I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
Roberto Maggiani proviene dalla fisica, e sappiamo come in generale le contaminazioni di ambiti siano feconde per la poesia, evitando che essa si chiuda in hortus conclusus autoreferenziale. Ma le ‘interferenze disciplinari’ presenti in questi versi riguardano non solo la fisica come campo specialistico nella sua attuale delimitazione, ma potremmo dire che qui la fisica compaia nel suo significato greco, che riguarda sia tutto il mondo naturale che la forza che lo anima, insomma la vita intera nella sua manifestazione naturale. Siamo di fronte alla fysis greca. E non a caso un ruolo fondamentale gioca, fin dall’inizio, l’elemento dell’acqua, quello che il primo dei filosofi, Talete, considera l’archè di tutte le cose:
Avrò pisciato per almeno un chilometro –
nel buco della tazza
vedevo correre le rotaie.
Dal finestrino scorgevo –
dietro case e alberi in corsa –
una linea blu
simile a un fiume che ingrandisce
fino a sfociare nel mare:
la distesa azzurra
in cui tutto sprofonda –
sono poche le cose
che galleggiano” (p. 9).
È il primo testo, In treno, che compendia, in nuce, il senso fondamentale che si dispiega nel resto del libro: l’immagine del treno e delle rotaie che corrono stanno a rappresentare lo scorrere vorticoso della nostra vita, che è come una finestra (il finestrino del treno) dal quale vediamo gli oggetti che popolano questa stessa vita; ma a loro volta gli oggetti non sono che un simulacro esteriore dell’essenza delle cose, perché dietro appare una linea d’acqua che diventa il mare. E qui Maggiani rovescia l’assunto taletiano: se per il filosofo greco l’acqua è il principio primo e unico di tutte le cose molteplici, perché l’acqua sostiene (in questo è sostanza) le cose che su di essa galleggiano, in questa poesia l’acqua appare non tanto come il grembo dal quale le cose provengono, ma quello nel quale scompaiono, nel loro annichilimento definitivo.
Non solo l’acqua fa la sua comparsa tra gli elementi primordiali, ma anche la “fiamma” come “energia”, la “fiamma” (p 43) di quell’Eraclito che ci dà poi l’immagine archetipica del fiume che scorre, del proverbiale panta rei. La fiamma primordiale, che è poi l’esplosione originaria – e qui ci spostiamo nella fisica propriamente detta, o in uno dei rami, la fisica astronomica, in cui si divide la disciplina che oggi porta questo nome: “Sono qui a scrivere di stelle e particelle / di bolle di Big Bang ed espansioni inflazionarie di ciò che forse è stato o non sarà mai” (p. 49). Ed è ancora il riferimento all’universo, insieme al mare, che ridà, come di fronte al mare il senso del sublime matematico kantiano, lo spaesamento dell’uomo di fronte all’incommensurabile nel quale è destinato a scomparire, apparentemente senza il salto che, nel filosofo tedesco, innalza l’uomo, con la ragione, al di sopra della natura stessa e del sentimento iniziale d’angoscia. In questa poesia invece La paura viene irredibilmente e irrimediabilmente riaffermata, infrangendo l’iniziale stato di serenità:
È un qualunque mattino di serenità:
il sole alto sull’orizzonte marino
la nuvola bianchissima nell’azzurro subtropicale
la palma ondeggiante lungomare
il frastuono dell’onda sulle pietre.
Minuti sospesi
Sul baratro dell’inesistenza –
ma noi di questo non ci preoccupiamo.
Nell’Universo dal vuoto metastabile
(potrebbe disintegrarsi da un momento all’altro)
Qualcuno si spaventa per una sirena
Un incendio improvviso nel bosco
Un forte vento.
