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Raccolta di articoli di Grazia Furferi
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

Donne tra Poesia e Cucina

 

DONNE TRA POESIA E CUCINA

 

È storia recente il riconoscimento professionale della donna come cuoca cioè come soggetto creativo e competente accettato in quell’attività produttiva prettamente maschile che è l’arte del cuoco.

Impegno principale della donna fino al secolo passato è stato quello di cucinare il cibo per la famiglia senza però pensare di fare di questa sua attività una professione in quanto era dogma inconfutabile che l’uomo e solo l’uomo aveva le doti necessarie per esercitare tale attività.

La “Guida Michelin”, una pubblicazione nata in Francia nel 1900  e destinata ai primi automobilisti gastronomi allo scopo di illustrare le caratteristiche dei ristoranti di qualità presenti sul territorio, ha per la prima volta nella sua storia conferito alla signora Nadia Cavaliere di un noto ristorante mantovano il titolo di chef internazionale, attribuendole le tre stelle dell’associazione che la consacrano tale.

Una notizia rivoluzionaria nel mondo dei gourmands.

Così, a dispetto dei più scettici e tradizionalisti cultori della “grande cucina”, un altro pilastro della prerogativa maschile è caduto.

Una donna ha sfatato il mito dello chef uomo e solo uomo: perché questo è stato lo status di fatto nelle cucine delle più alte sfere sociali di tutto il mondo fin dai tempi più antichi; tanto da far dire a Vincenzo Tanara[1], gastronomo bolognese vissuto nella metà del seicento, nella sua opera  “Economia del cittadino in villa”: “ardirei in buona Economia affermare, che tornasse il conto tener più tosto un Huomo Cuoco, che una Donna” ed ancora spiegava Tanara che chiunque serve in cucina deve essere «polito, fedele e intendente. Chi non sà, che per ordinario è più netto il più sporco Huomo, che la più polita Donna?».

Sarebbe dunque, ai tempi del Tanara, impensabile che una donna potesse attendere all’arte del cucinare; un’arte che, secondo lui, necessitava di ordine, forza fisica ed intelligenza creativa oltre che gestionale, negata alla figura femminile.

Ovviamente le considerazioni del Tanara si riferivano alle esigenze di una cucina seicentesca al servizio di una classe sociale privilegiata, soggetta ad una rigida divisione di genere che escludeva le donne da tutto ciò che riguardava la conduzione economica e produttiva familiare.

In questo ambito rientrava per competenza anche l’allestimento del cibo e la governabilità della cucina in quanto spazio operativo dal quale dipendeva il nutrimento e quindi la salute della famiglia.

Era necessario perciò che a questo compito provvedesse una persona fidata, competente e adatta al comando, dotata di qualità riservate  in quei tempi solo al genere maschile; pertanto tutte le cucine dell’alta società pullulavano di uomini addetti all’allestimento del cibo con incarichi ben precisi ed ordinati allo scopo.

Non che le donne mancassero in quella fabbrica del cibo ma il loro ruolo era relegato ai servizi complementari di pulizia ed ordine dell’ambiente cucina.

E per proseguire su questa strada, ancora Nietzsche[2] scriveva agli inizi dell’800 che “ la donna non capisce che cosa significhino i cibi: e vuole essere cuoca!”

Considerando che “l’alta cucina” intesa come cucina delle alte sfere sociali era ed è rimasta, ancora fino ai nostri giorni, dominio maschile di quel cuoco che si attribuì poi anche il ruolo di ideatore e produttore della cucina “alta” in senso creativo, e che la donna nel passato deteneva il ruolo di cuciniera solo nelle sfere sociali più modeste, si può affermare che è realtà recente l’ingresso in cucina della donna come figura professionale.

La donna ha dunque avuto nella sua storia passata il ruolo di colei che deve accudire la casa, allevare figli ed elaborare o meglio allestire l’alimentazione familiare nel modo più diligente e consono a quelle che erano le regole stabilite da una società che la voleva, salvo qualche eccezione, donna tra donne all’interno della casa.

Essere una cuciniera ma mai una cuoca!

Al massimo un aiuto-cuoco.

Assolutamente convinto della superiorità fisiologica e mentale dell’uomo sulla donna, il Tanara, affermava tra l’altro, che “L’havere à paragonare la intelligenza ordinaria d’un huomo con quella della donna, è ingiuria grande al nostro sesso”.

E se questo valeva per la donna in cucina, proviamo a vedere quanto questo concetto vale rapportato alla donna poeta.

La donna è da sempre poesia in quanto oggetto stimolatrice dell’espressione poetica maschile.

Ma quanto e da quando la donna è soggetto produttivo di versi poetici? In modo pubblico, solo in tempi recenti e solo a tratti nei secoli passati.

