I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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- Letteratura
La poetica del possibile vivere
L'albergo dei morti Piu che crespuscolare la poesia di Fabio Dainotti sembra presa da una sorta di fascinazione decadente. La sua lingua poetica è permeata di simbolismi e sonorità, di immagini evocative e di timbri sonori avvolgenti, sussurrati con pudicizia, come a voler far risuonare di carezze il silenzio. Cerca l'inafferrabile nel quotidiano, nelle pieghe più sottili dell'esperienza umana, spesso con metafore naturalistiche e l'osservazione attenta del particulare. I suoi versi, in fondo, cercano di far fiorire dal pantano del mal di vivere quotidiano l’essere umano, la sua “humanitas”, evocando emozioni incoffessabili e l’innocenza consumata. Il decadentismo si manifesta cosi, nella sua capacità di penetrare la malinconia alienante tipica di questo movimento culturale. La sua poesia, esprime il disagio dell'uomo alla fine del secolo scorso, la sua angoscia e insegue l’armonia che ogni individuo ha perduto di sé e del mondo circostante. Il suo stile, caratterizzato da un linguaggio tattile e quindi evocativo è carico di significanti, esplora la complessità dell'animo umano e la sua inquietudine di fronte al mistero della vita e della morte. Fabio Dainotti, tutto questo, lo fa sortire come per caso, offrendo una visione poetica che penetra in profondità l'esperienza e cerca il senso di un'epoca in cui tutto è un impasto amorfo, uno yogurt bianco, bisognevole di nuove congiunzioni. Per I tipi di Piero Manni, finito di stampare nell’ottobre del 2023, “L’albergo dei morti” di Fabio Dainotti è tutto quanto sopra scritto ma anche molto altro. Al lettore inesperto questo libro può apparire come una raccolta “sui generis” di poesie d’occasione, in realtà ognuna d’esse è legata da fili sottilissimi che, intersecandosi, fanno del libro un oggetto assai compatto e finiscono per intessere una sorta di “poetica”del possibile. Intanto il titolo: perchè mai un titolo dovrebbe essere scelto a caso? L’albergo è un posto dove si alloggia ospiti, magari paganti, nelle soste di un viaggio e I morti sono morti anche se camminano. “L’albergo dei morti” quindi è il momento di ricovero dell’uomo nel suo viaggio verso la morte, perchè -(...) il domani: una carta dei tarocchi./(…) ma /Bisogna alzarsi ogni tanto, sgranchirsi le gambe: /(…) /battere I piedi , scaldarsi le dita, / “non lamentarsi mai della vita” / Poi un bel giorno sdrucciolare giù(…) e ancora (…) e moriamo ogni giorno, ogni momento; / ma il faut tenter de vivre, sì, tentare (…) -. Così il Nostro nella poesia che titola tutto il libro e continua: parla della zia malata, credo in realtà, di se stesso, del suo quotidiano morire:- (…) a volte mi sorprende ancora vivo / il pensiero di te che sei già morto / cammini senza volto nella nebbia. (…)- Mi sembra chiaro il senso: il divenire è una carta dei tarocchi, un’avventura affidata al caso ad una umanità cieca in viaggio, condannata all’ineluttabile moto ogni giorno, per ogni giorno morire. Vivere per Dainotti è una condanna e la sua poesia è il solo modo per tentarne una parvenza. “Il faut tenter de vivre” dice Fabio Dainotti, e, questo libro che raccoglie, secondo il bravo postfatore Nicola Miglino , della poesia del Nostro, solo quella quasi del tutto depurata dai testi “letterari”, ne è il tentativo abbastanza riuscito. Non bisogna però prendere sottogamba quei testi assenti: essi comunque mostrano la solidità della cultura umanistica del Nostro (oltre tutto presidente onorario della lectura Dantis Metelliana) e quindi delle sue radici profonde e solide. Anche In questa raccolta, comunque, qualche testo “spurio” è riuscito a far capolino, due fra tutti :“DANAE” che riecheggia già nei primi versi “Il lamento di Danae” di Simonide, l’altro a pagina 71 che richiama in uno degli ultimi versi “l’ille mi par esse deo videtur“ del carme 51 di Catullo. Questi testi, comunque, mostrano la sua cultura e sono fondamentali per i giovani poeti perchè insegna loro come strutturarsi. Un grande Poeta non nasce mai orfano di grandi padri o nonni o bisnonni in letteratura! La poesia del Nostro è una poesia di disimpegno politico. Nasce dal bisogno di canto e, talvolta, di incanto. Nella poesia dal titolo “Sindacale” il nostro rivendica il disimpegno dal sindacale: (…) A che scopo venire (già a che scopo),/ tutte le sere o quasi al sindacato? / L’ellisse non diverrà lineare. / Mondo è, mondo sarà, è sempre stato!/ dice zia Giulia, che abita in Costiera./ E io non so , non lo so più; m’affaccio,/ piove ancora sul mare , alla ringhiera. Avvertite come il poeta parte per la tangente in questo finale piove ancora sul mare, alla ringhiera? Un altro testo esemplare è “Lamento per la morte di Gina”: In questo lamento come in quasi tutti I testi di Fabio Dainotti le tenter de vivre diventa tentativo di rivivere le sensazioni vissute nel ricordi. Non alla maniera proustiana come ricerca del paradiso perduto, bensi cercando di distillare Il vissuto depurandolo della sua retorica, il confessato del non detto, l’innocenza della reticenza: (…) Ai vecchi tempi ti scrivevo lettere, / come se fossi un’amica lontana, / come se fossi la mia fidanzata, / come se fossi la mia madre buona./ Volevi conversare fino a tardi,/ volevi saper tutto dei miei amori,/ volevi raccontare I tuoi problemi / (tua suocera e la madre di lei in casa), / volevi magnificarmi il tuo benessere/ (…) / Mi accompagnavi sempre nella tua automobilina, /cantando le canzoni della tua giovinezza. (…) Adesso, ripensandoci, con te / tutta la giovinezza se ne è andata; / in pratica, gran parte della vita. (…) Per risparmiare parole dirò soltanto che dopo Ultima fermata, anche L’albergo dei morti appare come un tunnel dove l’esistente è avvertito come eco: il quotidiano impastato di vitale sensualità e tappezzato di irridente erotismo, una volta calato giù nel pozzo della memoria risuona nuovo, meno amaro anche perché ammorbidito da timbri attenuati e … lontani. Terzigno il 21 maggio 2024 Salvatore Violante
