I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
Quando si frequenta la letteratura, è lecito chiedersi come si riconosca un vero scrittore.
Sicuramente il punto di riferimento possono essere gli autori del canone scolastico, ma spesso
vengono assorbiti con passività e per senso del dovere. E intanto nelle librerie siamo circondati da
nomi nuovi e sconosciuti di cui c’è sempre qualcuno pronto a comporre lusinghiere recensioni, ma
quanto poi siano sincere e non puro frutto di esigenze editoriali, questo non è dato saperlo. Ma a una
simile domanda può offrire risposta una delle ultime opere di Oscar Wilde, il De profundis.
In verità, la definizione stessa di “opera” andrebbe rivista poiché si tratta di una lettera privata
che Wilde ha scritto dal carcere di Reading al suo amante Alfred Douglas, soprannominato Bosie.
Non era nelle intenzioni dell’autore la divulgazione, ma sembra che il suo amico Robbie Ross, dopo
il rifiuto del destinatario di leggerla, abbia scelto di farla pubblicare, quasi certamente per riabilitare
la fama di Wilde.
Difatti la vicenda che ha condotto lo scrittore in prigione è stata uno scandalo che ancora oggi è
noto. Lo stesso Wilde sapeva che sarebbe stato impossibile rimuoverlo dalla memoria collettiva:
“Quella versione è ora passata di fatto alla storia” (O. Wilde, De profundis, Newton, Roma, 1994, p. 46) scrive nella lettera, consapevole che lui sarebbe
diventato un modello di perversione, posto “tra Gillez de Retz e il Marchese de Sade” (ancora p. 46) . Per questo è
frequente che il nome di Oscar Wilde venga seguito dall’aneddoto circa la sua omosessualità, ma è
altrettanto vero che spesso si conosce una versione edulcorata dell’episodio, secondo lo stereotipo
degli amanti sinceri divisi da una società bigotta. Ebbene, dalla lettera emerge che Bosie è stato
tutt’altro che gentile, interessato solo alla fama e al denaro dello scrittore: il giovane Lord Douglas
si è servito dei sentimenti di Wilde per vendicarsi del padre moralista e anaffettivo. Oscar Wilde è
andato incontro alla rovina della propria esistenza per un rapporto che, almeno in apparenza, non
desiderava e a causa di circostanze che sono scivolate al di fuori del proprio controllo.
Oltre il risentimento, però, il lettore assiste a un percorso di crescita esistenziale in cui il ruolo
principale è rivestito dal dolore. Wilde, attraverso la prigionia, si è dovuto avvicinare a sentimenti e
stati d’animo che aveva sempre rifuggito, dedito com’era alla ricerca del piacere. Quella che lui
stesso definisce “l’altra metà del giardino”(p. 63) è diventata il suolo su cui incamminarsi tutti i giorni, tra
le lacrime e la solitudine del carcere. Eppure, è divenuta anche il terreno della sua rinascita, poiché
il dolore, pur nella sua carica distruttiva, è colmo di bellezza. Sembra inconcepibile che l’esteta per
eccellenza possa considerare accettabile un binomio del genere, ma è il frutto sincero
dell’esperienza. Wilde ha imparato personalmente che la sofferenza procurata dall’umiliazione
avvicina l’uomo all’aspetto più veritiero e profondo della propria identità perché il dolore non
ammette maschere. Chi vive l’afflizione non può permettersi schermaglie: il dolore piega l’orgoglio
e riporta l’uomo a se stesso.
Naturalmente non bisogna leggere queste riflessioni in una chiave masochista, ma come
acquisizione di una conoscenza di sé a cui Wilde non è potuto sfuggire, ma che, una volta vissuta,
non può evitare di apprezzare. Il suo spirito di scrittore si guarda indietro e riconosce l’impronta del
dolore celata sotto la pagina delle opere precedenti: si pensi a un dramma come Salomè, dove lo
sfarzo e la cupidigia, se voltate, mostrano l’insoddisfazione e l’infelicità che spingono i personaggi
ad agire.
Inoltre, tale discorso si lega a un’estesa considerazione sulla figura di Gesù, capace di esporsi
alla sofferenza per amore a differenza delle intangibili divinità classiche. È interessante come per
Wilde si palesi anche in questo ambito l’inscindibilità tra la vita e l’arte, poiché alla base dell’amore
si colloca l’immaginazione. Gesù è presentato come un poeta perché la facoltà di immaginare
consiste nella capacità di immedesimarsi nell’altro, di comprendere la condizione interiore altrui. In
una simile elaborazione, Gesù diventa un eroe romantico realmente esistito che agisce con
dedizione incondizionata verso qualunque essere umano. Wilde, infatti, ammira la Sua capacità di
riconoscere dignità al singolo individuo e di offrirsi all’ascolto anche di coloro che sono ai margini
dell’umanità. Anzi, la superiorità di Gesù è esattamente quella di essersi chinato a dare espressione
alla condizione di coloro che rimanevano sullo sfondo. Gesù ha attinto al silenzio degli indifesi,
laddove gli artisti comuni non avrebbero saputo rilevare materiale di loro interesse. Seppure non sia
credente, la gratitudine e il rispetto che Wilde mostra verso la portata salvifica dell’operato di Gesù
sono manifestazione della sua sensibilità.
Bisogna precisare, tuttavia, che, per quanto gli anni in prigione abbiano cambiato i desideri e le
valutazioni di Wilde, l’autore non ne esce completamente trasfigurato. Continua a essere evidente la
sua egocentricità, soprattutto nei rimproveri che rivolge all’amante, in quanto sono costantemente
accompagnati dalla descrizione della propria condizione di vittima. Ovvero, Wilde non nega le
proprie colpe, ma non smette per tutta la lettera di sottolineare gli atti crudeli commessi da Bosie,
persino quando rivela esplicitamente di aver accettato la condanna solo per amore. Eppure, forse è
proprio l’egocentricità che consente a Wilde di scavare al fondo di sé con un tono drammaticamente
intenso, a cui il genere del testo offre un importante contributo. Il carattere privato della lettera ha
senza dubbio comportato la caduta di schemi e maschere, l’abbandono dell’io alla sincerità della
confessione. Però sono altrettanto fondamentali la sensibilità di chi scrive e un perfetto rapporto con
la parola per condurre il lettore nel testo. Per quanto a tratti sia ridondante, il discorso di Wilde non
smette mai di essere interessante, sia in quanto gli eventi narrati appaiono incredibili, sia perché lo
scrittore è capace di vedere tra le righe della realtà, di non fermarsi alla superficie, di scendere i
gradini che portano a osservare la poesia nascosta nella natura e nell’anima. Inoltre, la chiarezza
delle parole e la serietà, ovvero il tono assertivo, con cui descrive i sentimenti danno alle sue pagine
un’efficacia che attrae il lettore.
Ecco, dunque, perché il De profundis può rispondere alla domanda iniziale. Uno scrittore vero si
riconosce dalla combinazione di vari elementi: in primo luogo deve possedere uno sguardo acuto
che permetta di rilevare la profondità poetica di moti interiori o eventi e scenari esterni.
Successivamente è importante la predisposizione a conoscere l’umanità nelle sue esigenze più
intime. Infine, è necessario saper riversare conoscenze ed emozioni in parole intense attraverso
costruzioni sintattiche a cui l’attenzione del lettore non può sfuggire. Nel De profundis Oscar Wilde
dimostra di possedere tutte queste qualità.