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- Storia
Un Mistero teramano del 1907
Un Mistero teramano del 1907 (La leggenda metropolitana del Teatro Comunale)
“Rivista Teatrale Italiana”, una delle più antiche e accreditate Riviste di arte, letteratura, storia e critica teatrale dal 1900 al 1915 , nel vol. 12 dell’anno VII (1907), in “Cronaca” (rubrica che solitamente informa sulle “novità drammatiche” e le più rinomate rappresentazioni teatrali del momento sia a livello nazionale che internazionale) relativa al fascicolo n. 6 del giugno, dopo aver registrato il mediocre successo del dramma di Matilde Serao, Dopo il perdono, al Réjane di Parigi, scrive che a Teramo è stata rappresentata la tragedia di Riccardo Olivieri Veronica Cybo, con “buon esito”: dunque una “prima” nazionale a Teramo nel 1907, e, per giunta, ritenuta, dai critici della “Rivista”, che hanno fatto la scelta di citarla, di certa rilevanza culturale! La notizia, di cui non si sapeva nulla, non è di secondaria importanza, innanzitutto perché aggiunge un importante tassello alla scarna biografia di Riccardo Olivieri, noto finora solo per aver intepretato negli anni 1961 e 1962 due films, rispettivamente di Sergio Corbucci (I due marescialli) e di Carlo Ludovico Bragaglia (Pastasciutta nel deserto). Si scopre così che egli è stato anche un drammaturgo di successo (sono anni, come si evince da uno spoglio attento dei volumi della “Rivista”, in cui non era facile, in provincia come nelle città più importanti, riscuotere consenso, anni in cui “cadono” opere di Capuana, dello stesso D’Annunzio e di Puccini!), autore almeno di un dramma storico, genere allora molto in voga, il cui più celebre esempio è la Francesca da Rimini, del D’Annunzio stesso. Veronica Cybo (si sa che su un soggetto dello stesso Olivieri fu fatto un film con tale titolo nel 1910 per la regia di Mario Caserini) doveva essere la storia della figlia del duca Cybo Malaspina di Massa, che sposò il nobiluomo fiorentino Jacopo Salviati, consigliere del Granduca Ferdinando II di Toscana: da lui tradita e sbeffeggiata più volte in pubblico dalla rivale, Caterina Brogi, la fece uccidere e fare a pezzi da un sicario. Scoperta ed esiliata, si ritirò in una villa di Figline Valdano, ove ancora aleggia il suo inquieto fantasma. La sua storia, resa nota trent’anni più tardi dalla cronaca del Conte Marbio, divenne un famoso feuilleton nell’Ottocento ad opera di Domenico Guerrazzi. Dunque una tragedia romantico-popolare in prima nazionale a Teramo, nella primavera del 1907; ma dove fu rappresentata? Il pensiero corre subito al Teatro Comunale, inaugurato, dopo anni di travagliata costruzione (di cui dà accurato resoconto Paola Ferella, L’Attività teatrale a Teramo in Adelmo Marino, Anna Maria Ioannoni Fiore, Carlo Ortolani, Musica e Società a Teramo da la “Cetra” all’Istituto musicale “G . Braga”, Colledara-Teramo Andromeda, 1999 ) nel 1868, quel Teatro che, abbattuto nel 1959, appare ancora oggi, agli occhi dei teramani, un “gioiello” da rimpiangere o per cui, addirittura, piangere (ancora adesso in alcuni articoli comparsi sul web, l’abbattimento è definito “esecrabile”, un lutto ecc.). Non è affatto così, ed proprio questa la vera notizia, accuratamente vagliata e supportata da indagini scrupolose sui giornali dell’epoca. Vale la pena allora di svelare “la vera storia” del Teatro comunale di Teramo, per porre fine ad una mistificazione colossale durata cinquant’anni, dal 1959, data in cui fu abbattuto, ad oggi. Dopo la fastosa inaugurazione del 1868, con Un ballo in maschera e Mara Robin, che fecero presagire chissà quali fasti di gloria per il Comunale, già nei documenti del 1888, risulta la necessità di “nuove uscite che sebbene di indole straordinaria e facoltativa (dotazione finanziaria per le feste civili in occasione delle esposizione operaia, messa in sicurezza del Teatro...) si rendevano necessarie” ( Luigi Ponziani Il Capoluogo Costruito, Teramo Edigrafital, 2003, p 290). Il Comunale, già venti anni dopo l’inaugurazione, aveva bisogno di essere reso “sicuro” : era pertanto, pericoloso. Le rappresentazioni di Aida (1903) e Manon Lescaut (1904), dovute probabilmente all’interessamento della società “La Cetra” (futuro Braga) che da fine Ottocento ebbe sede nell’edificio del Comunale, ed i cui docenti furono la colonna del Teatro, in quanto l’Amministrazione comunale “non sempre con puntualità annuale” deliberava stanziamenti per il Comunale ( cf. Ponziani, cit. p.321), non accrebbero nei teramani l’amore per il teatro, e la frequentazione del Comunale stesso, tanto che, ben presto, a Teramo sorsero a partire dal1906, altri (e molto più frequentati) luoghi di spettacolo, dalla “Sala Eden” di Corso San Giorgio (1906) all’Apollo (1912). Ci si chiede: che bisogno ce ne sarebbe stato se il Comunale avesse funzionato come luogo di attrattiva, di aggregazione e d cultura? La risposta è nei giornali dell’epoca. Nel 1907 (l’anno della prima nazionale di Olivieri), “Vita Abruzzese” (A. XII, n.1, 6 gennaio 1907) scrive di aver trovato, sfogliando la cronaca teatrale del 1906 a Teramo “poco o nulla da ricordare” e registra che “il teatro si apre per una sola volta all’anno, il pubblico è scarso”. Nel n. 2 lo stesso giornale informa che al Comunale vi sono rappresentazioni di operette, le stesse, della Compagnia di Piacenza di cui dà cronaca anche “L’Italia Centrale “ (A.X, 2 e 3 gennaio 1907), lamentando (12 e 13 gennaio) la scarsa affluenza del pubblico. Per i mesi di gennaio e febbraio 1907, al Comunale vengono rappresentate operette e pochades scadenti, ma già sul n. 27-28 marzo de “L’Italia Centrale” del 1907 si annota: “corrono voci sulla mancanza della stagione teatrale estiva”, mentre sul n. 27-28 aprile il cronista scrive “si parla della prossima apertura del teatro Comunale con opere in prosa ed operette”: dunque il Teatro aveva già avuto un periodo (di alcuni mesi) di chiusura, e riaprirà, brevemente, solo il 4 luglio. Il “Corriere Abruzzese” A. XXXIII, 6 gennaio 1907 scrive: “avremo dunque quanto prima, e riaperto, il nostro Comunale, Compagnie di operette...”; se ne deduce che anche prima del gennaio 1907 il Comunale avesse funzionato a singhiozzo. E non a caso, se