A parte le due poetesse dell’antichità greca Saffo di Lesbo e Nosside di Locri, non abbiamo nella letteratura latina nessuna poetessa manifestata, solo un riferimento alquanto velato e ambiguo di Tibullo[3] nelle Elegie per Sulpicia divise in due gruppi dove, nelle prime cinque, si racconta degli amori di Sulpicia per Cerinto e, nelle seconde, Sulpicia stessa confessa con i suoi versi l’amore appassionato per Cerinto.

La possibilità che Sulpicia fosse la vera autrice delle poesie non era mai stata presa seriamente in considerazione fino a quando John Heath-Stubbs (1918-2006), che aveva  tradotto e pubblicato nel 2000 Poems of Sulpicia (Hearing Eye–London),  non pone il dubbio che dietro Tibullo ci fosse veramente una Sulpicia, poetessa in carne e ossa.

Consideriamo anche il ritrovamento di alcuni versi espressi da un’altra Sulpicia vissuta ai tempi di Domiziano.

Altre testimonianze emergenti di produzioni poetiche al femminile le ritroviamo poi nella poetica cortese di Maria di Francia nel XII sec., in Christine de Pizan[4] poetessa spagnola del XIV sec. che così si lamentava nel suo Livre de la Cité des Dames”: Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatta nascere maschio? Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere…e poi nelle varie epoche, Compiuta Donzella, Gasparra Stampa, Isabella Morra, Veronica Gambara, Vittoria Colonna per nominare alcune tra le più note.

Scrittrici di professione, che colmavano un vuoto, quello della presenza femminile nella cultura in genere, determinata come sappiamo oggi, non da inferiorità naturale, bensì dall’isolamento tra le mura domestiche e dall’educazione limitata impartita a quel tempo alle donne che se adeguatamente data, commenta la Pizan, come agli uomini esse: imparerebbero altrettanto bene e capirebbero le sottigliezze di tutte le arti.... Argomento che non mancò di affrontare nelle sue opere.

Ovviamente l’estrazione sociale di queste voci poetiche al femminile proveniva da una classe sociale alta, privilegiata per benessere e detenzione dei patrimoni culturali; tale posizione della donna nei salotti letterari dell’epoca, favoriva e giustificava il suo accesso alla discussione letteraria.

Per arrivare a voci poetiche femminili più popolari e diffuse bisogna aspettare il XIX secolo con Emily Dickinson, Elizabeth Barrett Browning o Diodata Salluzzo e Angelica Palli Bartolomei che, in Italia, portano la loro scrittura anche nell’impegno sociale e politico. In funzione di quest’impegno, queste poetesse e scrittrici sono sostenute e stimolate in quanto, pur mantenendo fermo nelle loro opere il modello materno e femminino proprio del genere, lo rielaborano e lo portano verso la modernità. La scrittura è per queste donne un mezzo gratificante di realizzazione e di espressione, ma anche, attraverso la gestione in prima persona dei rapporti con editori ed intellettuali, l’affrancamento da una mediazione maschile che le proietta in modo autonomo in una giustificata dimensione pubblica.

La conquista sociale e l’affermazione pubblica delle donne scrittrici, genera non solo una produzione poetica nuova, ma nello sviluppo di questa letteratura al femminile trovano spazio, forse per la prima volta, l’uscita di manuali e ricettari di cucina scritti da donne per le donne. Una cosa scontata oggi. Ma ancora alla fine dell’Ottocento inconcepibile, in quanto scrivere di cucina era, così come l’arte del cuoco, un’esclusiva maschile.

Erano i grandi cuochi che scrivevano ricettari e manuali destinati ai professionisti del mestiere e siccome non prendevano in nessuna considerazione le  problematiche culinarie della comune madre di famiglia, i loro suggerimenti non erano facilmente riproducibili dalle donne di casa.

Una delle prime autrici ad intaccare questa roccaforte maschile e a dare il via ad una letteratura gastronomica al femminile è stata Caterina Prato che, nella metà dell’Ottocento, pubblicando a Graz un manuale per cuoche inesperte, tradotto poi in italiano nel 1892, ottiene un clamoroso successo. E ancora Giulia Lazzari Turco, scrittrice ed intellettuale veneto-trentina che, tra il 1904 e il 1910, pubblica tre diversi ricettari, uno dei quali destinato alle famiglie operaie.

Sono questi i primi ricettari prodotti per dare consigli e suggerimenti in campo gastronomico alle cuoche casalinghe ed alle giovani donne proiettate alla formazione della nuova famiglia moderna che vede la donna sì in cucina, ma consapevole e soprattutto padrona del suo ruolo nella società.

