I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
*
- Letteratura
Quel lago sopra casa mia
Quel lago sopra casa mia
Il fiato corto, la testa pesante, gli occhi inondati da tanta luce così rarefatta che mi sembra la quinta di un palcoscenico. Su quel palco ci sono io, con i muscoli che urlano ma il cuore leggero perché oggi, ancora in chemio, sono riuscita a salire dopo tanto tempo al lago di Fond a 2439 metri. Un paradiso di profumi e colori sopra casa mia a cui si arriva dopo uno strappo nel bosco e poi via tra ruscelli, rododendri e sassi lucidi e fragorosi fino a lì, a quello specchio d’acqua alpino, più grigio che azzurro, dove si riflette la roccia dura e aspra del tetto d’Europa. Le mie Alpi, le cime aguzze e possenti della Val d’Aosta.
In quello specchio che non vedevo da anni, dopo tante cure e chemio e radio, oggi mi guardo, con lo zaino in spalla, il foulard in testa e i miei bastoni, ma non mi vedo. Dov’è la Barbara di un tempo? Dov’è quella donna in salute, che si pensava come un fiume ormai placido, con i figli già grandi e tanti anni tranquilli ancora davanti? Quella Barbara non c’è più. La diagnosi di tumore al seno nel 2009 se l’è portata via, quando la malattia ha segnato lo spartiacque violento tra ciò che c’era prima e ciò che è venuto dopo.
Me lo ricordo benissimo quel giorno in cui l’idea della morte ha bussato alla mia vita e io ho perso la sensazione di immortalità, quel gusto tutto femminile che abbiamo noi donne di pensarci capaci di fare tutto, di risolvere tutto, di esserci per tutto. Chissà perché. Non ci siamo neanche per noi stesse. E io quel giorno lì proprio mi sono persa, frantumata.
Tutto – dopo - è rotolato giù, come me nei miei andirivieni infiniti in fondovalle: l’intervento all’ospedale di Aosta, il gonfiore e il dolore al braccio, il tutore per sette anni, le cure, la perdita dei capelli, la chemio e la radioterapia. In mezzo, i figli piccoli, la loro scuola, il marito confuso, il lavoro perso. Quindi la diagnosi di fibromialgia, dolori in tutto il corpo, altri interventi dovuti a complicazioni e infine la comparsa, quattro anni fa, delle metastasi. Come avrei potuto sopravvivere a tutto ciò? Come avrei potuto trovare degli spiragli di normalità, come poter pensare di farcela, nonostante tutto?
Dopo mesi di buio e baratro infinito, in cui ricordo solo di essermi lasciata vivere, un giorno ho aperto gli occhi con uno sguardo nuovo e mi sono guardata intorno. Vivo da 20 anni a Planaval, un pugno di case in Valgrisenche. Un villaggio da cartolina adagiato su un piccolo altipiano a ridosso di una cascata che con il suo fragore riempie il nostro silenzio di montanari. Avevo questa natura potente e spettacolare intorno. Avevo i miei due figli e il mio cane. Avevo le mie gambe e le mie braccia - i miei due motori. E così ho girato la chiave: li ho riaccesi e con Anna (una di quelle amiche che ti diventano sorelle e ti cambiano la vita), sono partita per i miei primi 100 passi con i bastoncini in mano. I 100 passi sono diventati ogni giorno un pezzettino in più finché a un certo punto sono riuscita ad arrivare qui, su questo lago. Il mio braccio pian piano è tornato normale. Ho tolto il tutore, sono dimagrita ma soprattutto ho capito che posso, possiamo farcela.
È vero, non c’è più la Barbara di un tempo, quella che si vedeva risolta come donna e mamma. Quella che era arrivata dalla raffinata Parigi a 17 anni odiando il rimpatrio del padre e aveva pensato che lì, in quella valle, sarebbe morta di noia e solitudine. Non è morta di noia, ha solo rischiato di morire annegandosi nel senso di sconfitta, nell’annullamento di sé di quei tanti inverni a combattere con il dolore, la paura e l’impotenza.
Ora ce n’è un’altra di donna e io oggi posso vederla in questo specchio d’acqua mosso dal vento, dove sono ritornata con Anna e con l’ennesima, ciclica chemio in corpo. E quella donna di 57 anni è più sfaccettata, una specie di caleidoscopio colorato che riflette la luce in modi inaspettati, sorprendenti e taglienti anche per me. Perché da metastatica mi sono tinta i capelli di viola, fatta sei tatuaggi e sono diventata istruttore di Bungypump: con quei bastoni speciali che mi ha fatto scoprire la mia Anna, insegno alle donne come me a prendersi tempo e attenzioni per se stesse, le accompagno a fare passeggiate di benessere e organizzo con l’ospedale di Aosta momenti di aggregazione dedicati a loro. In questi anni di cure, chemio e settimane spese tra i medici e gli infermieri, ho scritto un libro e aperto un blog. Ho scommesso su me stessa, su una rinascita che non è solo mia ma deve poter appartenere a tutte le donne colpite da tumore metastatico. Oggi la malattia si può guardare in faccia e curare, io lo sto facendo.
I miei capelli colorati sono diventati un lasciapassare in ospedale perché in dieci anni sono riuscita a creare un fondo a sostegno delle donne come me: abbiamo regalato 10 tablet al reparto di oncologia, finanziato un servizio di make up per le donne oncologiche con estetiste specializzate, sono riuscita – dopo il Covid – a far riaprire il nostro reparto di oncologia, che ci era precluso da tempo e rischiava di restarlo per sempre.
Ho semplicemente vissuto, tutto qui. Ho scelto di farlo. Mi è bastato – basterebbe a tutte noi - cogliere le opportunità che la vita mi parava davanti. Senza pensare a cosa avrei potuto fare in un altro film, in un’altra storia. Perché il mio film e la mia storia oggi sono questi.
Id: 2691 Data: 08/10/2020 15:07:19
|