Id: 3377 Data: 23/05/2024 16:41:42
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- Letteratura
Omaggio a Sebastiano Vassalli
Omaggio a Sebastiano Vassalli (testo pubblicato sul n° 44 di Secondo Tempo Marcus ed. NA)
Non ricordo la data. Non sbaglierò di molto se dico fine anni ’70. Ricordo con precisione il luogo: Sasso Marconi; la circostanza: una delle ultime riunioni della redazione di Pianura. Mi trovavo lì, ospite a disagio, tirato per la giacca da Franco Capasso, poeta. Vassalli, quando ne scriveva il cognome, utilizzava un rebus aggiungendo a Cap l’immagine dell’asso, il nome invece diventava don Ciccillo per un suo gioco affettuoso. In quell’occasione ricordo oltre a Vassalli e Capasso anche Granaroli di Bergamo e Scalia. C’erano altri, ma la lavagna della memoria non li ha registrati. In quei tempi m’ero da poco trasferito a Salerno ma avevo ancora legami con Brescia ultima mia residenza di lavoro. Per questo, al termine della seduta che era continuata, come si usava allora, in un ristorante locale, me ne tornai in macchina con Vassalli verso il Nord. Scambiammo qualche parola. Mi meravigliai quando mi chiese la disponibilità a dargli una mano. Ci siamo rivisti altre volte, quando veniva ospite di Capasso a Boscoreale, o quando, quella volta, venne a Scafati a dormire a casa mia. Sono anche stato testimone dell’atto, a mio parere, più importante della sua carriera di scrittore. Ero con lui, partecipando, sia pure col minimo sforzo, a mettere in sesto, per il trasloco, Il Presbiterio di Pisnengo. In quell’occasione, di sera talvolta, veniva a dare una mano anche un pittore, ricordo le sue tele inquietanti, si chiamava Pinto. Di quella settimana vissuta insieme, ho un ricordo molto bello legato alla volta affrescata del salone, allo sgabuzzino abbandonato dal curato dove c’erano anche tanti bei libri, a quel lettino in ferro battuto della sua camera da letto, ed ancor più, a quel paesaggio vaporoso, innervato da canali e stagni, animati da uccelli d’acqua, rivestiti da manti di tenero verde che ne facevano risaie. Non ero abituato a quel tipo di bellezza. Dalle mie parti, solitamente, contemplavo un terreno nero e secco: così sono i paesaggi ai piedi del Vesuvio. Ricordo anche un piccolo diverbio nato, forse, per il mio scarso rendimento nel restauro di una finestra del presbiterio e favorito dalla fame che un panino non riusciva a saziare. Vassalli era infaticabile e, chi lavorava con lui, al confronto, appariva un fannullone. Ricordo che una bella cena in una locanda dei paraggi appianò tutte le frènes. Nacque una buona amicizia che veniva alimentata da una affettuosa corrispondenza nella quale io apparivo quello che ero, ingenuo, inesperto di tutto, e, Vassalli, incredula guida e consigliere. Durò qualche anno. Cessò di colpo perché, innamorato, la mia mente non lasciò spazio ad altro e la vita che il sentimento trasmetteva non accettava distrazioni. Ma veniamo a Vassalli. Da poco ha compiuto settant’anni e la rivista di cultura di Franco Esposito, “Microprovincia” gli ha dedicato il n° 49. Vi è il fior fiore delle firme laureate: da Giorgio Bàrberi Squarotti a Meriel Turante, da Lumitza Beiu-Paladi a Giovanni Tesio, da Roberto Cicala a Giovanna Ioli, da Dante Maffia a Tiziano Salari, ma anche Franco Cordelli, Carlo Fini, Angelo Gaccione, Andrea Kerbaker, Velania La Mendola, GiuseppeLupo, Federico Mazzocchi, Cristina Nesi, Fulvio Papi, Ercole Pellizzone, Alberto Sinigaglia. Davvero un bel numero questo 49, basilare, per approcciare Vassalli scrittore. Un omaggio a Vassalli, per i suoi settant’anni, vorrei farlo anch’io, a modo mio, fuori da ogni schema ormai già ben disegnato. Sarà un racconto pieno di vuoti. Non nascondo un po’ di preoccupazione perché Vassalli è un mare così vasto e profondo ed inquieto che anche il più esperto dei naviganti può farvi naufragio. Vuol dire che i vuoti li riempirà il lettore, con le sue conoscenze e la sua immaginazione. Ho detto che il trasloco al presbiterio è stato fondamentale. Perché è lì che egli, finalmente, incomincia a coltivare a tempo pieno il suo giardino. Aveva già fatto di tutto fino a quel momento, e quasi tutto bene. Aveva fatto il pittore, il poeta, l’editore, ma soprattutto il romanziere (e che romanziere). L’aveva fatto da par suo, perché il furore artistico era nel suo DNA ,ma, nel solco dell’ondata travolgente che veniva da forze esterne (Nord Europa, Neo-Avanguardia e via dicendo), e non per oggettivo bisogno della sua scrittura: essa funzionava da sé, dotata com’era di altissima, naturale forza narrativa. Quegli anni di militanza collettiva, tra l’altro anche con napoletani come Piemontese e Cavallo e con riviste napoletane come “AltriTermini”, certo, affinarono ancor più i suoi strumenti ma gli ritardarono, senz’altro, l’approccio all’esercito di lettori consapevoli che sarebbero arrivati con i romanzi successivi. Fino alla fine degli anni ’70 Vassalli, coi suoi romanzi, aveva raccontato storie per proporre una sua teoria della letteratura ed una sua poetica vicina a quei movimenti. La destrutturazione delle parole (vedi “Tempo di màssacro” ma anche “L’arrivo della lozione”) è l’aspetto più evidente. Siamo negli anni successivi alla strage di piazza Fontana. “Tempo di màssacro” racconta impietosamente il disagio della sua generazione con una scrittura che propone un lessico fuori controllo come fuori controllo sembreranno gli esiti della così detta lotta diclasse. Essa parte come atto rivoluzionario e sfocia nella strage. E se si va al titolo “L’arrivo della lozione” (1976), con un po’ d’attenzione si può leggerlo come La (-r-) rivol-(o)-uzione (leggi rivoluzione) per il gusto dell’autore di dare uno spettro di designazioni alle parole un poco più ampio.E quindi in quel titolo è possibile leggervi una rivoluzione che si fa lozione, come dire, “tanto rumore per niente” solo per dare un po’ di lucido. Anche la poesia che è di quegli anni vede Vassalli in una posizione, come dire, castrante perché mentre propone un lessico essenziale, cede al dettato del postmoderno e mostra tutta la