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- Esperienze di vita
Dumela, Mokwadi Mowane
1 dicembre 2008 In the third year the same extraordinary drought followed and the Kolobeng ran dry; so many fish were killed that the hyaenas from the whole country round collected to the feast, and were unable to finish the putrid masses. A large old alligator, which had never been known to commit any depredations, was found left high and dry in the mud among the victims.
G. Livingstone, Missionary Travels “Sto ancora aspettando un tuo racconto.” Un simile rimprovero mi è stato già rivolto, nemmeno un mese fa. Eravamo al Lemepe Lodge, un hotel-ristorante-conference-centre situato a Molepolole, capitale del distretto di Kweneng. Eravamo accaldati ed emozionati: quel mattino avevamo incontrato Kgari Sechele III, l’attuale Kgosi-kgolo (capo supremo) dei Bakwena; avevamo visitato il Kgotla di Mmopi, antenato del nostro amico e ambientazione di una delle sue poesie più belle; e soprattutto avevamo potuto conoscere un’altra Africa, in questi stessi luoghi in cui un secolo e mezzo fa Modimo aveva saggiamente stretto alleanza col suo equivalente occidentale. Eravamo anche affamati, e mentre aspettavamo che ci servissero il pranzo parlavamo del più e del meno. Può essere strana, addirittura paradossale, la conversazione tra due turisti italiani e un africano fiero di appartenere alla tribù del coccodrillo, cresciuto in Inghilterra e attualmente professore di letteratura inglese all’Università del Botswana. Noi andiamo nel suo paese per vedere i leoni, e lui non ne ha mai visti se non allo zoo. Noi dormiamo regolarmente in tenda nei parchi e nelle riserve naturali, mentre lui non concepisce che si possa passare la notte all’aperto tra gli animali senza correre pericolo. E così la conversazione verteva su un argomento che lo incuriosiva e lo faceva divertire: le avventure/disavventure capitate a me e a mio marito in un’Africa di cui lui non aveva esperienza. Ci sono davvero tante Afriche, e quella che gli raccontavamo riguardava i turisti stranieri e, tra i suoi connazionali, solo quelli che lavorano nel settore turistico e nella salvaguardia dell’ambiente naturale. “Mi aspettavo qualche racconto su quello che hai visto in Botswana in tutti questi anni.” Prometto troppo, è vero. “Non mi riesce. Questo paese è una miniera inesauribile e quando mi soffermo a pensare vengo assalita da immagini e pensieri che mi confondono. Pensa, avevo promesso ad una persona in Italia che avrei descritto il nostro incontro dell’anno scorso, ma non l’ho ancora fatto. Mi sarebbe piaciuto e sembrava facile; avevo addirittura pensato ad uno pseudonimo per te: Mokwadi Mowane.” Mokwadi significa “scrittore”. Semplice. Lui scrive: poesie, articoli di satira politica e di costume, ma anche racconti e traduzioni in inglese di proverbi setswana. L’arte di scrivere ce l’ha nel DNA: un suo pro-zio è noto per essere stato tra i primi a trascrivere i mabôkô (poemi celebrativi trasmessi a voce da una generazione all’altra) e per aver tradotto Il mercante di Venezia in lingua setswana. Semplice, sì, ma la parola “scrittore” applicata a lui mi evoca risonanze difficili da esprimere. Basti pensare che fino a un secolo fa o poco più la sua gente non conosceva la scrittura e ogni aspetto della loro cultura veniva trasmessa oralmente: codificarla è un po’ come fare la quadratura del cerchio. Mowane, invece, è il nome del baobab. Semplice. Altre risonanze, su cui sorvolo. Mokwadi Mowane, dunque: suona bene, e questa è una spiegazione sufficiente. “Può andare?” “Sì.” “Allora