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- Arte
Ipazia, Artemisia e le Altre. Donne e arte, vittime della st
Il percorso femminile è lastricato di donne che hanno tentato di perseguire strade a loro precluse. Si è sempre cercato di tenerle indietro culturalmente, ostacolandone l’istruzione, nella consapevolezza che la conoscenza e la sapienza elevano gli animi, aprendo nuovi orizzonti. Ogni volta che una donna ha tentato di far valere le sue capacità, le abilità tramandate o apprese, è state sempre relegata brutalmente nell’angolo della discriminazione. Non dimentichiamo che in passato fu anche tacciata di stregoneria ed è andata al rogo quando, in lei si vedeva la diversità, non corrispondente al concetto che le avevano cucito addosso. Un fenomeno di grande portata, durato circa duecento anni, a iniziare dal XV secolo, una persecuzione definita sessista; donne attaccate soprattutto dai movimenti del cristianesimo. Le prime donne medico, coloro che curavano, detentrici di conoscenze tramandate da generazioni, erano considerate portatrici di poteri satanici: streghe. Le donne che studiavano e della loro cultura ne facevano dono con slancio e generosità erano menti machiavelliche da cui bisognava difendersi. In primis il campo dell’arte, era esclusivo predominio maschile. Se andiamo molto indietro nel tempo, troviamo la figura di Ipazia che ha colpito anche l’immaginario odierno, dando vita ad un famoso film “Agorà”, presentato al festival di Cannes nel 2009, interpretato da Rachel Weisz.; una storia dolorosa e vergognosa nella tappa del cammino umano. Ipazia visse nel V secolo dopo Cristo, ad Alessandria d'Egitto, studiosa di matematica, filosofia, astronomia, sostenitrice del pensiero libero da dogmi, e altri condizionamenti mentali. Nella sua indole, la cultura e l'insegnamento, a cui si prodigava in maniera generosa e gratuita. Per questo e per gli influssi che esercitava sulle giovani menti, attirò le invidie e le ire del vescovo Cirillo; a quei tempi era intollerabile un tale potere da parte di una donna. Ipazia subì una morte atroce, violentata in branco, torturata, scuoiata viva. Fu la prima martire pagana per odio di genere, simbolo di libertà, di indipendenza, di dignità; torturata e uccisa solo perché donna, vittima di un odio che arriva fino ai giorni nostri, come se, il mondo maschile nei riguardi della donna o almeno una parte di esso, fosse rimasto fermo nel tempo. Essere uccise è già un crimine, uccise solo perché colpevoli di appartenere a un genere o per amore del sapere, della conoscenza, è morire due volte.
Nei tempi di imperante androcrazia, in cui è vissuta la nostra Ipazia, la conoscenza non poteva essere femmina (di donna, non esisteva neanche il concetto), ma era prerogativa della cerchia maschile, di pochi privilegiati. Nell’esistente pensiero di una misoginia classista, dominante in tutti gli strati sociali è evidente come l’autoritarismo portasse la donna a essere considerata inferiore socialmente e culturalmente, senza possibilità di riscatto. La donna che non sa, non chiede e non ha pretese, non ha il pieno concetto di sé e si identifica con la parte maschile per sopravvivere; ha bisogno di sostegno, non è autonoma nel pensiero e quindi non in grado di agire. Il paternalismo storico ci insegna come l’accentramento del sapere significhi anche avere in mano il potere e quindi governare, il tutto in evidente contrasto con i diritti della democrazia in cui tutti, senza distinzione di sesso, sono chiamati a partecipare alla vita sociale e politica. Eppure ci sono state donne capaci di emergere e rivendicare il proprio diritto a esistere, fin da tempi antichissimi e l’Arte è stata un’arma potente fra le loro mani, uno strumento per avere voce. Ipazia ne è l’emblema, non solo per la caratura intellettuale, inusuale per quei tempi, ma soprattutto perché donna non maritata, libera e indipendente, che aveva il pieno controllo della sua vita. Un affronto, forse tanta ostinata sicurezza e forza interiore per i tempi che l’hanno vista dea e martire al contempo? Di quante Ipazia è lastricato il percorso storico prima che si arrivasse allo stato attuale di cose? Di fronte all’alienazione contemporanea dell’essere, più che dell’apparire, è l’immagine della femmina che domina sulla donna, mentre la femminilità, vista come armonia di concetto, latita nella maggioranza dei casi. Se deviassimo le attenzioni dagli stereotipi imposti dalle moderne culture, in cui il femminismo non è stato altro, che la rivendicazione di una libertà legata più al concetto di fisicità che a quello intellettuale forse non continueremmo ad uccidere ogni giorno la conoscenza. Perché Ipazia non ha una collocazione spazio/temporale ma è sempre esistita, e ad ogni sua morte corrisponde una rinascita.
