I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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- Letteratura
La Recherche di Proust al Festival dellEclettismo
Festival dell’Eclettismo Incontri e Conversazioni di Condivisione Bivigliano, 7 agosto 2013 R. Mosi: “La Recherche di Marcel Proust” La pittura dei Salon, le passeggiate di Combray, la cucina di Françoise Un appuntamento molto frequentato del Festival, è stato l’incontro del 7 agosto dedicato all’incontro con Marcel Proust. Il fresco salone dell’ex scuola elementare di Bivigliano, presso Firenze, era affollato da circa sessanta persone, affascinate dalla figura dello scrittore francese più diffuso e tradotto nel mondo ed uno dei più importanti della letteratura del ‘900, nato a Parigi nel 1871 e morto nella stessa città nel 1922. Uno dei passaggi importanti della sua esistenza, la morte della madre, nel 1905: l’autore cambia vita, l’asma lo tortura sempre più, si isola, fodera la stanza dove lavora, di sughero, contro il rumore. Inizia a scrivere il grande affresco narrativo Alla ricerca del tempo perduto, composto da sette libri.Fino alla morte vive praticamente relegato, dice lui, “come nell’arca di Noè”. Il primo libro, Dalla parte di Swann, è pronto nel 1911 ma nessuno editore vuole pubblicarlo. E’ stampato nel 1913 a sue spese. Il secondo libro, All’ombra delle fanciulle in fiore, ottiene il premio Goncourt. Per Proust la memoria involontaria, o sensoriale, a differenza di quella volontaria, cattura con una sensazione l’essenza della vita. Questo passaggio, porta alla vittoria sul tempo e ad affermare la coscienza come unico elemento che vince la materia e porta alla verità e alla felicità. Ricordare è creare. L’arte, rappresentata nel romanzo dalla scrittura del narratore che parla della propria esperienza, fissa quel risveglio di sensazioni che permette alla memoria di riandare al passato. Rinchiuso nella sua camera, “nell’arca di Noè”, Proust ascolta meglio le voci interne dell’io: “Più tardi mi ammalai molto spesso e per molti giorni dovetti rimanere nell’ “arca”. Capii allora che mai Noè potè vedere il mondo così bene come dall’arca, nonostante che fosse chiusa e che facesse notte in terra.” Solo all’artista sarà possibile conoscere la verità, conoscere il segreto e solo all’arte esprimerlo. Ne Il tempo ritrovato, l’ultimo libro del romanzo,il narratore scopre infine la verità e il suo significato grazie all’arte, che fissa il passato che altrimenti sarebbe condannato alla distruzione. All’incontro di Bivigliano del 7 agosto, Roberto Mosi ha illustrato queste considerazioni e si è soffermato sugli approfondimenti dell’opera di Marcel Proust già svolti, nella forma di un “racconto poetico”, in occasione dei periodici contributi presentati alla Rivista online www.laReccherche.it , raccolti ogni anno in uno specifico eBook. Anno 2011 “Conversazioni con Marcel Proust”,http://www.larecherche.it/public%5Clibrolibero%5CConversazioni_con_Proust_di_AaVv.pdf La cucina di Françoise Wunderkammer …. Cucina miraggio per la memoria della gola, il sapore della lettura mischiata al gusto dei sapori, i lamponi del Signor Swann la torta alle mandorle la crema al cioccolato l’impasto per la petite madeleine. … Anno 2012 “Da Illiers a Cabourg. L’impronta di Marcel Proust nel cuore della Francia” http://www.larecherche.it/public/librolibero/Da_Illiers_a_Cabourg_di_AAVV.pdf Le passeggiate di Combray I campanili di Martinville …. Erano lontani, irraggiungibili. D’improvviso eravamo davanti alla Chiesa di Martinville. Riprendemmo il cammino e scorsi per l’ultima volta i campanili ad una curva della strada: le loro linee e superfici illuminate dal sole, quasi fossero una scorza: si squarciarono, mi apparve qualcosa che era nascosto. ….. Anno 2013 “Salon Proust” http://www.larecherche.it/public/librolibero/Salon_Proust_di_Aa_Vv.pdf La pittura dei Salon Il silenzio dipinto delle pagine …. Silenzio seducente del quadro nel rumore di folla del Salone. Scopro metafore fissate tra le frasi delle immagini, pittore senza arte, compongo dall’arte di più pittori da un frammento del mondo da artifici di immagini da prospettive inattese. Comprendo, trasformo catturo la mia pittura penetrando nei quadri. Dipingo con la parola per pennello la parola per trama la tela della parola per colore il suono della parola. …
