chiudi | stampa

Raccolta di articoli di Franca Alaimo
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

- Letteratura

La stanza di Proust

Con “Viaggio nella mia stanza” del 1794 e “Spedizione notturna nella mia stanza” del 1823, Françoise-Xavier de Maistre immette nella storia della letteratura occidentale la metafora della stanza come “luogo dell’utopia”, in cui lo scrittore può celebrare la piena libertà intellettuale da ogni limite e dovere sociale, allo scopo di amare la vita e le creature in se stesse, al di fuori della loro singolarità.

Qualche decennio più tardi, Emily Dickinson, vestita, come si racconta, sempre di abiti bianchi, decide di sottrarsi all’esterno e vivere come una reclusa nella sua stanza. È l’anno 1866: da quel momento in poi ella continuerà a coltivare i suoi rapporti con gli altri solo attraverso le parole vergate su fogli di lettere o su biglietti. La finestra della sua stanza apre il suo sguardo al ciclo delle stagioni, l’avverte di odori, colori, canti come fossero sacre epifanie; le voci dei suoi familiari che chiacchierano tra la cucina, il salotto ed il giardino le fanno conoscere quel che avviene, intanto, ad Amherst o più lontano. E tuttavia è in quella stanza che tutto accade e tutto muore. Ed è lì che Emily conosce ogni cosa al di là di ogni cosa.

Ed ancora è il 24 ottobre del 1929 quando esce “Un stanza tutta per sé” (“A room of One’Own”) della scrittrice inglese Virginia Woolf, in cui la stanza come laboratorio di scrittura, meditazione e presa di coscienza di sé, diviene il luogo per eccellenza del riscatto della donna da una serie di ruoli preconfezionati che ne soffocano la libertà intellettuale. Un libro, dunque, che segnò una rivoluzione nell’ambito del movimento femminista. Ma, cosa non ben messa in rilievo da molti, luogo di un’altra e più alta rinuncia, quello alla vita esterna per una maggiore comprensione dell’interiorità, ossia della dimensione da cui comincia il viaggio più temibile e audace di ogni essere umano.

Nello stesso anno dell’uscita del libro “Spedizione notturna nella mia stanza” viene pubblicata la prima parte della “Prigioniera”, cioè giusto dodici mesi dopo la morte dell’autore Marcel Proust.

Anche questa volta tutto si svolge all’interno delle stanze di un appartamento, in cui Marcel compie, senza spostarsi fisicamente, se non rare volte, un viaggio straordinario all’interno di sé, sollecitato da un’acuta ed inguaribile gelosia nei confronti di Albertine, la donna che egli quasi reclude per possederla interamente, sorvegliandone l’inclinazione omosessuale.

E, tuttavia, assai più terribile della prigionia dorata di Albertine, che l’amante cerca di rendere piacevole con doni sempre più raffinati, è quella vissuta volontariamente da Marcel, che non riesce ad uscire dalle strette del suo sentimento. La giovane ragazza, infatti, amando molto di meno, pone tra se stessa ed il suo carceriere distanze incolmabili, che invano quest’ultimo vorrebbe varcare.

Dunque, il vero tema, il vero lutto celebrato ne La prigioniera è la perdita quotidiana dell’altro, l’impossibilità di conoscerlo, a dispetto dell’intimità dei corpi, della chiusura dello spazio attorno, dell’impedimento dei movimenti.

Eppure da quanto e quale movimento è percorso questo libro, scritto forsennatamente da Proust nel chiuso di una stanza, mentre racconta la vita di due amanti all’interno di una stanza! Innanzitutto c’è l’ansioso, ininterrotto percorso dell’anima di Marcel verso l’anima di lei, nel tentativo di appropriarsi di un passato ignoto, che egli cerca di ricostruire attraverso frammenti di discorsi e di ammissioni più o meno sincere, e dell’altro tempo condiviso ma variamente interpretabile, così che continuamente si cuciono e scuciono i punti di sutura fra le loro vite ed i ricordi, mentre si ingrossano e sanguinano le correnti opposte della loro estraneità.