Nell’ucciderla l’hanno consegnata alla storia e resa immortale come allo stesso modo il sapere innalza il decadimento della carne rimandandoci ai posteri. La conoscenza innalza l’individuo rendendolo partecipe della sua naturale essenza.
Altri simboli di forza all’interno dell’universo femminile artistico, li troviamo nella pittrice del 1500 Artemisia Lomi Gentileschi (Roma 1593 – Napoli 1653) considerata un nuovo stimolo al femminismo comatoso del tempo. Fu violentata più volte e denunciò per stupro il suo carnefice. Per portare avanti la causa e affermare la veridicità delle sue accuse fu sottoposta allo schiacciamento dei pollici, che oltre al dolore fisico le creò problemi per la sua arte, suo unico motivo di vita. Non fu solo una grande pittrice, di cui ci restano solo trentaquattro opere (e ventotto lettere) ma rivendicò con forza la sua posizione sociale e di donna libera del tempo, aggrappandosi prepotentemente alle sue indiscusse abilità artistiche che verranno rivalutate tardivamente, intorno al Novecento. Ancora, Rina Faccio, alias Sibilla Aleramo – scrittrice, poetessa – violentata a sedici anni e costretta a sposare il suo violentatore, ma che, dopo qualche anno trova la forza per lasciarlo e scoperte le sue qualità di scrittrice si fa promotrice del mondo femminile sommerso e ne diventa una portavoce di rilievo. Cito queste donne, non solo per le violenze subite, ma per il modo in cui si sono prodigate nel denunciare e combattere la cultura del momento storico e la mentalità ostica al genere. E ancora, Oriana Fallaci, scrittrice, giornalista e attivista che si unì giovanissima al mondo della resistenza, fu inviata di guerra, ebbe una vita densa e travagliata, diede voce al mondo dell’islam portandone alla ribalta i controsensi. Da sempre in lotta per difendere i diritti delle donne, con l’anticonformismo che le era innato. Potrei continuare con nomi altrettanto degni di essere citati anche se senza volto, l’elenco sarebbe davvero troppo lungo. Oggi qualcosa è cambiato, l’Arte non è più preclusa alle donne ma l’uomo non è mutato. L’Arte potrà salvarlo? Forse, se si svincola dalla mercificazione dell’essere e segue il suo naturale decorso. Ipazia, Artemisia e le Altre non avranno lottato invano.
Maria Teresa Infante
Id: 2674 Data: 24/08/2020 00:32:00
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- Storia
Donne scomode. Il prezzo della rivoluzione al femminile
Eleonora de Fonseca Pimentel
Tante volte abbiamo evidenziato le difficoltà delle donne per farsi strada in settori di stretto predominio maschile, e ancora più arduo fu il cammino nel mondo culturale o artistico in cui mal si sopportavano ingerenze e capacità femminili intellettualmente raffinate. Potremmo citare il triste destino di Ipazia (360 d.C), matematica scienziata, astronoma di Alessandria o della pittrice Artemisia Gentileschi (Roma 1593 – Napoli 1653), o Silvia Plath (USA 1932 – UK 1963) e tante altre donne che non hanno rinnegato se stesse annullandosi.
Meno conosciuta forse è la vicenda di Eleonora de Fonseca Pimentel che visse nella Napoli del XVIII secolo. Di nobili origini – padre spagnolo e madre portoghese – nacque a Roma il 13 gennaio del 1752, poi si trasferì con la famiglia a Napoli. Donna di grande ingegno, scrittrice, traduttrice di trattati tra Stato e Chiesa, giornalista – fu la prima donna in Europa a fondare un giornale politico “Il Monitore napoletano” e tenne a battesimo “La Repubblica partenopea” per cui compose “l’Inno alla libertà” – e non ultimo si dedicò a studi di filosofia, fisica e diritto pubblico. Conosceva il portoghese, il francese e l’inglese, a sedici anni scriveva già in latino e greco. Pubblicò sonetti e poesie. Ammirata per le sue doti da Goethe, Voltaire, Metastasio, – con cui tenne rapporti epistolari fino ai suoi ultimi giorni – Fliangieri, Voltaire con cui strinse rapporti di amicizia e trattenne corrispondenze epistolari. Fece parte dell’Arcadia con lo pseudonimo di Altidora Esperetusa e frequentò musicisti del tempo e intellettuali. Fondò un suo salotto culturale di cui era abile animatrice.