ti chiamerò così.” “Va bene. Tra l’altro Mokwadi viene talora usato come nome proprio, soprattutto tra i…” Ecco, è passato solo un mese e già non ricordo a quale etnia si riferiva: i Bakalanga, forse? Oppure i Bakgalagadi? Ma questo non è importante. Il fatto è che trovai buffo che dei nomi comuni venissero usati come nomi propri. “Davvero?!” “Davvero. Può capitare che una persona si chiami Mokwadi, o anche Writer, il suo equivalente inglese. Vengono usati anche nomi di oggetti, in setswana o in inglese. Oggetti di uso comune. Può capitare ad esempio che un bambino venga chiamato Table.” E questo mi fece scattare un ricordo. “Quindi è possibile che io abbia conosciuto una persona che si chiama Station?” “Dove?” “A Letlhakeng. Proprio quella volta, quell’unica volta, che siamo andati a Khutse.” L’anno prima avevo tradotto in inglese per Mokwadi alcune poesie che parlano di luoghi e animali che avevo visto in Botswana, e non avevo capito come mai la sua preferita era quella che parlava della Khutse Game Reserve. L’ho capito solo quando ho saputo che quella riserva fa parte del territorio dei Bakwena, di cui costituisce una specie di avamposto in pieno Kalahari. “Ti ricordi, Mokwadi, quando ti ho raccontato che la prima volta che venimmo in Botswana fu terribile, perché eravamo inesperti e decidemmo di entrare nel Kalahari passando da Khutse, e rimanemmo più volte insabbiati, e trascorremmo ben sette giorni in quel deserto con poche provviste e poca acqua, ma poi per fortuna andò tutto bene? Ecco, non ti ho mai raccontato che tutto andò bene grazie a una serie di persone. E la prima persona della serie fu un ragazzo che si chiamava, se non ho capito male, Station. In verità ho sempre creduto di aver capito male il suo nome. Spesso mi torna in mente, e ogni volta che torno qui mi riprometto di passare da Letlhakeng, ma non ne abbiamo più avuto l’occasione. Puoi informarti se in quel villaggio c’è un ragazzo, o meglio un uomo (ormai è un uomo, certamente) che si chiama davvero così?” Ma Mokwadi aveva distolto lo sguardo: stavano arrivando due camerieri con dei piatti stracolmi, un profumo invitante si era diffuso nell’aria e… in quel preciso istante un oggetto misterioso volò sopra la mia testa, velocissimo, e atterrò ai piedi del tavolo. Aveva la grandezza di un pugno e dei colori straordinari. “A grasshopper!” dissero insieme Mokwadi e mio marito. “Una cavalletta? Non può essere una cavalletta, non ne esistono così. Ma è proprio vera?” Non avevo mai visto uccelli, insetti, farfalle con una livrea tanto vistosa: non mi sembrava reale. Scattammo dal tavolo con le macchine fotografiche per seguirla nei suoi salti. Con le ali chiuse era di un verde chiaro, brillante, e non si distingueva dalle comuni cavallette se non per le dimensioni. Ma quando le dispiegava (purtroppo per tempi troppo brevi per consentire di fotografarla nel suo splendore) sfoggiava dei rossi e degli arancio poco comuni anche nelle farfalle. Il proprietario del ristorante era corso a vedere cosa stava accadendo: era rimasto in disparte per spiare a debita distanza l’effetto sorpresa che ci avrebbero fatto i meravigliosi piatti che ci aveva fatto preparare, e si era alquanto preoccupato nel vederci schizzare via dal tavolo al loro sopraggiungere. Sorrise rassicurato quando ci vide intorno all’insetto. “E’ l’animale più bello che abbiamo visto in questo viaggio” gli dissi con assoluta sincerità. “Grazie davvero, e grazie anche a te, Mokwadi, per averci portato qui. Ma è vera, oppure l’ha fatta lei, come il coccodrillo e tutto il resto?” Il