. L’elefante a cui si vuol fare riferimento, e che è l’esempio che Salvador Dalì fa suo, compare solo in quattro quadri dei millecinquecento che egli dipinse : uno del 1944 (Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana, un attimo prima del risveglio) , uno del 1945 (Idillio melancolico atomico e uranico) , uno del 1946 (La tentazione di sant’Antonio) , e l’ultimo del 1948 (Gli elefanti) ; ed è, forse, questo elefante, il rifacimento dell’elefante che si trova a Piazza della Minerva, a Roma, scolpito dal Bernini, ed eretto nel 1667; ma potrebbe essere, anche, quello presente nel Parco di Villa Orsini, a Bomarzo, eretto nel 1552, voluto dal Principe Vicino Orsini, che non è detto che Dalì non conoscesse, anche se non è attestata nessuna sua visita al suddetto giardino. Come non identificare Salvador Dalì a questo elefante, all’elefante che egli dipinge sempre con i medesimi attributi? Si tratta di un elefante dalle gambe lunghissime, simili a quelle di un insetto (un ragno?), che si affaccia dalle nuvole e che porta in groppa un obelisco, principalmente, come quello romano del Bernini, ma non solo (qui il tocco di stile del Dalì): anche architetture da cui si affacciano seni turgidi di donna (apparentemente il riferimento è a R. Magritte), torri turrite (come l’elefante di Bomarzo)... Ecco Salvador Dalì, uno degli artisti che, in linea con la più serrata cultura artistica latina, più si è fatto ispirare dalla Scienza (prima quella Psicanalitica e poi quella Fisica), che sembra comparire: come non leggervi, in questa specifica figura e Legge dell’Elefante daliniana, la precaria instabilità (rappresentata dalle gambe sottili e lunghe) di un cervello enorme (il corpo dell’elefante) che si slancia verso i cieli, portando sulla groppa simboli di tentazioni, quali l’obelisco, simbolo fallico per eccellenza, le architetture dalle quali escono sensuali corpi di donna, le torri… Così egli commentò questa sua creazione: “L’elefante rappresenta la distorsione dello spazio … le zampe lunghe ed esili contrastano l’idea dell’assenza di peso con la struttura”. In questo modo dopo aver relativizzato il tempo con gli orologi molli, ecco che il Dalì distorce anche lo spazio… Questa rappresentazione che egli propone di se stesso, e che è la stessa Legge a cui lui soggetto sottosta, compare proprio in uno dei periodi, forse l’unico (escludendo quello della vecchiaia, soprattutto dopo la morte della sua due volte moglie amatissima Gala, musa specialissima), di crisi creativa di Salvador Dalì, e segna un passaggio di cambio di orientamento di interessi per ciò che può ispirarlo nella sua attività artistica: dalla Scienza Psicanalitica egli comincerà ad interessarsi alla Fisica Atomica: l’elefante rappresenterà proprio questo faticoso e pesante passaggio. Interessante rimarcare questa caratteristica dell’operare del Dalì, e cioè quella che egli sempre cercò ispirazione nella Scienza; una Scienza, si badi bene, che niente ha a che fare, in certo senso, ma non in altri sensi, con la sua Tecnica prediletta: non è certo dalla Psicanalisi o dalla Fisica Nucleare che è possibile apprendere la Tecnica Pittorica! (si può forse considerare questa caratteristica della comunicazione fra Arte e Scienza come uno dei tratti distintivi della Cultura latina rispetto alla Cultura di altre civiltà, ed in primo luogo a quella anglosassone) (ciò che dunque accomuna la Scienza e l’Arte, oltre la Filosofia, è forse, dunque, proprio la Tecnica; ma in fondo la Filosofia non è una Tecnica di Pensiero?). Tornando alla questione in oggetto, la crisi di cui sopra è inoltre confermata, si crede, dalla grande copia di ritratti che il Dalì dipinse in quel periodo e dall’impegno in cui si profuse come scrittore, soprattutto conchiudendo il suo famoso libro La mia vita segreta. Anzi, è proprio in chiusura che egli annuncia il suo futuro periodo di rflessione critica in vista del cambiamento: “Quando, agli albori della cultura, gli uomini avrebbero posto le basi eterne dell’esteica occidentale scelsero, tra l’informe molteplicità delle foglie esistenti, la forma unica, lucente, della foglia di acanto, materializzarono così il simbolo occidentale eternamente opposto a quello dell’Estremo Oriente, ossia alla foglia di loto. E la foglia d’acanto, resa divina, non sarebbe mai morta … perché vive, preparando la sua nuova gloria, nel cervello di Salvador Dalì. Sì! Io vi annuncio la sua vita, vi annuncio la futura nascita di uno stile…” Un passaggio di cambio di interessi che coincide anche con il suo nuovo afflato mistico, che comincerà ad affacciarsi in quegli anni (che egli accorperà alla Fisica Nucleare, fondando ciò che chiama il Misticismo Nucleare), e che coincide anche con la nuova patria d’elezione: dalla Francia egli comincerà ad andare sempre più spesso negli Stati Uniti d’America – in particolare a New York . Ed in una certa maniera, in realtà, è questo il periodo (quello degli anni quaranta) in cui l’eccentricità e la creatività di Salvador Dalì cominceranno sempre più a scemare. Non è un caso, mettendo in conto una buona dose di premonizione , di cui egli non era certo sprovvisto, come si vedrà, che l’Elefante rappresentato in quei quattro quadri è sempre più magro ed emaciato, forse sempre più anziano e vecchio (nel periodo preso in considerazione, Salvador Dalì, nato nel 1904, ha circa 40 anni e si trova precisamente nel mezzo della sua vita): sembra anche che la loro andatura sia sempre più lenta e stanca. Non è adesso né il momento né il luogo di soffermarsi (già in tantissimi l’hanno fatto), nello specifico, su ogni quadro; ma è utile sottolineare, per avvalorare le ipotesi esposte in questo scritto, che nel primo quadro adesso preso direttamente in considerazione, del 1944, Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana, un attimo prima del risveglio, comincia ad affacciarsi la rappresentazione di quel Misticismo Nucleare, a cui si è fatto riferimento più sopra, attraverso l’inserimento, nel dipinto, di oggetti sospesi e che, allo sguardo, danno l’idea d’essere in rotazione (la melagrana intorno a cui rotea l’ape in primis). Nel secondo, del 1945, Idillio melancolico atomico e uranico, le famose figure molli daliniane (come ad esempio gli orologi ) cominciano ad essere abbandonate - sembra attraverso una riflessione sulle brutture del mondo, come la guerra, della quale Dalì pare ritrovarne le cause nell’attegiamento ateo surrealista - a favore di una fedele rappresentazione della realtà (sicuramente anche la tecnica pittorica del Dalì era migliorata sempre più rispetto agli esordi ). Gli elefanti sono qui due e se ne intuisce la presenza di un terzo, nascosto, grazie all’apparire, apparentemente ingiustificato, di un obelisco da dietro una roccia. Nel terzo quadro, quello del 1946, La tentazione di Sant’Antonio, gli elefanti rappresentati sono cinque; e nell’ultimo, del 1948, Gli elefanti, di una semplicità estrema, rispetto ad altre opere di Dalì, gli elefanti sono due e si fronteggiano. Quest’ultimo, guarda caso, ma forse non è proprio un caso, fu dipinto a Roma. Ed interessante notare come l’obelisco di ogni elefante non sia più poggiato sulla groppa, ma sia in sospensione, secondo le regole pittoriche del Misticismo Nucleare, che qui, timidamente, comincia definitivamente ad affermarsi, dopo aver fatto la sua apparizione nel 1944, come visto, in qualità di costante dell’operare del Dalì, ed è interessante notare come essi obelischi siano tutti sbeccati e in rovina, come ad indicaere che l’autore si fa vecchio. Vecchiaia,comunque, agognatissima dal Pittore. Così in La mia vita segreta: “Invecchierò finalmente? Ho sempre cominciato col morire, per evitare la morte”. È da quest’ultima data, il 1948, d’altronde, come più volte rimarcato, che si affermerà il Misticismo Nucleare: del 1949, infatti, è il dipinto Leda atomica, di cui già solo il titolo è estremamente significativo delle intenzioni del suo autore. Per quanto riguarda l’abbandono della Psicanalisi e della Psicologia, gettando dunque adesso un’occhiata sul passato di Salvador Dalì di poco precedente al periodo preso in considerazione, l’opera di riferimento è Autoritratto molle con pancetta fritta, che in questo modo Dalì stesso commentò: “Autoritratto antipsicologico; invece di dipingere l’anima, cioè l’interiorità, dipingere unicamente l’esterno, l’involucro, il guanto di me stesso”. È questo un quadro del 1941. Due anni dopo, nel 1943, Dalì dipinge Bambino geopolitico osserva la nascita dell’uomo nuovo: probabilmente quest’uomo nuovo è Salvador Dalì stesso, e cioè l’Elefante di cui sopra. È dell’anno successivo, dunque il 1944, come osservato, il primo quadro con rappresentato un elefante carico di architetture. Ed è sempre dal 1948, anno dell’ultima opera qui specificamente presa in considerazione, Gli elefanti, che Dalì comincerà ad invecchiare: forse per questo i pachidermi sono rappresentati più rugosi e sostengono un obelisco in rovina.