uno spiritoso cronista de “L’Italia Centrale” scrive di aver avuto i brividi durante una rappresentazione, ma non per il dramma, quanto per il freddo glaciale del teatro! Molto pubblico si riscontra al “Comunale solo il 14 marzo 1907, per una serata di beneficienza. Anche il cronista del “Corriere Abruzzese” nel numero del 26 maggio 1907 annota: “sembra ormai accertato che, nella stagione giugno-luglio il nostro Comunale non riaprirà affatto”. Il Comunale resta chiuso fino al 4 luglio 1907, mentre i giornali registrano il crescente successo di un altro luogo di spettacoli, a Teramo: il cinematografo Muratori, dove si facevano Cinema e varietà. Risulta pertanto evidente che la “prima” nazionale di Virginia Cybo, di Riccardo Olivieri non è stata data al Comunale, in quanto, nella primavera del 1907 (la notizia di “Rivista Teatrale” è del giugno, la rappresentazione sarà stata di poco precedente), il Teatro di Teramo era chiuso. Dove sarà stata rappresentata l’opera? Evidentemente in provincia di Teramo (non è inusuale che la Rivista indichi il capoluogo al posto della cittadina minore, ma più attrezzata); presumibilmente ad Atri, dove c’era un Teatro coevo a quello di Teramo ma più curato e costruito meglio. Ma perché il Comunale restava tanto tempo chiuso? Non per mancanza di richieste da parte di impresari per tenervi spettacoli (cf. “L’Italia Centrale” del 6-7 aprile 1907), quanto per deficienze strutturali che, col passare degli anni si sono fatte sempre più evidenti e temibili, come dimostra una ulteriore ricerca effettuata, stavolta, per campione. Dopo il 1907, la crisi del Comunale si acuisce, anche per il sorgere dell’Apollo, dotato di confort e più frequentato dai teramani ma anche per l’affermarsi, come luogo di cultura e spettacoli della “Sala Eden “ di Corso S. Giorgio, in cui assai spesso alle proiezioni cinematografiche si alternavano varietà (cf. “L’Italia Centrale” del 1915, 17- 1 aprile, 22-23 aprile, 12-13 giugno, 15-16 settembre, 13-14 novembre), mentre del Comunale si ha notizia solo per la “grande serata patriottica con l’intervento dei soldati feriti” del 4-5 dicembre 1915. La situazione non cambia negli anni venti e trenta. Si sa che nel teatro si gela, manca l’acqua e qualche volta, si vedono topi. .“L’Italia Centrale” nel 1922 (25 maggio) dà notizia di una sorta di “questua”, una ricerca cioè di quelle che oggi si chiamerebbero sponsorizzazioni, effettuata da teramani di buona volontà affinché al Comunale potessero essere rappresentate opere liriche, ma con risultati nulli. Si arriva così, dopo la guerra, agli anni prossimi al “famigerato” abbattimento, anni in cui il Comunale, più fatiscente che mai, era stato adibito anche a Cinema, sebbene, ogni tanto, ospitasse rappresentazioni di opere liriche (l’ultima nel 1954, poi 5 anni di silenzio, come si deduce dall’esame de “Il Giornale d’Abruzzo” dal 1950 al 1959). Cosa era accaduto di preciso al “gioiello” di Teramo? La risposta è in un articolo, a firma Achille de “Il Giornale d’Abruzzo” del 3 luglio 1952, intitolato Lo sconcio del Teatro Comnale. Vale la pena di riportarne integralmente dei passi: “Se si parla di uno sconcio che fa veramente orrore, di un locale pubblico di cui Teramo non può non vergognarsi, è difficile non pensare immediatamente al Teatro Comunale...le manifestazioni artistiche che, a periodi lunghissimi si sono succedute hanno, poi, fatto in modo che certo stato di abbandono balzasse con inequivocabile limpidezza agli occhi non solo dei nostri attuali amministratori (?), ma anche agli occhi di qualche ministro o deputato, ospite di Teramo il quale...in tutto il tempo che sostò nel palco di rappresentanza, benché un po’ meno indecente degli altri palchi, non fece che meravigliarsi che Teramo...possedesse un teatro così maltenuto e così malridotto... Ma oggi, oggi che al comune si è insediata una nuova amministrazione, che cosa si intende fare? Lasciare forse che i forestieri...vadano diffondendo a tutti i venti che è più un cinema-magazzeno di sedie e accessori assolutamente indecente? Lasciare, e questa è anche colpa della Questura, che la povera gente...si logori il sistema nervoso nell’afa opprimente e nel serra-serra...domenicale che spesso ha le sue vittime (donne e bambini svenuti). Si sa che ogni a qualunque gestore riesce utile “insaccare”nella sala di proiezione più gente possibile, in barba a tutte le disposizioni di P.S. Lasciare che la gente, quella di riguardo che frequenta i palchi, si sorbisca il profumo assai “delizioso” proveniente dalle poco igieniche latrine o dai palchi stessi?...I giornali...hanno già fatto del rumore su questo stesso argomento, al quale, pare, non si è dato alcun peso....” E’ vero che il cronista del 1952 ricorda che il teatro è stato una istituzione cittadina e delle più gloriose; ma si sa che il passato appare sempre migliore di quanto sia stato davvero. Come si è visto, per il Comunale non c’è mai stato alcunché di glorioso. Costruito male, poco sicuro vent’anni dopo l’inaugurazione, nel 1952 era ridotto ad essere un grande corpo corroso dal cancro all’interno, di cui restava solo un involucro esterno. Abbatterlo era un atto dovuto, per la sicurezza dei cittadini. Restauralo? Partendo da dove se all’interno, dagli impianti idrici ed elettrici al riscaldamento, agli impianti igienici era tutto da rifare ex novo? Perché conservare qualcosa che i teramani non amavano, che non aveva mai assolto la sua funzione culturale, che era pericoloso come struttura, poco igienico e fatiscente? Né, risulta, fu considerato bene storico, architettonico o culturale di pregio dal Ministero, che pure, in una circolare mandata alle prefetture diffidava i Sindaci dall’effettuare demolizioni senza attenersi alle prescrizioni “in materia di tutela delle cose di interesse artistico o storico” ( “L’Araldo Abruzzese”, A. 54 (1958), n. 20 del 26/6/1958). Ora ci si chiede: la leggenda metropolitana del gioiello, dell’antico teatro, del delitto di abbattimento di un edificio antichissimo, cui prodest ? Essa appare frutto d un qualunquismo culturale prima che storico e documentario, tipico, purtroppo, della mentalità provinciale, abbindolata dalle capacità imbonitorie di falsi promotori culturali.