Id: 861 Data: 23/08/2013 18:05:23
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- Letteratura
Ottava rima
Ildivertimento dell’ottava rima Ci piace soffermarci sulle meraviglie dell’ottava rima. “Sebbene nel corso dei secolisiano stati utilizzati i più disparati schemi di rime per strofe di otto versi, è possibile individuare due principali tipi di ottave nellaletteratura italiana: l’ottava siciliana e l’ottava toscana. Lo schema ritmico piùutilizzato è quello dell'ottava a rima toscana, detta anche ottava o stanza, èuna strofa composta di otto endecasillabi rimati, che seguono lo schema ABABABCC, quindi i primisei endecasillabi sono a rima alternata, egli ultimi due a rima baciata ma diversa da quelle dei versi precedenti, euguale a quella del primo verso dell'ottava successiva “ (Wilkipedia). Riprendiamo due esempi di ottavarima dalle esperienze dell’amico Renato Simoni. La prima esperienza riguardal’intervento di Renato – noto ciclista - in occasione della presentazione del libro“Florentia” (R. Mosi, Ed. GazeboLibri, Firenze 2008), alle Giubbe Rosse . Florentia Sei, Firenze, la mia città natale, detta Florentia, da remota altezza, che al mondo hai sciolto il nodo universale dei parametri d’umana bellezza. In veste di cittadino globale rifletto, sulla via della vecchiezza, certo che la mia anima ha arricchita viver tra le tue mura la mia vita. D’ingegno umano la vista è nutrita in mezzo ai monumenti ed ai decori, negli interni la volontà è rapita negli affreschi dai nitidi colori. Non s’è ricchezza nel tempo smarrita e son raccolti nei musei i tesori che alla cittadinanza fiorentina affidò l’Elettrice Palatina. Le sono grato: ricca è la vetrina degli avi che ne fecero la storia. Diversa è nel presente la dottrina. Prima all’arte affidavano lor gloria, ora ti usano come una latrina, di te fan merce con spocchiosa boria. Quelli ci hanno lasciato il tondo Doni, questi intasan le vie con i gipponi. Oggi han nome Ligresti, Biagi e Cioni, non dormon nelle celle di San Marco, ti guardano bottino da predoni, non lascian nulla, fosse solo un parco. Son sottosopra da molte stagioni le vie, sempre ingolfate e senza varco. Non so se riuscirò in vita mia a veder circolar la tramvia. Penso sempre rasenti la follia spostarmi ovunque con la bicicletta tra buche e toppe sparse per la via immettendo ai polmoni aria infetta. Nel fare il mio bilancio tuttavia la mia sentenza è chiara, salda e netta: sono felice e ringrazio il destino d’avermi fatto nascer fiorentino. Laseconda esperienza riguarda la partecipazione di Renato insieme ad un gruppo diamici fiorentini al Festival della Letteratura di Arezzo nel giugno 2009: Ecco qui un bel gruppo fiorentino di giovani nella città d’Arezzo. Nessun riferimento a Campaldino quella storia s’è chiusa da un bel pezzo! L’unica cosa per cui siamo minacciosi è la presentazione delle poesie del Mosi con la domanda alle vostre coscienze: “Non è una fortuna vivere a Firenze ?”. Nell’occasione di questapresentazione il pubblico aretino è stato preso come per mano, per visitare iluoghi noti e meno noti di Firenze, dal centro alla periferia, seguendo il filodelle poesie di Florentia. Alla fine della perfomance Simoni ha cantatoa pieni polmoni, con un certo coraggio: Ed ora ch’è finita la lettura davanti a voi faccio le riverenze ma certo sostengo con voce sicura ch’è una fortuna vivere a Firenze ! Roberto Mosi
Id: 378 Data: 17/08/2011 17:04:25
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- Arte
Stridio di storni al Palazzo Pretorio di Sesto
Il ragno si affaccia dal soffitto, di notte tesse la tela. Scende veloce per il filo, osserva i pazienti distesi, gli aghi infilati nelle vene. Mi guarda con simpatia. Risale svelto, scompare oltre il tubo del riscaldamento. L’aspetto, l’Attesa è lunga. Penso ai tesori del ripostiglio resti di mosche, di moscerini. “Cosa si ricorderà di me, del mio passaggio nella stanza?”