sua inutilità. Talvolta, però, Vassalli si lascerà sfuggire l’idea di una poesia-miracolo: “un poco di vita imprigionata nelle parole”. Questo la dice lunga sulla sua simpatia, in fondo, molto crociana verso una idea di poesia. Certo, è una vicinanza a Croce sui generis perché, mentre si abbandona ad identificare il poeta nel suo “babbo matto” DinoCampana, e cioè in colui che soggiorna e muore espulso da quella società stando fuori dal suo tempo, che nasce e muore poeta subendone la condizione, nello stesso tempo, teorizza una poetica “della distanza” di matrice aristotelica che è poi il barometro della neo-avanguardia e che può solo portare ad una deriva minimale. Questa dialettica antinomica tra il razionale e l’irrazionale è presente quasi sempre anche nei suoi romanzi prendendo varie forme (ricco e povero, buono e cattivo, sano e malato, e così via un es. per tutti “Marco e Mattio” (1992)), Permettetemi di dire però che l’utilità o l’inutilità della poesia non la fa il mercato né quest’ultimo è il termometro della modernità (basta riflettere su quanto accade oggi in Europa): il mercato non è additabile come strumento di progresso né di benessere, in una parola il mercato non fa la modernità. Il poeta non è mai sopravvissuto guadagnando coi versi, anche quando la parola era una candida verginella, il poeta subisce il suo stato come il malato la malattia cronica. Ma la poesia può essere utile per scavalcare l’orizzonte più prossimo, addivenire specchio lontano di un mondo desiderato, rendersi utile e necessaria parlando per sensi immediati all’uomo spaurito. Con “Abitare il vento” (1980) Vassalli si rende conto, ma qualche avvisaglia l’aveva già fatta intravedere con il Millennio che muore (1972), che non vi sono più mura dietro ai quali rifugiarsi e che agli umani non resta che il vento, cosa che, se è drammatica per la caduta dei sogni, libera il genio dell’artista che può uscire fuori dal recinto del suo tempo abitando un vento leggero, distante dal gravido terreno, un vento che vi soffia sopra, che l’attraversa, che lo tocca e lo sfugge. Matura così l’esigenza non solo di cogliere ed affinare il segno ma soprattutto quella di trovare personaggi che abitino spazi temporali altrimenti vuoti. Quando con la Mondadori Vassalli pubblicò ”Mareblù”(1982), mi trovavo a Salerno. Lo aspettavo quel romanzo. Lo divorai più che leggerlo. Volevo parlarne. Non sapevo come fare perché “La Voce della Campania”, con cui collaboravo, aveva chiuso i battenti. Per trovare spazio alla recensione del romanzo, mi rivolsi ad un tecnico delle F.S., papà di Lucia Annunziata (la giornalista Rai per intenderci) perché mi presentasse il direttore di “Dossier Sud”. Fu così che potei stampare la recensione sulla terza pagina di quella testata. Il romanzo mi aveva davvero colpito. Per quella lingua finissima e curatissima per quell’irridente ritmo che non ne ostacolava l’agilità ma addirittura sembrava favorirne la fruizione. Ricordai una chiacchiera che avevamo fatto in macchina poco prima dell’uscita del romanzo. Vassalli mi confidava lamentandosi, o forse parlava solo con se stesso, che pur avendo apprezzamenti lusinghieri un po’ da tutti, non riusciva ad ottenere le vendite necessarie per vivere di scrittura. Gli risposi: -di che ti meravigli se parli una lingua che essi non possono comprendere?- Oggi mi rendo conto dell’ingenuità della mia risposta, ma tant’è. Pensavo che “Mareblù” sarebbe stato il romanzo di svolta. Quella recensione, che Vassalli certamente ha fra le sue carte perché gliela spedii, diceva, tra l’altro, di capitoli che si muovevano come diapositive sfilando uno sull’altro ed uno accanto all’altro. Forse fui il primo ad accostare Vassalli a Manzoni per quel suo modo di raccontare. Altri con firme più riconoscibili hanno consegnato un Vassalli manzoniano ortodosso. Forse per il fatto che Vassalli con le sue storie fa la Storia, e così, improvvidamente, parlano di “romanzo storico”. Niente di più sbagliato perché per il nostro Autore la Storia è un falso, al più una successione di dati, un vuoto a perdere dove le stagioni si succedono circolari ed uguali e sempre con i loro scarichi di sottoprodotti. Vassalli indaga da un osservatorio completamente opposto a quello del romanzo storico ottocentesco, perché non ne ravvisa la presupposta accettazione della Storia come valore assoluto. Ed utilizza le storie dei singoli uomini come elementi gnoseologici, per capire di più, per cercare di svelare a se stesso ed agli altri le loro peculiarità, i loro meccanismi. “Mareblù”, metafora dell’Italia del compromesso storico, era il nome che riduceva la nostra penisola ad un campeggio. Già questo la diceva lunga. Gli italiani ridotti a turisti campeggiatori, le regioni a roulottes distinte per targhe. C’erano i Napoli, i Torino e così via. C’era il padrone che appariva presenza astratta del delirio ideologico di Augusto Ricci, e c’era quest’ultimo, con il ruolo di guardiano del campeggio. Vassalli, (vado a braccio sul filo della memoria), lo presenta marxista, leninista, individualista, ma anche guardone, nella sua guardiola, in compagnia di un pappagallo e sotto l’ombra dei giganti della Storia. Questi ultimi campeggiano nei manifesti attaccati alle pareti. Il racconto avanza agile, intriso di comicità paradossale e tragica, assai credibile, ed evoca la verisimile condizione degli anni ’80. Quell’azione rivoluzionaria vagheggiata dal Ricci come conseguenza della dialettica marxiana, e cioè l’incendio del campeggio, si realizza, ma solo per un improvvido gioco dei ragazzi. Si leva così una risata isterica, una interminabile risata, una risata-urlo a segnare la comicità disperante di fronte alla caduta di ogni certezza. Il Caso, il vero protagonista, muove le storie ed è Personaggio sempre presente nei romanzi di Vassalli. Aveva sperato molto da questo romanzo e dalla Mondadori. Ma esso ebbe poca fortuna, credo, per scarsa pubblicità. -(…) Confesso che cambiando editore speravo cambiasse qualcosa anche nel rapporto con il “pubblico” e invece mi sto accorgendo di essere caduto dalla padella