In quelle stanze, però, come accadeva per Emily ad Amherst, entra egualmente, anche se gli scuri delle finestre restano per lo più abbassati, tutta la vita esterna, con la sua animata vivacità e varietà dei rumori e tonalità di grida e di voci a cui il narratore restituisce colori e profumi e immagini e volti grazie ad un’operazione della memoria che descrive il presente attraverso il ricordo. La stessa Albertine rappresenta per lo scrittore la memoria di quel mondo femminile dal quale si sente profondamente attratto ed al quale rinuncia per inseguire in lei, con lei, la prigioniera che gli sfugge pur standogli accanto, il sogno di un’appartenenza impossibile. Questo è, insomma, il viaggio che più impegna Marcel e che gli impedisce l’altro nello spazio lontano, quello nella città sognata, la città dell’utopia, che è Venezia, ma che allo stesso tempo glielo consente attraverso i fasti di certi abiti di seta e di ornamenti orientali che Albertine indossa. Venezia, la sognata meta, perderà per Marcel ogni attrattiva, non appena la cameriera Françoise gli annuncerà che Albertine, presi i suoi bauli, se n’è andata “alle nove”. Ora che egli potrà andare a visitare Venezia quando vuole, ora che più essa non si sottrae, la città lagunare perde d’un tratto ogni incanto.

Allo stesso modo De Maistre rinuncia alla vita per sognare, anche se lo fa con un sorriso incantato e fanciullesco, molto diverso dalla sofferenza di Marcel, che accoglie la fuga di Albertine, tenendosi il cuore con le mani improvvisamente madide di sudore.

Ma la stanza di Proust è anche, come quella di Emily e di Virginia, il luogo misterioso e sacro della scrittura. Egli, infatti, comincia a scrivere il suo poderoso romanzo, costretto a casa dalla malattia; per lui: “non più viaggi, non più visite, non più cene, non più incontri con amici, presto nemmeno più lettura”; Marcel sembra posseduto da un demone e “con una volontà ferma, mascherata dalle più gentili e ipocrite scuse, costruiva lo spazio vuoto, che l’opera avrebbe dovuto colmare” (P. Citati, Corriere della Sera, 25 maggio 1983).

Poco a poco il lavoro lievita fino a raggiungere un ritmo convulso che giunge al suo apice nel 1909, quando per sessanta ore non viene mai spenta la luce, lassù, nella stanza di Marcel in boulevard Haussmann. Poi continua con lo stesso ritmo in un’umida stanzetta presa in affitto presso il Gran Hotel di Cabourg: “Stava sempre rinchiuso; sembra che raggiungesse il casinó attraverso un passaggio interno; non gli importava più vedere il mare” (P. Citati; ibidem).

Ah, tutta quella luce di Balbec, quei cieli lampeggianti, “le colate bluastre della marea nascente”, ricordati, adesso, con le belle fanciulle ridenti e gli sguardi e la vita, perché tutto sia più intenso, perché il presente sia identico al passato, a ciò che già per la sua così prossima lontananza è diventato sogno!

Torna a Parigi, poi, e continua a scrivere, poiché l’opera cresce e non cessa di avanzare oltre la sua stessa volontà, fermata soltanto dalla morte del suo autore, che vi ha specchiato il suo io troppo vasto di sogni, di passioni, di saperi. E, infatti, Marcel ne “La prigioniera” parla con straordinaria competenza di pittura, di musica, di antiquariato, di stoffe, di profumi, di metafisica e di tutto ciò che è ineffabile, e dal quale sgorga ogni atto creativo, come egli scrive: “quest’ineffabile che differenzia qualitativamente ciò che ciascuno ha sentito e che è obbligato a lasciare sulla soglia delle frasi con le quali può comunicare agli altri, solo limitandosi a punti esteriori comuni a tutti e senza interesse, non è forse l’arte, l’arte di un Vinteuil come quella di un Elstir, che lo fa apparire, esteriorizzando nei colori dello spettro la composizione intima di quei mondi che chiamiamo gli individui, e che, senza l’arte, non conosceremmo mai?”.

