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Raccolta di articoli di Anna Maria Vanalesti
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Libri

La tempra dell’autunno

 

Un poeta attraversa il mondo e il tempo, in modo del tutto diverso rispetto agli altri individui, perché segue un tracciato unico che solo la lente straordinaria della sua poesia può fargli rilevare e come è unico il suo cammino, così è unico e originale il suo rapporto con le cose e con la natura.

Ci convince di questo la nuova silloge di Andrea Mariotti, La tempra dell’autunno, che subito ci immette in un percorso singolare, fatto di momenti di contemplazione e di riflessione, in una condizione di perenne incanto e di godimento della solitudine, quasi stato di grazia necessario per il canto poetico.

Schivo e riservato nel manifestare i suoi sentimenti, Mariotti trova una misura cantabile, nei versi, adoperando la metrica con una sobrietà che perviene al lettore in forma di chiarezza solare e gli comunica sensazioni, suggestioni ed emozioni.

Abbiamo di fronte un escursionista appassionato della montagna, sempre alla ricerca di valichi e valli che lo conducano verso le cime amate, anche solo per guardare il panorama e rimanere sospeso tra terra e cielo, rapito dall’immensità e dal silenzio.

Ed è allora che la parola poetica diviene lo strumento primario per svelare i segreti e il mistero dell’universo, configurandosi come ineguagliabile chiave d’accesso per andare al di là della banale realtà quotidiana.

La prima cosa che colpisce in questa raccolta sono gli spazi, dilatati e ampi, mai astratti,  ben definiti e legati a precisi territori, di città o regioni: dinnanzi ai nostri occhi si stendono vallate, si ergono monti, si spalancano orizzonti e si effonde ovunque una luce intensa che non è semplicemente luce del  giorno e delle sue ore ma luce spirituale, che emana dall’interiorità del poeta.

Già nella poesia che fa da vestibolo alla silloge, Fondovalle, si può cogliere lo stato d’animo dell’uomo che ammira “le cime candide d’Abruzzo”, sentendosi quasi purificato “dai venti tiepidi di cresta”, che scacciano “il tossico dal sangue” e avverte quindi la forte necessità di immergersi nella natura per un lavacro dell’anima intossicata dalla vita e dalla società. Questo muoversi tra la purezza sublime del paesaggio e le tragedie dolorose dell’esistenza sarà la costante di tutto il libro, nel tentativo continuo di compiere una ricerca del bene e ridare una definizione del mondo. Assistiamo ad un viaggio lento, segnato da incontri, da ricordi, da memorie ma anche dall’alternarsi delle stagioni, tra le quali Mariotti sembra prediligere l’autunno.

Le tappe, o meglio le fasi del viaggio, sono cadenzate dalle quattro sezioni della silloge (Poesie ritrovate, Sciolti, Apollo e Dioniso, Intrecci) attraverso le quali si articola un itinerario di rilettura della realtà e di analisi su se stesso, che nella poesia di Mariotti, coincidono sempre.

Nella prima sezione ci appare il viaggiatore “insonne” (per dirla con Penna), che si sposta in luoghi non soltanto fisici ma della mente, attento alla stagione, al vento, elemento assai frequente nella poesia di questo libro, alle memorie di un tempo passato (come il ricordo di una visita fatta ad uno caro zio malato). Riconosciamo in lui un pellegrino di stampo quasi proustiano che, comunque proceda, a piedi o in treno, o in taxi, torna indietro per capire meglio i momenti vissuti, forse dimenticati, che invece egli recupera per mezzo di poesie ora ritrovate.  In tale recupero, però, non scorgiamo mai atteggiamenti malinconici o patetici rimpianti, perché un filo di ironia guida l’esplorazione del passato e conduce il poeta ad una liberazione da ogni senso di colpa, ristabilendo una linea di conciliazione tra ieri e oggi. Si tratta di un’ironia che a volte ci ricorda Caproni, pronto ad esorcizzare i drammi dell’esistenza con qualche battuta, senza nulla togliere alla serietà e gravità di certi istanti.

 Si consideri per esempio l’incipit di Treno per Cesano, così isolato nella sua descrizione di maestosa bellezza (Dell’umana sofferenza fortezza/ che impettita stai sulla collina) e si noti poi il contrasto con il ricordo sorridente di un incontro con lo zio devoto a Bacco e fumatore.

E ancora si osservi nello Scirocco d’Assisi lo stacco tra l’inizio ritmico e austero (Forte soffia carico di bile/nel giorno di Natale questo/ vento bastardo…) e la conclusione ironica e sarcastica, allusiva al prezzo del taxi (come punge/ nel di festivo Pietro di Bernardone). Segue la seconda sezione tutta giocata sulla perfezione degli endecasillabi sciolti, che il poeta costruisce con grande abilità, essendo un profondo conoscitore della metrica e un infaticabile lettore dei classici della nostra tradizione letteraria. Apre la serie l’imponente Latemar, contemplato dal viandante che ne coglie il rossore di suprema bellezza, mentre ne percorre l’Alta Via, quasi in una metafora della vita e del suo cammino, per raggiungere una conca di mistico e detritico silenzio, simile ad una scenografia lunare.

Tutto in questi sciolti è occasionale ed estemporaneo, eppure ogni motivo si dipana secondo un tema unitario e continuo, che ruota intorno all’itinerario del poeta e alla sua formazione umana, perenne work in progress. Così è nella lirica Futuro, così in Gianicolo, in cui la luce fulgida e irreale che inonda i versi, è la condizione ideale per quello stato d’animo che guida i due visitatori al sepolcro del Tasso, nel ricordo dell’emozione intensa provata anche dal Leopardi, così avviene in tutte le altre poesie.

Non manca inoltre qualche elemento simbolico, di cui il poeta si avvale per disegnare il suo percorso e costruirlo passo per passo; uno di questi emblemi è lo Zaino (titolo anche di una poesia), che ci ricorda molto la bisaccia con cui Rabindranath Tagore attraversava la sua giungla indiana, una bisaccia metaforica, piena di risorse spirituali e mentali per affrontare la vita.

La sorpresa per noi è che nel verde zaino d’escursionista, insieme al quale l’autore dice di aver palpitato dinnanzi a vette sublimi, è nascosta una rosa destinata ad una donna amata, le cui fattezze sono accennate con accenti delicati e teneri, d’un lieve erotismo pudico. Questa figura femminile appare in alcune composizioni, vaga e indeterminata ma fortemente sentita: a volte è solo compagna di strada del poeta (come in Gianicolo) e se ne avverte la presenza da un improvviso plurale che scivola nei versi (i nostri occhi), o dalla allusione ad un tu ( poi di nuovo all’aperto tu ed io) che si affianca all’io in una condivisione di sentimenti; altre volte è la donna dal cuore ardente che gli vuole bene e riesce a fargli compiere persino scelte di luoghi meno cari, il mare invece delle montagna, (in Estate), altre volte ancora è solo un’amica cara che intravediamo durante una conversazione su Cracovia, Gerusalemme e Montale (nella lirica appunto intitolata Montale), in un balenare di pochi tratti essenziali (si levano le fiamme dal tuo volto).