Si giunge così, finalmente, al tema specifico del titolo di questo scritto: Dalì l’Elefante e Roma. Sempre i critici e gli studiosi di questo grande pittore si sono soffermati sull’importanza della Francia o degli S. U. A. (Stati Uniti d’America) nella vita del grande Pittore spagnolo catalano; ma pochissimi hanno individuato l’importanza della città di Roma, come presenza costante, sempre latente, quasi mai patente, nella vita e nell’immaginario di Salvador Dalì. Importanza che si vuole qui sottolineare, attraverso questo preciso ed esplicito riferimento alla statua del Bernini (anche se forse potrebbe essere quella di Bomarzo …). Eccone alcuni dati. Nel settembre del 1935 si ha notizia del primo viaggio di Dalì a Roma. Il suo mecenate Edward James lo invita a Ravello insieme a Gala e insieme a Garcia Lorca, il quale non seguirà, disgraziatamente per lui, la compagnia (sarà fucilato l’anno successivo nel corso della Guerra Civile spagnola che porterà al potere Franco). Una fotografia testimonia il loro passaggio, evidentemente turistico, a Roma: è una foto che ritrae i tre all’interno del Colosseo. È poi nel 1938, sempre sotto invito di James, che i due vi soggiorneranno per due mesi di seguito, passandovi l’inverno, a casa di Lord G. Berners: una splendida dimora affacciante sui Fori. Queste visite furono importantissime per Salvador Dalì; soprattutto perché si inquadrano già nella crisi degli anni quaranta. Così ne La mia vita segreta, Parte terza, Capitolo quarto: “Decisi di partire per l’Italia; mentre il mio paese attendeva il responso della distruzione e della strage, volevo interrogare una ben diversa sfinge, il Rinascimento. Sapevo che, dopo la Spagna, l’Europa intera sarebbe precipitata nelle rivoluzioni fasciste e comuniste, e che dalla miseria delle dottrine collettiviste doveva fatalmente formarsi un nuovo Medioevo, che reintegrasse i valori individuali, spirituali e religiosi … Mi aggiravo per Roma”. È poi nel novembre del 1948 che Dalì torna a Roma per assistere alla prima di Rosalina o Come vi piace di W. Shakespeare al Teatro Eliseo, spettacolo diretto da L. Visconti, di cui la scenografia e i costumi furono da lui disegnati. Per l’occasione la casa editrice d’arte Carlo Bestetti pubblica un testo del Dalì, Bonjour, e la Galleria dell’Obelisco (guarda caso proprio “dell’Obelisco”, come quello in groppa agli elefanti) organizza la “Prima mostra in Italia di Salvador Dalì” (Come visto, è proprio in questo periodo che il Pittore dipinge i quadri di cui sopra, che trovano come soggetto l’Elefante, soprattutto l’ultimo considerato, Gli elefanti, esattamente dello stesso anno). Ritorna a Roma anche nel novembre del 1949. In questo caso le ragioni della visita cambiano; non sono più storico-artistiche, ma religiose: Salvador Dalì è ricevuto in udienza da papa Pio XII, al quale mostrerà una versione del quadro dal titolo La madonna di Port Lligat. Questo incontro viene rievocato anche nel libro Diario di un genio al 10 settembre 1956; evento che però non è collocato temporalmente nel 1949 ma nel 1954; e vi viene anche confessato, in quelle pagine, lo scopo di questa visita: “fra i trecentocinquanta scopi della mia visita, il numero uno era una pratica per ottenere l’autorizzazione di sposare Gala in chiesa: una cosa difficile perché il suo primo marito, Paul Ѐluard, era, per la felicità di tutti, ancora in vita”. Interessante rimarcare che è esattamente nel corso di questo viaggio che il Nostro dipingerà uno dei suoi rarissimi acquerelli (rarissimi perché il Dalì si concentrerà più che altro sulla tecnica ad olii), dal titolo Roma, ritraente la veduta di Ponte Sant’Angelo, di Castel Sant’Angelo con, sullo sfondo, la cupola di San Pietro. Non è proprio un capovolavoro, occorre affermarlo, ma sicuramente si può intraedervi l’importanza che questa città ebbe per il Pittore. Che questa veduta dovesse essergli piuttosto cara, è confermato dal fatto che in uno schizzo inserito ne La mia vita segreta, in una delle ultime pagine, la prospettiva disegnata è esattamente la stessa. Vi soggiorna poi nel maggio del 1954 in occasione della prima retrospettiva in suo onore, organizzata nel Casino dell’Aurora del Palazzo Pallavicini Rospignosi. Questa mostra fu organizzata in primo luogo per presentare i disegni e le illustrazioni che il Governo italiano aveva nel 1950 commissionato a Dalì per la Divina commedia. A questo proposito non si può non sottolineare come Dalì medesimo riveli che quell’opera non l’aveva mai letta . Così i giornali riportarono l’evento (è Dalì che riporta l’articolo in Diario d’un genio, all’inizio del 1958): “Nei giardini illuminati con torce della principessa Pallavicini, Dalì rinasce, sorgendo all’improvviso da un uovo cubico ricoperto di iscrizioni magiche di Raimondo Lullo, e pronuncia un discorso esplosivo in latino”. Nel 1959 Dalì ritorna dal papa. Questa volta si tratta di Giovanni XXIII. È forse in quest’occasione che si profila il progetto di confidare al Pittore un quadro rappresentante il mistero della Trinità da esporre nel corso del successivo e prossimo Concilio ecumenico . Chiaramente non furono solo questi i rapporti che Dalì intrattenne con l’Italia: egli frequentò anche Milano, Venezia, Cortina D’Ampezzo, la Sicilia; ma non è questa la sede per approfondire, né in realtà si aggiungerebbe di più a ciò che si sta perseguendo, anche perché nessuno di questi altri luoghi lasciò delle tracce evidenti nelle sue opere pittoriche. È forse più interessante notare che, in ambiente artistico, parlò di lui, già nel 1928, F. T. Marinetti, il quale lo elesse ad uno dei suoi adepti; e dal quale, però, il Dalì subito si allontanò in quanto il suo Manifesto giallo – Manifesto Anti-artistico catalano fu bollato di futurismo e quindi “fuori moda”: un’onta, per un autore, come lui, che non cercava altro che lo scalpore e la notizia. Per quanto riguarda, al contrario, ciò che scrisse il Dalì su altri artisti, nello specifico italiani, oltre al suo smodato interesse per il Rinascimento, appena dopo la svolta mistica che si è più su tratteggiata, e quindi per, in particolare, Raffaello e Leonardo da Vinci, egli si occupò di Burri e di Boccioni, preferendo di gran lunga il secondo al primo. Così si può leggere in Viva l’arte moderna a condizione di dipingere a partire da Raffaello: “e in particolare Boccioni, il grande genio futurista”. In I cornuti della vecchia arte moderna, così su Burri: “Benché eternamente ed allegramente cornuto, Burri, nondimeno, si appende sopra la testa queste lordure” (sta qui parlando della schizzinosità di molti nell’avere a che fare e nel parlare di escrementi. Non perde quindi occasione, il Dalì, di manifestare ancora una volta la stima per gli antichi Romani citando il Conte de Caylus: “A Roma non si facevano problemi a parlare di merda. Orazio, il delicato Orazio, e tutti i poeti del secolo di Augusto ne parlano in cento punti delle loro opere”). E forse è interessante ancor più rimarcare che durante il più intenso periodo romano, in cui, come si cerca di dimostare, Dalì cominciò ad avere la sua svolta mistica (arrivando poi ad affermare nel 1968, in La mia rivoluzione culturale: “Io, Salvador Dalì, Cattolico Apostolico e Romano”), egli si preparò anche, come accadde a J. Derrida qualche decennio dopo , per la precisione due, a conquistare gli S. U. A. (forse in Italia non girava abbastanza denaro): si tratta insomma di un periodo di transizione, di passaggio; in fondo del passaggio dell’Elefante: un momento di crisi e di cambiamento del pachidermico Salvador Dalì, il quale, in questa sua latente ossessione per Roma, forse riesce a mostrarsi sinceramente e facilmente (le sue opere sono spesso di difficile lettura e interpretazione) attraverso l’artificio dell’Elefante; e riesce, anche qui con una certa dose di premonizione, a realizzare una delle più stupefacenti previsioni a se stesso autodettate. Nel suo diario, il 12, 13, 14, 15, 16 aprile 1920 (all’età di sedici-diciassette anni) annota in questa maniera: “Finirò il liceo il più velocemente possibile … Poi, partirò per Madrid, alla Real Academia de Bellas Artes. Ho l’intenzione di lavorare come un matto … Dopo, vincerò una borsa di studio per passare quattro anni a Roma; e, rientrando da Roma, sarò un genio e il mondo tutto mi ammirerà”. I tempi non sono certo stati rispettati, ma la premonizione … sicuramente sì: è infatti dopo aver frequentato Roma che il suo genio fu ammirato nel “mondo tutto”.