Id: 176 Data: 30/08/2009 10:23:00
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- Letteratura
1968: l’indifferenza della cultura ufficiale
Nel 1968, i venti della rivolta e del tentativo di normalizzazione, soffiano già dell’inizio. Il 5 gennaio all’Università di Torino, cento studenti vengono sospesi dagli esami per un anno proprio mentre Dubcek viene eletto segretario del Partito Comunista Cecoslovacco. Tre giorni dopo a Torino prima assemblea dei rappresentanti delle università in lotta e il 10 gennaio a Torino, gli studenti invadono Palazzo Campana, sede delle facoltà umanistiche del capoluogo piemontese per protestare contro un insegnamento considerato vecchio e classista. Il rettore ottiene l’intervento della polizia, e di lui gli studenti chiedono le dimissioni. Il giorno dopo a Madrid si hanno cariche di cavalleria contro gli studenti. Fino alla fine di gennaio nelle università da Pisa a Lecce, a Siena, a Firenze si susseguono le occupazioni, mentre la protesta si estende ai licei - capofila ne è il Parini di Milano - e vengono ratificate le espulsioni di Capanna, Pero e Spada alla Cattolica di Milano. Intanto un disastroso terremoto ha fatto 370 vittime nel Belice. Gli ultimi giorni del mese, mentre a Trento viene occupata sociologia, Viet Cong e nordvietnamiti sferrano la cosiddetta Offensiva del Têt contro province, distretti e città del Sud, considerate fino a quel momento zone saldamente in mano agli americani. Si creano le condizioni per la grande opposizione di massa alla guerra in Vietnam: è più evidente che gli Stati Uniti siano stati trascinati in una situazione da cui difficilmente potranno uscire almeno con dignità, visto che a una vittoria non è più possibile credere. Febbraio si apre con la vittoria di Sergio Endrigo a Sanremo, un cantautore impegnato, accanto a personaggi di primo piano della musica nera di quel periodo, come Shirley Bassey, Dionne Warwick e, soprattutto, Wilson Pickett e Earta Kitt. Quel Festival segna anche, almeno come autore, la presenza di Lucio Battisti. A metà mese, mentre 40000 a Parigi manifestano per la libertà del Vietnam, a Pisa viene chiusa a tempo indeterminato la Facoltà di Lettere. Migliaia di persone manifestano anche a Milano per la pace in Vietnam. Mentre A Parigi avvengono duri scontri tra studenti e polizia nel Quartiere Latino, le università italiane occupate sono già 27. Iniziano gli scontri tra giovani di opposte fazioni. Il primo marzo La “battaglia” di Valle Giulia è il primo scontro di piazza prolungato e su vasta scala tra studenti e forze di polizia. Pasolini tuona contro gli studenti: «Quando a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti io simpatizzavo coi poliziotti. Perché i poliziotti sono figli dei poveri». Gli americani, intanto bombardano i quartieri più popolari di Hanoi, provocando a New York la protesta di migliaia di pacifisti. Scendono in lotta i lavoratori per le pensioni e nello sciopero generale proclamato dalla CGIL per la prima volta agli operi si affiancano gli studenti. Il 10 marzo in una riunione tenutasi all’Università Statale di Milano, il movimento studentesco si pone l’obiettivo di scavalcare il sindacato e di intervenire in prima persona a fianco della classe operaia: prende corpo la solidarietà fra operai e studenti “uniti nella lotta”. Il 16 marzo piomba sull’ateneo romano, teatro di un’aspra contestazione studentesca, una spedizione punitiva di circa duecento squadristi, i Volontari nazionali, giunti da tutta Italia e guidati da Almirante, Caradonna e Turchi (tre dei più importanti leader del MSI) per sgomberare l’Università dalle “canaglie rosse” e per riallineare i gruppi studenteschi di destra alle tradizionali posizioni missine di difesa dell’ordine. L’episodio non è senza conseguenze, in quanto contribuisce in modo decisivo a innescare una profonda lacerazione nelle organizzazioni giovanili. Il 25 marzo migliaia di studenti raggiungono in corteo un sit-in davanti all’Università Cattolica di Milano, nella quale è in corso un’occupazione capeggiata da Mario Capanna, ma la polizia carica i giovani provocando numerosi feriti - l’azione sarà ricordata come il “massacro di largo Gemelli” - e procedendo a 60 fermi; altre 51 persone vengono denunciate a piede libero. La polizia a sua volta dichiara che 36 agenti sono stati feriti o contusi, mentre in Francia nasce il movimento del “22 marzo” animato da Daniel Cohn-Bendit con l’occupazione della Facoltà di Lettere di Nanterre da parte di circa duecento studenti. È l’inizio del Maggio. Sempre in marzo in Spagna il regime franchista impone la chiusura di fabbriche e università per arginare la lotta degli studenti e degli operai, e in Francia esce il film di Jacques Tati “Playtime”, feroce satira della società dei consumi. Intanto, il Presidente degli USA, Lyndon Johnson, pronuncia, in televisione, un importante discorso; due i punti salienti: l’interruzione immediata e unilaterale dei bombardamenti sul Vietnam del Nord a nord della zona demilitarizzata, e la sua volontà di non ripresentarsi alle elezioni presidenziali di fine anno. L’effetto dei due annunci è sorprendente e, contro l’opinione di Johnson e dei suoi stessi uomini, ancora più sorprendente è che Hanoi, soltanto pochi giorni dopo, risponde alle aperture del discorso dichiarandosi pronta a sedere a un tavolo comune di trattative. Il 4 aprile, a Memphis, Martin Luther King viene assassinato a colpi di pistola sparati dal bianco James Earl Ray. Nella notte tra il 4 e il 5 aprile 1968 il popolo nero degli Stati Uniti grida la sua ribellione e la sua rabbia: la rivolta è generale. A nulla servono gli inviti alla calma rivolti attraverso tutte le stazioni radiofoniche e televisive del paese da parte dei più stretti collaboratori di