nella brace. L’editoria è una macchina infernale e l’Italia è un paese da terzo mondo che si merita i suoi democristiani e i suoi comunisti e i suoi cinquantasette milioni di furbi testé censiti (…). (così, tra l’altro, mi scriveva l’11 marzo del 1982). E quindi era costretto, per tirare avanti, ad una serie di racconti, dal sapore guareschiano, commissionatigli da “il Mattino” di Napoli. Vi rappresentava le sedute del consiglio comunale di “Pieve sul Lastrego”, nome che io leggevo come piove sul lastrico perché mi sembrava di cogliervi quella pioggia che ha già tutto rosicchiato ma che continua imperterrita a dilavare. - Gentile Violante, (….) ho letto l’Arkadia di Vassalli. Gli dica, se le capita, che mi ha colpito quell’immagine dei “santi portati sulle spalle in processione”, ma soprattutto il cuore e l’onestà che batte sotto l’acredine di quel libello. Del resto di quel mondo di impoeti non c’è proprio niente da dire. Sono la cronaca delle nostre miserie, anzi della miseria del nostro tempo. E, si, i poeti sono proprio quegli esseri misconosciuti e derisi che lui dice. Perché la convenzione esalta sempre la retorica o la lugubre eco di ciò che è morto. Proprio come l’arte funeraria nei cimiteri -. Così mi scriveva Franco Loi. Il poeta milanese non data la lettera ma il timbro postale sulla busta segna il 21/1/85. Il libello di cui parla Loi era uscito nel 1983 ed aveva certificato quanto già da qualche tempo egli aveva fatto intuire. In quella “storia degli impoeti d’italia” afferma addirittura di aver scoperto che egli stesso non era poeta. Era una sciocchezza ovviamente, o meglio, forse ne era convinto, ma si riferiva al genere letterario. Perché la poesia è in Vassalli trascritta in prosa, nella forma per la quale ha dedicato tutte le sue energie, tutto il suo tempo, tutto il suo cuore. Lavoratore infaticabile, si è meritato tutto il successo che gli è arrivato, e forse, avrebbe meritato anche di più ed altro. -Caro Salvatore grazie dellebuone parole. Il fatto è che sono incasinato assai. La sto pagando cara quella “vacanza” tra primavera e estate. Stento anche a fare quei raccontini per il “Mattino” con cui, fin che dura le cose vanno bene….(…) Entro l’anno dovrei finire un libro, una specie di “romanzo storico” che mi è stato commissionato su una vicenda giudiziaria del primo novecento; poi ce ne ho un altro, e poi ho….il mio (che ancora non sono riuscito a riprendere). Come vedi, il dono della scrittura è anche la maledizione della scrittura (…)- Era il13 dicembre dell’anno 1985. La vacanza di cui parla Vassalli è un suo viaggio in Germania avvenuta nell’estate dell’anno precedente, per apprendere il tedesco, una vacanza di lavoro, propedeutica, forse, all’impegno che avrà con “Sangue e suolo” il libro inchiesta sulla condizione degli italiani in AltoAdige. Di quel libro non faticai a comprenderne il senso: ero stato in trasferta per l’intero inverno del 1976 a Malles Venosta, nel profondo Sud-Tirolo, mi sono sentito lì italiano all’estero esattamente come gli altri italiani residenti, sbarcato da capo stazione per arrotondare il salario. I sudtirolesi maschi che conoscevano benissimo l’italiano, mi parlavano in tedesco per dispetto e qualcuno di loro, con la scusa dell’ebbrezza da vino, ostentava un marciare nazista intorno al tavolo dove pranzavo, in quell’osteria di fronte alla stazione. Le donne no. Erano molto più aperte ed affettuose. Forse speravano di poter lasciare quei luoghi così puri ed ordinati. Il romanzo, forse il solo davvero storico, di cui parla Vassalli nella lettera è certamente“Il Cigno” (1993), l’altro dovrebbe essere “Cuore di Pietra” mentre il “suo romanzo” è senz’altro “L’oro del mondo”(1987). Intanto era già uscito nel 1984 “La notte della cometa” in cui la vicenda umana e letteraria di Dino Campana diventa sangue vivo e mostra qual è l’idea di poeta che ha Vassalli. Mai romanzo è stato scritto in cui l’autore ha versato sangue al posto dell’inchiostro più di questo. La partecipazione è totale e Vassalli sembra essere meno distante fino quasi ad identificarsi con il poeta di Marradi. D’altra parte lo sente come il suo “babbo matto”. “L’oro del mondo” è il più autobiografico dei romanzi di Vassalli. È il suo romanzo come dice. La figura del ragazzo così studioso, lo zio locandiere che si impegna a farlo studiare, l’altro inabile che ha bisogno di scaricarsi periodicamente con l’ausilio della zia, il padre ex gerarca che si ricicla nel dopoguerra vestendo i panni del casanova con annunci-trappole per vedove danarose, la madre che assiste il nobile invalido con la speranza di un’eredità tanto promessa quanto improbabile, i cercatori d’oro e così via, sono così verisimili da apparire veri. C’è tutta la fatica del vivere, talvolta del sopravvivere, c’è tutto l’amaro sapore del pane. Il 1990 è l’anno di Sebastiano Vassalli. Si stampa “La Chimera” arriva il premio Strega e con esso la consacrazione definitiva ed il successo editoriale. Il viaggio di Vassalli nel villaggio di Zardino, per ritornare al discorso sul romanzo storico, non è il vezzo tutto letterario di un romanziere che vuole indagare il seicento, ma il tentativo di un viaggiatore che ritorna sui suoi passi per cogliere il senso del percorso fatto ed utilizzarlo per isentieri futuri. “Marco e Mattio” esce nel 1992. Un romanzo stupendo in cui Mattio Lovat, ciabattino, è il ritratto della miseria dell’epoca in contrapposizione alla lussuosa ostentazione della ricca borghesia e della nobiltà. Il poveretto si ammala di pellagra. Nel delirio della malattia pensa di poter cambiare il mondo immolandosi come Cristo. La sua croce sarà l’inedia e ne morirà per il rifiuto del cibo, nel manicomio di Venezia. Non riesce a cambiare le cose a Casal di Zoldo né la follia di Mattio e neppure NapoleoneBonaparte. La vessazione era identica anche con gli austriaci. La fame e la malattia è la condizione sovrana delle classi subiette. I Marco sono nel romanzo tutti quelli che, lucidamente, resosi conto della cruda realtà, cercano un altrove possibile in cui perdersi con il pensiero. L’unico vero