Id: 1877 Data: 02/05/2017 17:18:02
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arte e scienza
Mi si è dato e mi si dà, grazie a tutta una serie di coincidenze, che il Fato pare scientemente incasellare, appunto, ad arte, da riflettere e da pensare su “Arte e Scienza”. Il tema è quasi impensabile; impensabile, soprattutto tenendo da conto della vastità, dell’immensità, dell’infinità delle possibilità umane e delle sue memorie, tramandateci attraverso i reperti della più diversa natura: scritti, tele dipinte, incisioni, musica, matematica, geometria, econometria, economia, ecologia, biologia, psicologia … e chi più ne ha più ne metta: in tutte, e fra tutte, un continuo intrecciarsi di arte e di scienza. Tenendo per fermo il punto che queste due grandi materie devono avere qualcosa a che fare (ed è forse questo il bersaglio che questa ricerca vuole centrare), ho cercato d’informarmi su questo binomio; e, per puro caso, mentre ero alla ricerca di queste informazioni, mi sono imbattuto in una sorta di museo, in una sorta di casa d’arte e di scienza, apparentemente fuori dello spazio e fuori del tempo; e in un piccolo angolo, apposta dedicato a questo tema, ho trovato un’esposizione piuttosto particolare: era una mostra di libri; di soli quattro libri italiani. Chi lomise su mi ha certamente aiutato nella mia ricerca. Purtroppo, come spesso accade ultimamente (credo che sia così anche per la maggior parte dei miei simili), ero di corsa a causa dei tanti impegni presi per quella sola giornata. Così sul mio taccuino, che talvolta, quasi sempre, porto con me, non ho potuto abbozzare che pochi appunti. Ma tenendo al proposito conto del poco tempo che usualmente pare si abbia a disposizione, mi sono anche convinto che era forse meglio poco di tanto. L’importante era ben sceglierli. E già la scelta operata dai gestori del museo mi aveva in questo senso orientato; avevano in certo senso già agito, come per procura, per me, delimitandomi l’ambito della ricerca, e mettendo in mostra solamente, come detto, quattro libri. E quattro libri italiani, soprattutto! Mi stupì che questi organizzatori italiani si fossero rifatti alla loro cultura piuttosto che a quella straniera. Spesso, troppo spesso, forse, l’italiano, già dai tempi dell’Alighieri, si volta all’estero per trovare … chissà ché, poi! … quando in realtà in questa antichissima lingua, una delle più antiche del pianeta, è possibile trovare quasi tutto quello che potrebbe interessare chiunque. Rileggendo i miei appunti abbozzati sul taccuino – questi stessi appunti che, rivisti, vorrei adesso proporre – mi sono accorto che tre potevano essere le domande, di natura generalissima e sempre attualissima, che una riflessione su questo grande tema di “arte e scienza” poteva, e può, far nascere: I) con che pensiero è possibile costruire i rapporti fra Arte e Scienza? che comunanze e che differenze è possibile far intercorrere fra le due? II) qual è l’utilità dell’Arte e della Scienza? III) qual è la costante che permette di inanellare, in una sola catena, le figure del Genio, dell’Artista, della Scienziato, del Pazzo, del Folle? (Folle che a sua volta si ricongiunge al Genio) Cos’è che permette di rompere questa catena? all’altezza, o alla bassezza, di quale anello, essa è possibile romperla?
Mi rendo conto che così agendo lascio da parte domande enormi e classicissime, quasi metafiche o ontologiche, a seconda del significato che si vuole dare a quei due termini, a quei due “paroloni”; domande tipo: “che cos’è l’Arte?”, “che cos’è la Scienza?”; ma, forse, implicitamente, anche a queste domande, attraverso le prime su enunciate, è possibile rispondere; solo, adesso, non le tematizzerò direttamente: ancora una volta il tempo è tiranno. Propongo quindi di ripercorrere, attraverso la rilettura di questi appunti, allora presi, esuccessivamente rivisti, la visita di quella particolarissima esposizione, in modo che sia possibile poi tentare una sintesi dell’insieme delle risposte che più personalità hanno dato, attraverso le loro argomentazioni più diverse, a queste domande appena poste. Domande fra le tante che accompagnano questo grande tema che è “Arte e Scienza”. Domande che per quanto io me le ponga, e (ve) le ponga, non appartengono a nessuno, perché su di loro è da sempre estinto qualsiasi Diritto d’Autore. In un certo modo, dunque, esse risultano essere di nessuno, e quindi di tutti. Avverto da subito che già questi sul taccuino sono “appunti”, dunque brevi; ma, inoltre, voglio ricordare, essi sono presi nel corso di una veloce visita a quella parte di quello strano e originale museo, dunque non possono che riguardare degli oggetti incontrati di corsa. E quegli oggetti, come qualsiasi altra cosa incontrata in velocità, non sono potuti apparire che sotto forma di schizzi. Appena entrato mi resi conto che gli organizzatori dell’esposizione suggerivano di percorrere la mostra in una certa direzione, in modo che gli oggetti potessero apparire, ed essere studiati, secondo un certo ordine cronologico: quest’ordine era dal nuovo al vecchio: da opere di autori scomparsi più di recente a opere di autori scomparsi secoli fa, come un lento percorso verso le origini. Decisi di fidarmi dei museali e seguii il loro principio proposto, che sembrava seguire una progressione quasi geometrica: si trovavano reperti di soli 20 anni fa, poi di 100, poi di 200, poi di 600. Convinto, fra l’altro che, alla fine, forse, un ordine ne vale un altro: sempre ordine è – mi dissi - ovviamente in generale; nel particolare ogni ordine è diverso da un altro ordine, ovvio; e comunque, qualsiasi sia l’ordine, alla fine, la sintesi conclusiva sarà la stessa: cambiando l’ordine dei fattori (e forse anche degli addendi) il risultato non cambia – mi ripetevo, rievocando un insegnamento scolastico remotissimo. E un ordine va comunque rispettato e assolto: un ordine è già un comando o un comandamento.