Martin Luther King. Trenta città degli States sono in fiamme e nelle prime ore del 5 aprile sono già trentanove le vittime cadute negli scontri con la polizia. I leaders del movimento per i diritti civili sono consapevoli della necessità di fermare quello che rischia di trasformarsi in un massacro, ma non hanno né la forza né la capacità di persuasione necessarie. La situazione è disperata quando sugli schermi televisivi di tutti gli Stati Uniti appare James Brown, l’esplosivo interprete di rhythm and blues idolatrato dai giovani della comunità nera. La sua voce è calma e tesa: «Fratelli, ieri hanno ucciso un uomo che ci stava guidando alla conquista dei nostri diritti e aveva fatto della non violenza la sua bandiera. Ora sperano che l’immenso fiume che lo seguiva si disperda in mille rivoli, magari più turbolenti, ma privi della forza che solo la calma e implacabile massa d’acqua del fiume possiede. Abbiamo il dovere di continuare la battaglia di Martin Luther King. Lo faremo se non cadremo nel tranello di chi vuole scegliere il terreno della violenza. Io vi invito alla calma e alla resistenza passiva. Siamo un grande fiume e nessuno ci potrà fermare». L’appello, rilanciato anche dalle emittenti radiofoniche, riesce a produrre il miracolo: gli scontri cessano in quasi tutte le città. Il 3 maggio iniziano gli Scontri tra poliziotti e studenti nel Quartiere Latino a Parigi, mentre viene chiusa la Sorbona, come l’Università di Nanterre. L’8 maggio iniziano a Parigi i colloqui per la pace in Vietnam. Ancora in Francia si estende la lotta degli studenti e degli operai: occupata la Renault mentre quasi tutte le università sono chiuse: il 27 maggio De Gaulle scioglie il parlamento. Intanto in Italia le elezioni politiche vedono un consolidamento del centro, rappresentato dalla DC al 39,1%, un arretramento della destra della compagine socialista e del centrosinistra, coalizione comprendente le forze socialiste e cattoliche. Il Pci guadagna, invece, quasi cinque punti rispetto alle precedenti consultazioni, sfiorando il 30% dei consensi. Avanzata anche del PSIUP. Il 2 giugno, la polizia a Roma entra all’Università e fa finire l’occupazione. Il 5 giugno all’Ambassador Hotel di Los Angeles Bob Kennedy, fratello di John e candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, incontra i suoi sostenitori per festeggiare la vittoria elettorale alle primarie. Durante l’incontro, vengono sparati colpi di pistola e Robert Kennedy è colpito a morte da una pallottola; l’assassino subito arrestato è di Sirhan B. Sirhan, un giordano di origine palestinese. Il 24 giugno in Italia il terzo governo consecutivo presieduto da Aldo Moro lascia il posto a un governo monocolore democristiano presieduto da Giovanni Leone, Si susseguono intanto manifestazioni e scioperi, con repressione della polizia ovunque: viene arrestato il leader della contestazione studentesca Franco Piperno. Il 22 luglio viene resa pubblica l’enciclica Humanae Vitae, in cui papa Paolo VI condanna ogni forma di contraccezione con metodi artificiali e ribadisce come legittima la sola sessualità coniugale a scopi procreativi. Nel disastro generale fa eccezione il settore musicale e della produzione discografica, che continua a essere trainato dal costante successo del marchio Beatles e dal lancio di alcuni giovani talenti, ma la solidità interna del quartetto mostra le prime evidenti crepe. Il 21 agosto in Cecoslovacchia le truppe del Patto di Varsavia invadono il paese mettendo fine alla Primavera di Praga, l’esperimento politico di “socialismo dal volto umano” condotto da Alexander Dubcek. L’azione di forza genera un diffuso clima di “resistenza” nella popolazione cecoslovacca, che si schiera apertamente contro l’intervento e utilizza tutti i mezzi posseduti dal governo per destabilizzare gli invasori. Intanto sono moltissimi i giovani che arrivano a Chicago nell’agosto del 1968 per manifestare contro il razzismo, per i diritti civili e contro la guerra del Vietnam. Le vie della città sono quotidianamente interessate da iniziative, cortei e manifestazioni. Molti sono gli artisti che portano la loro solidarietà, di giorno partecipando alle manifestazioni e la sera suonando in concerti come il Festival of Love, ma alcuni di essi restano anche vittime di episodi di violenza, aggrediti a pugni e calci sconosciuti che li insultano. Il 26 agosto, mentre Dubceck si arrende ed ha fine la “primavera di praga”, si svolge a Medellín la Seconda Conferenza Generale dell’Episcopato Latino-americano (26 agosto - 7 settembre), che affronta alcuni temi di notevole rilevanza sociale, dalla questione della giustizia a quella della pace, dall’educazione alla pastorale dei gruppi dirigenti, dalla povertà della Chiesa all’opzione preferenziale per i poveri. Il 13 settembre la Cattolica di Milano abolisce il diritto di espressione degli studenti; nel contempo il principe Junio Valerio Borghese fonda il Fronte Nazionale. L’atto notarile che sigla la nascita ufficiale del movimento ne riporta l’obiettivo principale: «Perseguire tutte le attività utili alla difesa e al ripristino dei massimi valori della civiltà italiana ed europea». Gli scopi del movimento, sintetizzati negli Orientamenti programmatici del 1969, mirano all’instaurazione di un nuovo ordine politico in cui il conflitto di classe sia eliminato a favore di una realistica e salutare collaborazione tra le categorie professionali, capace di garantire ai cittadini aventi in comune sentimenti patriottici una vita consona alle migliori tradizioni del popolo italiano. A tal fine, è necessario costituire uno Stato forte, con la soppressione di partiti e sindacati e in cui fondamentali sono il rispetto della legge e il riconoscimento del ruolo primario delle Forze Armate. Il