romanzo storico Vassalli lo propone con “IlCigno”(1993). La storia lì raccontata è del tutto vera. Una storia ricavata dai giornali dell’epoca. Una vicenda di mafia avvenuta in Sicilia: l’assassinio del sindaco di Palermo Emanuele Notarbartolo direttore del ”Banco di Sicilia”. Fu pugnalato in treno con ventisette colpi. Fu il primo cadavere eccellente per mano mafiosa registrato negli atti giudiziari. Il clamore del delitto eccellente, fece sentire tutti i siciliani sotto accusa per cui, pur di rispondere, finirono per difendere un delitto di mafia. Un po’ come avviene oggi tra “Padani e Neo-borbonici“. Sicuramente entrambi dotati di identiche argomentazioni stupide. Il processo che durò 11 anni finìcon l’assoluzione e la messa in disparte dell’accusato del delitto. Si trattava dell’ex fiduciario di Francesco Crispi ministro. La vicenda fu completamente dimenticata. Si ripeterà con il generale Della Chiesa e successivamente con Falcone e Borsellino. La pubblicazione del romanzo provocò molte polemiche pretestuose andando a sollevare una presunta rivalità fra Sciascia e Vassalli. I campanilismi giornalistici andarono a tirar fuori un vecchio lavoro sussidiario che Vassalli aveva fatto per una edizione scolastica de “Il giorno della civetta”. Le note e correzioni che Vassalli aveva proposto per quel testo erano state lette ed accettate da Sciascia ed erano sembrate opportune visto che il libro doveva essere proposto agli studenti. Ma tant’è, tutto faceva brodo per andare ad alimentare la diatriba nord-sud e la relativa connessa stupidità. Forse, l’unico rilievo ragionevole, poteva essere quello di sottolineare la differenza sostanziale tra chi scrive in una stanza adibita a polveriera e chi racconta di fatti lontani. Ad ogni modo credo che bisogna ringraziare autori di libri come “IlCigno” o come “Gomorra” perché non inventano eroi parlando di delinquenti, né miti esoterici discutendo di associazione a delinquere e tuttavia non è un caso che tra Vassalli e Saviano è il secondo a vivere sotto scorta. “Cuore di Pietra” uscirà nel 1996. Qui Vassalli utilizza la costruzione di una casa per attraversare un tempo che va dalla spedizione dei mille fino al contemporaneo, ed evidenzia che in fondo, non c’è niente di nuovo sul fronte delle cattive abitudini umane. L’architetto è personaggio utile per mettere alla berlina gli artisti che cercano di nascondere dietro la facciata retorica la vacuità dei loro progetti: gli arkadici. La ricontrattazione della spesa che incontriamo nel romanzo ci racconta di quanto oggi avviene nelle opere pubbliche, vecchia abitudine cara da sempre alla imprenditoria nostrana insieme alle inutili quanto fruttuose per essa, cattedrali nel deserto. Ma è anche e soprattutto il racconto della sconfitta dell’opera dell’uomo che è sempre destinata al fallimento, flagellata dal tempo e dai nuovi bisogni e dalla sovrintendenza degli dei che si curano poco delle fatiche umane ed anzi si divertono a vederli in affanno. È anche lacritica alla pretesa di ridurre a scienza la Storia col suo dettare i tempi alla rivoluzione. La Storia come scienza, di fatto, costruisce vuoti teoremi,non produce progresso ma procura solo malessere ed odio e, talvolta, anche quando produce sommovimenti essi si manifestano con connotati completamente diversi da quelli sperati. Nel 1995 vede la luce “3012” che nelle intenzioni di Vassalli doveva far riflettere tutti coloro che identificavano il suo romanzo con il genere “storico”. E così va dove la Storia non può essere scienza ma solo frutto di una immaginazione cosciente: il futuro. Il tremiladodici è abbastanza lontano e fuori da ogni previsione che non sia magica o poetica. Vassalli è il contrario del mago. Quindi è costretto a muoversi da poeta. Questo, immagino lo faccia incazzare perché non ama essere avvicinato all’ esangue figura del poeta. La sua immaginazione che per le altre storie aveva recintato il nulla di spazi certi con studi d’ambiente e con viaggi nel passato, in questo romanzo non è possibile. Deve osservare il transeunte presente per realizzare una verisimiglianza futura. La crisi energetica, l’attività umana che riempie i quotidiani di delitti efferati, fanno da lucido propellente. La sua solita verve ironica, inventa il nuovo prodotto energetico. Lo chiamerà “eum” e risulterà dalla lavorazione dei sentimenti negativi come l’invidia, l’odio, l’egoismo. L’umanità futura si alimenterà di questo. Sentimenti come l’invidia spingeranno l’uomo a fare di più, perciò a farlo progredire. Basta intendersi bene sul significato di questo termine. Basta intendersi bene sul significato di progresso. Il romanzo tutto giocato sul filo della sottile ironia sembra un avviso che Vassalli spedisce agli uomini di buona volontà. Mi fermerei qui. Per evitare a quei due o tre lettori di stancarsi troppo. Mi riservo di continuare in un prossimo futuro se ne avrò l’occasione. Mi viene solo da aggiungere ancora una cosina su quel “Nulla” e sulle “storie”. Il “Nulla” di Vassalli io l’ho recepito come un’opera di pittura informale. Vassalli lo riconosce ogni volta incorniciato da una finestra. Gli arriva come espressione automatica che però stimola consapevolmente una sua volontà gnoseologica ed il primo accaparramento conoscitivo è sicuramente quello di una tenuta in pugno del tutto. In quel “Nulla” c’è l’annullamento di tutta la dialettica della vita reale. Ma Vassalli è un moderno, non è interessato a questo, non può accontentarsi di prendere la realtà come un blocco dogmatico sia pure magmatico e facile all’astrazione. Il suo occhio ne coglie le contraddizioni intrinseche per cui racconta la realtà per scomparti sia pure distillandoli nell’alambicco della lontananza. Ecco le sue storie. Titoli come “L’utopia ceramica” o “Archeologia del presente” ne sono la sintesi. Salvatore Violante
Id: 570 Data: 24/05/2012 12:43:52
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- Antropologia
Sul linguaggio
Sul linguaggio (ovvero il trionfo della realtà) (Boscotrecase 8/08/1970)