Certo non è la donna di montaliana memoria che ci viene in mente, perché questa non ha la stessa funzione salvifica di quella, ma pur nelle rare occasioni in cui la incontriamo, sentiamo che si è aperta una breccia nel cuore del poeta e l’uomo non è più un solitario viandante.

L’attenzione di Mariotti, però, oltre che dalle vette, dai cammini, dai pellegrinaggi, con o senza la fedele compagna, è attratta anche dai problemi sociali, dalla cattiveria che ci circonda, dalla stupidità di quella che egli chiama ormai l’umanità perduta: l’incendio doloso della pineta di Castelfusano, il crollo del ponte Morandi di Genova, la folla dei giovani dalle teste chine sui tablet e sugli smartphone, come nuovi oranti, in una ineludibile dipendenza tossica da questi meccanismi, in una incapacità assoluta di comunicare col prossimo se non attraverso chat, mail e le faccine di emoticon, nella ormai incipiente afasia del linguaggio. Di fronte a questo pasticcio d’uomo privo di orizzonti, al poeta non resta che ritornare ai suoi temi prediletti: la natura, i monti, i colori delle stagioni. E a proposito di ciò, ci si offre in tutta la sua armoniosa drammaticità, la lirica La tempra dell’autunno, da cui il libro prende il titolo:

 

Tripudio di colori offrite in dono

o cittadini alberi, voi funesti

l’ottobre scorso agli uomini e alle cose;

mentre i vostri fratelli risonanti

venivano mozzati dal ciclone

nelle foreste delle Dolomiti.

Ribolle ancora il mar Mediterraneo

ignorando la tempra dell’autunno

…………………………………….

 

Sull’umanità si è scatenata la vendetta della natura, nel prevalere della tempra dell’autunno. Perché il poeta la definisce così? Che cos’è questa tempra dell’autunno, che pure è una stagione amata, che fa pensare all’età di mezzo dell’uomo, quando le furie si dovrebbero placare e lo spirito dovrebbe prepararsi ad accogliere con serenità l’inverno? “Tempra” è termine che riferito ad un uomo significa il complesso delle sue qualità fisiche e psichiche, con riferimento in particolare ad una costituzione salda e forte, ma vuol dire anche indole, temperamento. Si pensi ai versi del Petrarca in Solo e pensoso: sì ch’io mi credo omai che monti e piagge/ e fiumi e selve sappian di che tempre/ sia la mia vita ch’è celata altrui.

Riferito ad una stagione che cosa può voler dire? Allude certamente alle caratteristiche di clima, di aspetti, di caratteri e di forza della natura che l’autunno implica. Trasferito in termine poetici qui il vocabolo assume una valenza metaforica, che diviene uno specimen per l’uomo, giunto tranquillo e finalmente intero, ad una precisa tappa della sua esistenza, l’età matura dei resoconti, delle decisioni, dell’ordine nelle proprie  stanze, per essere finalmente se stessi e capire il proprio ruolo. Questo è il messaggio che La tempra dell’autunno trasmette, a chi lo vuole e lo sa cogliere.

 La penultima sezione del libro, Apollo e Dioniso, già dal titolo annuncia un colpo d’ala, che a suon di rime incrociate, tipiche delle quartine, con non poche sfumature ironiche, oppone l’apollineo al dionisiaco, in una serie di contrastanti battute, che scaturiscono da riflessioni e considerazioni, su vari aspetti e momenti dell’esistenza.

Ad un cielo color cobalto può opporsi un cuore in anemia, le due anime dell’arte si contrappongono e si fondono, la poesia tenta di ricomporre l’unità tra il caos e l’ordine, tra l’irrazionale e il razionale e conduce alla gioia del divenire, all’interno della quale si trova anche il piacere di distruggere. L’efficacia di queste quartine sta soprattutto nella loro brevità e nell’aspirazione costante al raggiungimento di un’armonia, non solo compositiva e metrica, bensì spirituale e naturale.

Chiude la silloge, la sezione Intrecci nella quale si intrecciano situazioni e occasioni con luoghi e tempi precisi. Le occasioni (ancora una volta pensiamo a Montale) sono date da visite che il nostro viaggiatore realizza in determinati luoghi, per ammirare delle notissime opere d’arte e che immediatamente creano una situazione emotiva intensa: c’è Napoli, c’è Firenze, c’è Roma e c’è l’amata montagna. Il poeta si sofferma reverente dinnanzi alla scultura delle Tre Grazie di Canova, estatico e in religioso silenzio davanti al manoscritto autografo dell’Infinito di Leopardi, stupefatto e rapito nella chiesa di Sant’Isidoro a Roma contemplando le Virtù del Bernini, perfezione inimitabile in contrasto col grande degrado della città al di fuori di quel luogo sacrale. Sullo stesso piano di tali capolavori artistici, è posto l’abruzzese Monte Amaro e il parco nazionale circostante, la cui sublime quiete invade l’animo dell’uomo. Infine a Firenze è la sosta conclusiva nel cimitero di San Felice ad Ema presso la tomba di Montale: qui avvertiamo lo stupore e la commozione di Mariotti per la modestia e l’umiltà di quella sepoltura, nonché la condivisione con il rifiuto di ogni retorica che l’amato poeta, premio Nobel, ha sempre fatto durante la sua vita.

Due poesie dedicate ai tempi, a due mesi, settembre e ottobre chiudono definitivamente la raccolta: Settembre e Sonetto ottobrino.

Il poeta è ormai pacificato con se stesso, sa godere dei colori settembrini, sbiaditi forse, ma adatti a riabituare l’anima ad una luce più avara dopo l’iride di agosto. Il sonetto di ottobre è invece una dichiarazione di amore alla compagna, un’ode al suo sorriso e alla pace che ne deriva, una constatazione di come lei finalmente sia riuscita a placare i fantasmi di lui. Il palpito autunnale che conclude la lirica ristabilisce il circuito di tutta la silloge, intorno ad un viaggio iniziato come ricerca del bello e della purezza, per giungere ad una meta di serenità e di pace, grazie all’utilizzo di un linguaggio poetico la cui nota distintiva è la musicalità. Non poteva essere diversamente per un poeta come Mariotti che ha in Mozart il suo nume tutelare.