Non è forse quello che cercavano Françoise-Xavier de Maistre, Emily Dickinson, Virginia Woolf, quello che cerchiamo tutti, quando traffichiamo con le parole come se fossero le merci più preziose del nostro esistere?

Id: 229 Data: 16/07/2010 02:26:49

*

- Letteratura

Don Chisciotte della Mancia...

...quattrocento anni e non li dimostra!


Tra gli undici ed i tredici anni, quando già disdegnavo i giochi dell’infanzia e mi sentivo ancora come esiliata dal mondo degli adulti, provocatoriamente, fra lo sconcerto dei miei familiari, cominciai a leggere tutto ciò che potei trovare nella biblioteca del circolo dei sottoufficiali, gestita nelle ore pomeridiane di ogni martedì da mio padre, che spesso accompagnavo ed aiutavo, godendomi, mentre fuori il sole ardeva spietato, la frescura di quell’ambiente.

Lessi gli autori russi dell’Ottocento, i Promessi Sposi di Manzoni, i lacrimevoli e bellissimi romanzi di Dickens, quelli della Sand, resoconti sterminati di viaggi avventurosi e, anche, il Don Chisciotte di Cervantes. Non mi spaventava, come oggi che sento il tempo troppo stretto, la corposità dei libri, anzi era questo il requisito che più mi attraeva, perché mi prometteva una più duratura gioia di sprofondamento in una realtà diversa da quella quotidianamente vissuta, piuttosto monotona e piatta, a causa dei mille divieti dei miei supervigilanti genitori.

Questa premessa biografica sarà ben compresa da chi sa quanto sia inebriante e consolatorio vivere, credendoci fermamente, nei mondi immaginati dagli scrittori, come io facevo già a undici anni, interrogandomi e rispondendo, sulla base di approfondite osservazioni condotte sulla varietà dei tipi umani presenti nell’enorme cerchia parentale (alcuni dei quali piuttosto extra-vaganti), sul senso della follia dell’Ingenioso Hidalgo don Quijote de la Mancha; e, tutto sommato, ridendo fra me e me, con un tantino d’amaro in bocca, dell’incredulità di quelli che vivono con i piedi troppo piantati a terra, senza provare mai a volare di fantasia.

Insomma, a undici anni, mi innamorai del cavaliere “folle” per solidarietà, perché gli altri si facevano gioco di me, quando, certe domeniche d’estate, mi arrampicavo con il libro di turno sui rami più alti di un albero di fico, un po’ per leggere in pace e un po’ per sentirmi una secessionista, una fuoriuscita dalla realtà terrena, un po’ anche per gustare i frutti dolci e grossi che nessuno raccoglieva. Ma a me non importavano gli scherni degli altri. Chi crede nella letteratura, non può negarla nemmeno quando scende dall’albero dei dolci frutti dell’immaginazione, né barattarla con la realtà. Ci crede fino in fondo e basta, proprio come don Chisciotte, che immagina bella Dulcinea e vuole che gli altri l’ammirino e l’amino, anche se, come lui, non l’hanno mai vista.

Certo così si vive in modo strano; si vede quello che si vuole vedere: Don Chisciotte non guardava le cose così com’erano, ma ciò che immaginava dovessero essere: i mulini divenivano giganti da combattere, una semplice, rozza contadinotta una dama di incomparabile bellezza e via dicendo. Sembra che lui non si nutra nemmeno delle creature animali e vegetali della terra: è allampanato ed alto, per meglio dire, verticale, perché punta in alto, perché beve aria e le parole che in essa volano; basso e tondo è, invece, il suo scudiero Sancio Panza, così vicino alla terra e al cibo ed alla realtà. Sono compagni d’avventura don Chisciotte e Sancio Panza: concretezza ed idealità che non si toccano; ma, mentre don Chisciotte pensa a Sancio Panza come ad un’incarnazione dei fedeli scudieri medioevali, per il semplice fatto che è nutrito di letture, Sancio vede in Chisciotte solo un folle che, forse, gli assicurerà un bel po’ di terra: un’isola addirittura.