La paura
è solo un momento in cui vediamo
riflessa nel mondo
la precarietà
della rete che ci sostiene. (p. 26)
Come dice il filosofo, “essere presenti significa tenersi fermi nel nulla” (M. Heidegger). Eppure, non tutto si chiude in questa consapevolezza. Proprio dopo il riferimento al big bang, e dopo lo stacco d’uno spazio bianco, il poeta scrive,: “Ma poco più in là cado nell’amore: di questo vorrei parlare / di ciò che non so dire” (p. 49). E quindi sottolineare ciò che di quella presenza precaria si salva, come nello Stupore di un morto davanti alla vita che pure si rinnova: “Credevo che non avvenisse altro / dopo di me / finisse il mondo / si fermasse – almeno / si congelasse… invece… / invece si rinnova – / continua – / per me irreale” (p. 59), dove l’enjambement dopo il primo verso ci dà pure la vertigine del vuoto che potrebbe spalancarsi. Se c’è un universo che ci annichilisce, c’è però anche L’universo che ci conviene e nel quale, come esseri umani, trovare la propria adeguatezza:
Il profumo di questa notte
mi conduce da te
che vivi innestato
nel tronco della mia vita
e germogli ancora
in questa primavera –
come una fiaba
hai meraviglie e saggezza.
È una notte in cui penso
le stelle così vicine
da sembrare normale
viaggiare ora verso di esse
e raggiungere finalmente
il luogo dove tutto cade
poco sopra lo zero –
energia minima e necessaria
ad espandere l’universo
che ci conviene. (p. 52)
E su questa notte si affacciano le stelle che sono insieme e del fisico e quelle del poeta. Ed è all’interno di questo universo che ci conviene che si dispiega la bellezza, la bellezza che per Kant – per tornare di nuovo a lui – è armonia tra uomo e natura, quell’armonia che i greci – per tornare anche a loro – esprimevano nella propria arte e nella educazione dei corpi, la cui bellezza viene cantata anche in questi versi. E così, sul pontile portoghese proteso verso l’oceano, il gesto atletico che ci può ricordare certi passi del pur diverso Milo De Angelis: “Si lanciano con capriole / nell’acqua di cristallo: i sorrisi le pance / poi la schiuma. / Sul pontile parole portoghesi” (p. 18). Quel Portogallo amato da Maggiani che ne traduce poeti (pensiamo a Sophia de Mello Breyner Andresen). Ed ecco, sempre nel solco dell’armonia greca, a riassumere i quattro elementi, il corpo umano nella sua sensualità tutta terrena e insieme spirituale: “Nel gioco improvvisato è veloce. / La sua bellezza è inscritta / nel giallo-verde degli occhi / e nella geometria del viso. / In costume è la creatura perfetta / l’evidente bellezza. / Potrebbe essere assimilato a un dio / forgiato dai quattro elementi / raccolti sull’isola” (p. 19). Dal dio pagano al Dio presumibilmente cristiano, la cui presenza è però panicamente avvertibile in tutte le piccole cose, da una porta spalancata su un patio a una tenda mossa dal vento a un albero che l’abitudine colloca ai limiti della soglia percettiva. Un Dio evocato a partire dunque “dai colori e dalle forme delle cose”: “Ti cerco instancabilmente / ed è solo per la nostalgia che ho di te / che scrivo poesie” (p. 61). Un Dio che è in tutte le piccole cose, dicevamo, le piccole cose nelle quali è inscritta anche, come in quelle miniature microscopiche che sanno fare certi artisti, la bellezza del tutto: “Nello spazio confinato di una tazza - / nella sua ombra tonda – è la tua identità / il tuo evidente successo sul mondo: / la bellezza non sommabile del cosmo” (p. 48). La bellezza cioè non è solo nel tutto, non è solo nella somma delle singole parti del cosmo, ma in ciascuna come summa del tutto. Ma anche forse semplicemente in sé e per sé – in quanto tale.
La bellezza del cosmo è anche in questo nostro stare qui, nel gesto di chi legge e di chi ascolta.