Stridio di storni, gracidare di cornacchie alla Mostra di R. Mosi a Sesto Fiorentino La Mostra “L’invasione degli storni” al Palazzo Pretorio di Sesto Fiorentino: la Sala della Mimosa del Palazzo è stata invasa, seguendo le suggestioni di Italo Calvino (dal libro Palomar), dallo stridio di migliaia di storni. Nella Mostra, ogni piccolo uccello è visto come un racconto, una storia. Gli autori hanno inseguito i voli, incrociando i loro mezzi espressivi: Roberto Mosi, i versi della poesia e le immagini della fotografia, Enrico Guerrini, i tratti del disegno e i colori della pittura. E’ stato concesso il patrocinio del Comune di Sesto Fiorentino e dell’AICS di Firenze. Giorgio Burdese, Coordinatore Cultura AICS, ha inaugurato la Mostra. La Mostra è un libro con più capitoli, in volo. Nei gruppi di stormi che si formano e poi si disperdono nel cielo, scorgiamo racconti ripresi dai miti di ieri e di oggi, storie che si bisbigliano nella città (nonluoghi), racconti dal viaggio in tre tappe (Trilogia), nelle delusioni e nelle macerie della nostra epoca, Valle dell’Inferno, nel mondo della sofferenza, Via del Purgatorio, fra le possibili speranze dei nostri anni, Nuovo Cinema Paradiso. La Mostra appare come un’antologia della ricerca sviluppata in questi anni da Mosi e Guerrini, sul terreno della Poesia visiva, un campo che in Toscana conta esperienze di notevole interesse. Ha fatto da cornice alla Mostra l’ultima Raccolta di poesie di Roberto Mosi, dallo stesso titolo: L’invasione degli storni”. Nell’Introduzione alla Raccolta Giuseppe Panella commenta: “Nella Raccolta, alla descrizione di un mondo degradato e senza centro … si giustappone il ricordo del passato mitico dell’archetipo, l’uomo di sempre, quello che ha ancora in sé la possibilità di ritrovarsi e di impedire la distruzione del suo equilibrio interno in relazione alla natura.” Nel recital di poesie che ha inaugurato la Mostra, allo stridio degli storni, si è accompagnato il gracidio della cornacchia che apre la Raccolta e accompagna – come Virgilio nella Divina Commedia – il protagonista alla scoperta della Valle dell’Inferno: La cornacchia conta gli arrivi li moltiplica per i numeri primi. Gracida contenta ….
Id: 347 Data: 26/05/2011 11:36:34
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- Arte
Mito e poesia visiva in Mostra al Caffè La Citè.
« Ogni parola, in quanto tale, è una generalizzazione »* Il mito, i miti abitano in questi giorni un angolo del Caffè Libreria La Citè, nello storico quartiere di San Frediano a Firenze. L’occasione è la Mostra “Il mito, oggi” progettata da Roberto Mosi e Enrico Guerrini, aperta dal 12 al 22 aprile. Le linee del progetto: “ogni mito che ci è stato tramandato, ha qualcosa da dirci. Contiene domande, ci provoca, specie se siamo capaci di coglierne anche la sua proiezione nell’attualità”. Il progetto si materializza in questo angolo de La Citè - fra i divani, il pianoforte, gli scaffali dei libri - con figure di eroi, di personaggi che “escono” dalla Raccolta “Luoghi del mito” (R. Mosi, ed. Lieto Colle), prendono forma in disegni, immagini fotografiche, manichini, invasi da grappoli di versi, di parole, disseminate ovunque. Si colgono subito alcuni temi. In particolare, il richiamo: al bosco sacro di Diana, regina delle selve, e alla spasmodica ricerca del Ramo d’oro; alla figura di Ulisse, un viaggiatore di oggi alle prese con ritardi e ripetuti approdi serali nella sua dimora - ogni sera Ulisse/ torna ad Itaca – dove solo il gatto Arturo saluta /il ritorno, la coda ritta, mentre Penelope “già dorme, stizzita”; ad Orfeo, che con il suo canto trasforma la città di Firenze, impegnata – con Euridice “alla guida di Cerbero” - nello scavo di una galleria infernale sotto la città; a Ermes “dai calzari alati”, che immette nella rete telematica una caterva di messaggi a favore (o a danno) dei milioni di frequentatori di blog; alla figura, infine, enigmatica e poliedrica del Labirinto (“Labirinto miraggio”). E’ immediata la domanda: la Mostra con questo incrocio di linguaggi, aggiunge valore alla narrazione poetica? E’ valido questo percorso ispirato alle suggestioni della poesia visiva? La risposta è affidata ai curiosi che si affacceranno a questo angolo de La Citè. Giuseppe Panella, all’apertura dell’incontro, ha illustrato in modo magistrale il filo rosso sull’attualità del mito, che lega la ricerca poetica di Roberto Mosi. Diana Battaggia, direttrice editoriale di Lieto Colle, ha sottolineato l’originalità sia del libro Luoghi del mito, nel quadro del ricco catalogo della casa editrice, sia dell’incrocio dei linguaggi, quello propriamente poetico e quello, pittorico, di Enrico Guerrini. “Luoghi del mito” – è stato ricordato - compone,con gli altri libri di Roberto Mosi che l’hanno preceduto, una sorta di quintetto