Tutto ciò che incontrano durante il loro viaggio, che nella prima parte del romanzo, si svolge nella regione della Mancia e, nella seconda parte, attraverso buona parte della Spagna, si offre al lettore sotto un duplice punto di vista: optare subito per quello realistico di Panza sarebbe più utile, forse, ma non per don Chisciotte, che proprio non riesce a fare chiarezza tra sogno, invenzione e realtà, neanche quando le prende di santa ragione o si caccia in altri terribili guai.

Il lettore segue i due personaggi, tra il divertito e l’intontito, perché se sposa il punto di vista di Sancio, se la ride dell’ingenua visionarietà del cavaliere, se quello del Cavaliere, in qualche modo gli presta fede e lo compiange e si adira con il mondo che non sa che farsene degli ideali e della fantasia. Infatti è questo che capita al lettore che entra ed esce dal libro: mentre legge, presta fede all’invenzione al punto da dimenticare la realtà, e, una volta chiuso il libro, ha a che fare con una dimensione tutta diversa, e forse, qualche volta finisce con il chiedersi se sia più vera la realtà del mondo o l’altra.

Cervantes capì bene questo doppio punto di vista del lettore, e a tal punto che, inventandosi la fonte fittizia di un manoscritto arabo di Cide Gamete Benegeli, dal quale avrebbe derivato il contenuto del testo, si fa insieme narratore del don Chisciotte (in qualche modo tenendosi lontano dalla follia del suo cavaliere) e insieme miscredente e addirittura mago, come l’autore del manoscritto ritrovato, che a quelle follie e stramberie può abbandonarsi deliziato.

Sì, ma perché questa necessità di sdoppiarsi? Il nostro Cervantes, non dimentichiamolo, era un genio, uno di quelli che sta davanti alla tradizione anticipando il futuro; perché, per chi ancora non se ne fosse accorto, questo è un romanzo “futuro”, uno di quelli che ci si porta appresso senza riuscire ad esaurirlo mai: Manzoni, Dossi, Gadda, Calvino, Borges, per nominare solo alcuni, non ne possono fare a meno per un motivo o per un altro. Cervantes, insomma, anticipò tutti i problemi legati al romanzo in modo del tutto consapevole, mettendo al mondo un romanzo che è anche un meta-romanzo.

Ma per chi si schierava Cervantes? Lui che aveva vissuto una vita incredibile, quasi, si direbbe, un romanzo “reale”, peregrinando da una terra all’altra, ora libero come l’aria, ora prigioniero, ferito in battaglia, venduto come schiavo, riscattato, scomunicato, ingiustamente sospettato di omicidio, assolto, e molto altro ancora? Forse possiamo trarre qualche conclusione dalla seconda parte del romanzo, quella che egli scrisse, dopo che, alcuni anni più tardi, il letterato Avellaneda aveva accolto l’invito cui alludeva la citazione del verso ariostesco: “Forse altri canterà con miglior plettro”.

La sua reazione fu quella di scrivere una seconda parte del romanzo, addirittura più lunga della prima, che diventa così, più che un completamento, una difesa ed un’apologia del suo don Chisciotte, quello “vero”, oggi direbbe “doc”, al quale capita la più straordinaria avventura immaginabile per un personaggio: cioè quella di leggere il libro delle sue stesse precedenti avventure. Il personaggio Don Chisciotte diventa, dunque, lettore, e, leggendo, entra ed esce dalla realtà, per il semplice fatto che osserva se stesso come un’invenzione, vedendosi appunto vero e insieme immaginato; egli, grazie a questo espediente, recupera la ragione ma, poco dopo, muore, lucido, sì, ma sconfitto e privato della sua follia consolatoria. Che è la stessa follia di Cervantes, che non si riesce a capire come in mezzo a terribili traversie abbia potuto scrivere tanto e in questo modo.