comunismo viene identificato con il terrore rosso, mentre forti e frequenti sono i richiami a fronteggiare la minaccia comunista. Il 23 settembre a San Giovanni Rotondo muore il frate cappuccino Padre Pio. Il 2 ottobre a Città del Messico si svolge, intanto, una manifestazione studentesca per boicottare i Giochi Olimpici: la polizia e l’esercito sparano sui manifestanti con le mitragliatrici provocando centinaia di morti in Piazza delle Tre Culture. E’ il massacro di Tlatelolco; viene gravemente ferita anche la giornalista italiana Oriana Fallaci. Mentre il vento della contestazione soffia forte su tutto l’occidente il 12 ottobre 1968 a Città del Messico si aprono i Giochi Olimpici, dette anche “Olimpiadi di sangue” per i morti in Piazza delle Tre Culture. A novembre muore il leader greco Papandreu i suoi funerali sono l’occasione per una grande manifestazione pacifista. Viene Eletto Richard Nixon alla Casa Bianca battendo il democratico Hubert Horatio Humphrey: i repubblicani tornano alla casa bianca dopo dieci anni di dominio democratico. In Italia, il 14 novembre, sotto la pressione studentesca, il governo è costretto a riconoscere il diritto di assemblea in un disegno di legge. In dicembre, durante uno sciopero di braccianti la polizia spara ad Avola, uccidendo due contadini e ferendone oltre 80. Dilagano gli scioperi studenteschi. Il 31 dicembre 1968 il movimento studentesco decide di contestare l’inutile spreco dei veglioni di Capodanno e prende di mira “La Bussola”, il locale più alla moda di quegli anni. Fin dalle prime ore della sera convergono sul locale giovani provenienti da tutta la Toscana e dalle regioni vicine. Nei confronti degli avventori volano sputi e qualche schiaffo, ma la situazione, pur tesa, sembra essere sotto controllo. I contestatori, circa tremila, assediano il locale dove duemila persone hanno pagato un biglietto molto salato per festeggiare Capodanno con l’esibizione di Fred Bongusto e Shirley Bassey. La situazione sembra in una fase di stallo quando la polizia lancia una dura carica contro gli assedianti. La protesta degenera in scontri che durano tutta la notte. Il bilancio finale è di quattordici feriti, uno dei quali, lo studente Soriano Ceccanti, colpito da un colpo d’arma da fuoco alla schiena resterà paralizzato. Questo il duro contesto sociale di cui, tuttavia, la cultura ufficiale, sembra non tener conto. Nel 1968 il premio Strega è vinto da Alberto Bevilacqua, col libro L'occhio del gatto edito da Rizzoli. Bevilacqua, scrittore impegnato e intellettuale che da sempre avverte la frustrazione del suo ruolo, già nel 1962 aveva pubblicato Una città in amore su figure ed episodi della vita di Parma al tempo del fascismo, da cui si evince già lo sguardo che passa dalla cronaca alla realtà, al sentimento della vita. Nel 1966, due anni prima appena, era uscito il celebre Questa specie d’amore, da cui sarebbe stato tratto un film di successo, ed in cui un ruolo determinante aveva la provincia, un “luogo” di vita e di memoria, il solo che consenta un recupero della propria identità, anche se come egli stesso afferma, non emargina alcun errore. Questa specie d’amore, come appunto, L’occhio del gatto è più che altro una indagine esplorativa dei rapporti di coppia, sempre difficili, giocati quasi sul filo di una (im)matura ironia, nello scontro che oltre che caratteriale è sessuale e sociale, tra uomo e donna. Libero Bigiaretti, scrittore autodidatta, pubblica per Bompiani il romanzetto “La controfigura”, storia d’un’ossessionante e morbosetta passione clandestina con cui vince il Premio Viareggio «E contro gli andazzi correnti, contro l’attualità, contro la fresca e sporca spuma del nostro tempo, lo scrittore ha voluto riaffermare la forza, il fascino e la vitalità del ‘mistero’… ma se c’è un mistero dentro La Controfigura esso resta racchiuso nella stizzosa, contraddittoria persona del protagonista narrante. Sembra, costui, un uomo che abbia finito di illudersi, ma che voglia soltanto spiegarci, alla fine, di essere la sciocca vittima di una ancora più sciocca ingiustizia», commentava allora Cesare Garboli. La controfigura è strutturato in quattro parti: le prime tre sono ambientate durante un’estate, in un posto di mare tranquillo dove il protagonista (io narrante anonimo) e sua moglie Lucia, sono in vacanza. L’ultima vede, sullo sfondo, la Roma di fine agosto, deserta. I due sposi sono “nudisti, naturisti e salutisti” (p. 31). Nel 1968, l’insistenza su queste scelte esistenziali poteva disturbare più di un lettore. La coppia ha deciso, dopo tre anni di vacanze di gruppo, di partire da sola, in parte per la crescente misantropia di lui, ma un po’ anche per un crescente senso di disagio verso gli amici comuni. Lui è un uomo di trent’anni e si capisce che ha un segreto. Buona metà del libro serve a preparare il lettore al clamoroso colpo di scena: Nora, descritta come la donna che nell’ombra amava e sognava possedendo Lucia, è la suocera . Dunque egli possiede Lucia come controfigura, parte eppure estranea a quella realtà sentimentale che non può che vivere da solo. L’interposta evocazione sono le sue fantasie, erotico - sentimentali, è la sua incapacità ad affrontare la vita reale, la sua difficoltà di comunicazione: la sua nevrosi. Nel romanzo, un altro personaggio colpisce: è un solitario turista, che la coppia gioca a ribattezzare con una serie di nomignoli: sembra un beatnik, vagabondo dall’incolta barba e dall’aspetto trasandato; ha circa trenta anni e cattura senza difficoltà lo sguardo e i pensieri di entrambi. A Lucia ricorda la misantropia del suo compagno: il narratore lo descrive come un alter ego perfezionato: altissimo, gentile, educato e più giovane; emarginato volontariamente, e pronto tuttavia all’interazione