ristorante-hotel-conference centre era disseminato di animali di gesso colorati a grandezza naturale: due elefanti davanti all’ingresso, nel giardino un leopardo in atto di scivolare giù da un albero, e, sopra il cartello “welcome“, le fauci ben spalancate, l’immancabile coccodrillo, animale totemico dei Bakwena (kwena significa coccodrillo, da cui ba-kwena: la gente del coccodrillo). Avevamo potuto constatare, quel giorno di visita a Molepolole, quanto i loro simboli tradizionali, armoniosamente integrati nella modernità, siano amati e vitali. Poche ore prima Kgosi Kgari Sechele III aveva sorriso indicando il coccodrillo sulla Lacoste di mio marito (del tutto ignaro che stava portando sul petto un’immagine cara ai Bakwena). Inoltre quello stesso mattino Kgosi Sebele (un’altra autorità kwena, che ci aveva fatto da guida a Molepolole) ci aveva mostrato un altro coccodrillo di gesso, posto su una piattaforma circolare nel centro del Kgotla. Per noi non significava niente, ma da come Mokwadi e Sebele lo guardavano ammirandone la fattura avevo capito che era importante per loro. Allora mi era venuto in mente un altro coccodrillo, un coccodrillo vero, morente nel letto asciutto del fiume Kolobeng. Era accaduto negli anni di siccità che seguirono la conversione di Sechele I da parte di Livingstone… Ma questa storia appartiene a Mokwadi, la racconterà lui. Io devo raccontare la storia di Station, perché l’ho promesso a Mokwadi. Avevamo finito il nostro pranzo e stavamo sorseggiando il caffè. L’apparizione improvvisa della cavalletta aveva troncato a metà il mio racconto ma io pensavo ancora a Station. Anzi, ci pensavo più forte di prima, e mi domandavo perché. “Quella storia di Station… Posso raccontartela?” Mokwadi rispose di sì, con un’aria grave che mi sorprese, e allora mi resi conto di avere gli occhi lucidi, senza motivo, perché si trattava di una storia allegra, comica forse, o addirittura banale. “Non so perché mi commuovo, pensandoci. Forse perché era la prima volta che venivo qui. Non avevo ancora messo piede in Botswana, si può dire, che già mi trovavo in viaggio per il Kalahari, senza avere la minima idea di cosa vi avrei trovato. Sapevo solo che dovevamo fare l’ultimo pieno di benzina in un posto chiamato Letlhakeng, un centinaio di chilometri prima di Khutse, dopodiché, una volta entrati nel Kalahari, avremmo dovuto essere autosufficienti per una settimana: tanto era il tempo necessario per raggiungere Rakops, il luogo abitato successivo. E così arrivammo a Letlhakeng: mi aspettavo di trovare una cittadina o quanto meno un villaggio, e invece mi trovai di fronte solo una “gas station” con un distributore a manovella, e accanto ad esso una baracca. Forse c’erano altre capanne o baracche intorno, chissà, magari nascoste tra i radi cespugli e gli alberelli bassi (di un verde intenso, magnifico) che si disseminavano su quella sabbia bianca infittendosi all’orizzonte; c’erano forse, ma certo ma non si vedevano. Al distributore c’era un ragazzo, alto e magro. Dentro la baracca semiaperta potevo intravedere due donne e un bambino piccolo. E nel cortile tra il distributore e la baracca c’erano due o tre galline e una capra. Nient’altro. Era così Letlhakeng allora. Immagino che ora sia molto diversa: tutto si sviluppa così rapidamente qui in Botswana! Il ragazzo riempì di benzina il nostro serbatoio; avevamo anche due taniche da venti litri l’una, che avevamo già riempito a Gaborone. Stavamo per ripartire quando il ragazzo si mise a parlare con noi, amichevolmente come si usa qui, e ci chiese se andavamo nel Khutse. Fausto