Ma una cosa è certa: don Chisciotte muore perché quando il gioco è svelato, quando la letteratura appare come gioco, quando l’ideale è per sempre strappato dal reale, quando se ne fanno due cose separate, tutto davvero finisce. Che è come dire che, quando si pensa che la letteratura sia una cosa inutile, che non serve affatto, che non è essa stessa, come scrive Leopardi, “una nuova cosa del mondo”, allora davvero il mondo diventa tutto vero, affollatissimo e vuoto.

Un altro motivo, che sembra meno nobile solo a chi non abbia ami inventato per la delizia dei lettori un altro mondo, c’è: don Chisciotte muore anche perché nessun altro se ne possa appropriare e gettargli addosso altre vesti che non gli appartengono.

Il romanzo di Cervantes è poi un mucchio di altre cose: è un saggio, un enciclopedia dei generi letterari, un libro di storia e di costume; ho avuto molto tempo per pensarci, dato l’approccio così precoce, cioè quasi altri cinquant’anni, in cui l’ho riletto, ho ritagliato e collezionato articoli che ne parlavano dalle pagine culturali dei vari quotidiani, svelandone aspetti, ai quali – e me ne meravigliavo con me stessa - non avevo fatto caso.

Poi, ho visto al museo del Prado di Madrid il quadro di Diego Velasquez “Las meninas”, così intriso di realismo e allo stesso tempo di idealizzazione, a cominciare dalla concezione dello spazio, che mi ha rimandato al romanzo di Cervantes. Tutto in questo quadro è altro: ciò che ci aspetteremmo di vedere in primo piano, cioè i sovrani, si intravedono soltanto riflessi come fantasmi in uno specchio e non nella dimensione che dovrebbero avere; e chi non dovrebbe essere visto, cioè Velasquez, è ben visibile sul lato sinistro davanti al telaio, mentre dipinge altro da quello che è rappresentato sulla tela che vediamo e che sembra essersi dipinta da sé; altri personaggi, invece, prendono il posto sulla scena, a cui il pittore non sembra fare caso: l’Infanta, le damigelle, due nani, il maggiordomo, un cane e altri ancora e tutti in posa come sulla scena del teatro, perché qui, così come nel romanzo di don Chisciotte è il lettore il giudice ultimo del romanzo, il vero protagonista è lo spettatore.

I punti di vista, così. si moltiplicano, non ce n’è più uno solo; ciò che sembrava dominante, diventa secondario, il mondo degli altri avanza, anche quello dei diversi, come i nani di corte, che è cosa che accade pure nel romanzo di Cervantes, dove una miriade di personaggi di ogni ceto sociale si affolla e parla e racconta di sé e ascolta e agisce e reagisce.

L’artista, insomma, è ben consapevole di avere un pubblico molto ampio che giudica, critica, pensa, accetta, respinge: Velasquez, come, già qualche decennio prima di lui Cervantes. Quest’ultimo sapeva bene che ormai chiunque avesse disponibilità di denaro poteva comprare, leggere ed esprimere il proprio libero giudizio. Anche don Chisciotte lo fa, quando entra in una stamperia a Barcellona per dire che il vero don Chisciotte è lui, e si accorge che tutti i suoi segreti sono ormai pubblici, che tutti li possono sapere, perché lo scrittore sa tutto dei suoi personaggi esattamente come Dio sa tutto delle sue creature.

Cervantes è così bravo, così “diverso”, che Pierre Menard autore del Chisciotte, protagonista del lungo racconto di Jorge Luis Borges, vorrebbe riscrivere il romanzo e, per riuscirci, cerca di rivivere la biografia dell’autore spagnolo, di assumerne l’identità; ma non ci riesce, perché, se le esperienze danno sostanza all’immaginazione, è anche vero che l’immaginazione ed il genio vivono oltre e, a volte, nonostante le esperienze biografiche.



9 ottobre 2007
(Pubblicato sulla rivista Soaltà, n° 7, diretta da Guglielmo Peralta)

Id: 228 Data: 08/07/2010 00:39:33