 

 

[ Prefazione a La tempra dell'autunno, Andrea Mariotti, collana Pietre di Luce, Bertoni Editore ]

 


Id: 2700 Data: 27/10/2020 10:47:40

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- Letteratura

Angoli interni

 

Roberto Maggiani da sempre nella sua poesia esplora la forma dell’Universo, affascinato dalla ricerca scientifica e convinto assertore di un unico linguaggio poetico, matematico e fisico che possa interpretare e svelare i misteri dello spazio e dell’esistenza. Tutte le domande e gli interrogativi inquietanti che l’uomo si pone sin dalla sua prima apparizione sul pianeta Terra, trovano il loro alfabeto e la loro più autentica espressione nell’equazione che viene stabilita tra la scienza e la poesia, in un connubio inscindibile, avvalorato non da formule precostituite, ma da parole incastonate in versi a lungo meditati e organizzati secondo un criterio di unità e armonia. Non è la prima volta che Maggiani affronta il problema dello spazio infinito e della materialità che pur lo compone, forse per una quasi ossessiva domanda circa il rapporto tra corporeità e spiritualità, nel tentantivo di trovare un nesso tra il prima e il poi di ogni essere, tra l’universalità e l’infinità del tutto e la precarietà dell’esistente, ancorata ad un ciclo inestinguibile di nascita e di morte. Prima di ogni nascita a chi appartenevano le molecole che si sono ricomposte in una nuova materia? Quante forme ha la vita e quanti tempi? Che cosa faceva ognuno di noi prima di essere vivificato?

Queste sono le domande che solo un poeta, che sia anche fisico e uomo di scienza, può porsi in modo del tutto diverso da come se le potrebbe porre chiunque.

La mappa da seguire per trovare risposte diventa quindi la poesia, ovvero quel potere di forte concentrazione nella parola, di intuizione, folgorazione ed espressione, che in un lampo riesce a rendere comprensibile e raffigurabile il processo del pensiero.

La poesia di Maggiani è infatti poesia che si pensa, perché affiora da un percorso speculativo complesso, che non si arrende ai primi risultati, che vuole arrivare ad un quadro sistemico di rappresentazione e raggiungere il punto di convergenza non solo tra scienza e arte, ma tra ragione e fede, non intendendo rinunciare a Dio, che rimane il pilastro fondamentale della costruzione dell’Universo. Ed è per questo che non basta più al poeta esplorare dall’esterno la geometria spazio-temporale che lo circonda, ma occorre esplorarne “gli angoli interni”, che soli possono rivelare la direzione reale delle linee, a patto che non se ne sbagli la somma.

Accade quindi, in questo nuovo libro, che in mezzo ad una situazione di luce e di bellezza, come quella in cui il poeta si viene a trovare ricordando qualche momento a Lisbona, al guizzo dell’immagine poetica, segua la lucida, razionale visualizzazione geometrica, pur basata sulla somma sbagliata degli angoli interni:

 

In tutto l’Occidente

pare non esserci un sole più luminoso

le cui dita tocchino i tetti e le strade

come qui a Lisbona –

molli carezze e rintocchi sulle campane.

 

……………….

 

Seguo le linee degli sguardi:

lei guarda me io guardo lui

lui guarda un’altra –

un triangolo perfetto

se non fosse per la somma sbagliata

degli angoli interni.

È solo uno dei tanti esempi di come proceda questa poesia, che diviene strumento di analisi dell’esistente, di indagine sull’essere e l’esistere, di ricerca della continuità tra ieri e oggi, nell’immensità universale, dove il poeta è convinto che nulla muoia del tutto e nulla nasca del tutto.

L’esame si spinge fino all’evoluzione della specie, che Maggiani rivede secondo una sua chiave poetico-scientifica:

 

Quando del mondo non c’era

ancora piena coscienza

apparve in Africa il genere Homo

 

………………….

 

I piedi sono una mano trasformata –

adattata a sostenere un’agile falcata:

furono piedi africani a varcare

la soglia del continente

verso le terre che ora abitiamo.

 

………………

 

Dunque l’Africa è dentro di noi (guardati dentro e troverai l’Africa), l’Africa paradiso perduto della specie Sapiens. In tempi di forte ritorno del razzismo Maggiani proclama nei suoi versi la nostra appartenenza all’Africa. È anche questo uno degli angoli interni da esaminare nella vita.

Proseguendo nella sua singolare ricostruzione della genesi, il poeta ripercorre le origini dell’uomo e della donna, (in cui il cervello è il risultato di un lungo, lunghissimo succedersi di casuali migliorie), consapevole che in noi vivono millenni del passato. Ancora, dunque, Maggiani si tiene ancorato alla continuità tra presente e passato, cogliendone il nesso indissolubile, che definisce calore antico, o una lontananza.

Ne scaturisce una primitività di gesti, di azioni sopravissute agli anni del progresso e della modernità, come per esempio l’atto dei cacciatori-raccoglitori di un tempo e di oggi. Visitando una grotta e scoprendo in essa le vestigia dei primitivi, il poeta avverte la vertigine del tempo che tutto e tutti avvolge, pur separando le generazioni tra loro, per questo si guarda attorno e ogni cosa vorrebbe far rientrare e includere nell’unico spazio che conosce e domina, quello della poesia.

I due interrogativi alla base di questo libro sono: chi siamo? Siamo nati dal caso o dalla volontà di Dio?

 

Guarda il vivente che hai di fronte:

è sorto dal caso o da una volontà?

Il suo DNA è uno scarto

o un progetto del cielo?

I fatti della nostra origine rieccheggiano

nella storia del soffio di Dio sul fango.

Forse si trattò di un esperimento evolutivo

messo a punto da una civiltà

venuta da un altrove e ancora là residente.

In tal caso Dio sarebbe Scienza.

Non è così remota la possibilità di raggiungere

il suo tecno – paradiso – la sua eternità.

 

L’affermazione più ardita in questi versi è la possibile identificazione di Dio con la Scienza, che in considerazione del fatto che Maggiani oltre ad essere un poeta è un fisico e che ha sempre cercato l’equazione tra poesia e scienza e scienza e fede, non deve meravigliarci. È in sostanza un altro degli angoli interni da lui esplorati. Se l’uomo è pascolianamente l’Adamo che dà il nome alle cose, il poeta può e vuole cimentarsi con la creazione – invenzione, creazione del mondo e invenzione delle parole che rende il mondo esistente e reale proprio perché nominabile. Dio dice una parola (ad esempio Gatto) e lui è; il poeta inventa una parola e quella cosa è. Così si crea il nesso tra le cose e le parole, un divino prodigio della poesia ed è così che si conclude la sezione Homo di questo libro.

Seguono altre sezioni apparentemente staccate l’una dall’altra, ma in realtà consequenziali, in un disegno che si viene componendo come disegno della realtà e progetto del poeta, teso a dimostrare che la Scienza è un’attività della nostra capacità simbolica come scrivere poesie. Dunque egli interroga il reale, ricerca il come della scienza e il perché della fede, senza mai rinunciare all’una e all’altra.