Nell'Ottocento dunque cominciano ad affacciarsi nel panorama culturale italiano i primi nomi femminili destinati ad entrare nella letteratura come Ada Negri o Sibilla Aleramo,  ma è nel ventesimo che le donne diventano protagoniste della poesia e con determinazione si affermano accanto, e al di sopra, della poesia al maschile.

La nostra letteratura poetica si arricchisce e si afferma con il premio Nobel a Grazia Deledda. E prosegue con scrittrici come Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Margherita Guidacci, Giovanna Sicari, Elsa Morante fino alle contemporanee Alda Merini, Maria Luisa Spaziani, Dacia Maraini ed alle nuove affermazioni per carattere stilistico e poetica.

La donna poeta e la donna cuoco, hanno pertanto un destino comune: quello di essere professioniste conclamate l’una della letteratura e l’altra della cucina solo da un tempo storico recente.

Una professione, frutto di una scelta considerata e voluta a dimostrare, ancora una volta, che la creatività e l’attitudine ai mestieri non ha sesso e il titolo attribuito alla signora Cavalieri ne è lo specchio così come lo sono gli innumerevoli riconoscimenti acquisiti dalle donne poeta di oggi.

La linea di demarcazione che definiva e isolava la donna casalinga dalla donna poeta, privilegio di casta, cade con la diffusione dell’istruzione che  permette a più donne, al di fuori della loro estrazione sociale, l’accesso alla formazione culturale e quindi alla possibilità di aggiungere la propria voce alla letteratura poetica.

La poesia, in quanto linguaggio comunicativo di sensibilità femminile, è ormai diffusa senza più impedimenti sociali e culturali; appartiene a tutte le donne che si preoccupano di esprimerla e diffonderla, magari in cucina, sperimentando o riproponendo versi e ricette.

Non ancora del tutto libera dalla sua definizione di donna-casa, cucina e figli, la donna poeta spesso ha per necessità familiare o scelta un contatto necessario o voluto con il fare cucina e tutto quello che ruota intorno all’azione del cucinare.

E’interessante sapere, quando questa condizione si presenta, in che rapporto si pone l’attività culinaria con quella poetica, se l’una esclude l’altra o la prevale o  possono coesistere interessi altrettanto poetici quanto culinari.

Dacia Maraini è una delle poetesse e scrittrici italiane del nostro tempo che più di ogni altra, per le proprie esperienze di vita, ha avuto una particolare attenzione verso il cibo, i suoi odori, sapori e colori e li ha voluti riportare e raccontare nei suoi scritti poetici e narrativi ricordando in una intervista che “Chi non ha avuto veramente fame non può capire cosa significhi il cibo…La mia fervida immaginazione sul cibo viene da lì, come viene da lì la mia abitudine a non buttare via niente che sia commestibile. La fame è un ricordo che non si cancella.”

Il senso del cibo è cosi pregnante nella Maraini che diventa spesso metafora e oggetto per ragguagliare le sue emozioni.

Non mancano nelle sue opere riferimenti alimentari che vanno dai più semplici e quotidiani cibi a menù raffinati e soprattutto suggerimenti indicativi e vere e proprie ricette per la loro preparazione, tanto da esprimere così il suo rapporto con la scrittura: “Per me scrivere è come fare il pane: bisogna lavorare molto la pasta…farla riposare, farla lievitare, amalgamarla ancora e poi infine metterla in forno.”

E in “ricamare, tu dici” dalla raccolta di poesie “Mangiami pure”definisce il suo essere donna: “…è il mio modo di essere donna


stringere una cipolla cruda
nel palmo della mano


sentire col filo delle dita


l'orlo della tavola ...”

E la sua attitudine al cucinare in “insulti” da “Dimenticando di dimenticare”:

“
e mescolare il sugo e tritare l'aglio


e aggiungere acqua all' acqua


e buttare il sale


e versare la farina


e scodellare l'occhio bullo dell'uovo


nel blu gelato del piatto


e ci insultiamo nervosamente


e il muscolo del braccio muore


e il brodo bolle scintillante di grasso


e la porta del frigorifero è aperta


e quei cerchi di debolezza


che mi bucano le palpebre


e riprendo a tritare carote


e mescolare il riso


e infarinare il pesce


e indorare le patate


e pulire il coltello


e tagliare il pane


con mani molli di fata


e ci insultiamo cocciuti malamente”

La Maraini scrittrice e donna, compendia, alla fine, quella cuoca-poeta che rispetta, nel suo caso, le sue regole di scrittura e cucina in un atteggiamento di curiosa attesa per il miracolo finale che può sortire dalla mescolanza di cibi o parole quando vengono “nella stanza delle parole” o nella stanza-cucina, combinate e poi risistemate in una nuova sperimentazione il cui risultato è tutto da scoprire.