Il primo libro esposto era a nome di Italo Calvino, dal titolo Lezioni americane e dal sottotitolo Sei proposte per il prossimo millennio (che poi in realtà, come verificai, sono cinque! Mattacchione questo Calvino!). “In copertina raffigurata una scultura di F. Melotti del 1969 dal titolo Scultura C (Infinito). Casa editrice: Mondadori. (Insomma, mi dissi: edizione elegante e tascabile: solo) 166 pagine, di carta di qualità che non ingialisce nel tempo. Libro pubblicato in prima edizione nel 1993 e giunto alla venticinquesima ristampa nel 2007. (Era quest’ultima ristampa quella presente alla mostra.) I testi del Calvino in esso contenuti sono stati scritti per delle conferenze che l’autore avrebbe dovuto tenere negli Stati Uniti nel corso dell’anno accademico 1985-1986. Essi risalgono quasi tutti al 1985. L’autore non potè compiere questo viaggio di lavoro perché decedette pochi mesi prima la data fissata per la partenza.” – Così era scritto sul cartellino di accompagnamento del libro in mostra, il quale continuava sottolineando che le parti riguardanti il tema “Arte e Scienza” potevano essere ritrovate in alcuni specifici capitoli. In quattro in particolare: quello dedicato alla “Leggerezza”, quello dedicato alla “Esattezza”, quello sulla “Visibilità”, quello sulla “Molteplicità”. In breve sembrava che fosse il tema di fondo di tutto il libro, visto che i capitoli compiuti erano in totale cinque. Ognuno di questi capitoli era dedicato ad un valore letterario che il Calvino voleva tramandare al futuro (la sua bravura e onestà è in ogni caso metterli in questione al contempo della proposizione). Tutti valori e tutte proposte che erano comunque risalenti nel tempo, come egli stesso tendeva a dimostrare attraverso le innumerevoli citazioni operate. Oltre quelli citati, un altro valore da tramandare, sempre secondo il Calvino, è quello della “Rapidità”. Anche per questo argomento un capitolo apposito. Certo, mattacchione questo Calvino, ma anche piuttosto ordinato; quasi maniacale: forse una specie di archivista. M’incuriosì, io che stavo di corsa, questo strano fatto che riferimenti ad “Arte e Scienza” non ve ne fossero proprio nel capitolo riguardante la rapidità, una rapidità e una velocità che aumentavano sempre più proprio grazie alla Scienza e, forse, anche grazie all’Arte. In effetti - mi dissi – mi ricordo che mi insegnarono che l’Arte e la Scienza non hanno niente a che fare colla velocità e colla rapidità; ma hanno a che fare colla lentezza e con la pazienza. Ma, appunto, sembra anche che, invece, la generino. Dunque forse non era poi così strano che proprio nel capitolo riguardante la rapidità non si presentassero riferimenti a questo grande tema. Ma, se non ricordo male, è il Sartre che afferma decisamente che fra il generatore, o, come lo chiama lui, generante, e il generato non vi può essere identità e sovrapposizione. Dunque è chiaro che se le Scienze e le Arti generano velocità, non esse possono essere tali, e cioè velocità. “In fondo - pensai e mi dissi – il generatore e il generato devono essere distinti” – come più volte m’insegnarono. E dai miei studi questa sembrava ormai una Legge sulla quale poter fare sempre affidamento. Il libro in mostra poteva essere consultato, come anche tutti gli altri lì messi in esposizione. “Bella una mostra in cui si possono toccare gli oggetti” – pensai. Lo presi quindi in mano per verificare la veridicità delle diciture del cartellino, e per imparare, forse soprattutto, cosa il Calvino pensasse su “arte e scienza”. Mi ritrovai davanti a dei testi dalla scrittura piana ed elegante, chiara nel modo di argomentare, che si snoda attraverso parole semplici e facilmente traducibili. “Ovvio, in fondo – mi dissi – : sono dei testi che erano stati pensati per essere letti ad un pubblico anglofono”. Mi ricordo che mi attirò in primo luogo tutto un brano che, vista la fretta, non ho potuto trascrivere. Si trova da p. 11 a p. 13. Sul mio taccuino ne segnai però un riassunto. In sostanza il Calvino afferma che spesso si trova ad accusare la pesantezza del vivere, e che proprio per questo ama dedicarsi alla Letteratura, andando alla ricerca di pensieri e immagini leggere. A volte ciò che in un primo tempo è leggero può anche poi risultare pesante. Ma tralasciando questo ultimo discorso, e questa dialettica degli opposti che come una sua tragica logica implicita lo sostiene, oltre che, anche, il discorso che si intravede nelle stesse parole, per il quale, secondo il Calvino il regno della Natura e quello della Letteratura sono separati; tralasciando questi discorsi, come dicevo, ciò che piace qui rimarcare è che proprio nella Scienza egli trova spunti per la sua ricerca della leggerezza, quando la Letteratura (l’Arte) non è più bastante al proposito, e che preferisce trovarli in essa, giacché in questo modo può essere sicuro che non si stia perdendo nell’irrazionale o nel sogno; ma è sicuro, al contrario, che, in questo modo, possa rimanere ancorato alla realtà. P. 12: “Ma se la letteratura non basta ad assicurarmi che non sto solo inseguendo dei sogni, cerco nella scienza alimento per le mie visioni in cui ogni pesantezza viene dissolta …”. Oltre al fatto che per il Calvino è evidente che la Letteratura fa parte dell’Arte a pieno titolo, come può farne parte la Pittura, è anche evidente che, per lui, Artista della Scrittura, la Scienza è un supplemento all’attività prettamante letteraria nella sua ricerca dell’ispirazione. Dunque in primo luogo l’Arte, e poi la Scienza; ovviamente per la sua attività di scrittore artistico. Da queste note, per così dire, personalistiche, Italo Calvino, successivamente allarga il discorso generalizzandolo. Dopo il capitolo “Rapidità”, che come visto non ha riferimenti al tema “Arte e Scienza”, nel capitolo “Esattezza” il tema torna in grande stile, perché egli si trova a confrontarsi con delle tradizioni enormi. Il Calvino, in sostanza, è per l’esattezza; ma come conciliare questa tendenza verso l’esatto, per esempio (e certo l’esempio il Calvino non lo sceglie a caso) con quella del Leopardi, il quale basa tutta la sua poetica sul vago e sull’indefinito? Per farla in breve il Calvino, anche per giustificare se stesso, si basa sulla dialettica, sulla logica in movimento, per affermare che il Leopardi, come evidentemente anche lui, non fa che generare la sua poetica del vago e dell’indefinito da una poetica inversa, e cioè quella basata sull’esattezza. Un’esattezza che, in fondo, conduce all’infinito, all’infinitamente grande come all’infinitamente piccolo . La Legge e la sua meccanica è sempre la stessa. Questa esattezza, questa infinità, non è facilmente raggiungibile con l’Arte se questa non è sorretta da buone basi scientifiche – afferma il Calvino. Il mirare a questo scopo, all’esattezza della Scienza, con l’Arte, diviene una lotta con l’Arte e, nello specifico di Calvino, colle Parole . Egli cita a questo punto il Da Vinci, con il quale chiude il capitolo sull’esattezza, il quale, a suo parere, aveva proprio incarnato questo estremo tentativo di fornire all’Arte una solidissima base scientifica. E, tra l’altro, lo presenta come il vero fondatore della prosa italiana: i lasciti letterari di Leonardo sono scritti, in effetti, in un italiano molto più vicino a quello attuale che non, per esempio, quello del Boccaccio. Anche altri sono gli stralci di questo testo sicuramente interessanti. Come per esempio quello contenuto alle pp. 100 e ss. In cui il Calvino dichiara che la Scienza egli cerca di sfruttarla anche per superare i limiti di un discorso antropocentrico. Tentativo che comunque, come egli stesso confessa, non è possibile portare a buon termine. Ma in questa veloce visita ci si può fermare anche solo a queste brevi note. Si rischierebbe, al contrario, di andare pure fuori tema. Anche perché l’attenzione è lo stesso Calvino che la sposta sul resto dell’esposizione in mostra in questo particolare museo, attraverso la citazione, prima del Leopardi e, poi, del Da Vinci. Ambedue autori che si trovano presenti alla mostra attraverso due loro scritti importanti.