Eccomi in piedi stamani con l’intento di scrivere. Di scrivere grandi cose. So già che saranno sciocchezze. Ho un dolore alla nuca. Ieri ho bevuto parecchio. Così ho deciso di scrivere. Avrei voluto studiare. Sarà per domani.Si scrive meglio con la mano che col cervello. La mano scorre e si diverte a rincorrere le curve e gli angoli, sicura, il cervello trova sempre dei divieti d’accesso. Io ho il dolore alla nuca. Hai mai provato a ridere pensando? Il pensiero è una cosa seria, è una maschera da teatro tragico. Il riso è solo delle labbra. E’ il loro slancio che travolge il pensiero. La felicità è tutta nel riposo della mente. Da vecchi, a volte, si potrebbe essere felici, quando il cervello se ne va in pensione; ma si tratta di una felicità monca. Essa è priva del valore attuale. Bisognerebbe invecchiare da giovani. Sono tutte sciocchezze che parole in successione hanno la potenza di creare. LA PAROLA E’ UN FALSO. E’ il desiderio di potere dell’uomo. E’ l’unica illusione che la bestia umana può alimentare. L’uomo parla, parla e crede di ingabbiare la realtà. Pensa di muoverla come un burattinaio coi fili dei suoi segni o disegni. Crea il suo mondo su di un foglio di carta come il momento gli detta per il suo egoismo. Ma dietro al foglio c’è quella vera che ride, sorride in trionfo.
IL TRIONFO DELLA REALTA
-Nell’ultimo giorno, il più solenne della festa, Gesù si alzò e disse ad alta voce: Chi ha sete, venga da me e beva. Come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva scorreranno dalle viscere di chi crede in me- Parole…….. Il tempo scandisce paziente le ore. L’orologio della chiesa è ancora più paziente: ripropone nuove dimensioni ogni quarto d’ora. Ci si fa una cultura per sopravvivere. Ci si fa religiosi per sopravvivere. Si ricorre sempre alle parole. E’ l’unico strumento di dominio dell’uomo. I Romani non sapevano che farsene della cultura quando conquistarono il mondo. Poi non contenti, vollero anche la cultura, e, questa, rovinò le loro anime; pose avanti mille costruzioni, derivazioni, sfumature, ed essi, si persero dietro di esse. Volevano eternare l’impero e l’impero perì. La realtà sorride di queste ragnatele. Vede l’uomo arrampicarsi sugli specchi delle sue parole e sghignazza. Ad ogni curva ella si presenta: l’orologio riprende a battere il suo tempo. L’uomo avrebbe voluto imprigionarlo il tempo; lo ha diviso all’infinito. Così fanno gli studenti con le sigarette: ne fanno due rompendole a metà; finiscono per buttar via due cicche, e, si rendono conto due volte di avere una sola sigaretta. E’ proprio stupido l’uomo, una stupida bestia. Credi tu che il mio cane pensi a morire? Egli non parla. Vive secondo natura, è meno stupido dell’uomo. Altre parole….. La verità è che noi dobbiamo creare, creare sciocchezze ma creare. Ognuno di noi deve farsi capitalista di un mondo effimero. Lo allarghiamo continuamente. Incassiamo e poniamo in banca. La cassaforte di ognuno è piena di parole. Di tanto in tanto si rimette in circolazione questo capitale col desiderio (illusione) di rimuovere il presente che è viscido, sfugge come una biscia dalle nostre mani. Fugge indietro e le mani, restano per acchiappare una nuova biscia destinata a sfuggire: ogni quarto d’ora suona l’orologio. E’ lo specchio della “coscienza”. Quante bisce sono sfuggite? Si va in chiesa: -Introibo ad altare dei,ad deum qui laetificat iuventutem meam-. Parole….E’ il plagio degli umani. E’ un’autoipnotizzazione. E’ un modo di convincersi a parole. -Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum coelorum- E si eternizza la vita. Si riesce persino a sorridere, se non si pensa, o, non accade che davanti alla chiesa si fermi un carro splendido di nero, otto bestie d’inchiostro ed una croce. Salvatore Violante (inedito)
Id: 202 Data: 15/03/2010 14:17:55
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- Alimentazione
Mario Apuzzo, Archeologia del sogno, Guida, Napoli
* Mario Apuzzo, Archeologia del sogno, Guida , Napoli 2009 Il contenitore del catalogo è di cm. 23 x 23, ha il fondo dorato e presenta due ritratti in nero sulle due facce. Nella prima c’è il profilo dell’autore che si presenta con verosimiglianza attuale, nell’altra, l’immagine è di prospetto e realizza il viso di un giovane trentenne. È sempre l’autore, ma somigliante al suo secondogenito. Ad una prima occhiata viene da pensare a quei contenitori per dischi “pop music” anni ’60 con l’immagine della popstar americana sulle fiancate. In realtà credo che il contrasto tra le due immagini (quella somigliante al viso d’oggi dell’autore e quella più giovane e quindi più remota) voglia evidenziare lo scarto temporale di cui è capace l’immaginazione quando rincorre la memoria. Il catalogo della mostra presenta, anche nel risvolto di copertina, un’immagine dell’artista in atteggiamento pensieroso davanti al suo leggio con la scritta “Sorprendere con Generosità”. La sorpresa è veramente generosa perché l’artista mostra il suo profilo più volte. Nel risvolto del retro di copertina ma anche a pag. 51, 102 e 106. Viene da pensare a Narciso anche se, credo, che il narcisismo sia qui generato più che dal profilo, dal sentirsi tenutario di capacità tecniche sopraffine. Tutto questo è fondamentale per leggere correttamente l’opera di Apuzzo. È la chiave d’ingresso per cogliere, con plausibile approssimazione, quelle tracce di sogno costruite in tutta la produzione, e più ancora nelle sue ultime opere. Il catalogo, stampato coi tipi di Guida, documenta la mostra tenuta nella sala Carlo V al Maschio Angioino di Napoli dal 3 al 28 ottobre 2009 intitolata Archeologie del sogno. È stata curata dalla moglie Colomba Iovino e dal critico Giorgio Agnisola. È presentata per la produzione recente, dai testi critici dello stesso Agnisola, di Aldo Masullo e Francesco Sisinni. Per la più remota, da quelli di Angelo Calabrese e Franco Solmi. Le traduzioni in inglese dei testi scritti danno referenze d’internazionalità al tutto: Michele Guastaferro traduce Agnisola e Sisinni; August Viglione, Masullo mentre Francesco Policastro traduce Calabrese e Solmi. Gli scritti di Franco Solmi ed Angelo Calabrese si trovano