e alla conquista. Con stile. Non la conquista che il lettore poteva attendersi – quella della giovane e seducente Lucia – ma quella che il narratore desiderava – ossia quella della matura Nora. Forse per smettere un vizio assurdo, anche lui: «L’unica cosa insensata che riconosco in questa faccenda è la sproporzione tra causa e effetto. Uno ha il vizio di fumare se fuma, io ho il vizio di te senza averti mai avuto». La sciocca ingiustizia è quella causata dalle convenzioni di una società ipocrita e benpensante: l’impossibilità di dichiarare per viverlo apertamente, l’amore per la madre della sua giovane moglie. Il male è tutto qui, nel non saper resistere a quello che, come una madre ossessiva ed onnipresente, la società impone e decreta, nella non libertà dell’individuo, che pure si sente attratto proprio dall’illegittimità sociale di ciò che vorrebbe non fosse nascosto. E’ il gioco dei tabù che tanto più sono tabù tanto più sono affascinanti ed attraenti. Dunque una contraddizione, che l’uomo contemporaneo perpetua mentre ne sente gli esiti come ingiusti. «Imputata spesso di eccessiva attenzione al privato anche là dove più urgente appariva la necessità di un impegno diretto sulla materia storico-politica del racconto, riletta nel suo complesso, con la dovuta attenzione e senza filtri preconcetti, l’opera di Bigiaretti si prospetta in realtà come un articolato profilo di storia d’Italia (…) puntato rigorosamente all’esame accurato di singole vicende solo in quanto emblematiche dei diversi momenti storici via via attraversati dal nostro Paese». E’ invece Silone, con L’Avventura di un povero cristiano a vincere il Campiello. Si classificano dopo di lui Arrigo Benedetti, Il ballo angelico, Carlo Castellaneta, Gli incantesimi, Luigi Compagnone, Capriccio con rovine, Pier Maria Pasinetti, Il ponte dell'Accademia . L’avventura di un povero cristiano è dedicato a Pietro Angelerio, eremita del Monte Morrone sulla Maiella, che divenne Papa col nome di Celestino V . Il libro di Silone, descrive in maniera toccante la figura di Celestino, che appare affatto diverso dal dantesco «che fece per viltade il gran rifiuto». Appare, piuttosto, Celestino V, un uomo coraggioso, che tenta di percorrere una strada difficile, un uomo intelligente ed umile, che capisce quali siano i suoi limiti e si ritira da un compito per lui inadatto, rinunciando al potere. Potrebbe trovarsi in quest’opera una analisi ben mimetizzata, un affiorare di temi e di pensieri da cui è percorsa, in quell’anno la società in movimento: Silone avrebbe potuto voler adombrare in Celestino una figura rivoluzionaria, facendo in modo che il messaggio restasse ben sottinteso. Certo è che Celestino è un uomo e un papa controcorrente, la Chiesa che sogna non è una superpotenza mondiale, giudice in terra del bene e del male, ma una guida morale per gli uomini ed un appoggio per i poveri. Bonifacio rappresenta il potere costituito, anzi, con espressione corrente “i poteri forti”. Si potrebbe leggere l’opera di Silone in una chiave sessantottina, proprio facendo leva sullo scontro tra la istituzione ufficiale e la voglia di rinnovamento nel senso di una nuova giustizia. Ma sarebbe, forse una forzatura: e comunque il messaggio finale non lascia scampo. Se Silone avesse adombrato lo scontro tra vecchio e nuovo in atto nel 1968, non avrebbe voluto lasciare margini ad alcuna speranza: l’istituzione, che ha dalla sua potere e danaro, vince sempre. Anche il movimento politico, del resto, sarebbe stato destinato a fallire. Nelle opere di Bevilacqua e Bigiaretti, di contro, la crisi della coppia, la nevrosi, l’ansia dell’uomo moderno: questi i temi, come se i due scrittori volgendo lo sguardo lontano dal sociale, avessero voluto indagare le cellule primigenie della società, in crisi anch’esse. La crisi di un modello di società, si potrebbe intendere, passa attraverso una crisi di ruoli e di sessi. Questo però è l’anno in cui Pasolini pubblica per Garzanti, Teorema, opera clamorosa parte in prosa e parte in versi già abbozzata nel 1965, che, sempre nel ’68 Pasolini comincia a trasformare in film; Teorema, in lizza per il Premio Strega fu ritirato dallo stesso autore . Protagonista è una rispettabile famiglia borghese formata dal protagonista, Paolo, gli studenti Pietro e Odetta, suoi figli, Lucia, annoiata moglie ed Emilia, una esclusa di razza bianca, come la definisce Pasolini, cameriera di origini contadine. Tutto, nella casa, si svolge con molto ordine e regolarità, in una scontata routine. Tale normalità è, però, sconvolta dall'arrivo di un ospite misterioso, alle cui origini e provenienza non si fa cenno. E’ bellissimo ed Emilia sarà la prima ad esserne affascinata specie dopo che in un isterico tentativo di suicidio viene soccorsa da lui. Ne nasce un rapporto che non è solo sessuale, e comunque anche da questo punto di vista desiderato da Emilia, ma intimo, di comunione spirituale, al di fuori di ogni abitudine. Via via tutti i componenti della famiglia, dal giovane Pietro, che dorme nella stessa stanza dell'ospite, a Odetta, a Lucia e infine a Paolo, il capofamiglia, conquistati dalla bellezza e dolcezza dell'ospite, hanno rapporti sessuali con lui. Finché, misteriosamente com'è arrivato, l'ospite partirà dalla ricca casa della famiglia borghese. Il cui ordine, però, è ormai sconvolto. Emilia torna nella cascina delle sue origini: torna a sedere sulla vecchia panca vicino alla porta, e rimane immobile, ferma e priva di qualsiasi espressione, fino a raggiungere un soprannaturale stato di santificazione. Odetta finisce in una casa di cura; Pietro continua a meditare su un dipinto che già aveva ammirato insieme all'ospite, e vi si accanisce sopra, mentre, Lucia percorre la città, in macchina, e si accompagna