Attirato dagli autori nominati nel testo di Italo Calvino, mi ricordo che non riuscii a resistere a non proseguire nella visita, anche perché il tempo, tiranno, come al solito, stringeva. Ma prima di giungere davanti ai libri dedicati a quei due grandi nomi, mi scontrai con un libro contenente un testo di Luigi Pirandello, dal titolo Arte e scienza. Anch’esso edito dalla Mondadori, come quelli del Calvino, ma nel 1994. Nonostante il titolo generale del libro fosse Arte e scienza, in esso erano in realtà contenuti tre piccoli saggi: uno, il primo, che è da titolo all’intera raccolta, intitolato, appunto, Arte e scienza, un secondo Soggettivismo e oggettivismo nell’arte narrativa, un terzo: Illustratori, attori e traduttori. Pirandello li scrisse in vista di un concorso all’accademia e gli vennero pubblicati tutti assieme nel 1908. Subito sul taccuino segnai due coincidenze che mi colpirono a prima vista: il fatto che la copertina dell’edizione mondadoriana di questi piccoli saggi riportasse un disegno di poliedro regolare per illustrare il De divina proportione di Luca Pacioli di Leonardo Da Vinci, e poi il fatto che subito dalle prime pagine dell’unico piccolo saggio che mi interessava direttamente (ovviamente quello intitolato Arte e scienza) fosse citato un canto del Leopardi. Gli stessi autori citati dal Calvino come tra i suoi più grandi maestri: uno inserito in copertina dagli editori e l’altro citato direttamente da Luigi Pirandello. Queste coincidenze non poterno che esaltarmi e convincermi ancor più a soffermarmi sul volumetto. “Certo che questi museali sono stati proprio arguti!” – pensai. Il testo che interessa qui maggiormente, che, come detto, s’intitola esattamente come il tema generale di questo incontro, è un saggio breve: si tratta di una ventina di pagine. Pagine dense scritte in un italiano che ha ancora dei retaggi antichi al suo interno, che lo rendono, così, leggermente più ostico di quello del Calvino, e che si evidenziano quando il Pirandello utilizza vocaboli come “lume”, o quando accorcia i verbi, come per esempio “son” al posto di “sono”; ma, nel complesso, è godibilissimo. E ha il pregio di essere breve (- ah questo tempo tiranno … !) Anche in questo caso, considerato il poco tempo di allora a mia disposizione, e quello di oggi, forse quello di sempre, non potrò soffermarmi a lungo su questo testo, che in sostanza si basa sulla trattazione del pensiero di Benedetto Croce proprio sul tema “Arte e Scienza”, in modo che l’autore possa esprimere il suo proprio punto di vista . Ciò che in primo luogo Pirandello vuole confutare è la netta separazione che il Croce fa intercorrere fra Arte e Scienza. Sul mio taccuino segnai, più che altro, le posizioni di cui Pirandello si faceva difensore. In sostanza cercai di estrapolare dallo scritto il pensiero del Pirandello, astraendolo dalla “querelle” con il Croce. In primo luogo segnai così che, per il Pirandello, fra Arte e Scienza vi sono delle comunanze e delle differenze, ma non vi è certo separazione. La comunanza è una: quella che ambedue fanno parte dell’Attività dello Spirito. Le differenze, ognuna collegata all’altra, sono invece due, e si riannodano fra loro nel carattere della qualità (e non della quantità, come afferma, secondo il Pirandello, il Croce) e nel carattere della libertà: la Scienza è oggettiva, mentre l’Arte è soggettiva; la Scienza ha un fine che è esterno ad essa stessa, l’Arte, a differenza, ha come fine se stessa. Insomma, la Scienza ha una regola che si tramanda da maestro ad allievo; l’Arte ha una regola che l’artista, l’operatore, si dà da sé. Ma, nonostante le differenze, come detto, una è, per il Pirandello, l’Attività dello Spirito. Attività che si esplica nella Logica: Logica rapsodica e intima in Arte, logica fissa ed esterna in Scienza. Attività più o meno libera, la quale però, p. 43, “per quanto in apparenza indipendente da ogni regola, essa ha pur sempre una sua logica … come un congegno apparecchiato innanzi, ma ingenita, mobile, complessa”. Attività che essendo unica non può fare a meno dell’una e dell’altra parte. Sempre p. 43: “Tanto è vero che ogni opera di scienza è scienza e arte, come ogni opera d’arte è arte e scienza. Solo, come spontanea è l’arte nella scienza, così spontanea è la scienza nell’arte.” Si potrebbe passare molto tempo a riflettere sul senso di queste azzardate parole, e soprattutto sulla spontaneità, che pare accomunata all’incoscienza, o, meglio, all’inconsapevolezza. Ma ciò che qui interessa ora rimarcare è che, per il Pirandello, tutto sembra convergere in ogni caso verso un primato dell’Opera, la quale può essere sia di Scienza che di Arte. E un’Opera può dirsi tale, l’Opera che ha necessariamente come regno il regno del fatto, del concreto (e non dell’irrazionale e del sogno, come anche afferma il Calvino), quando è compiuta dall’attività del genio. Genio che non è un pazzo, ma tutt’al più un folle. P. 22: “Il pazzo è o prigioniero entro un’idea fissa o abbandonato a tutti gli avvenimenti miserevoli d’uno spirito che si disgrega e si frantuma e si perde nelle proprie idee; senza varietà cioè e senza unità: il genio, invece, è lo spirito che produce l’unità organatrice dalla diversità delle idee che vivono in lui, mediante la divinazione dei loro rapporti; lo spirito che non si lega ad alcuna idea, la quale non diventi tosto principio d’un movimento vitale: unità cioè e varietà”. Così si esprime il Pirandello per dire che il Leopardi (guarda caso ancora il Leopardi!) non era pazzo e malato, come alcuni contemporanei suoi, del Pirandello, andavano dichiarando; anzi, il Leopardi era ben conscio delle sue scelte e del suo operare poetico. Folle sì, certo non pazzo, insomma: un genio. E così conclude al proposito il Pirandello: P. 21: “L’arte deve consistere tutta nella scelta degli oggetti, nel porli nel loro vero lume, nel prepararci a riceverne quella data impressione”: questo, quindi lo scopo dell’operare del genio.
Queste parole sul genio, riferite dal Pirandello in primo luogo a Giacomo Leopardi, non potevano che indurre gli espositori, e dunque anche il sottoscritto, che a rivolgersi a questo grandissimo italiano della prima metà del XIX secolo. Il libro che avevano deciso di mettere in esposizione era una interessante edizione dello Zibaldone, in cui si era scelto di omettere dal testo originario le parti riguardanti la filologia, ma che era stata completata: da due saggi introduttivi (uno di S. Solmi e l’altro di G. De Robertis), da una biobibliografia dell’autore, da una bibliografia di opere critiche, da una postfazione di G. Ungaretti e da un indice dei temi generali. Purtroppo un indice basato sulle pagine dell’edizione Mondadori di cui si sta trattando e non dello Zibaldone. Questo enorme scritto che il Leopardi non diede, in vita, alle stampe fu composto tra il 1817 e il 1832. Il libro presente era la ventesima edizione del 2007 della versione mondadoriana del 1937. In copertina il famosissimo ritratto di Giacomo Leopardi realizzato da S. Ferrazzi. L’unica possibilità di orientarsi in questo libro immenso mi fu data dal cartellino accanto all’esposto, in cui erano segnati alcuni dei passi più interessanti in ordine al tema in questione. Ma nonostante fosse stata operata una cernita consistente, visto il poco tempo a disposizione mi sono ritrovato a doverne compiere una ancora più stretta. Questo è quello che in breve sono riuscito a registrare sul mio taccuino. Sottolineo che per le citazioni tengo conto della numerazione delle pagine dello Zibaldone originaria (numerazione riportata fra parentesi quadre nell’edizione in esame della Mondadori). Sottolineo inoltre che alcune informazioni derivano da miei studi precedenti sulle opere del Leopardi. Per cercare di arrivare velocemente al