rispose che andavamo nel Khutse, naturalmente, e da lì nel Central Kalahari, che avremmo attraversato per uscire a Rakops. Il ragazzo spalancò gli occhi e ci disse che non era possibile: la benzina non ci sarebbe bastata. Ci chiese il permesso di controllare anche le nostre provviste: l’acqua e il cibo erano sufficienti, sì, ma la benzina assolutamente no! Ebbene, Mokwadi, avevamo avuto rassicurazioni che col serbatoio pieno e le due taniche di riserva ne avremmo avuta a sufficienza per arrivare a Rakops. Settantacinque litri nel serbatoio, altri quaranta di riserva, calcolando dieci chilometri al litro… Ma no! Ci disse il ragazzo. Bisogna calcolare cinque, al massimo otto chilometri per ogni litro. Questo è quello che consente la sabbia del Kalahari. Insomma, Fausto e il ragazzo si misero a fare i conti, li sentii discutere su cosa ci conveniva fare, se era opportuno tornare a Gaborone per acquistare altre taniche da riempire… A un certo punto li vidi salire in macchina e partire con una sgassata. Dal finestrino Fausto mi fece cenno di aspettare, e io aspettai, accanto al distributore a manovella, in piedi in mezzo a quella sabbia bianca, col sole a picco… Completamente sola, a parte le galline e la capra, e mi sembrava di avere tutta la solitudine del Kalahari intorno.” Mokwadi rideva al mio racconto. “E le donne? E il bambino?” “Le donne se ne stavano nella baracca, timidissime: probabilmente non parlavano una parola di inglese. Il bambino non parlava proprio, era troppo piccolo; giocava, balbettava. Non so perché non chiesi se potevo entrare nella baracca, dove almeno c’era l’ombra… Aspettai fuori, invece, in piedi, o forse a un certo punto mi sono seduta sulla sabbia, non ricordo. Il tempo passava e avevo sete: non osavo chiedere dell’acqua alle due donne, e Fausto non mi aveva lasciato niente da bere, né denaro o altro: niente. Mi chiedevo dove fosse andato, se sarebbe tornato, cosa avrei fatto se non fosse tornato… Pensavo che forse avrei dovuto passare tutto il resto della mia vita lì, in mezzo a quel bianco infinito e abbagliante appena disseminato di verde, con le donne e il bambino, le galline e la capra…” “Quanto tempo hai aspettato?” “Non ricordo; un’ora e mezza, forse due. Ma furono lunghe. Poi sentii da lontano il rumore della macchina. Altre volte mi era sembrato di sentire il rumore di un motore, ma non era che il vento. Hai mai sentito il suono che fa il vento nel Kalahari? Sono sicura che lo hai sentito. A volte sembra il motore di una macchina in lontananza. Ma questa volta era proprio il rumore del fuoristrada che avevamo noleggiato. Arrivò sollevando nubi di quella polvere immacolata. Fausto e il ragazzo ne scesero con due enormi contenitori di plastica. Erano arancioni come le ali di quella cavalletta che abbiamo visto poco fa. E come spiccava, quel colore arancio quasi rosso, su tutto quel bianco! E sai cos’era successo? Ora ti racconto, ed è bello, perché si tratta proprio del botho, come lo chiami tu.” La parola setswana botho (che in altre lingue bantù diviene ubuntu) si potrebbe tradurre forse con “cooperazione”. Ma la parola botho ha un alone magico che la parola “cooperazione” non possiede. Il botho è qualcosa che in Africa consente la sopravvivenza anche in condizioni estreme, perché tutti sono disposti a darsi una mano e ad escogitare le strategie più fantasiose per tirare il loro prossimo fuori dai guai. “Non avevo mai sentito parlare del botho, all’epoca, ma forse fu proprio allora che incominciai a sentirne l’esistenza e a comprenderne la straordinaria efficacia! Il ragazzo, che