“...L’importante è sapere…” come lei scrive nella retrocopertina del libro “Dacia Maraini in cucina”,  “…che nella scrittura si può trovare il gusto delle più segrete ricette di cucina”.[5]

 

 



[1] L’economia del cittadino in villa. Del signor Vincenzo Tanara . Libri VII.. In Bologna, per gli Eredi del Dozza, 1651. Biblioteca Bertoliana

www.bibliotecabertoliana.it/proposte/vitainvilla.pdf

[2] www.itard.it/menu_a_tavola/marcolfa_01.html - 27k

[3] Tibullo, Elegie, Fabbri editore, Milano, 1994

www.letteraturaalfemminile.it/sulpicia.htm - 30k

[4]  Christine de Pizan, “Livre de la Cité des Dames

http://www.letteraturaalfemminile.it/christine_de_pizan.htm

[5] DACIA MARAINI IN CUCINA, Sapori tra le righe, a cura di G. Marinelli, Marlin Editore,

Cava de’ Tirreni (Sa), 2007


Id: 1015 Data: 12/03/2014 12:53:54

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- Letteratura

Il senso del cibo in Serena Maffia

 

IL SENSO DEL CIBO DI SERENA MAFFIA IN

“ SRADICHEREI L’ALBERO INTERO”

 

Bernard Shaw diceva che l’amore più sincero è quello per il cibo, forse perché si ama il cibo già conosciuto, sperimentato e selezionato che non lascia spazio ad inganni e tradimenti in quanto già organicamente definito.

Quando il cibo si fa poesia il rapporto cambia, non è più oggetto di affezione alimentare ma metafora per sentimenti: è cibo sublimato che nutre evocando memorie.

Le citazioni attinenti agli alimenti sono presenti nella poetica di tutti i tempi.

Con la loro natura, odore e sapore, essi assumono, in ogni autore, valenze culturali e personali diverse che vanno dai ricordi di rituali familiari a metafore di situazioni emozionali tratte dal tempo e dallo spazio del loro vissuto, come ben ci comunica Moretti nella poesia Angolo d’hortulus tratta da Poesie scritte col lapis:[1]

E’ dolce ricordare! Ogni fil d’erba

dell’orto mio potrebbe ricordare,

ché  molto sa […]

O ancora Saba in la Cucina o Gozzano che nella Signorina Felicita riporta gli odori che danno vita  alla cucina o ancora a tutta l’ambientazione scoppiettante di oggetti e visi familiari in La Canzone del girarrosto di Pascoli; per finire agli ortaggi e ai frutti di Neruda in Ode al vino, e altri odi elementari dove l’osservazione estasiata di alimenti semplici, comuni al nutrimento quotidiano, diventa verso poetico che racconta l’avvenuta pacificazione, “l’accordo”, come lo stesso Neruda definisce la naturale interdipendenza tra uomo e natura.

Gli esempi in merito al rapporto poeta- cibo, sono tanti e autorevoli.

Quello che vogliamo fare qui è osservarecome, attraverso questo suo ultimo lavoro Sradicherei l’albero intero, una poetessa giovane, anzi giovanissima per età ma già matura per mestiere poetico, come Serena, usi gli alimenti  per farne  metafora nella sua poesia.

Considerare il senso del cibo nella poesia vuol dire entrare in un labirinto, del quale si sa che esiste una via d’uscita ma che, inevitabilmente, i percorsi ti deviano, ti portano a cercare, frugare e menzionare in un infinito incastro di nomi e parole, o meglio versi, da farti perdere, come si dice popolarmente, la via del ritorno.

Si corre il rischio di rovesciare, su chi ascolta o legge, menzioni enciclopediche di poeti e del loro senso del cibo. Argomento usato ed abusato già, perfino dai poeti classici per descrivere, educare o deridere un comportamento alimentare; individuando, nel rapporto degli uomini con il cibo, l’interrelazione tra nutrimento e stile di vita: sia esso parsimonioso o generoso, popolare o elegante, gaudente o saggio. Così Orazio nelle Satire  si sente in dovere di suggerire le pietanze sane e gustose, che egli riteneva più idonee, da servire a tavola come: “porri et ciceri… laganique catinum…” ( porri, ceci e frittelle)[2]; ma anche di deridere alcune abitudini alimentari dettate dalla moda, come quella di mangiare rombi e cicogne che vivevano, secondo Orazio, sicuri e tranquilli fino a quando un ex pretore non lanciò la moda di cucinarli.

Leggendo le poesie che Serena ha composto e raccolto in Sradicherei l’albero intero, ho potuto notare, dal mio punto di vista, che Serena usa gli alimenti come un gomitolo il cui filo svolge il percorso evolutivo della sua crescita emotiva, sentimentale e psicologica.

Serena comincia il percorso del suo poemetto  partendo dall’albero primigenio della conoscenza, posto nel luogo biblico della felicità eterna: il giardino dell’Eden dove risiedono l’uomo Adamo e la donna Eva prima coppia progenitrice.