ripetutamente con alcuni giovani raccolti in strada. Paolo raggiunge la stazione ferroviaria, là si denuda (l'avrà già fatto anche simbolicamente, donando la propria fabbrica alle maestranze) e infine percorre, un arido deserto. L'ultima metafora, quella del deserto, e dell'urlo nel deserto che quasi più nulla ha di umano, riassume il messaggio del libro: una presa di coscienza dolorosa e drammatica, provocata da un elemento estraneo, (in questo caso, dall'ospite misterioso, la cui capacità di possesso fisico è a sua volta metafora dell'impossessamento dei pensieri e delle coscienze). Ma feroce è qui soprattutto la critica alla vita borghese, rispettabile, ipocrita e piena di nulla, che prima o poi qualcosa, come il sessantotto, appunto, è destinato a sconvolgere ed a mutare per sempre. Dopo l’arrivo di questo qualcosa nulla potrà tornare come prima. «Già nel ’68 Pasolini aveva riflettuto che impegnarsi non vuol dire nominare i grandi nomi dell’impegno, scrivere di negri studenti Cecoslovacchia, Vietnam, ma “riviverne, per analogia storica, la vita come esempio” . E due anni prima aveva dichiarato: “ecco il nuovo motto di un impegno, reale, e non noiosamente moralistico: gettare il proprio corpo nella lotta”. (…) gettare il proprio corpo nella lotta, cioè progettare un nuovo tipo di espressione, di cui la pagina scritta sia solo una parte e in cui la persona dell’autore sia un componente del significante. Fare della letteratura la “traccia scritta di un’opera vivente”. Ma perché, ci si chiede, un’idea così eversiva della letteratura Pasolini non l’ha esplicitata, scrivendo un testo teorico, un manifesto, qualcosa? (…) perché esplicitarla in una teoria avrebbe significato farne l’ultimo degli –ismi della modernità (…) invece la sua intuizione era che i giochi nella società stavano cambiando, che mentre la letteratura tradizionale (compresa l’anti - letteratura) era alla fine, le “strategie dell’espressione” erano a un loro esaltante inizio e non di “poetiche” si trattava più, ma di responsabilità sociale dell’artista travolto in un maelstrom di fluissi rappresentativi di crescente violenza». Si pubblica per la prima volta nel 1968 Il Partigiano Johnny, l’opera che Fenoglio, morto 5 anni prima, aveva lasciato incompiuta. Lorenzo Mondo ne cura l’edizione per Einaudi. L'opera è universalmente riconosciuta come il più sanamente pragmatico, originale e antiretorico romanzo italiano sulla Resistenza . Il partigiano Johnny è dunque un disadattato. O almeno lo diventa. A voler leggere il libro nella chiave degli avvenimenti del 1968 si scopre quasi un doloroso pessimismo, come se si anticipasse la “normalizzazione” che sarebbe seguita a quegli anni (si ricordi la scena in cui Johnny vede passare dentro un’auto lussuosa uno dei capi partigiani, quello che era stato il suo idolo). Ed ancora appare evidente nella scelta di pubblicare un testo pur così frammentato e, pertanto, ancora ampiamente discusso , lo spirito del tempo, la derisione di una società fondata sulla sacralità di un’esperienza, la Resistenza, che dopo la liberazione tanto aveva promesso e già negli anni 50 aveva evidenziato le sue crepe e fatto maturare disillusioni. Né era servito “il sogno americano” a dare un’identità ad un popolo ancora allo sbando; la mondanizzazione e il boom avevano fatto il resto, rinsaldando l’economia ma minando profondamente la pur rigida struttura borghese. La prosa tagliente e sarcastica di Fenoglio poteva dunque essere letta molto bene da chi di lì a poco avrebbe fatto della “morte ai padri” il suo slogan.
Il 68 è anche l’anno di pubblicazione da parte di Einaudi de Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante , un’opera solo apparentemente scanzonata, misto di poesia canzoni teatro e prosa in cui La Morante apre ad una visione del mondo che forse non deve essere difforme da quella dei ragazzi. Nel risvolto di sovraccoperta per Il mondo salvato dai ragazzini del 1968, anno, appunto, della prima edizione, Elsa Morante scrive: «È un’autobiografia. È un memoriale. È un manifesto. È un balletto. È una tragedia. È una commedia. È un madrigale. È un documentario a colori. È un fumetto. È una chiave magica». Ancora nel citato risvolto di sovraccoperta del 1968 la Morante si presenta così: «E. M. è tuttora vivente, e abita a Roma nell’unica compagnia di un gatto. Le sue amicizie (poche) le trova a preferenza fra i ragazzini, perché questi sono i soli che si interessano alle cose serie e importanti. Gli adulti, in massima parte, si occupano di roba trita e senza valore» . Eppure un filo di malinconia, una sorta di riflessione filosofica (forse sul destino di questa generazione?) percorre tutta l’opera. Marco Bardini, nel suo ricchissimo studio dedicato ad Elsa Morante, a proposito del Mondo salvato dai ragazzini, afferma: «Ogni uomo è “il punto amaro” del dolore, della separatezza e della morte; e il suo destino è quello di prendere coscienza di ciò attraverso la via della conoscenza; ma più la coscienza è rafforzata dalla conoscenza e più la sofferenza ne risulta amplificata (...) Il percorso della felicità e dell’allegria (follia) passa attraverso un sentiero del tutto alieno (...): l’illuminazione (...), [che] fa pervenire a una condizione in cui la coscienza si libera dal dolore (...) attraverso l’estinzione dell’illusione che esista l’io». Per Garboli è questo il percorso che si addice al poeta che deve «restituire agli altri la realtà intesa come il valore sempre vivo e integro che è nascosto nelle cose» , un impegno riletto dalla Morante in chiave del tutto sessantottina tanto che Pasolini parlò di un «manifesto politico scritto con la grazia di una favola, con umorismo con gioia» seppure il libro covasse nel fondo un qualcosa di «atrocemente funebre».