 La sezione intitolata La mela è colma di suggestioni astronomiche, dal sorgere del sole ai frammenti sulle tre stagioni, in cui la parola cede alla formula matematica, nell’impossibilità di spiegare l’inesprimibile, per non parlare dei fenomeni astronomici veri e propri (eclisse di sole, comete, meteoriti, stelle, buchi neri) che si chiudono sull’immagine dell’uomo che salda stelle nel cielo del presepe. Certo questa parte è la più astrale dell’intera silloge, perché Maggiani si muove contemplando gli spazi celesti, con quel puro stupore che contraddistingue ogni sua ricerca. Ed è bella e poetica la conclusione di queste sequenze per così dire cosmiche e stellari:

 

Forse coloro che hanno così avanzata scienza

che della fantasia facilmente fanno materia:

rendono reali i loro pensieri

estraggono la gioia dal dolore

e scelgono per il tempo che rimane

solo bellezza.

 

La scelta finale ci colpisce, quella bellezza è il solo bene a cui il poeta tende ed è un altro clamoroso risultato della misurazione degli angoli interni.

Ma non si placa l’Assillo (titolo anche di un nuovo gruppo di liriche) di scrutare l’Universo, di coglierne le ragioni, il perché, la verità dell’esistenza e quindi con una raffica di strofe brevi e in cadenza ritmica martellante, l’autore batte la pista della sua indagine e interroga (molti i punti interrogativi nei versi), applicando la regola dei quanti e attenendosi alla loro coerenza ( il fisico è costantemente presente accanto al poeta). E appena il paesaggio infinito dell’universo si fa troppo incorporeo ed evanescente, Maggiani torna al paesaggio amato del Portogallo, come nella lirica Aveiro dove svela la sua intima condizione in due bellissimi versi: Ci moviamo tra gli elementi del mondo/internamente sospesi tra la realtà e il sogno.

Quando si giunge al gruppo intitolato Angoli interni ormai sappiamo tutto di questi angoli e le poesie che leggiamo ce ne danno conferma: la scoperta della bellezza e dell’amore. Sono i temi più cari a Maggiani, in assoluto i due campi in cui la sua poesia si esercita più frequentemente.

Che cos’è la Bellezza per il poeta? Di certo non è soltanto una bellezza di forme, ma è armonia, incanto, un arpione nello sguardo e non è solo bellezza dell’uomo, ma di tutte le cose, presente nell’universo, nella sua luce, nelle sue linee. Dalla bellezza nasce l’amore, che qui viene visto anche nella sua diversità, amore a tutto tondo, senza differenze, amore come innamoramento dell’altro, della sua nudità, della sua naturalezza. L’amore, come leggiamo nell’ottima prefazione di Deidier, è “movimento che platonicamente spinge la realtà a fondersi, e così gli uomini, nel superamento del loro egoismo”. L’eros si incarna nella parola, si concentra in un vocabolo e diviene immagine davanti a noi, perché la poesia di Maggiani, ricordiamolo, è soprattutto nel suo linguaggio, accuratamente raffinato ed educato a divenire linguaggio poetico. La contemplazione del soggetto amato si trasforma in fisicità, in piacere, in Bisogno di mani, emblematico titolo della lirica che chiude questa sezione. Segue La terra promessa, sezione in cui alcuni fondamentali affetti sono presenti con la loro urgenza di amori necessari: c’è l’incontro con la persona amata, visto e vissuto come la promessa di raggiungere quella terra a cui rimanere per sempre fedele, c’è la poesia dedicata alla madre e quella dedicata al padre, entrambe colme di tenerezza e di ricordi.

Ma la sezione centrale di tutta la silloge è senz’altro quella dedicata al nipote Pietro, amato più di un figlio e visto come la figura che rappresenta il nesso di continuità tra passato, presente e futuro.

L’amore del poeta si concentra su questo nipote, chiamato piccolo uomo, ma anche principe, che gli appare come una via di salvezza.

 

……………………………

 

Sei un condottiero senza armi né eserciti

Che dimostra il suo valore

Nella foga del sonno e della fame.

 

………………………………….

 

Anche se in un luogo

qualunque del Cosmo

esistesse altra vita

tu mi fai pensare

che nessuna potrà essere bella come la tua

piccolo uomo e principe –

mio delirio e salvezza.

 

È quasi un poemetto nel poema, questo dedicato al nipote Pietro e vive di vita sua, con autentici accenti di intensa tenerezza.

Le altre cinque sezioni che costituiscono la seconda metà del libro, affermano l’impegno civile di Maggiani, come uomo, come poeta e come docente. Il suo modo di relazionarsi agli altri, sentendo la responsabilità di ciò che dice e ciò che fa, la sua voglia di trovare risposte scientifiche e di offrirle attraverso la poesia, il suo permanente messaggio di pace, contro la guerra e l’odio, si rivelano in quel capitolo che si intitola Disinnesco, in cui lui dichiara apertamente che non fabbrica bombe, ma le disinnesca e in questa metafora si legge il suo lavoro di insegnante, il suo desiderio di andare incontro al mondo e agli uomini con il sorriso e la speranza. Emblematici sono alcuni suoi versi, che risaltano come dichiarazioni di intenti e di poetica:

 

Non strapperò il fiore né calpesterò l’insetto

(da L’uscita)

 

Chi può dire che non conosca

quei segreti che tanto cercate

e non veda Dio e con lui non parli

ogni giorno?

(da Ossessione di evidenza)

 

Dovrò dirle che disinnesco bombe atomiche

anziché armarle.

(da Disinnesco

 

La terra d’appartenenza 

è dove tornano i piedi dei migranti

(da Agli esodati)

 

Versi estrapolati da varie strofe di questa sezione, ma che da soli testimoniano il desiderio di pace e di non violenza, il rispetto per l’ambiente e gli altri, il senso della religiosità, la partecipazione al dramma dei migranti e degli esodati.

È proprio da questo impegno civile, scaturisce naturalmente la sezione dal titolo La carrucola, dove si affronta il tema delle uccisioni, della morte, del perdono e dell’ateismo. Infine nell’ultima parte (La disfatta) sono raggruppate liriche di carattere elegiaco in cui, mentre viene ripreso il pensiero del Cosmo che si affanna ad esistere e che riconferma la sua eternità e continuità, torna il discorso sulla morte, mistero insolvibile, al quale non ci si rassegna.

 

Non sembra vero che esista la morte 

in questo spazio di respiro

in cui vive il corpo

come in una perenne giovinezza.

(da Spazio di respiro

 

Mai si dovrebbe consegnare il corpo alla morte 

ma se proprio dovremo – e si dovrà –

è bene fin d’ora abbandonare

ogni attaccamento alla materia

liberare la via alla felicità.