alla fine del catalogo come a prefare una sorta di antologia riassuntiva delle opere quasi tutte degli anni ’70, ’80, ’90 ed inizi del nuovo secolo. C’è di tutto, dalla scultura all’oreficeria, dalla pittura alla grafica. Franco Solmi sottolinea la natura lirica dell’arte di Apuzzo, considerandola una maniera di specchiare nel presente i riflessi memoriali di antiche ritualità mediterranee. Pensa che la mancanza di personaggi e di eventi del quotidiano nelle così dette “mappe” riflettano una solitudine di fondo. Ci si potrebbe spingere a definire “metafisica” quella pittura, dice, se non fosse presente un forte senso di vita, anche se primitivo, che traspare dal calore dei toni e dalle venature della materia. Angelo Calabrese punta sulla sensualità dell’artista che cerca appagamento già nella scelta del materiale come la pietra, il talco e la steatite per la scultura, ma anche il sughero ed il papiro per la pittura. L’artista si muove lasciandosi prendere dalla fisicità della materia che modella o segna, senza violenze, come a volerne interpretare il restauro. Così, secondo Calabrese, nasce una sorta di epopea delle origini che produce nell’occhio del fruitore un terremoto di eventi illusori fino a provocare una sorta di transfert in un mondo epico e primordiale dove la memoria produce le sue atmosfere. In tali atmosfere l’evento perde la sua temporalità e diventa testimonianza, un residuo archeologico che stimola l’immaginazione.
Il sottoscritto ha visto nascere e crescere l’ultima produzione. Essa, è stata realizzata ancora una volta, utilizzando un tessuto preesistente. L’artista si è trovato fra le mani un catalogo illustrato e partendo da quelle immagini stampate, con l’ausilio di una semplice biro, facendo un’operazione inversa, ha disegnato cancellando. Il resto l’ha fatto il postmoderno computer ed il colore. Ha utilizzato, in altre parole, le ombre per tirar fuori, nella luce, nuove figure, in una metamorfosi del preesistente. Forse dal sottofondo della memoria, sono risalite alcune schegge che hanno indirizzato la mano dell’artista verso certi itinerari anziché altri? Non saprei dirlo con sicurezza. Bisognerebbe trasformarsi in medici psichiatri e sottoporre l’artista ad una serie di sedute. Questo non è possibile, e non è detto che il soggetto in questione sarebbe disponibile in buona fede. Quello che è certo è che Apuzzo è un abilissimo ritrattista e, questo, gli dà padronanza del mezzo (penna) e degli effetti ombra-luce. È un bravissimo orafo, il che lo costringe alla cura ossessiva dei particolari, infine, è un eccellente scultore, cosa che lo rende tattile alle forme. Inoltre è innamorato di Caravaggio e, di conseguenza, di quelle atmosfere in cui la plasticità delle figure salta fuori con un’illuminazione particolare, marcando i volumi, facendo del quadro una sorta di scena da cui le immagini, improvvisamente, fuoriescono. È originario della costiera, quindi ama la luce calda che invita alla buona cucina. Adora stravaccarsi al sole e inondarsi dei suoi caldi raggi, poltrire a letto e inebriarsi leggendo o disegnando, avverte la vitalità delle marine. Da vesuviano acquisito per virtù matrimoniali, ama i colori di quella terra e la sua carica dionisiaca che egli cerca di suggere creando e godendo del suo buon vino. Questo, da lui costruito, direi quasi nutrito tra la sabbia, i lapilli e le schegge di lava, si sublima come sangue di Vulcano da sorseggiare per strizzarne profumi e suggestioni. C’entra tutto questo con l’opera di un artista? Io credo di sì. Sono convinto che le manipolazioni artistiche di Apuzzo siano una sorta di coito compiuto con la materia fino all’orgasmo, vale a dire fino alla esaltazione di quel “bello” vivo e vitale che appaga l’occhio e fa riposare la mente (la ratio aristotelica) innescando altri sensi oltre ai cinque riconosciuti. Aldo Masullo ragiona su tutto questo a modo suo, da filosofo, chiamando come teste Eraclito di Efeso ed accomuna l’arte visiva al sogno ad occhi aperti. Io che filosofo non sono, intuisco nel linguaggio dell’arte una sorta di arco voltaico che scocca tra due poli interagenti. Da un lato quello dell’artista nella sua interezza fatta di tessuti, visceri e sangue, dall’altro quello della materia da ri-vedere. La scintilla per Masullo, ma anche per me e per Leopardi, è il sogno ad occhi aperti. “All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici….(Zibaldone 4418) Più semplice di così? Il problema vero è riuscire a capire dove e cosa porta tutto questo. Sisinni parla dell’opera di Apuzzo come di una sorta di crestomazia della bellezza che si dispiega in molteplici forme realizzando sempre un’epifania lirica sia quando innova sia quando si mantiene più fedele alla tradizione. Giorgio Agnisola apre il catalogo riconoscendo ad Apuzzo una espressività che nasce da una suggestiva compresenza di geometria e sensualità. Le immagini, egli dice, assumono il senso di una metafora astratta e persino ironica, carica di rimandi emotivi e psicologici, che interpretano la vita dall’interno, nei movimenti oscuri e complessi dell’esistere, ma anche dall’esterno, fotografando simboli e segnali della società postindustriale. E addentrandosi nell’analisi dell’ultima produzione così si esprime: - la sua intuizione si orienta nel gioco di assonanze interne, di scatti dell’immaginazione, come dentro un contenitore di cui si conoscono solo le pareti, ma di cui si può individuare il senso. Apuzzo parte di qui per un’avventura che è innanzitutto viaggio fantastico e psicologico, archeologia dei sogni, erranza della memoria.- Pessoa ha detto: -Nulla si sa, tutto s’immagina- Che dire ancora? Un’opera d’arte vive tre volte: nell’intenzione dell’artista, in se stessa, nella fruizione del lettore. Lo stesso lettore ne godrà o soffrirà in modo diverso cambiando il suo osservatorio. Su di un battello con mare forza nove, fermarsi a guardare un quadro o una scultura, sarà certamente diverso che in un salotto ben illuminato. Per questo, qualsiasi tipo di lettura va presa con le molle. Il mio consiglio? Guardate con i vostri occhi.