Da quest’albero viene raccolto il frutto - identificato in età medioevale nella mela - che la donna trasgressiva porge e consuma con il compagno, e che Serena sradicherebbe e inghiottirebbe tutto intero, albero e mela, per saziare la sua fame di ribellione e comprensione.

Come tutti i ribelli posti al di fuori dell’ordine precostituito, la cacciata della coppia adamitica dal Paradiso - simbolo dell’ordine cosmico – è metafora riferita all’iniziazione dell’uomo alla vita, da vivere al di fuori del contesto mitologico; trasferita in una realtà terrena dove egli dovrà imparare a procurarsi, contrastando una natura ostile, il cibo per nutrire il corpo ma anche l’anima.

Serena è consapevole delle difficoltà da affrontare per nutrire la sua anima.

Così esplora il percorso per riuscire almeno a provarci in questo intento, e lo fa partendo dal caos iniziale dove l’uomo è parte delle radici “dell’albero che sa” e del frutto che non sazia; per poi “spalmare di minestra di fave” le spalle dell’amato in Sulla strada perpetua, in una intuizione poetica che esprime una prima timida introspezione dei propri sentimenti, in un percorso binario con il cibo.

In Radunati in seconda, l’uovo primordiale è aperto e conosciuto: è tuorlo - sole che si può usare e manipolare friggendolo in un tegamino e soprattutto consumare con il pane; alimento risultato dalla prima sperimentazione umana sul prodotto cibo e segno di nuova civiltà alimentare che associato all’uovo - alimento primigenio e generante per sua natura -  parafrasa in Serena una prima sistemazione di quei tumulti interiori che agitano e disorientano i suoi primi affetti.

Il pane, alimento arcaico e sempre nuovo,  nella poesia di Serena è spezzettato, mai intero, e non può esserlo in quanto non ha alimentato ancora in modo totale e soddisfacente la sua  maturazione di donna in crescita.

È “molliche di Vita” in “Che male c’è se dopotutto mi viene da ridere” e “briciole di  Pollicino” in  La mia forza, che ancora la tengono ancorata al nutrimento materno impastato di favole e raccomandazioni: dalle quali sa di dover scappare ma non sa ancora come.

È pane bagnato di latte nella colazione del mattino che torna con ripetizione, nella sua poesia, come momento d’inizio e di riavvio di quel quotidiano che ancora  necessita del profumo di casa e delle fondamenta familiari.

È una fetta di pane tostata e impaziente, bagnata di latte particolarmente buono, quella che partecipa alla magia dell’attesa per la nascita di Alice, la nipotina, in  “Ho il cuore popolato di balene”. 

Il latte, alimento spontaneo di origine animale, nella poesia di Serena esplica riferimenti nutrizionali primarie: è il latte materno, nutrimento rassicurante che associato ad un altrettanto spontaneo alimento di origine animale, il miele, è da sempre metafora delle dolcezze della vita, donate e non elaborate, alle quali ricorrere e pensare.

La poesia di Serena è inondata di latte, vi cade dentro in quello più bianco in Una città che dorme, diventa una goccia che “…cola dal mento…” ed “…ha paura d’infrangersi in volo…” in  Fischiano i nespoli, veste di miele e latte i sogni delle ninfe dei boschi in L’uomo invisibile, e  “Miele e latte sul mio volto” è il titolo che dà alla poesia nella quale esprime l’emozione che scioglie in “…lacrime di latte e miele…” un momento d’amore.

Liquido pesante, il latte, non trasparente, quando si versa copre; alimento primario all’alba della vita umana ha condizione precaria, facilmente deperibile ma portatore, nella sua natura, di enzimi lievitanti, capaci di trasformarlo in altri alimenti: i formaggi, più durevoli ed altrettanto nutrienti e necessari.

In questo suo comportamento è possibile associarlo alla precarietà dell’infanzia che copre brevi anni durante i quali, però, si predispongono i “fermenti” necessari alla crescita e  trasformazione dell’uomo da bambino in adulto.

Serena è cosciente di questa natura del latte e nella poesia “Il  latte” lo rappresenta sì come la colazione sicura da ritrovare ad ogni risveglio mattutino ma, quando si spande “tiepido e grasso” sul foglio, diventa sostanza capace di irrobustirlo e prepararlo ad assorbire i versi della sua poesia, che dettano sentimenti nutriti dalle  sue emozioni in divenire di giovane donna.

Sentimenti da addolcire con quel miele, tanto cantato da tutti i poeti, quando, a  volte, si presentano aspri e doloranti.