(da Senza limiti o scadenze)

 

La morte avviene 

Sempre nello stesso modo:

si fermano il cuore e il respiro –

ci si dimentica di esistere.

(da Morire)

 

 Particolarmente intense e toccanti queste poesie sulla morte, suggellate direi dalla lirica dedicata all’amico Andrea che più non vive e che il poeta è riuscito a fermare nella sua giovinezza.

Il libro si chiude con un gruppo di liriche intrise di serenità e forse di un certo ironico sorriso. Il titolo stesso La Minestra, è ironico; c’è da parte del poeta un’accettazione serena dell’esistenza, e dei suoi lati anche negativi, c’è superamento del dolore e c’è il senso dell’abbandono da parte di Dio, anche se non cessa la sua ricerca. Ma soprattutto c’è la compartecipazione alla sofferenza del mondo e degli altri uomini, un desiderio costante e immutato di dare aiuto, più che di riceverlo.

È il libro della maturità di Roberto Maggiani, è la sua nuova geometria poetica, di cui padroneggia attraverso il linguaggio, la misurazione degli angoli interni, cioè l’esplorazione dell’infinito che si congiunge col finito.

 

 

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Id: 2378 Data: 21/05/2019 18:58:10

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- Letteratura

Traslochi

 

 

Appena si inizia a leggere il libro di Franca Alaimo, Traslochi, si ha come l’impressione di essere già stati in quei luoghi, in quelle stanze, di aver già percepito quel sussurro di parole, di aver già provato quella sensazione di stare nell’universo come un puntino, come “cosa tra le cose”.

Partiamo da quel “muro sottile” della prima lirica (Separati in casa), che divide le due persone che  abitano nella stessa casa, ma non si amano più: la separazione, in uno spazio condiviso e forzato, si muta in uno sciame fatto di respiri, di  ronzii, di ombre, di  passi che si incrociano, di corpi che si avvicinano senza sfiorarsi, mentre la parola tace, inceppata dall’orgoglio.

Uno stato di pena, quindi, reso e trasformato dalla poesia in un suono sommesso, quasi in un fremito sonoro che percorre i versi dal primo all’ultimo, in un seguito di immagini visive e uditive, che scandiscono il sentimento poetico, liberandolo dalle scorie della  realtà dolorosa. Spie generose della tensione emotiva sono gli aggettivi: il muro è sottile, il ronzio è ostinato, le ombre sono teli viola, la stella è colma di tempesta.

Da questo iniziale avvertimento del dolore, si dipana man mano la trama di un universo abitato dall’uomo, non da solo, ma insieme con tanti altri esseri e comincia a disegnarsi la mappa dei  traslochi, alla ricerca di uno stare meglio che non  si raggiungerà, di un altrove più lieto che si identifichi con uno spazio nuovo e lasciando il vecchio, si scopre un minuscolo zoo, un mondo sommerso di piccoli animali, tra i quali ci si riconosce, perché facenti parte di un’unica smisurata vicenda, quella dell’esistenza. Piccoli animali, passeri, colombi, calabroni, formiche, avvolti dallo sguardo della poetessa, divengono tenere presenze che popolano uno scenario quotidiano fatto di gesti abitudinari, attraversato da suoni impercettibili, segnato da un destino di infelicità, comune a tutti gli animali, tra cui i più infelici sono proprio i padroni di casa.

Un’onda di commozione si propaga con picchi più alti in alcuni punti, come nella scoperta delle case d’argilla lasciate dalle vespe nelle pagine dei libri, scambiate forse per “serre traboccanti di parole odorose” .

La poesia è sempre in grado di circoscrivere gli spazi, ricreandoli, perché il poeta vi ritorni, vi si chiuda, ritrovi le sue stanze e in esse le  ombre della sua solitudine. Così nella lirica intitolata Sola, che dà il via ad una situazione di doppio sguardo interno ed esterno, da parte dell’autrice, sia dentro la casa e quindi dentro se stessa, sia  fuori dalla abitazione, nel mondo della strada, dominato dai rumori dei motori e dal trambusto del traffico consueto. Dove comincia “lo zero” della morte? Era inevitabile che le ombre conducessero a questa idea, la poesia può anche ritornare dopo un periodo lungo di assenza, ma non potrà mai essere esorcizzata del tutto l’idea della morte che ci accompagna costantemente.

Intensi questi versi: La morte era cosa da poco dentro il fiore, /un piegarsi leggero e sgualcito (da Benvenuta in città, o mia poesia). Il canto diviene quasi un prosimetro, che consente alla poetessa di compiere un ardito intreccio tra gli elementi fortemente realistici trattenuti dalla sua visione, saracinesche, strade, lampade fluorescenti, la matta del terzo piano, la serranda del garage e gli elementi onirici, come la stessa poesia, uscita a forza dalla sua scorza, i petti caldi e innocenti degli animali in volo, la luna che si specchia in un catino colmo d’acqua sporca, dimenticato in balcone. Questo ritorno della poesia che sorprende Franca Alaimo, la colloca per qualche istante nella dimensione di Dino Campana che invocava  la poesia e la richiamava come una chimera.

Il disegno continua con una trama  di ponteggi che si innalzano come un fittissimo bosco, creando una complessa architettura in cui sono inglobati, come in una scultura della pop-art, materiali diversi, secchi, ciotole, tubi, giunti ortogonali, che pur nella loro prosaicità, riescono a richiamare l’immagine delle foglie d’autunno, che hanno il colore del rame ( Ponteggi). A tanto può giungere il prodigio della poesia. E’ come se ogni istante di vita fosse trasfigurato, inserito in un ordine diverso da quello reale, per essere riletto, ripensato e restituito ad una sua razionalità, prima rimasta incompresa. E’ infatti questa l’operazione più evidente che l’Alaimo compie, mette ordine nell’esistenza propria e altrui, spiega con la poesia la banalità, la precarietà e persino l’inutilità di certi momenti quotidiani, trasformandoli in moti indispensabili dell’eterno ruotare della vita. Così si può superare l’insonnia e renderla occasione unica per cogliere le voci che giungono dall’esterno, insieme ai sogni smaniosi, al fruscio delle macchine, alla visione di un Dio-ragazzo che si droga sul marciapiede, tra il vagare dello sguardo che spazia dal cielo e dalla luna, fino ai platani ricamati dalla luce. C’è un’ampiezza di respiro poetico che tale sguardo riesce a creare, come raramente si avverte nei poeti di oggi, troppo attenti ad attenersi al dato realistico e spesso polemico, troppo attenti ad evitare ogni pericolo di sentimentalismo, agganciandosi saldamente alle cose, agli oggetti. Non è così per Franca Alaimo, che dilatando il suo sentimento ecumenico, riesce a coniugare liricità e prosaicità, astrazione e concretezza, annodando ogni cenno d’amore e di gioia, come dichiara in chiusura di Insonnia:

 

C’è perfino un grillo che canta nell’unica aiuola

inondata dalla luce azzurrognola di un neon.

bisogna adattarsi, sai,

ed annodare ogni cenno d’amore e di gioia

per sentire la trasparenza dell’alba

sopra le palpebre.