*Articolo comparso nel libro trentottesimo di “Secondo Tempo”
Id: 201 Data: 09/03/2010 16:37:40
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- Letteratura
La bellezza e Linferno di Roberto Saviano
LA BELLEZZA E L’INFERNO Il nuovo libro di Roberto Saviano C’è di tutto in questo libro, lo scritto recensivo, quello saggistico, il resoconto giornalistico e l’editoriale. È la scrittura che si manifesta con tutte le armi per aggredire il reale e rappresentarlo. L’enorme, planetario successo avuto da “Gomorra”, le continue apparizioni televisive di Saviano, il sospetto, la malevolenza che nasce dai propri insuccessi in confronto dei successi altrui, spesso, provoca venefiche reazioni fra gli addetti ai lavori “Giovane scrittore di mondiale successo, dovrebbe fidanzarsi di più e affliggersi di meno” scrive sul “Foglio” del 25-4-2008 una certa Annalisa. Seguiranno le scuse del direttore del Foglio. È un esempio di quanto Saviano abbia dovuto subire. Ve ne sono altri. Nel frattempo lo scrittore a rischio d’attentato, vive una vita da perseguitato, sempre in movimento, prigioniero dei suoi protettori, desideroso di una scrivania luminosa mentre è costretto ad utilizzare scrittoi precari, in luogo asettici, per tempi indeterminati. In questa e da questa atmosfera nasce e cresce “La bellezza e l’inferno”. Si vociava di un nuovo libro: doveva denudare i meccanismi del traffico internazionale della cocaina, è arrivato “La bellezza e l’inferno” con il pregiudizio di una minestra riscaldata essendo costruito con scritti già editi anche se ricostruiti per la bisogna. A sfogliarlo però la sensazione scompare immediatamente. Già il titolo la dice lunga. L’antinomia è apparente perché in fondo il bello, non può che provenire da un viaggio interiore attraverso l’inferno. Saviano trasforma gli articoli in racconti, ne confeziona solo uno ex novo. Il risultato è una sorta di romanzo-mes-saggio tra l’affabulante, il divulgativo e lo scientifico dove il filo conduttore è la funzione della parola come praxis rovesciante, la parola come scalpello che intacca la crosta che nasconde la verità, ma anche come forza propulsiva di conoscenza e di presa di coscienza con il successivo, possibile, consequenziale rinnovamento. Ne “La bellezza e l’inferno” Saviano racconta e raccontando resiste al silenzio in cui, altrimenti, lo costringerebbe la sua vita sotto scorta. Racconta i suoi esordi fra i letterati, lo sguardo sul mondo, l’impegno civile, l’attitudine al giornalismo d’inchiesta. Esamina e comprende che la Camorra non è un semplice fenomeno criminale ma di potere. Ritrae Giancarlo Siani e racconta con la coscienza dello scrittore che ha il dovere di mettere insieme racconto e verità con la mortificazione consapevole di non potere, sic et simpliciter, cambiare le cose. Lo sostiene la speranza-certezza, che le parole, quelle parole, quando penetrandole, cambiano le coscienze, possono rimodellare il mondo. In fondo l’ha già vissuto con Gomorra, il sogno-speranza. Lo ha visto prendere corpo in tre milioni di copie vendute. Costretto ad una vita precaria per salvaguardare la sua incolumità, gli si consolida l’idea che ha della parola. Per lo scrittore diventa una sorta di pala meccanica capace di portare in superficie, il fenomeno camorra privandolo della dilatazione che nasce dal mistero sconosciuto. Il libro sarà tradotto in molte lingue e letto in tutto il mondo. In tal modo la parola esercita la sua funzione, penetrando nel corpo della realtà, con la forza della denuncia. Da qui arriva l’invito all’accademia dei Nobel di Stoccolma, il suo dialogo con Salmon Rushdie . E’ Rushdie che sottolinea come certa scrittura, sia fastidiosa per chi è abituato a vendersi per lavorare o a fare compromessi per scrivere. Narra della morte di Makeba tra gli africani della diaspora, la sua gente, a Castelvolturno e quella di Biagi o della Politkovskaia, uccisa per eliminare la sua voce, l’indice accusatore contro i crimini in Cecenia. S’interessa del crimine organizzato all’estero, nel Sud America, in Siberia, negli Stati Uniti. Evidenzia, come il Male abbia di caratteristico la costanza rabbiosa di stringere la vittima tra la sua voglia di vivere e l’impotenza a farlo come vorrebbe. Si preoccupa dei tentacoli della camorra. Potrebbero strozzare anche il territorio abruzzese devastato dal sisma, da ricostruire, con prevedibile arrivo di danaro a pioggia. Narra infine di un altro sogno, quello della “Pulce”, il calciatore argentino Lionel Messi. Pulce, perché tutto in lui era piccolo: i piedi, le gambe, il busto: il sogno di crescere per diventare un campione. Esemplare anche la storia di Michel Petrucciani, deforme per nascita, che per amore della musica, la costruisce tra sofferenze e limitazioni fisiche sforzandosi di allungare il suo corpo deforme per realizzare una bellezza indescrivibile. Ecco la bellezza, mostrarsi come si è in realtà, mentre si somiglia all’immagine che si ha mentre si è visti come si è. È tutta qui la Bellezza e l’Inferno di Saviano, nella suggestione del bello che non è né semplice né facile da realizzarsi, proprio come l’arte. Cresce e si realizza piano piano, passando attraverso la ricognizione della sofferenza, fino alla resurrezione da tutte le croci.
Roberto Saviano, “La bellezza e L’inferno” Scritti 2004-2009 Mondadori euro 17,50 Salvatore Violante Articolo comparso su "Igv magazine" novembre 2009 n° 1
Id: 196 Data: 26/01/2010 15:56:06
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