Garcia Lorca definisce la poesia il miele dell’uomo in Canto del miele: “…Così il miele dell’uomo è la poesia che emana dal suo petto addolorato, da un favo con la cera del ricordo creato dall'ape nell'intimità.”

Il miele ed il latte si mescolano nell’iconografia alimentare poetica e mitologica e diventano il “lattemiele” alimento eletto, il più dolce per definizione, l’unico in grado di rivestire l’amore di dolcezza e l’unico che può metaforicamente nutrire l’anima del poeta; pertanto non potevano non essere presenti nella poesia di Serena, a sostenere,  nella sua introspezione, la speranza di assaporare sogni di latte e miele.

Pur non disdegnando di godere, in L’uomo invisibile, …carezze di zucchero caldo…”, appartenenti ad un mondo di bambina nel quale, ancora oggi, non riesce ad individuare un suo luogo d’appartenenza.

Lo zucchero, polvere dolcificante risultata da un laborioso processo di lavorazione di elementi primari quali la barbabietola o la canna da zucchero, viene introdotto nella poesia di Serena quasi sempre in uno stato elaborato, mai nella sua condizione primaria comunemente usata: è “caldo” e “ bruciato” quando riflette sentimenti,

risolti, a volte, in “fantasma di zucchero” quando lo riferisce a momenti dolci perduti. Nella poesia Zucchero bruciato, infatti,  c’è nell’aria “… odore di zucchero bruciato / e la raffineria è ormai ferma…” a circondare l’attesa di una donna dell’amato per il quale “… il fantasma di zucchero disegna una mappa del cuore, / ma non lo condurrà da lei.”.

Lo zucchero poi, nella sua fattispecie di confetti, caramelle, canditi e pupazzetti, appartiene ai dolci per bambini.

E nella poesia di Serena, lo zucchero, ha anche questa valenza quella di evocare dolcezze e magie di bambina alle quali tornare con il cuore e con le quali rivestire, oggi, i sogni di adulta; tanto da poter “…spiare dalla zuccheriera..” la persona amata - solo se riuscisse a volare -  o costruire per la sua nipotina “…nel suo paese delle meraviglie /una statua di frutta candita…” dalla quale, da grande, Alice possa prenderne una mano e mangiarla, prendendo così conoscenza dei sentimenti e della dolcezza d’affetti che Serena ha serbato per lei.

I frutti nella poesia di Serena sono nocciolati, si sgranano, come per il pane non si presentano interi ma osservati nella loro unità di parte: sono nocciole “…come lancette di ghisa…” quelle che in Una città che dorme “…scandiscono il tempo nel vuoto...”, spazio mentale dove il caos esistenziale di Serena è “un pendolo” che dondola in cerca della via da indicare. Ed intanto si fa frutta lei stessa in “Non lasciatemi sola”, così: “ Il mio seno è un cesto di frutta/ e il mio sorriso il sole che la matura..” e non vuole essere ingannata da chi, con parole, cerca di farle intendere che “…le ciliegie non sono il sangue dell’albero che sa…”. Serena sa dell’albero-vita: è l’ulivo - terra originante di quella Calabria “… fiumara di melograni…” della quale si sente propaggine ed alla quale spesso torna con il “…treno dei sogni / che affolla di stanchi eremiti, di ulissi cantanti…” sicura di trovarvi sempre ad accoglierla “…una minestra d’alloro…”.

Il melograno, torna in Abbracciami mamma, con i suoi “grani”, ai quali è attenta la madre nel porgere il frutto, primizia, alla “ prima nipotina”, ignorando la muta richiesta di un abbraccio, poi reso, a confortare ed assicurare Serena che sempre il suo rientro in famiglia sarà un’affettuosa attesa.

Non può non passare inosservato, in questa composizione, il riferimento al ruolo mitologico della melagrana, nella sua accezione di frutto connesso con la fertilità.

Quella fertilità dalla quale Serena ha paura di essere esclusa ponendosi il dubbio di non poter mai diventare melagrana “ se pesca, resto sempre un fiore / e chi dice che farò noccioli?” E che trova invece compiuta nella sorella Lara con la nascita di Alice, la nipotina, nella quale insieme alla madre e alle sorelle, si riflette in una prospettiva generazionale tutta al femminile.

L’essere donna, è in Serena una condizione risultante e cumulativa dell’essenza femminile di tutte le donne della sua famiglia che ovvia le gerarchie di generazione, e si risolve in  La nonna e la gelsomina  con la compresenza della  nonna, della madre e di Serena “...la mattina nella cucina di mia madre…”.