poetico sul percorso del poeta all’interno dei luoghi ( siano essi intesi come spazi geografici, non luoghi, mentali, interiori, onirici, culturali): sembra contenerli tutti, aggiungendo nuove tappe, nuove occasioni di conoscenza, nuove mappature culturali e, allo stesso tempo, creando una circolarità di motivi ed umori, secondo un progetto consapevole, circolare di scrittura. La Mostra de La Citè riprende in modo fluido questo movimento, aggiungendo, nuovi valori nella ricerca affidata all’incrocio di mezzi espressivi diversi, secondo i possibili accordi della poesia visiva. Con André Breton e Paul Éluard (Notes sur la poèsie, in "La Rèvolution surrèaliste", AA. VV., n. 12, 15 dicembre 1929, pagg. 53-55) è possibile dire: “La poesia è il contrario della letteratura. Essa regna sugli idoli d'ogni specie e sulle illusioni realiste; salvaguarda felicemente l'equivoco tra il linguaggio della "verità" e il linguaggio della "creazione". * Lev S. Vygotskij, Pensiero e parola, in Pensiero e linguaggio, (Mosca-Leningrado 1934) Universitaria-La Barbèra, Firenze, 1934
Id: 331 Data: 14/04/2011 11:19:44
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- Arte
Mostra al Caffè La Citè. Mito e poesia visiva
« Ogni parola, in quanto tale, è una generalizzazione »* Il mito, i miti abitano in questi giorni un angolo del Caffè Libreria La Citè, nello storico quartiere di San Frediano a Firenze. L’occasione è la Mostra “Il mito, oggi” progettata da Roberto Mosi e Enrico Guerrini, aperta dal 12 al 22 aprile. Le linee del progetto: “ogni mito che ci è stato tramandato, ha qualcosa da dirci. Contiene domande, ci provoca, specie se siamo capaci di coglierne anche la sua proiezione nell’attualità”. Il progetto si materializza in questo angolo de La Citè - fra i divani, il pianoforte, gli scaffali dei libri - con figure di eroi, di personaggi che “escono” dalla Raccolta “Luoghi del mito” (R. Mosi, ed. Lieto Colle), prendono forma in disegni, immagini fotografiche, manichini, invasi da grappoli di versi, di parole, disseminate ovunque. Si colgono subito alcuni temi. In particolare, il richiamo: al bosco sacro di Diana, regina delle selve, e alla spasmodica ricerca del Ramo d’oro; alla figura di Ulisse, un viaggiatore di oggi alle prese con ritardi e ripetuti approdi serali nella sua dimora - ogni sera Ulisse/ torna ad Itaca – dove solo il gatto Arturo saluta /il ritorno, la coda ritta, mentre Penelope “già dorme, stizzita”; ad Orfeo, che con il suo canto trasforma la città di Firenze, impegnata – con Euridice “alla guida di Cerbero” - nello scavo di una galleria infernale sotto la città; a Ermes “dai calzari alati”, che immette nella rete telematica una caterva di messaggi a favore (o a danno) dei milioni di frequentatori di blog; alla figura, infine, enigmatica e poliedrica del Labirinto (“Labirinto miraggio”). E’ immediata la domanda: la Mostra con questo incrocio di linguaggi, aggiunge valore alla narrazione poetica? E’ valido questo percorso ispirato alle suggestioni della poesia visiva? La risposta è affidata ai curiosi che si affacceranno a questo angolo de La Citè. Giuseppe Panella, all’apertura dell’incontro, ha illustrato in modo magistrale il filo rosso sull’attualità del mito, che lega la ricerca poetica di Roberto Mosi. Diana Battaggia, direttrice editoriale di Lieto Colle, ha sottolineato l’originalità sia del libro Luoghi del mito, nel quadro del ricco catalogo della casa editrice, sia dell’incrocio dei linguaggi, quello propriamente poetico e quello, pittorico, di Enrico Guerrini. “Luoghi del mito” – è stato ricordato - compone, con gli altri libri di Roberto Mosi che l’hanno preceduto, una sorta di quintetto poetico sul percorso del poeta all’interno dei luoghi ( siano essi intesi come spazi geografici, non luoghi, mentali, interiori, onirici, culturali): sembra contenerli tutti, aggiungendo nuove tappe, nuove occasioni di conoscenza, nuove mappature culturali e, allo stesso tempo, creando una circolarità di motivi ed umori, secondo un progetto consapevole, circolare di scrittura. La Mostra de La Citè riprende in modo fluido questo movimento, aggiungendo, nuovi valori nella ricerca affidata all’incrocio di mezzi espressivi diversi, secondo i possibili accordi della poesia visiva. Con André Breton e Paul Éluard (Notes sur la poèsie, in "La Rèvolution surrèaliste", AA. VV., n. 12, 15 dicembre 1929, pagg. 53-55) è possibile dire: “La poesia è il contrario della letteratura. Essa regna sugli idoli d'ogni specie e sulle illusioni realiste; salvaguarda felicemente l'equivoco tra il linguaggio della "verità" e il linguaggio della "creazione". * Lev S. Vygotskij, Pensiero e parola, in Pensiero e linguaggio, (Mosca-Leningrado 1934) Universitaria-La Barbèra, Firenze, 1934
Id: 330 Data: 14/04/2011 11:00:20