 

Annodare i fili con gli altri, i cenni d’amore e di gioia è in qualche modo compito precipuo della poesia per la nostra autrice, che spontaneamente si colloca su di una linea di continuità con le persone e le cose, nel tentativo includerle in un cerchio comune, dove l’esistenza sia più sopportabile e accettabile per tutti. In questa dimensione la soccorrono i ricordi, lieti o tristi che siano (soffia sulla memoria quel vento che accosta/ il fiore del papavero e il crisantemo invernale) e la natura che lei non cessa di osservare, entrando in essa come in un quadro shagalliano e non perdendo mai di vista il cielo, di un azzurro metafisico. Infatti si potrebbe dire che cielo e terra siano i poli opposti della poesia della Alaimo, l’uno che domina dall’alto gli eventi nel suo imperturbabile e splendido isolamento, l’altra schiacciata e compressa dal caos delle macchine e dalla sarabanda giornaliera degli uomini.

Di tanto in tanto affiorano citazioni letterarie che appartengono al sostrato culturale della poetessa e che trasalgono quando la sua parola le appare insufficiente, come allorché giudicando i suoi passi, in un tentato bilancio del suo cammino umano, li trova tardi e lenti e petrarchescamente li assolve. Qualsiasi problema passa al vaglio della poesia, persino quelli economici ( non a caso Problemi economici è anche il titolo di una composizione) e ciò le consente di dipingere un quadro fittissimo di particolari, cibo, vetrine, negozi, frutta, bottigliette di profumo, corpi, giocattoli e altro, come in una gigantesca tela di Guttuso ( si pensi alla Vucciria), che rivela la sua sicilianità, l’appartenenza cioè ad una terra intrisa di colori, di sapori, di figure, di suoni. Ed è questo che può farle accettare anche la povertà e il bisogno, con un’ironica accondiscendenza:

 

Domani avrò solo dodici euro da spendere,

e, accidenti, è rimasto soltanto

un pugno di croccantini per la mia gatta.

 

 Questi traslochi sono della mente, una mente inquieta, che lascia luoghi e case, che sceglie di trasferirsi altrove, che muove oggetti e animali sostanze e memorie , in una continua migrazione di pensieri e di immagini, nella perenne ricerca di uno status che abiliti e razionalizzi gli errori e le correzioni, per approdare ad una serenità costruita, virtuale, mai reale. Si spiega perché anche la pioggia possa divenire elemento disturbante, o distraente nella paziente e ardua scansione delle ore della giornata. Si legga qualche passo di Pioggia in città , in cui si assiste al lento, ineluttabile sommergersi della città:

In un crescendo di pianto

e odori acri di decomposizione

si gonfia d’acqua nera la città

come un annegato.

L’acqua sbava sulle mattonelle dei balconi,

singhiozza sulle ringhiere,

cola sui muri, gorgoglia con voce roca lungo le grondaie,

…………………….

 

Tremola il selciato di luci colorate

come l’insegna di un grande parco giochi;

finché – sono ormai le nove di sera –

la luna come tratta fuori da un forcipe,

esce dall’umido grembo del cielo,

il volto fresco, lucido e sereno.

 

La luna è  sempre elemento leopardiano rasserenante e compare con grande frequenza in questa raccolta, quasi a placare l’animo commosso e a restituirgli pace. L’occhio vigile  della poetessa contempla e ritrae ogni movimento del giorno, ogni andare della gente, come nei versi di I condomini di via Bonanno, in cui incontra inquilini del palazzo, indaffarati nel loro salire e scendere le scale, trasformate dalla fantasia poetica, queste, nella scala di Giobbe e quelli in angeli, mentre il colombo che picchia sui vetri per un attimo impersona lo Spirito Santo che forse bussa al cuore. Siamo di fronte ad una trasfigurazione continua del reale e del quotidiano, in mezzo al quale pur si muove l’autrice, con la sua profonda sensibilità di donna e di poeta, tuffandosi nell’ordinario e mutandolo in straordinario, tramando, come fa nella lirica citata, un ricamo sottile di cose minime che diventano gemme nelle sue parole, come il fiore scarlatto, i gladioli, i giacinti, i tulipani, nei vasi sul balcone, e persino la pioggia che batte con ritmo sempre più veloce / i suoi allegri tamburi.

Bisogna leggere questo libro, per tentare di riappacificarsi con la realtà che ci circonda, per sottrarla al suo male, ai suoi venefici effetti e salvarla dal nostro pessimismo, per ancorarla ad un trasloco definitivo che ci convinca del tutto perché di quello già compiuto nemmeno la gatta è convinta ( e in proposito si legga l’ultima parte del componimento, ad alto tasso ironico e umoristico, La mia gatta):

Ma soprattutto temo

 che abbia cambiato opinione sul mio stato mentale:

chi mai lascerebbe l’Eden

per l’Inferno? – si domanda –

ma guarda tu che razza di padrona!

E nel farmi le fusa mescola l’amore e lo stupore.

 

E la vita continua oltre i traslochi: nuovi giorni si succedono, i ricordi non danno tregua e scandiscono il tempo e il poeta cerca la sua anima, ponendosi domande a cui non trova risposte:

 

Ma dov’è andata mai l’eterna essenza,

l’immagine bellissima di quel mondo

che ruota al di sopra, lontano, misterioso,

al di là della luce traballante delle stelle?

Mentre il buio mi cade addosso,

chiudo gli occhi e inseguo un sogno,

ma sprofondo in un labirinto senza visioni,

finché la notte mi sale all’orecchio bisbigliando,

l’incommensurabile tedio del silenzio.

Ed è proprio in quest’ultimo verso che si manifesta la capacità  della lingua poetica di Franca Alaimo di produrre ampie volute e creare onde lunghe con le sue espressioni. Qui la posizione chiasmica del termine tedio, già di per sé pregnante e profondo, posto tra l’aggettivo incommensurabile e il sostantivo silenzio, genera un effetto smagante di vuoto e di mistero, che da solo vale meglio di qualsiasi altra percezione dell’universale.