Luogo – fucina, la cucina, fondamentalmente femminile e deputato alla produzione del cibo per il sostentamento familiare, che Serena riveste di alone magico nel risveglio mattutino di figlia che assapora: “Seduta al tavolo biscottato.../ che odore del pane imburrato./ Il basilico balla di fuori al balcone, ...” e “La gelsomina”  che

 “ non smette mai di parlare… / Racconta cos’ha visto questa notte dal balcone /e ne sa più di mia nonna..”. Una nonna “stranita” dall’età, ma che  insieme alla “gelsomina” “ A volte, la sera, se non fa freddo /  s’affacciano entrambe… /…spiano le strade, le stanze delle case adiacenti:<<studiano>> mi corregge la nonna <<la vita>>…”: quella vita, alla finestra della quale – come recita la sapienza popolare - Serena si sta appena affacciando, consapevole di dover, prima o poi, uscire in strada e camminare.

E decide: “È tardi, l’ora di profumare di latte è passata / bisogna che mi vesta / la giornata è cominciata.”. , una “giornata”, da affrontare con coraggio “Da brava leonessa mi affilerò le unghie sulla Poesia / e attenderò che il Caso conduca all’arciere…”, ma anche con la consapevolezza che possa avere “… il profumo del miele…” e dove ancora “… le api sorridono / nel piatto d’insalata di limoni….”.



 

 

Id: 981 Data: 27/01/2014 16:28:21

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- Letteratura

IL Cibo del Poeta : Peter Russell

 

IL CIBO DEL POETA : PETER RUSSELL

 

 

Se partiamo dal presupposto che le due arti, la cucina e la poesia, sono il risultato di un pensiero elaborato che ha funzione emotiva e che il loro obiettivo è stimolare sensazioni di piacere e godimento della cosa comunicata, possiamo con tranquillità abbracciare e fare nostro l’assunto, anche se abusato, che la cucina sia nutrimento del corpo e la poesia dell’anima.

Ma come si compenetrano le caratteristiche nutrizionali delle due arti e in che modo s’ interfacciano? La poesia per essere completa non basta dell’ispirazione o dell’afflato emotivo, ha bisogno di regole per essere eseguita e così non basta l’idea combinatoria degli alimenti per fare cucina, ma è importante conoscere quelle regole di procedura necessarie perché il risultato sia soddisfacente, per raggiungere quello che Goodman definisce “l’ottenimento di un piacere estetico e sensoriale”.[1]

Insomma sia la poesia che la cucina devono rispondere ad una grammatica che le governa perché possano comunicare l’una emozione e l’altra gusto.

In ogni caso, da sempre le due arti si sostengono nel momento in cui diventano pubbliche e cioè quando vengono “servite”.

Il cibo preparato trova la sua esternazione e finalizzazione nel momento in cui è servito, gustato, assorbito e giudicato.

Altrettanto la poesia raggiunge la sensibilità degli altri al di fuori del poeta quando viene esternata nella scrittura o nella recitazione.

La capacità dell’elemento cibo al di là della sua precipua funzionalità nutritiva di produrre piacere, soddisfazione sensoriale, partecipa e si aggiunge a tutte le altre manifestazioni naturali capaci di stimolare un’espressione poetica.

Ecco quindi la natura che lega il poeta a tutto ciò che definisce e costruisce il cibo e quindi alla cucina.

Il contatto del poeta con tutto quello che riguarda il cibo è antico, ed è espresso in quasi tutte le tematiche che riguardano le categorie poetiche.

Egli dà voce e liricità agli alimenti e da sempre li usa per esprimere satira, amore, denuncia; dà voce, attraverso la poesia, all’arte combinatoria della cucina e al suo autore, il cuoco, ma anche al territorio che quegli alimenti produce e dai quali spesso ne è caratterizzato; così Properzio nelle Nostalgie[2] fa dire all’etrusco, caratterizzandone la provenienza, “Che dire poi – ciò che mi procura grandissima fama - dei doni dell’orto che divengono preziosi nelle mie mani? L’anguria verdastra e la zucca dal ventre rigonfio diffondono il mio nome…”

Come pure è il luogo cucina che diventa all’occhio del poeta trasfigurazione del grembo materno, fonte di vita e nutrizione espresso, quasi sempre, nella poetica di tutti i tempi attraverso la figura di una donna madre o nonna che in quell’ambiente si muove ed esercita il potere magico di creare ed elargire nutrimento.

Così Umberto Saba ricorda nella Cucina la madre che al focolare stimola con il soffietto lo scaturire delle faville del fuoco necessario a cucinare le provviste che “antica donna” versa sul tavolo di cucina.

Per lungo tempo è stata la poesia di poeti comici come Crisippo, Demetrio Archestrato della summa antologica dei Deipnosofisti di Ateneo, e poi Petronio, Marziale, Ovidio per ricordare alcuni tra i grandi autori latini e Apicio su tutti,  a fissare la cultura gastronomica del passato diventando la principale fonte storica di questa materia.