Non è un caso che proprio nel 1968 Einaudi ripubblichi Il compagno, il romanzo che Pavese aveva scritto nel 1947 . La storia di Pablo, un giovane torinese, è la storia di un giovane disadattato, che cerca, nell’ambiente proletario delle borgate di Torino, un senso alla sua vita raminga fatta di osterie e di dopo teatri. Ma in realtà il libro è la storia del rapporto dei giovani con la politica: nella prima parte, ambientata a Torino, Pablo vive la sua storia d’amore con Linda, una donna capricciosa che ben presto lo abbandona per il ricco Lubrani. Nella seconda parte, il giovane trasferitosi a Roma lavora in un garage gestito da una donna che diverrà la sua nuova compagna; qui entra in contatto con alcuni antifascisti e prende coscienza della necessità di lottare per la liberazione del Paese. Quello di Pablo è un esistere con gli altri, tutti operai come lui: nessuno è intellettuale, nessuno è eroe. Pavese stesso aveva scritto questo testo di presentazione: «il presente libro è la storia di un’educazione e di una scoperta. Come i giovani delle classi borghesi colte maturassero alla vita e alla storia negli ultimi anni del fascismo, ci è stato raccontato da molti. Resta a tutt’oggi da indagare come ci siano arrivati gli altri (i proletari e gli incolti). L’autore non s’illude di esserci riuscito, ma ha provato. Ha immaginato in questo libro un giovanotto piccolo-borghese scioperato e incolto (qualcosa di peggio che un proletario) e l’ha messo di fronte a certe realtà. La vicenda non è esemplare tutt’altro. Questo giovanotto ha le sue idee, i suoi privilegi, le sue libertà, suona persino la chitarra. Le sue avventure non dimostrano nulla. L’autore lo sa. Sono le avventure di Pablo. L’autore crede che un racconto non possa mai dare altro che le avventure di Pablo. Il mondo è pieno di Pabli, tutti diversi e tutti intenti a scoprire le cose. Che ciascun narratore ci dia conto di qualcuno d loro; quelli bravi ce ne allineino magari parecchi, in tanti bei racconti diversi. Penseranno poi i posteri a scegliere e decorare i più duraturi, e magari a trovare in uno solo di loro il campione del secolo» . E’ questo il romanzo di Pavese che più nasconde messaggi positivi; seguiranno Il carcere e La casa in collina, raccolti da Einaudi in Prima che il gallo canti, dove di quella volontà di crede nulla sarà rimasto. La posizione politica di Einaudi, di contro, dinanzi al comunismo resterà invariata sino al fatidico 1956 e ai “libri bianchi” che diverranno punto di partenza di un esame necessario. E’ ovvio, dunque, come Il compagno possa essere stato letto come perfettamente conferme al periodo; tuttavia va segnalata un’ulteriore ristampa effettuata da una Casa Editrice estremamente attenta ai fermenti del sessantotto: Conversazioni in Sicilia edito per la prima volta da Bompiani nel 1941 . Si tratta di un’ opera emblematica per la concezione della letteratura dell’autore convinto che scrivere consista nel ripetere una verità indispensabile e ripeterla: «perché qualcosa che continua a mutare nella verità mi sembra esigere che non si smetta mai di ricominciare a dirla» . Il libro è una durissima condanna di tutte le forze che minano la libertà dell’uomo, il fascismo in primis, oltre che una denuncia della condizione delle classi subalterne. Il tema del viaggio «poetico e morale» non è che il punto di partenza di un andare alla ricerca, come dimostrano anche i nomi dei personaggi dell’isola «L’uomo dalle arance», «Coi Baffi», «Senza Baffi» rivelatori di una condizione, secondo una modalità così cara al grottesco. E non sarà ardito accostare quest’opera a La guardia alla luna di Bontempelli dove pure ricorre il tema della maternità e di un viaggio assurdo eppure estremamente necessario. E forse proprio al grottesco bisogna pensare per comprendere il senso di questi anni “alla ricerca” sebbene dolorosi, al senso di frattura che più di ogni altra avanguardia seppero creare autori che non ribaltarono la logica borghese (come tentarono di fare i futuristi, cadendo nell’eccesso della teorizzazione) ma ne minarono le fondamenta. Se bene si fosse guardato, dunque, ai grotteschi sarebbe stato chiaro che un’onda come quella sessantottina avrebbe peccato di forza e di energia travolgendo ogni cosa ed in primo luogo se stessa. L’apatia e l’impossibilità di reazione della cultura ufficiale, del resto, non permisero di porre basi solide ad un movimento culturale oltre che umano. Oltre gli esempi addotti sarà necessario citare, in ultimo, il Premio Bancarella, che ricorda all’articolo uno del suo regolamento l’insindacabile giudizio dei librai come interpreti del vasto pubblico dei lettori, vinto nel 1968 da Isaac Singer, con La famiglia Moskat, edito da Longanesi. Al di là della complessa trama del romanzo sembra evidente come la classe media e i suoi interpreti siano ancora volti verso un periodo storico (la seconda guerra mondiale e i suoi echi) difficile da superare e ancora di più da ritenere superato. Una pagina di cui, probabilmente, non si voleva - più che poteva - segnare la fine e che richiedeva un’ attenzione sottratta quindi alle richieste di un altro periodo (la contestazione e i suoi sviluppi) che non si è mai voluto o saputo considerare in atto finché non è stato possibile studiarlo. Certo non saranno stati estranei a questo boom della letteratura dell’est gli eventi della primavera di Praga.
Id: 175 Data: 05/10/2009 10:17:17
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