fondo del pensiero leopardiano occorre in primo luogo tener fermi due punti. Il primo è che il pensiero del Leopardi prende le mosse da una bipartizione che trova la sua sintesi solo verso la fine della sua vita. Il secondo è che per il Leopardi la Filosofia è da considerarsi una Scienza; la Scienza che più di tutte deve essere alla base dell’attività poetica. E questo sotto l’influsso romantico tedesco, per il quale ha comunque parole di fuoco, che ora non è il caso di riportare (cfr. ad ogni modo pp. 1848-1860 e pp. 3237-3245 – in caso interessasse l’articolo). I primi argomenti che attrassero la mia attenzione (mi ero infatti distratto dalla riflessione sul Genio) furono quelli in qualche maniera collegati agli argomenti trovati nei testi dei due precedenti autori, ambedue, evidentemente, profondi conoscitori dell’opera leopardiana, capisaldo della Cultura (certamente italiana, ma forse mondiale) col quale è necessario confrontarsi per la sua originalità e profondità e meticolosità di composizione. (Sottolineo velocemente che dello Zibaldone ancora non ne esiste una versione tradotta in lingua inglese, anche se è attualmente in fase di elaborazione.) Il primo argomento è quello della esattezza. Come insegna il Calvino, questa qualità, questo valore, che si ricava dalla Scienza, e che va riportato in Arte, è da tramandare al futuro. Secondo il primo Leopardi l’esattezza e la regolarità fanno parte della Scienza, della Ragione, della Filosofia, ma non della Natura, dell’Arte, della Poesia (cfr. p. 269). Così come nel primo gruppo rientra la variabilità, ma non nel secondo, che è invece caratterizzato dall’eternità (cfr. pp. 1312-1313). Questa seconda discussione, sulla variabilità e l’eternità, rinvia invece al Pirandello che accomuna la variabilità all’unità nell’opera del genio. In ambedue i casi, in ogni modo, entrambi gli autori più recenti (quelli del xx sec.) sono consapevoli della reversibilità degli opposti. Consapevolezza che deriva da una completa assimilazione (ed evacuazione) della Cultura romantica tedesca, a cui il Leopardi arrivò alla fine della sua breve vita. Per esempio il Calvino, come visto, accomuna l’esattezza all’infinitezza. Infinitezza che il Leopardi, come l’eternità, pone come prerogativa dell’Arte, e non della Scienza, almeno all’inizio, come già affermato. Ecco che comunque la grande spartizione leopardiana prende forma: da una parte la Ragione, la Scienza, il Finito, l’Indifferenza; e dall’altra l’Istinto, la Natura, l’Infinito, il Piacere. Ed è questa seconda categoria che il Genio deve perseguire nella sua Opera. Pp. 259-262: “Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose … servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo … E lo stesso spettacolo della nullità, è una cosa in queste opere, che par che ingrandisca l’anima del lettore, la innalzi, e la soddisfaccia di se stessa”. Insomma, tutto il contrario dell’indifferenza. E ciò che il Genio deve perseguire (eccoci riportati naturalmente al Genio) colla sua imitazione, colla sua imitazione straordinaria, sono le “cose che tuttogiorno si vedono senza badarci” (cfr. pp. 6-8). Ed in questo suo operare il Genio è regola a se stesso, anche nella scelta del suo maestro, che può anche non essere presente, come all’opposto avviene nell’ambito della Scienza, in cui, invece, il maestro deve sempre essere lì accanto all’allievo. (cfr. insieme, pp. 59 e 269). “dunque - mi dissi – è il Leopardi all’origine della posizione del Pirandello. Ed è certo anche chiaro perché l’Accademia non lo accolse!” Come dicevo questa bipartizione iniziale trova, però, una sua sintesi. E questo soprattutto perché il Leopardi non riesce a mantenere la distinzione fra il Vero (che dovrebbe essere la prerogativa, e l’obiettivo, della Scienza) e il Bello (che dovrebbe essere la prerogativa, e l’obiettivo, dell’Arte). Se dunque dall’anno 1820 ci si sposta al seguente, al 1821 (Giacomo ha solo 23 anni), ecco che ci si ritrova su posizioni simili a quelle conclusive del Pirandello e del Calvino: l’Arte e la Scienza non possono fare a meno l’una dell’altra. Non che esse siano la stessa cosa, le differenze segnalate sono valide; ma esse non sono contrapposte. Esse insieme danno luogo alla Scienza della Natura; e “La scienza della natura non è che scienza di rapporti” (cfr. pp. 1833-1840). Ma dunque qual è il criterio perché si possa riconoscere una vera e bella opera? Pp. 2568-2572: “Tutto è arte, e tutto fa l’arte fra gli uomini … in tutte queste cose, e s’altre ve ne sono, riesce meglio chi v’adopra più arte”. E cioè in un certo senso più Scienza, o, per meglio precisare, più pratica, più esperienza, come si evince da quelle pagine, che qui, per questioni di tempo, non mi è possibile citare direttamente; ma in ogni caso la preminenza, e non è certo un caso visto che il Leopardi si proponeva come Artista, è tutta a favore dell’Arte.
Dopo questo breve passaggio sul Leopardi, maestro di pensiero indiscusso, almeno per il Pirandello e il Calvino, non mi restava che passare al Da Vinci, genialissimo fra i Geni, l’ultimo di cui viene esposto un libro; il quale, citato dal Calvino, e presente sul libro dedicato al Pirandello per scelta degli editori, non viene mai nominato dal grande poeta. Ma ciò anche per la questione che i codici leonardeschi non ebbero facile diffusione fino ai tempi più recenti. Apro questo libro dedicato agli scritti di Leonardo Da Vinci, edito dalla Rusconi, a cura di Jacopo Recupero, e subito sono sbalestrato a conclusioni completamente opposte a quelle leopardiane: la Pittura, come anche le altre ‘arti’, è una “scienza”. Lo stupore che mi colse fu enorme. Dopo aver sfogliato velocemente l’“indice del volume”, una cronologia dei codici del Da Vinci, poi la “premessa”, in seguito una sorta di biografia leonardesca dal titolo “persone, cose, luoghi, date”, dopo l’“introduzione al «trattato della pittura»”, sempre a cura del Recupero, nella prima parte del Trattato, par. 1, così lessi, e così ricopiai sul mio taccuino: “1. Se la pittura è scienza o no. Scienza è detto quel discorso mentale il quale ha origine da’ suoi ultimi principi, de’ quali in natura null’altra cosa si può trovare che sia parte di essa scienza …”. Nel proseguio del paragrafo la domanda posta nel titolo non trova risposta. Perché essa è implicita: la Pittura è Scienza. E la Scienza è appena stata definita come tutto ciò che non è Natura, ma che alla Natura si rivolge. Non mi addentrerò qui sul discorso primario che il Da Vinci porta avanti, in questa prima parte del Trattato sulla pittura, in ordine alla comparazione tra la Pittura e gli altri tipi di Opere Umane (come la Poesia, in primo luogo, ma anche la Scultura e la Musica), nello stesso tempo ponendo la Pittura al più alto grado di eccellenza, insieme, guarda caso, ma forse non è un caso, alla Filosofia (cfr. par. 5), tra le varie materie, imponendo così una gerarchia, avendo come scopo quello, appunto, di difendere la Pittura, in quanto nei secoli precedenti era stata classificata come Arte, o Scienza, minore e meccanica, perché non si concludeva nel solo atto del ragionamento, come per esempio, si affermava, accade al contrario per la Poesia. Ma al di là di queste insane diatribe, alle quali anche il Da Vinci quindi si presta, difendendo il suo principale amore, la Scienza della Pittura (come il Leopardi la poesia ), ciò che qui interessa sono i principi generali che Leonardo Da Vinci ci presenta in ordine alla Scienza in generale, e cioè all’Arte. Egli afferma in primo luogo, come il Leopardi, che la Scienza è legata alla Natura: fra di loro vi è distinzione, ma nello stesso tempo vi è anche un rapporto, per così dire parentale. Par. 8, parlando della Pittura, in quanto Arte o Scienza eccelsa: “E veramente questa è