Non ebbe un matrimonio fortunato sposando il nobile Pasquale Tria de Solis, tenente del reggimento nazionale del Sannio, e in aggiunta le morì il figlio Francesco a soli otto mesi. Non riuscì a portare a termine altre due gravidanze a causa dei maltrattamenti e delle violenze subite continuamente dal marito che, in uno dei contrasti cercò anche di bruciarle i libretti di poesie in cui ella riversava il suo dolore per i figli persi e la sofferenza per la convivenza con lui. Forse anche il dolore per un amore impossibile (Alberto Fortis?) Caduta in un profondo stato di disperazione si dedicherà alla cura e al soccorso dei bisognosi – vedi l’aiuto ai napoletani imprigionati dalla lava del Vesuvio e il rinvenimento dei cadaveri – ma quando riuscì ad ottenere finalmente il divorzio cambiò radicalmente anche il suo modo di vivere. Ultimo colpo di coda del marito fu la consegna al giudice, in sede processuale, della corrispondenza della moglie con il geologo veneziano Alberto Fortis ma a tutti gli effetti si trattava solo di scambi intellettuali anche se l’uomo era affranto per le sofferenze a cui la donna era sottoposta nella vita matrimoniale. A causa delle sopraggiunte difficoltà economiche dovette chiedere un sussidio mensile al re, che le concesse dodici ducati al mese. Seguirono anni di alterne vicissitudini e le voltò le spalle anche il popolo che fino ad allora aveva aiutato e a nulla valsero i suoi sforzi per far rinascere in loro sentimenti e dignità sopite per la perduta libertà. Si dedicò anima e corpo nell’approfondire la conoscenza e nella lotta contro i borbonici o per meglio dire per la libertà in senso assoluto: libertà di pensiero, di azione, di vivere secondo necessità, libertà di amare. Ma una donna depositaria del sapere non era mai ben vista soprattutto quando le esigenze erano legate esclusivamente a quelle materiali vista la povertà dilagante, mentre per i Borboni era una pazza, un’esaltata. Alla fine del ‘700 il popolo era affamato e non comprendeva i concetti di “repubblica” e “libertà” inneggiati dagli idealisti di cui faceva ormai parte attivamente la Pimentel come giacobina. Durante il controverso momento storico in cui i francesi stavano per battere in ritirata così scrisse nel Monitore: “un popolo non si difende mai bene che da se stesso ... perché la libertà non può amarsi a metà, e non produce i suoi miracoli che presso popoli tutti affatto liberi" (ibid., n. 28, 25 fiorile [14maggio]).
Dopo la violenta rivolta del 1799 finita nel sangue con decapitazioni e processi sommari a danno di tanti intellettuali anche Eleonora fu arrestata e condannata al patibolo. La cronaca dell’epoca riporta:
“Il processo fu istruito dal consigliere V. Speciale, il più intransigente dei giudici della Giunta, e il 17 agosto fu pronunziata la sentenza di morte per impiccagione. La F. chiese che la condanna fosse eseguita tramite decapitazione, così come spettava ai nobili del Regno, ma il privilegio le fu rifiutato con il pretesto che il re aveva riconosciuto ai Fonseca solo la nobiltà portoghese. Il 18 fu trasferita nella cappella del castello del Carmine e assistita dai padri della Compagnia dei Bianchi della giustizia. Il pomeriggio del 20 ag. 1799 insieme con altri sette condannati, tra i quali G. Colonna, G. Serra, il vescovo M. Natale, fu condotta sulla piazza del Mercato dove "vestita di bruno, colla gonna stretta alle gambe" (De Nicola, in data 20 agosto), per ultima salì sul patibolo.”
“Si buttò come Camilla nella guerra”, scrisse il suo amico Vincenzo Cuoco.
Ma ciò che la cronaca non specifica, forse per un ultimo atto di rispetto dovutole, sono le modalità dell’impiccagione a cui fu vergognosamente sottoposta, in quanto una donna raramente muore una sola volta e non le viene risparmiata un’umiliazione aggiunta per punire il coraggio di essere andata oltre lo steccato che le era stato imposto.