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- Storia
"La mia Africa",dai ricordi della guerra dEtiopia
Se mi capita davanti agli occhi una carta dell’Africa, il mio sguardo si posa in maniera automatica sull’Africa orientale, l’Eritrea e l’Etiopia, ed in particolare, sul lungo percorso che congiunge Massaua sul Mar Rosso, con Addis Abeba. Dalle informazioni raccolte da varie fonti, posso dire di avere una certa conoscenza delle tappe principali di questo percorso e delle regioni attraversate. Nella prima parte si incontra il caldo torrido di Massaua, antica “Perla del Mar Rosso”, “ rasa al suolo nel corso della recente lotta di liberazione”, poi il passaggio brusco, in soli cento chilometri, dal livello del mare ai 2350 m. di Asmara, la capitale dell’Eritrea, posta sul bordo orientale dell’altopiano etiopico, con un clima “montano tropicale”, mite e temperato, con “cieli tersi per otto mesi l’anno”. Superata, idealmente, la frontiera fra i due paesi – oggi chiusa, dopo l’ultimo conflitto, a tempo indeterminato – è possibile raggiungere con un autoveicolo in un giorno e mezzo Addis Abeba, posta a 2400 m., la terza capitale del mondo per altitudine. Lungo questo tragitto, o con brevi deviazioni, il turista incontra ambienti che offrono “le migliori opportunità in Africa per praticare il trekking e per avvistare le più interessanti specie di animali”; per visitare, d’altra parte, luoghi che conservano un patrimonio unico nella storia dell’umanità. Basti ricordare Yeha, l’antica capitale dell’Etiopia che conserva testimonianze antiche di 3000 anni, Aksum, la città santa, dove si trovano tombe precristiane ai piedi di splendide stele risalenti a 1800 anni fa, Lalibela, dove undici straordinarie chiese scolpite nella roccia e una miriade di gallerie, “hanno cristallizzato nella pietra l’Etiopia del XII e del XII secolo”. Questo stesso itinerario compì, con uno sguardo ben diverso da quello del turista di oggi, mio padre nel 1935/1936, che partecipò, richiamato alle armi, alla guerra d’Etiopia. Il suo racconto, ascoltato quando ero ragazzo, di reduce dalla guerra ha lasciato tracce indelebili nella mia memoria. Il “viaggio” cominciò da Firenze, la sua città, in maniera improvvisa, nell’estate del 1935. Alla partenza non vi fu il saluto entusiasta di una folla di concittadini, come ci mostrano molte riprese dei cinegiornali dell’epoca. Una cartolina precetto – i voucher più alla moda in quell’epoca – raggiunse la casa popolare del quartiere di Rifredi, dove viveva con la famiglia. La trovò di ritorno dal lavoro. Proprio non se l’aspettava. Aveva 28 anni e aveva già dato ventiquattro mesi della sua giovinezza al regio esercito, in un reparto di cavalleria, e credeva che la partita ormai fosse chiusa con la vita militare. Da pochi mesi aveva trovato un posto di lavoro come operaio in una fabbrica di confezioni presente nel quartiere, diretta da un proprietario noto nella zona per il buon rapporto con i dipendenti. Sia detto per inciso, che questa persona finirà nei forni di Mathausen, per le sue origini ebraiche. Il nuovo lavoro era un sostegno prezioso per la famiglia che attraversava periodi nei quali non era facile mettere insieme il pranzo con la cena. La cartolina precetto portava l’ordine di presentarsi immediatamente a Pisa, in una caserma, senza indicare la destinazione finale. Arrivato a Pisa apprende, insieme ai nuovi compagni, che la destinazione era l’Eritrea dove avrebbe preso parte alla spedizione contro l’Abissinia: “L’imbarco sarà a Napoli fra tre giorni”. Nella notte Bruno, con altri compagni, scavalca il muro di recinzione della caserma e salta su un treno in corsa per Firenze, per evitare di essere fermato dalla polizia militare. Arriva la mattina dopo a casa ed ha appena il tempo di raccontare alla famiglia cosa l’aspetta che per le scale risuonano i passi di una pattuglia di carabinieri. E’ prelevato e condotto a Napoli, all’imbarco per l’Eritrea, senza che subisca alcuna condanna per la fuga: “Intanto, peggio che in Africa …”, si sente dire dai superiori. Nel racconto di mio padre il primo motivo che mi colpisce, è quello della scoperta, della meraviglia. La partenza da Napoli in mezzo ad una miriade di bandiere e ad una folla festante ai piedi di un enorme piroscafo bianco, con il nome di un duca della famiglia Savoia, poi il viaggio di sette giorni per mare, l’incontro con i colori dell’Oriente a Porto Said, in Egitto, la nave circondata da un bazar di barche, cariche delle merci più strane, i ragazzi che si tuffano in mare per ripescare le monete gettate dai soldati, il bianco accecante delle due sponde desertiche del Canale di Suez. Il continente africano era pieno di sorprese, di meraviglie che balzavano fuori dalla visione di un paesaggio vario e grandioso, dalla sensazione nuova dello