Non cessa però il desiderio di trovare altre vie  per intrecciare una trama nuova della vita (Pagliuzze d’oro), pur sapendo che non tornerà da nessun luogo Ulisse e che la solitudine ormai è compagna diletta (è la solitudine che più mi sta a cuore). I traslochi sono avvenuti, la casa lasciata è lontana, non restano che i ricordi ed il cuore sanguinante:

Tutto frana della vecchia casa, tutto ricopre la polvere inesorabile del tempo, sull’intonaco si vedono le colature della pioggia, sui muri c’è la muffa, i cancelli sono arrugginiti, tutto insomma è metaforicamente segno delle macerie del passato, ma a quel passato la poetessa ritorna, per ritrovarlo e per ritrovarsi: (Di fronte alla casa lasciata: ricordando)

 

Ci torno da fidanzata e sposa del mio passato,

con quei ricordi di me,

bestiola così scalmanata e tenera in amore

 

Così si chiude il libro, documento prezioso di una poesia  colma di verità e di impietoso sguardo alla vita, che postillando minuziosamente i momenti e i piccoli eventi d’ogni giorno, li avvalora di senso e di significato, sottraendoli allo sterminio e all’indifferenza del tempo. Ed è questa l’operazione più cospicua che ci sembra abbia compiuto l’Alaimo, in questi traslochi della mente e dell’animo, nei quali anche noi ci riconosciamo.

 


Id: 1822 Data: 18/01/2017 18:29:28

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- Letteratura

L’ordine morale del Paradiso

 

Se esistesse il Paradiso potremmo ipotizzare un suo ordine morale? Questa è l’inquietante domanda che non può non porsi chiunque legga il nuovo interessante libro di Roberto Maggiani. Si tratta di un lavoro complesso che è un romanzo, ma anche un saggio, è denuncia e confessione, narrazione autobiografica e della vita dell’uomo contemporaneo, è discesa nell’interiorità e cammino attraverso la realtà che ci circonda. Campeggia un problema: come l’ordine morale che la società ci impone si possa conciliare con l’ordine morale che ciascun uomo porta dentro di sé, specialmente se è un cristiano credente. Una società civile che non accetta la diversità, che avvalla l’omofobia, che condanna, insieme alla chiesa, l’amore omosessuale, può arrogarsi il diritto di imporre le proprie regole assurde, fondate su credenze sbagliate, definendole “ordine morale” da rispettare e seguire tout court? Si apre un ventaglio di argomentazioni che Maggiani affronta narrativamente articolandole in una storia di singolare struttura, più simile all’intervista che al racconto e che è portata avanti non da un solo io narrante, ma da tre, col risultato immediato di confondere e fondere l’autore con i personaggi, in un serrato dialogo di domande e risposte, attraverso le quali si viene disegnando una vicenda, reale e immaginaria, secondo il principio che tutto ciò che è reale è immaginabile e viceversa ciò che è immaginabile è reale, nonché realizzabile.

I tre io narranti sono Daniele, il vescovo (chiamato sempre “Eccellenza”) e Simone, il compagno amato. Naturalmente la figura che più sorprende il lettore è quella del vescovo, perché non incarna certo l’intransigenza della chiesa cattolica, ma si mostra aperto, sensibile e disposto ad accogliere le confessioni di Daniele, non per giustificarle, ma per condividerle, perché, come si scopre in seguito, egli stesso ha vissuto delle esperienze analoghe, dalle quali la sua fede, lungi che essere compromessa, è uscita rafforzata e più autentica. Perché Daniele va dal vescovo a raccontare la sua storia? Perché crede in Dio e ha bisogno di conferme circa la sua identità, ha bisogno di sentirsi in armonia col creato, con l’universo, ma anche con la società che invece lo respinge e lo emargina come omosessuale. Il suo ragionamento è semplice: se l’amore è il fondamento della creazione, nonché il fondamento della vita, lo è in tutte le sue espressioni e quindi non può essere considerato innaturale, o peggio, peccaminoso, se diretto da un uomo verso un altro uomo. E invece l’omosessuale è spesso visto come un malato, come un essere contro natura, esattamente come lo concepiva la chiesa del medioevo, concezione alla quale non fu estraneo nemmeno il grande Dante, che non esitò a giudicare il suo amato maestro Brunetto Latini, relegandolo tra i sodomiti nel terzo girone del settimo cerchio dell’inferno.

Intorno a questo tema, profondamente sentito e messo a fuoco, tramite un’analisi attenta e puntuale delle varie situazioni che si presentano nel corso della narrazione, si dipanano una serie di riflessioni filosofiche, metafisiche direi, specialmente per quanto riguarda l’esistenza di Dio che è certamente la meta desiderata e cercata per tutto il romanzo. Basta rileggere alcune battute iniziali come questa. “forse Dio esiste, almeno nella speranza, sarebbe bello se Dio esistesse, è meglio che esista”. Si tratta di un pensiero di Daniele, il più combattuto dei tre io narranti, perché è quello che maggiormente ricerca Dio ed è in qualche modo costretto a rivedere e riesaminare la propria fede, sentendosi sempre in bilico tra la sua volontà di bene e il rischio permanente e continuo di incorrere nelle opere di male. In ciò la cifra etica del libro che ripropone, in modo innocente e sincero, il più antico problema dell’uomo, la lotta tra il bene e il male, nella consapevolezza che l’amore contiene tutto l’universo, ma senza renderlo immune dal male. Dal che gli innamoramenti di Daniele, vissuti ogni volta come una scoperta dell’altro e della propria nudità, non solo come fatto esteriore e fisico, ma come indifesa disponibilità ad esporsi e a donarsi.

La complessità del personaggio di Daniele sta nel suo amare il mondo a trecentosessanta gradi e quindi ad andare incontro alla vita con naturalezza e fiducia, senza infingimenti. Coloro che si imbattono sul suo cammino, Lorenzo, Simone, l’Eccellenza, ma anche alcune figure femminili amiche, finiscono per essere coinvolti dalla sua spontaneità e dalla sua purezza.

Il cammino di formazione è lungo e impervio e passa attraverso l’idea, o meglio il sospetto, di avere una vocazione religiosa, tanto che la scena d’apertura del libro, nella cella di un eremo, ritorna in seguito, quasi a voler materializzare iconograficamente l’aspirazione di Daniele. L’adolescenza del ragazzo si riempie di progetti, di stupori anche per la sua straordinaria crescita fisica e di passioni come quella per la scienza, in una parola di sete di conoscenza dell’Universo. E sono questi i momenti in cui la scrittura fa silenzio da sola e si libra in estatiche contemplazioni. Si legga ad esempio questo passo: “Talvolta nelle fredde notti invernali, mi sedevo nel giardino in compagnia della Luna, era maestosa nel cielo a sud; quando transitava dietro l’abete, cresciuto con me, sembrava rallentare nel suo andare, come imbrigliata dalle fronde. Restavo a lungo, nonostante l’ora tarda, immerso nel silenzio della notte, circondato dai sogni delle persone nelle case vicine, meditavo sul senso dell’esistenza: mi stavo rendendo conto che la nostra non è soltanto Terra ma anche Luna, pianeti, stelle Universo.”

C’è in queste righe il Maggiani di Spazio espanso, lo studioso di fisica quantistica, il poeta lunare de La bellezza non si somma.