Morirà sul patibolo il 10 agosto del 1799 in Piazza Mercato. Le furono appositamente sfilate le mutandine affinché la gonna larga che indossava, mentre penzolava dalla forza, la esponesse pubblicamente. Eleonora cercherà di coprirsi trattenendo i lembi dell’abito ma non riuscirà a sottrarsi alle offese e agli insulti di quella stessa plebe a cui tanto si era dedicata e che in effetti, si scagliò verbalmente su di lei. Quando l’impiccagione fu compiuta una donna le appuntò con misericordia gli orli della gonna con una spilla da balia.
Eleonora de Fonseca Pimentel fu tra i coraggiosi, gli idealisti che gettarono le basi per il movimento del Risorgimento italiano.
Ad oggi, nei Quartieri spagnoli a Napoli le è stato dedicato un enorme murale, realizzato da Leticia Mandragora, sulla facciata dell’ex mercatino di Sant’Anna di Palazzo.
Maria Teresa Infante
Id: 2613 Data: 26/04/2020 04:48:03
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- Vari
Torneremo a guardare il mare
Dicono fosse il Covid, un numero tatuato sulla pancia a palla, 19 mi sembra, o giù di lì, non credo faccia differenza. E tutto sembrò lontano.
Essere a casa, sempre, uno stato mentale, diverso dagli spazi abitativi, dai recinti strutturali, dalle pareti addomesticate da regole comportamentali, interne/esterne, ordinarie/dis-ordinarie, appartenenti a un arredo che esula da necessità effettive. Sì, sono a casa. Così come l’oggetto, posizionato tra me e la finestra a riempire un vuoto che non avrei considerato se oggi non mi fossi accorta che tra me e la finestra esistono ostacoli, opportunatamente delimitanti, per non cedere alla tentazione di prendere troppe boccate d’aria. Solo ieri l’aria era un bene scontato, ne facevo scorpacciate, ignara, tranne poi infilare due dita in gola e spargerla in una sola parola. Bulimica per eccesso, ogni volta che volevo sentirmi ad alta quota. L’aria continua ad essere seducente, ammaliante, un richiamo erotico il profumo dell’erba – umida quanto basta – a cui è difficile sottrarsi; mi guarda, mi tenta. Cedo. Spoglio la ragione, il pensiero scivola sul pavimento, le caviglie mimano una danza, con un gesto estremo di noncuranza getto lo slip nella vasca, dove differenziare i bianchi dai colorati. E mi amo, e amandomi ti amo. Dopo l’amplesso la fame; continuo ad accumulare oggetti. Non contano le dimensioni, le forme, la consistenza, fondamentale è che sbarrino il cammino verso la finestra e quel cielo villano che offende la vista in catene. Il latrare di un cane giù in strada mi parla. Ci comprendiamo, ho qualcuno con cui conversare. Inizio a latrare, l’unico modo per farmi ascoltare. Per un po’ dimentico la finestra i cui sprazzi di luce rimbalzano contro la cornice troppo grossa, l’argento troppo argento, tornando al mittente, senza che ne avessi avvertita la carezza. Ciò che è scontato era considerato vano e chi se ne importa se dal divano che non ho mai usato i libri si sono accatastati. Tiro le tende al tempo, le ombre assumono pose meno arcane. Posso toccarle con mano ora che sembrano più chiare. Son capitati giorni in cui la finestra non è stata neanche aperta, lasciando fuori la luce dei lampioni, pensando che la sera non avesse che il buio da mostrarmi, troppo lontano dal led sospeso sulla tavola piena – sempre di troppo argento – apparecchiata per la cena, appena dopo il pranzo e un po’ prima della colazione fuori dal letto. Il letto… ahha, dicono serva per dormire o per svegliarsi prima che sia troppo tardi; alcuni lo utilizzano per cose strane, cose da umani, quando conviene mettere in vista il cuore come fosse un quadro d’autore. Intanto resto a casa. La finestra sembra solo una finestra, meno ostile. Resto, lo devo a me stessa, lo devo a chi amo, a chi mi ama. Poi, torneremo insieme a guardare il mare. Torneremo ad amare. E ci accorgeremo che la finestra era sempre rimasta aperta. Noi, prigionieri di noi stessi.
Maria Teresa Infante 24 marzo 2020
Id: 2573 Data: 24/03/2020 01:41:13
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