non sapeva cosa consigliarci (a parte tornare indietro a Gaborone, acquistare altre taniche da riempire e ritornare il giorno dopo), aveva avuto la bella idea di condurre Fausto in una fabbrica di concime, che si trovava a diversi chilometri di distanza, per vedere se avevano dei contenitori. Ma la fabbrica era chiusa, e allora si erano recati alla casa del proprietario, ad alcuni chilometri dalla fabbrica. E il proprietario si era mostrato disponibile ad aiutare quel turista bianco che rischiava di trovarsi senza benzina in mezzo al Kalahari. Aveva interrotto le sue faccende e aveva accompagnato Fausto e Station alla fabbrica, aveva svuotato due contenitori di concime e glieli aveva dati. Non aveva voluto niente. Fausto mi disse che gli aveva offerto qualcosa, “almeno per il disturbo e il tempo perso”. Niente. Nemmeno una “pula” o un “thebe”. Insomma, per finire la storia, il ragazzo pulì alla meglio i due contenitori di plastica arancioni, li riempì di benzina, li chiuse in qualche modo e aiutò Fausto a caricarli sul retro della macchina. Erano pesanti, ognuno conteneva quaranta litri, e fu un problema, in seguito, sollevarli per riempire il serbatoio. Ma furono indispensabili.” “Quindi aveva davvero ragione il ragazzo? Fu necessario avere quella benzina in più?” “Certamente. La usammo tutta, fino all’ultima goccia.” “E chi vi aveva detto che sarebbero bastati un centinaio di litri?” “Ce lo avevano detto quelli che ci avevano noleggiato la macchina, e ci eravamo informati in merito anche al DWNP.” “E allora?” “Il ragazzo abitava alle soglie del deserto, lavorava alla stazione di servizio, o ne era il proprietario, non so, e quindi aveva esperienza diretta. Non lo so, Mokwadi, il fatto è che ebbe ragione. Passammo sette giorni nel Kalahari con quelle due taniche arancioni in macchina, grosse e ingombranti, l’odore di benzina e di concime erano insopportabili, e oltretutto avevamo il terrore che si rovesciassero o si incendiassero. Ma se non avessimo incontrato quel ragazzo ci saremmo trovati senza carburante nel bel mezzo del Kalahari. Sarebbe stato un bel guaio. Pensammo a lui per tutto il viaggio, e anche in seguito. Prima di lasciare la sua stazione di servizio, Fausto gli aveva offerto del denaro. E lui aveva rifiutato, gentilmente. Gli offrii allora una scatola di biscotti, che accettò facendo quel vostro gesto di ringraziamento e dicendo semplicemente: Grazie, questi sono molto, molto buoni! Disse proprio così, ricordo bene le sue parole. E mentre ci allontanavamo ci gridò: Ricordatevi di me! Vi ho fatto un grande favore, quindi ricordatevi di me. Mi chiamo Station. E io: Hai detto Station? Ma la macchina era già in moto e non sentii bene la sua risposta. Mi sembrò che avesse detto, indicando il distributore a manovella: Yes, Mma. This is a station, and my name is Station. Ma ho sempre pensato di aver capito male, fino ad oggi, quando mi hai fatto presente questa usanza di dare nomi alle persone usando dei nomi comuni. Ecco, la storia è finita, tutto qui.” “Mi piace questa storia” disse Mokwadi. “Anche a me. Sai, Mokwadi, noi veniamo da un posto dove si dice homo homini lupus. Station fu il primo di una serie di incontri che ci fecero capire che qui avremmo trovato qualcosa di radicalmente diverso. E infatti voi dite, se non sbaglio: motho ke motho ka batho (una persona è una persona grazie alle altre persone), che è, direi, l’esatto opposto. A conferma che noi, come a volte di dico, scherzando ma non troppo, veniamo dal ‘quarto mondo’ ad imparare regole di vita più evolute nel vostro ‘primo mondo’.” Mokwadi