scienza e legittima figlia di natura, perché la pittura è partorita da essa natura; ma per dir più corretto, diremo nipote di natura, perché tutte le cose evidenti sono state partorite dallla natura, dalle quali cose è nata la pittura. Adunque la chiameremo nipote di essa natura e parente d’Iddio”. Questa parentela è anche il criterio che permette di distinguere una vera Opera di Scienza (come anche del valore fra le varie scienze) dal resto delle attività umane: più l’Opera si avvicina alla rappresentazione della natura e più essa è eccelsa: l’importante è dunque imitare la natura al più alto grado (cfr. parr. 15, 17, 18). Il secondo valore da tener fermo, sempre ad avviso del Da Vinci, è la fatica. Se è vero che non si può distinguere la parte mentale dalla parte meccanica, è anche vero che la scienza di maggior valore è quella che ha preponderanza nella parte mentale, e che dunque è meno meccanica e, quindi, meno faticosa (cfr. par. 32, che tratta delle differenze e della gerarchia tra la Pittura e la Scultura). Terzo valore: se è vero che l’Uomo fa parte della Natura è anche vero che esso ne rappresenta l’ultima creazione, e dunque anche la più bassa. Par. 3, trattando delle differenze e della gerarchia fra Poesia e Pittura: “la pittura rappresenta al senso con più verità e certezza le opere di natura, che non fanno le parole o le lettere, ma le lettere rappresentano con più verità le parole al senso, che non fa la pittura. Ma dicemmo essere più mirabile quella scienza che rappresenta le opere di natura, che quella che rappresenta le opere dell’operatore, cioè le opere degli uomini, che sono le parole, com’è la poesia, e simili, che passano per la umana lingua.” In questo senso ci sarebbe da riflettere sull’Arte Astratta, che, in qualche maniera rappresenta più l’animo dell’operatore che le opere di natura. Ma anche in questo caso, sempre per ragioni di tempo, e di coerenza tematica, faccio cadere questo interessante discorso. Ma c’è un quarto valore, forse il più importante, per giudicare se un’Opera è effettivamente un opera di Scienza, per verificare se essa è effettivamente Vera. Par. 12: “non scienze, ma discorsi, per i quali sempre con gran gridore e menar di mani si disputa”; par. 29: “E veramente accade che sempre dove manca la ragione suppliscono le grida … Per questo diremo che dove si grida non è vera scienza, perché la verità ha un sol termine, il quale essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto, e s’esso litigio resurge, ella è bugiarda e confusa scienza, e non certezza rinata”. A questa Utilità, quella che la vera Scienza genera accordo e non dispute, se ne affianca un’altra, che, in un certo senso, da essa deriva e che si riallaccia ad un altro discorso – quello dell’universalità: “Quella scienza è più utile della quale il frutto è più comunicabile, e così per lo contrario è meno utile quella ch’è meno comunicabile”. Questa comunicabilità deriva da una caratteristica in fieri dell’operatore: esso deve essere disposto all’universalità (cfr. par. 58); a quell’universalità che al tempo del Leopardi già si tramutava in enciclopedismo. Ma già negli scritti di Leonardo è possibile ritrovarvelo in nuce. In breve egli suggerisce di farsi una propria piccola enciclopedia in cui registrare le proprie osservazioni del reale, in modo poi da poterle riportare in pittura. Par. 169: “e quelli notare con brevi segni in questa forma su un tuo piccolo libretto, il quale tu devi sempre portare teco”; par. 175: “sicché per questo sii vago di portar teco un libretto … e quando avrai pieno il tuo libretto, mettilo da parte, e serbalo a’ tuoi propositi, e ripigliane un altro, e fanne il simile; e questa sarà cosa utilissima”. Sul mio taccuino ritrovo un ultimo appunto, che pare collegarsi a questo autoenciclopedismo propugnato dal Da Vinci, e che mi rimanda al Pirandello, il quale afferma che una delle differenze fra Arte e Scienza è quella riguardante la Regola: ogni Artista, ogni generatore d’Arte si dà la Regola per sé, mentre lo scienziato trova una Regola già fissata. Anche Leonardo parla di una distinzione simile: quella fra scienze imitabili (quelle che il Pirandello chiama scienze) e scienze inimitabili, o, per meglio dire, singolari, irriproducibili (quelle che il Pirandello chiama arti). Par. 4: “Le scienze che sono imitabili sono in tal modo, che con quelle il discepolo si fa uguale all’autore, e similmente fa il suo frutto; queste sono utili all’imitatore, ma non sono di tanta eccellenza, quanto sono quelle che non si possono lasciare in eredità, come le altre sostanze. Infra le quali la pittura è la prima”. Anche in questo caso mi limito a fare da messaggero e lasciar cadere il discorso su questa labile differenza sulla Regola (una regola che sia più o meno codificata formalmente, che sia più o meno patente o latente, c’è sempre: questo preme soprattutto rimarcare), ad ogni modo interessante e profonda, e su quella dell’ereditarietà delle Opere. Anche in questo caso non posso ampliare troppo il discorso per questioni che il solito tiranno implica.
Questa velocità avuta nell’incontro concentrato e attento, seppur differito e mediato dagli scritti, con queste straordinarie personalità della Cultura italiana di importanza planetaria, mi ricordo che mi stordì: mi ritrovai con il mio taccuino appoggiato su un ginocchio e il libro “Leonardo Da Vinci, Scritti. Tutte le opere: Trattato della pittura Scritti letterari Scritti scientifici” sul leggio davanti a me sul quale era in esposizione, con stampato sulla copertina un ritratto a matita di se stesso dell’autore, da anziano canuto, e la Monna Lisa in un angolo a sinistra estrapolata dal suo contesto, e cioè dal panorama nel quale sul dipinto originario è inserita, riflettendo sul fatto che questa edizione non tiene conto di tutti gli insegnamenti lasciatici dal Da Vinci, e sul fatto che, nonostante egli faccia di tutto per innalzare la Pittura al di sopra delle Lettere, alla fin fine è proprio alle Lettere che egli si è affidato maggiormente per far ricordare la sua complessa personalità e i suoi pensieri e i valori dai quali partì per la composizione delle sue opere pittoriche. “Solo le Lettere, infine - pensai e mi dissi - permettono di ammirare i retroscena di un’opera pubblicata, che essa sia letteraria o meno. E che solo le Lettere è ciò a cui tutto può risalire come vertice di comunanza tra le varie materie umane: il Giuridico, l’Economico, il Matematico ... In fondo anche nella Musica, sugli spartiti musicali, sul pentagramma, esse sono presenti … Le Lettere, il primo e più labile prodotto dell’attività della Ragione, questa sorta di Seconda Natura, quando l’Essere Umano è considerato come esterno alla Natura; e che in realtà e in verità non è che la Metafora della Natura Umana dell’Uomo, che dunque sempre della natura fa parte, che sempre Natura è, e che dunque è forse, trattata in un certo modo, anche Metafora della Natura in generale nella quale anche l’Essere Umano è compreso (forse è qui che il Calvino riuscì a intravedere la possibilità di un’opera che riuscisse a superare l’antropocentrismo). In questa direzione si può forse dire che è proprio quando l’Arte, o la Scienza, diviene Metafora pressappoco perfetta della Natura, che esse possono essere considerate Vere e Belle, e quindi in qualche maniera Giuste.
Mi riscossi, allontanandomi da queste riflessioni e riconcentrandomi sui successivi impegni della giornata, contento di serbare nella mia sacca il taccuino su cui velocemente ma con cura avevo segnato i miei appunti, i miei abbozzi, degli schizzi del contenuto di questi immensi testi, quasi metafisici e in rovina, metafisici come gli oggetti osservati in velocità. Lasciai così le stanze dell’esposizione in mostra in questo straordinario museo.