Il personaggio si confessa, parla delle sue esperienze sentimentali, le studia in qualche modo nel riferirle e le assolve tutte, anche quando le riconosce sbagliate, come quelle con qualche sua compagna di scuola. Potrebbe sembrare Daniele un personaggio straripante nel romanzo, ma lo struttura di quest’ultimo, pensata e realizzata dall’autore, non glielo consente, perché non appena cambia l’io narrante, passando il testimone da Daniele all’Eccellenza e poi a Simone, l’equilibrio si ristabilisce, pure destabilizzando il filone della storia che subisce una sorta di inversione di marcia. Ad un tratto però qualcosa muta nella dinamica degli eventi raccontati, entra infatti in azione un forte elemento favolistico, quasi appartenente ad una sorta di realismo magico, alla maniera dell’Ortese o di Landolfi, che introduce nelle pagine altri scenari, fantastici e misteriosi: un viaggio al largo di Madeira, verso isole sconosciute, più simile ad un itinerario onirico che ad un percorso reale. Si tratta di un viaggio preceduto da un sogno fatto da Daniele, per due volte di seguito, di un naufrago in mezzo ad una spiaggia bianca, bello come un “dio caduto dal cielo” che sembra voler trasmettere una richiesta di aiuto, un SOS in una particolare frequenza. Dopo il sogno, il giovane fa di tutto per effettuare il viaggio e parte, con l’amico Simone, per Madeira, da dove poi cercherà di proseguire da solo, per l’isola Selvagem Pequena, dove si trova la lunga spiaggia bianca da lui sognata.

 Non è nuovo nelle opere di Maggiani il paesaggio portoghese, anzi si potrebbe affermare che le coordinate del Portogallo gli appartengono, perché delimitano la sua mappa geografica preferita, una mappa del cuore. Su questo scenario a lui familiare, si intrecciano le fantasie più bizzarre che possono condurlo molto lontano e il romanzo, a questo punto, muta anche registro, per assumere l’andamento di un diario di bordo, redatto attraverso messaggi inviati dal cellulare di Daniele a Simone, con l’indicazione delle date, giorno per giorno, fino al momento in cui avviene l’incontro con l’uomo bellissimo visto in sogno, a riprova che ai sogni bisogna sempre credere. Colpo di scena: il diario di bordo si interrompe e viene sostituito dal report di Simone che perde le tracce dell’amico e inizia a disperare di poterlo mai ritrovare. Daniele ha avuto un grave incidente, è rimasto in coma per giorni ma poi si riprende e il suo cammino di discernimento continua. Molti punti si chiariscono nella sua mente, grazie alla ripresa del dialogo con sua Eccellenza, per esempio il suo anelito al Paradiso, manifestatosi proprio attraverso il sogno-viaggio, l’ansia di conciliare la vita dello spirito con le esigenze naturali del corpo e la conclusione che il godimento di quest’ultimo non possa e non debba essere in contrasto con lo spirito ed essere ritenuto peccato. Ed è qui che si intravede il nuovo ordine morale a cui l’autore aspira, un ordine morale che il mondo non riconosce, ma che ha la sua affermazione nel Paradiso.

L’ultimo io narrante a prendere la parola è Daniele che scrive una lettera all’Eccellenza in cui dichiara di aver intercettato uno scambio di informazioni tra due creature non terrestri (o extraterrestri) a cui attribuisce dei nomi fantastici, i quali parlano della terra e delle abitudini e credenze dei suoi abitanti. Ancora una volta cambia il registro linguistico, divenendo in parte umoristico e scanzonato, in parte fantascientifico e stellare. Qualcosa accadrà, uno dei due esseri suggerisce all’altro cosa fare, come nuotare quando cadrà in mare e aggiunge che c’è un umano che intercetta le loro vibrazioni, un umano che dovrà dimenticare, certamente Daniele, che racconta tutto ciò quando esce dal coma.

Dunque mistero, fantascienza, scienza e metafisica si alternano in una narrazione convulsa, scattante, che prende il lettore e lo fa riflettere, trascinandolo però per diversi sentieri emotivi, in cui nulla è mai fisso e determinato, perché l’imprevisto è la regola di questo romanzo. Nella fase finale, lo stile multiforme che è passato dal dialogo-intervista, al diario, dal racconto al rapporto, senza far venir meno la continuità della vicenda, cambia ulteriormente e diviene stile epistolare, perché è ad una lettera che l’autore affida la conclusione degli eventi, una lettera che Simone scrive a Daniele, in cui gli annuncia che ha composto un romanzo con tutte le trascrizioni dei colloqui avuti con sua Eccellenza, ma soprattutto esprime il suo amore per lui e la speranza che la chiesa possa finalmente cambiare giudizio nei confronti dell’omosessualità.

È dunque un libro che si apre alla libertà e alla speranza, auspicando da parte di tutti, non solo della chiesa, un atteggiamento nuovo, una revisione totale dei pregiudizi e degli errori commessi nei confronti di chi ama qualcuno del proprio sesso, un radicale rinnovamento dell’ordine morale, che ponga finalmente al centro di tutto l’amore e non una falsa concezione dei soggetti amati. Tutto questo in un modo assolutamente nuovo e inconsueto, in un libro che sconvolge le regole del romanzo, per segnare un sentiero diverso, tortuoso positivamente, in alcuni punti forse anche un po’ farraginoso, ma certamente spontaneo e profondamente autentico.

Del resto le aspettative create dall’autore nella introduzione, non vengono tradite: la linea di demarcazione tra realtà e immaginazione è stata annullata, le situazioni e i personaggi immaginati sono divenuti reali e l’ordine naturale delle cose stabilito dalla società è stato rovesciato. Ma l’effetto maggiore prodotto da questa originale narrazione è quello di aver allargato le porte e gli orizzonti della Casa–Universo prospettata e vagheggiata nel prologo, che conferma Maggiani come poeta dello spazio, uno spazio metafisico in cui infinito ed eterno sono un tutt’uno, in cui il pensiero sposta “le pareti universali fino alla soglia dell’assurdo, dove scopriamo che l’intelletto non possiede i concetti di fine e di inizio”. Se davvero l’autore ha pensato, come dichiara, ad una “cosmonità”, cioè ad un popolo cosmico di cui l’umanità fa parte, la cosmonità emerge chiaramente alla fine del romanzo, quando esseri terrestri ed extraterrestri appaiono insieme a frequentare una delle pagine più curiose e movimentate dell’opera.

Che dire ancora? Roberto non finisce di stupirci per la straordinaria sintesi che riesce a fare tra elementi scientifici ed elementi fantastici, tra valori morali e valori naturali, tra fisica e metafisica, il tutto usando lo strumento della parola, con incredibile rispetto e assoluta devozione.

 

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 Booktrailer

 

 


Id: 1599 Data: 21/12/2015 21:00:00