rise forte, come fa di solito quando gli esprimo queste considerazioni. “Ma la cosa più importante di questa storia” disse, “è che voi vi siete fidati. Vi siete fidati di Station. Chi ve lo ha fatto fare? Non sapevate chi era, che gente avreste trovato qui, che paese era questo. Eppure vi siete fidati. E grazie a questa fiducia avete potuto affrontare il deserto. Questo è il senso vero della storia che mi hai raccontato.” Mokwadi scandiva le parole, come per sottolineare l’importanza di quello che stava affermando. Di solito, durante le nostre conversazioni, si esprimeva con semplicità e con flemma. Ma ora parlava con un’ autorevolezza e una decisione che mi fecero ricordare chi avevo davanti: l’autore di quelle poesie che ti incidono dentro il senso della cultura africana, di uno spirito che sopravvive e resiste. Forse Mokwadi aveva intuito nel mio racconto anche qualcosa che avevo omesso: quando ero rimasta sola, dopo che Fausto e Station erano andati via, avevo pensato tante cose. Avevo calcolato, secondo i miei parametri, che cosa sarebbe accaduto. Station era molto povero, era evidente. Fausto aveva con sé tutto il denaro. Eravamo inermi, spaesati, soli. Da noi, nel nostro paese civile, non sarei rimasta da sola in un luogo deserto, e nessun uomo prudente va in macchina in un luogo solitario con una persona sconosciuta. Da noi accadono tante cose. Eppure avevo provato un senso istintivo di fiducia. Di euforia, addirittura, quando la macchina si era definitivamente allontanata e non ne sentivo più il rumore. Solo che la mia ragione mi imponeva di pensare che non avrei dovuto affatto essere tranquilla. Come quella cavalletta. Una parte di me, memore che di solito le cavallette non mi piacciono, mi diceva: “Perché non hai paura? Perché le vai vicino?” Ma i suoi colori intensi mi avevano tranquillizzato. “Ecco, Mokwadi, ti ho raccontato questa storia. Sono contenta che piaccia anche a te. Ma come vedi è una storia che non si può scrivere. Come si fa? Diventa di un’estrema banalità a scriverla. E’ come quella cavalletta di poco fa: con le ali chiuse sembra comune, con le ali aperte è bellissima, ma, hai visto, non si lascia fotografare. Tu forse puoi scriverla. Te la regalo.” “No, è una storia tua. Devi scriverla tu. Prova.” “Va bene, lo farò in qualche modo. E in cambio tu devi promettermi che scriverai al più presto quella storia che hai in mente, e vorrei che in quella storia ci fosse anche quel coccodrillo morente nel letto asciutto del fiume Kolobeng, all’epoca in cui Modimo nella sua benevolenza accolse il suo equivalente occidentale, quando Sechele I dovette rinunciare ad essere Rramašamêtse, “colui che dà la pioggia”, e le piogge cessarono e i suoi uomini piangevano credendo che gli spiriti dei bianchi avessero ucciso l’anima del loro re, ma non era morta la sua anima, e forse nemmeno quel coccodrillo morì.” Qualcosa del genere, mi sembra, è già presente tra le righe delle poesie di Mokwadi Mowane. Il baobab (mowane in lingua setswana) è un albero antico. Ne abbiamo visti alcuni esemplari che hanno, a quanto si dice, tremila anni. Dà un senso di vertigine pensare che hai davanti a te, così vitale, un albero nato ai tempi della costruzione delle piramidi. I suoi rami sembrano radici e, visti dal basso, rispetto al tronco grosso e turgido, si stagliano delicati e sottili nel cielo. Le radici, invece, sembrano rami: sono estese, grosse, forti, e diramandosi si piantano saldamente nella terra come se volessero trarne tutto il nutrimento. In qualche modo il baobab mi ricorda le poesie di Mokwadi Mowane.