spazio, dall’ampiezza degli orizzonti, della limpidezza dell’aria sugli altipiani, con lo spettacolo sempre nuovo delle albe e dei tramonti, con la magia delle notti africane splendenti di vivissime stelle, notti abitate spesso dall’urlo delle iene e degli sciacalli. Mi sembrava che le parole di mio padre prendessero spesso il tono della malinconia. Il racconto poi dei dieci mesi trascorsi in Africa, si snodava attraverso una trama fitta di episodi, di sensazioni, della quale mi sono rimasti nella memoria solo alcuni flash, un numero limitato di tracce sufficienti, tuttavia, per ricostruire alcuni capitoli di questa storia. Da Massaua i protagonisti di questa storia diventano due, mio padre e il mulo che gli viene affidato per il trasporto delle salmerie da parte di una compagnia. Il mulo ha un nome, Paciuk, diventa l’amico con cui si parla, ci si confida, risponde prontamente agli ordini, le sue reazioni sono importanti per avvertire il pericolo di un nemico in agguato; rappresenta un riparo per spostarsi durante gli scontri, è un sostegno nelle marce più dure, ci si attacca alla coda quando i sentieri in salita, per raggiungere gli altopiani, sono più aspri o si tratta di affrontare percorsi aperti su profondi dirupi. Era vivo il ricordo, quando la paura, l’ansia era più forte, delle reazioni dell’animale, il suo sguardo, il movimento delle orecchie, il restare, a volte, immobile davanti a fruscii, ombre, rifiutando di andare avanti. A momenti spuntavano nella narrazione alcune parole in aramaico, fra le più semplici, come acqua, cibo, lo scambio di saluti. La sensazione che percepivo era quella di una costante diffidenza nei confronti degli abitanti dei villaggi attraversati, spesso di paura specie quando i tucul apparivano disabitati e sembrava, tuttavia, di essere seguiti dallo sguardo di qualcuno. La paura raggiungeva il suo apice nei casi in cui doveva andare, da solo, a prendere l’acqua per la compagnia da un torrente, presso uno stagno, una pozzanghera. L’acqua, in questo caso, era fliltrata mettendo il fazzoletto sulla bocca delle borracce. Le parole ripetute con più frequenza erano quelle dei luoghi degli scontri, tutti con nomi scoppiettanti, come Sellaclacla, Taccazzè, compresi i nomi dei capi abissini, come quello di Ras Immirù. Era costante il ricordo delle armi primordiali dei soldati abissini, spesso si trattava di lance, spade, scudi. Percepivo tuttavia nelle parole del racconto l’ammirazione per il coraggio di questi soldati nel combattere. La narrazione è ritornata infinite volte su una battaglia – mi sembra di ricordare nella zona di Sellaclacla – che vide il battaglione di cui faceva parte mio padre, circondato sulla cima di un monte dalle truppe di Ras Immiru. La battaglia durò tre giorni e tre notti. I soldati abissini si lanciarono a più riprese, sguainando sciabole e pugnali, contro gli italiani asserragliati sul monte. “Arrivavano a ondate, davanti ai fucili e alle mitragliatrici che spazzavano il terreno circostante. Più volte qualcuno riuscì ad afferrare la canna delle mitragliatrici, prima di cadere, dilaniato dai colpi. Sembrava proprio, questa volta, di essere arrivati alla fine! Alla terza notte, l’assedio cessò, i soldati abissini scomparvero nel nulla”. Poche volte il racconto si è fermato – quasi per pudore – su un episodio di feroce atrocità. La compagnia arrivò ad un villaggio immerso nel silenzio, i tucul vuoti. Mio padre scorge nell’erba alta uno strano batuffolo, lo alza, è la testa di un bambino. Il giorno precedente era passata una squadra di camicie nere e aveva fatto scempio degli abitanti del villaggio, un gioco al tirassegno su tutto quello che si muoveva. Cosa mi rimane di questo racconto? I frammenti di memoria che ho riportato, una croce di guerra di ferro al valor militare ornata da un nastrino bianco e azzurro, una fotografia dell’epoca che mostra un giovane – mio padre – magrissimo, curvo, con un sorriso stanco, la pelle scura bruciata dal sole. A questa immagine mi è naturale unire il ricordo delle cicatrici che aveva sulle gambe, per le punture delle zecche e delle “pulci perforanti”. Più volte ho cercato di ripercorrere idalmente questo percorso da Massaua ad Addis Abeba attraverso le pagine di libri di storia e di guide turistiche, per cercare di fare rivivere questi frammenti di memoria nel loro contesto geografico e storico. Un libro utile per la mia ricerca è stato il recente libro di Angelo Del Boca “La guerra di Etiopia” (Longanesi, Milano 2010). Ho colto dalla ricostruzione storica dell’autore lo sguardo ansioso, assillante di Mussolini, sull’avanzata italiana lungo la direttrice da Asmara ad Addis Abeba, la volontà di alimentare la macchina del consenso nazionale, di procedere rapidamente nell’avanzata per mostrare al mondo risultati vittoriosi