È forse ora giunto il momento, col senno di poi, di tirare le somme di questa visita in quell’impalpabile museo fuori del tempo e dello spazio, che ha generato questa sorta di viaggio spaziotemporale tra le rovine di passati recenti e più antichi, fino agli albori della modernità italiana, una delle modernità più antiche della cosiddetta Cultura Occidentale, forse la più antica, mettendo insieme gli appunti, per delle risposte a quelle tre domande che mi ero inizialmente posto come punto di partenza, e quindi di arrivo, per questa ricerca, di tipo per così dire archeologico, su “Arte e Scienza”. Prime domande, e risposte: il pensiero attraverso il quale è possibile ricostruire e ipotizzare dei rapporti fra le arti e le scienze è forse quello su cui mi soffermai alla fine della visita appena narrata: la Natura Umana è questa Natura, e Metafora di essa Natura nello stesso tempo, dunque in comune questi due amplissimi ambiti, l’Arte e la Scienza, hanno, come disse Imre Toth, con l’uso dei cosiddetti ‘paroloni’, nel corso del precedente incontro su questo tema in questione, organizzato sempre dal Centro Studi “Lucio Colletti”, a Pesaro, nel marzo di quest’anno 2010; essi ambiti in comune hanno: la valenza cosmologica e quella epistemologica. Cioè, secondo le parole del Pirandello e del Croce, esse vanno riferite entrambe a quell’unica Attività dello Spirito dell’Essere Umano, che si esplica sia nell’Arte che nella Scienza, cioè nella Ragione, di cui, al loro limite eccelso e aporico non ne sono che la Metafora, e quindi non fanno altro che rappresentarla. E questa comunanza è confermata sia dal Leopardi, che riduce tutto all’Arte, sia dal Da Vinci, che riduce il tutto alla Scienza, occupandosi, entrambi, sia di Arte che di Scienza, anche se di arti e di scienze differenti. Se dalle comunanze si passa alle differenze (differenze in aprticolare giuridica, che in realtà non fa che confermare la vicinanza di questi due ambiti), la prima e grandissima che è possibile ricavare da ciò che si è appena incontrato, e che si ricava principalmente dal pensiero pirandelliano, e che trova conferma in quello leonardesco e in quello leopardiano, considerate nella dinamica del loro manifestarsi, è quella della formalità o informalità della Regola, e, dunque nel modo in cui questa Regola viene trasmessa: da maestro ad allievo, rimanendo uguale a se stessa, come se fosse esterna agli operatori e vivesse di vita propria, formale, nell’ambito delle scienze; ogni volta autonomamanete rinnovata e valida solo per un operatore, come se l’operatore fosse la regola stessa, interna, informale, nell’ambito delle arti. In questo senso, si potrebbe concludere, nelle arti si verifica un maggior esercizio della propria libertà personale che nelle scienze. Si può quindi forse dire che nelle arti si pecca di superbia più che nelle scienze, perché, alla fine, nel praticare le arti il soggetto, l’artista, si vuole porre come un’origine oltre la quale non si può più risalire. In questo senso l’artista si pone come un essere più divino dello scienziato. [In questo senso interessantissime le riflessioni sulla libertà degli individui e sul rapporto inversamente proporzionale della tirannia dello Stato di Leopardi, Zibaldone, pp. 252, 274-276, 314-315: più la ricerca è libera e più lo Stato è tiranno e viceversa]. In questa direzione, considerando i sensi finora presi in considerazione, si può forse affermare che: la Scienza è l’Arte con cui l’Umano studia ciò che lo circonda, basandosi sulla presupposizione che si possa mettere al di fuori di esso; e l’Arte è la Scienza con cui l’Umano studia se stesso, nella presupposizione che ciò che lo circonda lo inglobi. In conclusione: comunanza generale tra Arte e Scienza (che è anche l’elemento sul quale far ruotare le loro differenze) è la Ragione, la Regola, la Legge. Alla seconda domanda, quella sull’Utilità delle scienze e delle arti, si può rispondere che essa è triplice. Da una parte l’utilità derivante dall’essere, le arti e le scienze, veicoli per tramandare l’esperienza di vita degli operatori che le hanno praticate, di essere testimonianza di una o più vite, attraverso il loro carattere metaforico di quelle attività dello spirito, di quelle vite, della vita, soprattutto attraverso le Lettere. Dall’altra parte il suggerimento di Leonardo è sicuramente fondamentale: dove c’è Vera Scienza, e, si aggiungerebbe, dove c’è Bella Arte, dove quindi è possibile e costatare e verificare il Bello Vero, il Giusto, non c’è litigio. Dove c’è accordo e univesalità di giudizio, lì si riscontra la presenza del Bello Vero. E forse dove c’è unanimità di giudizio, secondo ciò che si è espresso precedentemente, la rappresentazione della Natura, Natura presumibilmente infinita, raggiunge il suo grado di esattezza maggiormente attingibile. Da un’altra parte ancora, come indica il Calvino, l’Arte e la Scienza possono aiutare a ritrovare quella leggerezza che nel quotidiano pesante della vita può tendere al celarsi. Alla terza e ultima domanda, sul Pazzo e sull’Artista, spesso considerato un Folle, si può invece rispondere in primo luogo con le parole del Pirandello, che ci dice - e di esperienza doveva averne molta, considerando la pazzia riconosciuta della moglie - che il Pazzo non è capace di tenere assieme unità e varietà, capacità che è invece la prerogativa del Genio. Questa figura si caratterizza ancor meglio attraverso le indicazioni del Leopardi, il quale mette in campo la concentrazione e l’attenzione del Genio, il quale è capace di cogliere e di amplificare il Bello (e quindi il Vero) che è possibile riscontrare nella quotidianità. Quotidianità verso cui il Pazzo mostra disinteresse, perso com’è nel mondo delle proprie idee. Occorre però inoltre segnalare, per meglio definire la figura del Genio, che questa genialità non è solo innata (ci vuole comunque una certa disposizione), ma ha bisogno che il Genio l’eserciti e la pratichi, come dice il Leopardi, e che si aiuti prendendo appunti, abbozzi e schizzi, sul suo libretto, come consiglia il Da Vinci. La figura di Salvador Dalì è emblematica e potrebbe essere di grande utilità, una volta appresa, per rischiarare queste tematiche. Mi verrebbe, ora, da prendere lo spunto per una riflessione sul tema Follia e Ragione, tema sul quale in tanti hanno già riflettuto, e mi chiederei: “Possibile che sia considerato un Folle proprio colui che tende a meglio esercitare la (propria) Ragione?”. Anche in questo caso il Tiranno m’impone di contenermi. Ma si è fatto tardi, è ora che chiuda questi taccuini.
Id: 1876 Data: 02/05/2017 17:15:44
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- Letteratura
Mi capita di urlare la mia gioia di vivere
Di libri antichi e preoccupanti, come anche di moderni o di contemporanei, ma sempre preoccupanti, ne ho letti tanti, tantissimi, e tanto mi hanno indicato ed esemplato; però, però … mi hanno anche lasciato dei segni di malessere forse ‘inutile’, forse troppo utile per l’integrazione sociale. Pochi sono stati in effetti i libri sulla felicità, che non sia stata quella ‘banale’ della realizzazione di un amore passionale. Tra di essi me ne ricordo almeno un paio. Essi hanno il sapore del giornale di bordo e l’odore del porto e del mare. Del porto quello del Dalì, e del mare quello del Moitessier. Rispettivamente: Diario di un genio e La lunga rotta. Che cos’hanno in comune di bello, di nuovo, di speciale, per me, quei due libri marini? direi che essi sono spaventosi: sono, cioè, speranzosi e gioiosi e divertenti; mettono il lettore davant i a un esempio di essere umano, tra i due completamente diverso ma al contempo simile, che è, a mio parere: invidiabile. Sì, invidiabile: un tipo di essere umano che ha trovato il modo di coniugare concetto e corporeità, cultura e manualità, pensiero e azione (se questo tipo di contrapposizioni avesse senso). Insomma di un essere umano completo. In questo le esperienze comunicate da quegli autori si assomigliano, ma per tutto il resto sono completamente diversi: tanto aristocratico il Dalì, quanto popolano il Moitessier; tanto posato il primo, quanto agitato il secondo; il primo pittore monarchico, il secondo navigatore autarchico, ma entrambi rivoluzionari. Ambedue col rimpianto della musica. Operosi ambedue: il Dalì ci ha lasciato qualcosa come quindicimila opere, mentre il Moitessier ha compiuto un giro del mondo e un quarto in dieci mesi di navigazione in solitaria senza scalo. Come dimenticare il Dalì che ci narra di quando si trasformò in pesce? O di quando ritrovò la forma del continuum temporale nella forma delle chiappe di una sua amica? O di quando si rese conto che il corno del rinoceronte, la Merlettaia del Vermeer e la margherita rispondono tutti al medesimo algoritmo? Come dimenticare il Moitessier che ci narra di quando si ubriacò e si ritrovò con un fantasma di marinaio sulla barca? O di quando ci narra della storia dell’inutile soffietto che regalò e tempo dopo gli venne riregalato? Ma, ancor più, dove ritrovare quelle magnifiche descrizioni che egli effettua del mare, dei suoi colori, dei suoi suoni, dei suoi ambitanti, della sua forza? Quella forza immane che egli si trovò ad affrontare per qualche mese durante l’inverno australe – ma che non ci racconta? Come dimenticarlo? E certo è importantissimo che egli non ce la racconti, che egli non ce la voglia raccontare: per pudore e perché, probabilmente, non ci voleva spaventare dell’andar per mare. Come dice Seneca ne L’ozio: “Se uno mi dice che navigare è bellissimo, ma poi aggiunge che i mari sono cosparsi di naufragi e infestati da frequenti burrasche … è evidente che costui, pur lodando la navigazione, in effetti mi vieta di salpare”. In questo suo riserbo, però, il Moitessier lascia giù delle frasi che mi piacerebbe sentire più spesso. Delle frasi che sono dei versi poetici, delle frasi che sono dei versi animaleschi, come (ottonario dopo ottonario): “mi capita di urlare la mia gioia di vivere”. In questo senso anche il Dalì non è da meno: “Vado a letto felice”. E lo afferma in quanto Gala era rimasta ammirata dai suoi quadri. Qualcosa, insomma, in entrambe le occasioni, di ben diverso da “Il male di vivere ho incontrato” del vecchio Montale.
Id: 1849 Data: 21/03/2017 23:04:58
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