Id: 1701 Data: 07/05/2016 21:45:01
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- Letteratura
Penelope
Penelope di Enzo Caputo- Officina Teatro LMC, Trapani. Testo di Alma Passerelli Pula. Interpreti: Alma Passerelli Pula, Rosalba Santoro, Lucia Poma In questa affascinante Penelope l’aurora del mito perfora la notte dei tempi e ci raggiunge, proprio come la città in cui ne viene rappresentata la “prima” perfora il Mediterraneo e tutto ciò che i suoi flutti hanno visto, trasportato e sommerso, per tempi immemorabili e ancora oggi. L’ineludibile ripetersi del mito è espresso con efficacia dall’immagine del carillon, che viene offerta allo spettatore all’inizio e alla fine della rappresentazione: diventa per un attimo una bambola meccanica quella stessa Penelope che pochi secondi prima, entrando in scena, aveva incarnato con sguardo fisso e intenso le ieratiche statuette cretesi – e lo spettatore si chiede quale dea sia questa che ha davanti: dea dei serpenti, dea dei papaveri o dea sconfitta, aggiogata alla presenza/assenza del suo uomo. Qui, non siamo più all’epoca della “gigantessa di pietra”, ma poco oltre, ed è ancora forte l’eco della sua grandezza e del suo lento declinare. Il padre Icario aveva cercato addirittura di annegarla questa figlia femmina, che per buona sorte era stata salvata, neonata, dalle “sorelle anatre” (retaggio di antiche epifanie della dea nelle acque basse e nelle paludi) e poi, giovane donna, da un uomo “fermo come la fermezza” che in lei rispettava l’antica fiera, l’incatenata belva. E aveva partorito Telemaco, “figlio figliato nella notte maga”. Ma in quest’epoca aurorale, fissata dal mito di Penelope, gli uomini come il suo Ulisse vanno “a perigliare storia” e non tornano, e quelli che non “perigliano” “gemono finti orgasmi” nelle dimore senza sovrano, tra fiumi di vino e bestie macellate. E le donne sono regine abbandonate, insidiate, oppure ancelle traditrici. Nell’attesa Penelope tesse/disfa la tela e forgia parole, per abitare il corpo abbandonato e per congelare il tempo di Itaca fino al mitico nóstos, il ritorno dell’eroe: non più dea e matriarca, abitata dalla mancanza, non le resta che farsi signora del moto delle grandi sfere, e con purezza divina le domina. Ma le ancelle esigono nuovi re e nuovi favori, e con danze oscene le rubano le matasse del tempo. L’attesa, “come sordo istante d’infinito”, è disperata e lunga, “quanto lungo l’estremo corso del filo”. E nell’attesa “il pensiero si infolla” e “il vino bacco sbacca spacca il violento stare dei desideri muti”. Neologismi emersi dal corpo che danza tracciando figure che paiono impresse su antiche ceramiche disseppellite intatte. Il canone di Pachelbel, con le sue variazioni che si rincorrono senza mutare ritmo, trascina Penelope indietro e avanti, avanti e indietro, ed evoca l’eterno ripetersi del destino di regine, dame e madonne abbandonate in regge, castelli e palazzi; tessono tele e filano lana, illudendosi del ritorno di un eroe non solo amato, ma divenuto indispensabile per esistere. Nella leggenda Ulisse ritorna. Qui non lo vediamo sulla scena; ne sentiamo la voce (Coraggio, figlia del glorioso Icario...), ma è Penelope che sta sognando, e proprio lei ci avverte: Due son le porte dei sogni inconsistenti: una ha battenti di corno, l’altra d’avorio: quelli che vengon fuori dal candido avorio, avvolgon d’inganni la mente, parole vane portando; quelli invece che escon fuori dal lucido corno, verità li incorona, se un mortale li vede. La voce narrante di Omero ci narra poi il lieto fine della storia. Resta il dubbio se si tratti di verità o finzione. In ogni caso è Penelope, sagace, a ordire la gara e a rispolverare il vecchio arco, appartenuto all’uomo probabilmente inghiottito dal mare o dalla guerra. Il suo trionfo risolve la mancanza e il tempo si scongela per un attimo, prima che il carillon la trasformi di nuovo in una bambola meccanica.
Id: 1657 Data: 10/03/2016 00:07:29
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