e rispondere alle pressioni della Società delle Nazioni. Effetto immediato di questo, la chiamata alle armi di un enorme contingente di soldati, l’invio spasmodico di ulteriori rinforzi dopo le difficoltà incontrate nei primi mesi di guerra e le pressanti richieste di ulteriori forze da parte dei comandanti in capo, Del Bono e poi Badoglio. Da Roma partono anche le autorizzazioni per il massiccio impiego di gas velenosi, dell’iprite in particolare, specie nelle fasi decisive della guerra. Dalle fonti storiche del libro, emergono le testimonianze di episodi atroci di fanatismo, di rappresaglie; valga per tutte, quella del figlio di Mussolini, Vittorio, aviatore: “ Una bella sventagliata e l’abissino era a terra. era dunque una caccia isolata all’uomo, come al solito, e ogni apparecchio, per conto suo, frugava ogni buco annusando l’abissino”, “ Era un lavoro divertentissimo e di un effetto tragico ma bello. […] Bisognava centrare bene il tetto di paglia e solo al terzo passaggio ci riuscii. Quei disgraziati che stavano dentro e si vedevano bruciare il tetto saltavano fuori come indemoniati” ( V. Mussolini “Voli sulle ambe”, Sansoni, Firenze 1936). Nel libro di Del Boca si trovano testimonianze poi diffuse sul valore dei soldati abissini, sul modo di cambattere con armi primitive, quasi privi di armi moderne. In una battaglia nella zona Abbi Addi, un ufficiale italiano riferisce che gli abissini calano dalle alture ad ondate successive, usando più le sciabole che le armi da fuoco, abbattono i serventi sulle loro mitragliatrici, arrivano a pochi passi dai pezzi di artiglieria (pag. 136). La stessa immagine, dunque, delle parole di mio padre “arrivavano ad ondate”, quando parlava dell’assedio del suo reparto sulla cima di un monte. Il libro di Del Boca, attraverso i documenti di fonte etiopica e le interviste ad alcuni portagonisti, ci presenta cosa succedeva sugli altipiani e le montagne etiopiche oltre le linee italiane. Emerge la figura dell’imperatore Hailè Selassiè, la sua voce forte che si alza all’inizio della guerra per invocare l’aiuto della Società delle Nazioni e delle maggiori potenze, che diventa sempre più flebile, inascoltata. La sua abilità strategica di ricorrere, specie nelle prime fasi, alla guerriglia per sfruttare le capacità naturali dei soldati, e impegnarsi, alla fine, al comando del suo esercito, in battaglie campali, per tentare di rovesciare le sorti della guerra. Nel racconto dell’imperatore è forte la denuncia degli effetti dei bombardamenti aerei, dell’impiego massiccio in ogni regione dei gas velenosi. “La guerra chimica non ci ha causato soltanto un gran numero di morti e di feriti, ma ha avuto innanzitutto l’effetto di distruggere la forza morale e la capacità di resistenza delle truppe etiopiche. Senza l’impiego di questo inumano mezzo di combattimento, la decisione dei nostri soldati non sarebbe mai venuta meno …” (pag. 149). Queste testimonianze si intrecciano con i frammenti del racconto di Bruno, mio padre. Penso che la sorte della battaglia di Sellaclacla a cui prese parte– “Alla terza notte, l’assedio cessò, i soldati abissini scomparvero nel nulla” – sia da legare all’assalto continuo dell’aviazione italiana. Mi sembra che nella mia ricerca riesca a ricomporre i pezzi di un puzzle, a dare respiro a memorie personali nel contesto di fatti generali, fatti che segnarono come cicatrici indelebili il volto dell’Africa e, per altro verso, la storia del notro Paese. L’interesse ad approfondire i caratteri del percorso da Asmara a Addis Abeba e la loro traformazione, mi ha portato a consultare la prima guida che uscì nel 1938, in 500 mila copie, a cura della Consociazione Turistica Italiana: “Guida dell’Africa Orientale Italiana”. Quali gli scopi per preparare in tempi rapidi una guida così complesa di quasi 700 pagine, a solo due anni dal giorno nel quale “il Duce da palazzo Venezia proclamava al mondo il ritorno dell’Impero ?”. Quello di rendere omaggio alla vittoria italiana e ai suoi protagonisti e di mostrare come l’Italia abbia saputo rispondere alle “sanzioni di 52 Stati coalizzati contro un popolo risoluto a trovare il proprio posto al sole”. La strada che porta ad Addis Abeba, riferisce la Guida, è indicata come “la grande strada della Vittoria” che scavalcando “eccelse quinte montane, traversa i luoghi sacri alla memoria degli Italiani: Macallè, Amba Aradàm, Amba Alàgi, Mài Cèu”. E’ una terra che “racchiude in sé tali possibilità da alimentare le più ardite speranze e da permettere le più audaci previsioni” per il turismo, per le intraprese economiche”. Al turista che desideri “farsi un’idea abbastanza completa dell’Impero e che disponga di un autoveicolo ( meglio se un autocarro leggero con tenda, riserve di carburante, acqua e viveri)” si raccomanda un itinerario