Ma il poeta continua a fare poesia con l’occhio rivolto al cibo e per il cibo in tutte le epoche,  per personale predisposizione o perché da esso trae spunto per comunicare una sensazione.

Così  in  Poesie scelte di Seamus Heaney le OstricheVive e violate giacevano su letti di ghiaccio…”.

Mentre  Guido Gozzano,  nella poesia Golose, è innamorato “… di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie…”

Alcimo, nella poesia amorosa  I doni di Lesbia, [3]davanti  al gusto della mela inviatagli in dono dall’innamorata sente che  “…sbiadisce ogni altro frutto” la cotogna, la castagna, le noci, le prugne, addirittura  “…raccapriccia la mora col suo malaugurato succo sanguigno per colpa di un amore funesto…”.

I frutti, come pure tutti gli alimenti che provengono dalla natura, hanno una posizione privilegiata nella tematica poetica di genere in quanto allo stato naturale e quindi mediatori del rapporto uomo natura.

Così Pablo Neruda riesce a sistemare, nelle sue Odi Elementari,  un percorso magico attraverso il quale i sapori e gli aromi della frutta e degli ortaggi più comuni alla cucina quotidiana si trasformano con la liricità dei suoi versi in allegorie che esaltano gli affetti e l’amore  mettendo “de acuerdo con el ombre y con la tierra,”[4] come dice lo stesso Neruda, e creano la sintesi più completa di quella combinazione cibo - poesia nutrimento per il corpo e per l'anima.

Ora, come per la poesia che nasce dalla recitazione e dal canto anche la cucina, in quanto trasformazione di elementi semplici in un elaborato cibo, ha perso da tempo la tradizione orale come canale di trasmissione e conoscenza ed ha bisogno, così come la poesia, di essere fissata dalla scrittura per essere conosciuta e divulgata e soprattutto riprodotta.

Consapevoli della funzione comunicativa nel loro genere delle due arti, quella poetica e quella gastronomica, e dell’importanza che arreca a livello di crescita culturale la contaminazione tra le due (ci sono svariate testimonianze soprattutto contemporanee di cuochi poeti e, anche se un po’ meno, di poeti cuochi), abbiamo pensato di dedicare queste riflessioni a Peter Russell, poeta inglese ma Toscano d’adozione per la sua residenza definitiva in Pian di Scò, paesino sulle colline aretine.

Peter Russell poeta è stato fondatore della rivista Marginalia, che Peter “confezionava in casa” per diffondere la sua poesia e la sua idea di poetica in soliloquio con il resto dell’altra poesia a lui contemporanea.

Siamo andati per questo a rovistare tra i nostri ricordi del Russell uomo e, poi nella sua produzione poetica, in cerca del gomitolo dal quale trarre il filo che servirà via, via, a svolgere quest’idea di poesia e cucina che in qualche modo gli si può attribuire.

Il rapporto di Peter con il cibo era di sopravvivenza, non ne aveva particolare attrazione, apprezzava un buon bicchiere di vino e gustava il più semplice dei cibi soprattutto il pane con l’olio o con un pezzetto di formaggio, essenziali per accompagnare le bevute.

In effetti, il suo cibo era fatto da quegli alimenti che formano la triade basilare dell’alimentazione più antica e codificante della civiltà mediterranea, espressa in modo eccellente nella cultura agricola e gastronomica della Toscana: pane, olio e vino.

Tre alimenti che continuano a mantenere nella coscienza dell’uomo moderno la loro singolarità di cibi rituali, doni degli dèi agli uomini e doni degli uomini agli dèi in nome di una millenaria riconoscenza che stigmatizza il legame indissolubile tra uomo e natura.

Peter, sentiva chiaramente quanto la sua condizione di vita fosse simile alle altre creature viventi al di fuori dell’uomo, e quanto importante fosse la generosità di dividere il cibo anche se il più povero solo per donare e non per procurarsi riconoscenze, così per amicizia.

Non a caso si accomuna ad un passero solitario, lo osserva, lo nutre con le briciole del pane che spesso gli viene donato, costruendo una catena di solidarietà che passa da uomo a uomo e da poeta a passerotto, e ferma questo rapporto speciale di  sostentamento nella bella poesia che qui riportiamo.

Chiaramente il cibo di Peter non può essere che un “…un pasto frugale…” compendiato nella “fettunta all’aceto” che con la sua “anzianità” di cibo povero contadino conferma l’importanza senza tempo del pane, dell’olio e del vino nella nostra cultura alimentare.

 

 



[1] N. GOODMAN I linguaggi dell’arte, Milano, Il Saggiatore, 1991.

[2] PROPERZIO, IV, 2, 2-59

 

[4] Pablo Neruda, Ode al vino e altre odi elementari, Firenze, Passigli, 2002.


Id: 972 Data: 17/01/2014 18:53:29