da compiere in 60-80 giorni, dei quali 22 per raggiungere Addis Abeba partendo per Massaua. Quale contegno deve tenere il turista, secondo i consigli della Guida della Consociazione Italiana? “L’Abissino è di carattere chiuso, molto orgoglioso, volubilee, come tutti gli orientali, dissimulatore e accorto parlatore. .. Gl’Italiani, con il loro carattere umanissimo e con l’istintiva penetrazione psicologica, hanno già stabilito un equilibrio nel rapporto con gl’indigeni: non altezzosità e separazione assoluta, ma superiorità e comprensione. Occorre trattare con giustizia e bontà, ma senza debolezza; diffidare è buona regola; troppa familiarità è fuori luogo” (pag. 20). Le guide di oggi pongono da parte, naturalmente, ogni diffidenza ed invitano con calore a visitare l’Etiopia e l’Eritrea, “diverse da qualunque paese che abbiate mai visitato. Chiese monolitiche scolpite nella roccia, bazar brulicanti e terre incontaminate: il Corno d’Africa è davvero unico”. I libri di viaggio ci invitano ad immergerci in un mondo di ricche testimonianze storiche, culturali, etnografiche, ambientali, da scoprire direttamente, anche, facendo riferimento in più casi, a strutture turistiche spartane, tipiche di Paesi segnati ancora dalla povertà. A queste testimonianze legate al passato, le guide ci presentano le vie di ricerche artistiche nuove, animate dai giovani, che in maniera originale progettano la visione del futuro di una terra che ha vinto il “drago del colonialismo”, come nelle immagini dell’artista Afewerk Tekle, presenti nella monumentale vetrata istoriata dell’”Africa Hall” di Addis Abeba. Non lontana da questo monumento, si innalza la Cattedrale della Santissima Trinità dove i dipinti murali ritraggono l’imperatore Hailè Selassiè a Ginevra mentre pronuncia davanti alla Società delle Nazioni, nel 1936, il suo famoso discorso contro la guerra e per i diritti di tutti i popoli della terra. Nelle vicinanze della cattedrale, il monumento eretto in memoria delle migliaia di etiopi uccisi dagli italiani in segno di rappresaglia per l’attentato contro il vicerè Graziani del 19 febbraio 1937. Debellato il “drago del colonialismo” lungo il percorso di cui abbiamo parlato, legato per me a ricordi familiari, emergono le recenti ferite del “mostro della Guerra”, dalle città eritree bombardate nel corso del conflitto con l’Etiopia, i campi di mine antiuomo sul confine, i numerosi cimiteri di guerra. La lotta contro questo mostro è decisiva per il futuro del Corno d’Africa e dell’intero continente.
Testo in corso di pubblicazione sulla Rivista Testimonianze
Id: 310 Data: 25/02/2011 12:42:50
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- Letteratura
La Mostra "Nonluoghi" alla LibreriaCaffè La Citè,
Si è aperta la Mostra Nonluoghi , poesie//disegni//poesie, curata da Roberto Mosi e Enrico Guerrini, presso la nota Libreria Caffè La Citè di Borgo San Frediano, a Firenze, un locale che si pone come “un salotto aperto”, al servizio di “un progetto culturale per la città”. L a Mostra, aperta dal 19 al 26 gennaio, parte dalla raccolta di poesie “Nonluoghi” di R. Mosi, pubblicata, in forma di e-book, da www.larecherche.it (Roma 2009). E’ dedicata ai luoghi nei quali la gente si sfiora, si ferma per brevi minuti, passa oltre. Sono stazioni, aeroporti, mercati, periferie, ecc. Sono i nonluoghi, secondo la definizione del sociologo Marc Augè.
Nella Mostra la ricerca su questo tema è affidata al tratto evocativo del disegno, alle tracce di luce che cattura la fotografia, al suono e ai versi della poesia, lontano da qualità liriche e vicino alla presenza di un’invadente quotidianità tecnologica. Questa combinazione di segni è tracciata su dieci grandi pannelli e disegni, che si snodano nelle sale d’incontro e di lettura de La Citè.
Fra le novità, rispetto a precedenti manifestazioni illustrate sulle pagine web www.robertomosi.it , il catalogo della Mostra, un libro che riporta i testi delle poesie divisi per parti (Aeroporti, Stazioni, Periferie, Città, Mercati, ecc.), illustrati con senso scenico e del racconto, da Enrico Guerrini.
Nella serata inaugurale del 19 gennaio, davanti ad un numeroso pubblico, la lettura delle poesie da parte dell’autore, di Giulia Capone Braga e di Renato Simoni. Matteo Bertini ha seguito al pianoforte la lettura, dando ad ogni parte il suono magico del luogo attraversato, dalle stazioni ai mercati.
Il commento sulla Mostra e la raccolta di poesie Nonluoghi , è stata affidato agli interventi di riflessione su i diversi accenti dell’incontro, di Caterina Bigazzi, poetessa fiorentina, collaboratrice della Rivista Semicerchio, e di Mario Bencivenni, esperto di letteratura ed arte, insegnante al Liceo artistico di Firenze.
Id: 290 Data: 23/01/2011 22:52:37
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