I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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- Letteratura
Fedele Romani: la natura e il senso del sublime
“Mentre ora ricordo e scrivo , mi trovo all’ombra d’un faggio dell’Appennino toscano. Ai miei piedisi stende, piena di luce e di colori, la gaia pianura dove fiorisce Pistoia.Tutt’intorno mi conforta e mi saluta un pensoso profumo di fieno, che gli uccelletti sanno tradurre in liete note d’amore. Da una villetta vicina salgono, piene di visioni di luoghi, di tempi e persone care e d’indomabili speranze, le note d’un valzer. I monti che mi fanno corona non sono quelli del nativo Abruzzo; non hanno il loro sguardo terribile, quella faccia misteriosa; non sanno dire le loro sublimi parole: essi sono più miti e più gai; il loro linguaggio é più dolce e il loro abito più gentile. Ma laggiù lontano, alla mia destra, s’affaccia ardita un’aspra e nuda punta grigio rosata, che sari svegliarmi il più vivo ricordo di quella del mio superbo Monte Corno”. (“Colledara”). E’ con queste parole che l’illustre letterato Fedele Romani esprime le profonde emozioni che prova nel suo intimo dinanzi al meraviglioso spettacolo che l’Appennino toscano offre ai suoi sensi. Quest’ultimo, come d’incanto, rapisce l’eterea anima dello scrittore e lo conduce, con i suoi grigi colori , oltre i confini della pianura pistoiese fino ad abbracciare con il pensiero le sue care ed amate cime abruzzesi che tanti valori umani insegnarono a lui e alla suafamiglia. Il soave ricordo della terra natia che egli conserva nello scrigno segreto della sua memoria é rivelato nella descrizione del paesaggio naturale ove, mediante la tecnica del parallelismo, é possibile distinguere la pianura luminosa tipica della Toscana e la nudità delle rocce del Gran Sasso. Questo monte per Romani é il simbolo della grandezza umana, oltre che della maestosità del Creato, tant’é che nella sua opera lo paragona al “profilo di Napoleone” che egli poteva osservare nella litografia presente nello studio del padre insieme al ritratto di Maria Malibran. La contemplazione del monte abruzzese infonde, infatti, nei meandri della sua anima“un senso indefinito di poesia” e un indicibile stupore “per l’aria purissima che gli é dato di godere, e per la mirabili cose che può perennemente scoprire e ammirare”. Il concetto della Natura espresso dal Romani nell’opera “Colledara” risente fortemente delle correnti artistiche e culturali della sua epoca, in particolare del Romanticismo che, nato alla fine del ΧVIII secolo in Germania con il movimento Sturm und Drung, si diffuse poi in tutta Europa nel secolo successivo. Egli, infatti, nella sua produzione letteraria elabora un vero e proprio culto della Natura che venera come una Dea: i termini usati per descriverla appartengono alla sfera amorosa e richiamano i sensi della vista e dell’olfatto, probabilmente canali preferenziali dell’autore per l’elaborazione delle informazioni provenienti dall’esterno. Inoltre, particolare enfasi é data ai vocaboli che richiamano la maestosità e l’impetuosità proprie dell’universo naturale. Ciò che contraddistingue la visione dello scrittore é, sicuramente, il vitalismo e la profonda venerazione per il paesaggio abruzzese:il Gran Sasso “é vivo, e vede e sente”; “le stelle parlano” e “la luna sorride colla sua tonda e chiarafaccia” e “si confida con Monte Corno”. E’ importante sottolineare che nella meravigliosa opera del Romani emerge anche la personificazione della Natura, considerata come un individuo, un organismo vivente capace di interagire in modo profondo e spirituale con tutti coloro che incontra lungo il sentiero della sua esistenza. Questo artifizio letterario, in effetti, merita una particolare attenzione da parte degli studiosi in quanto nasconde una profonda verità che si sta affermando nel mondo scientifico contemporaneo, in particolare nel campo della fisica quantistica, la quale sostiene che ogni aspetto della realtà é in stretta relazione con tutto ciò che lo circonda, e “comunica” al di là della materia, dello spazio e del tempo che li separa. Intuizione, questa, che forse si era svelata alla mente sensibile dell’autore. Altro aspetto interessante della produzione artistica del Romani è il senso del Sublime che emerge con chiarezza e semplicità dalle pagine che descrivono il paesaggio rivisitato con la memoria e da quelle che raccontano i primi anni della suavita nel villaggio. Per lo scrittore abruzzese, la natura stessa nei suoi aspetti più terrificanti, come le cime della sua amata regione, diventa la vera fonte del Sublime in quanto, come sostiene Edmund Burke, "produce la più forte emozione che l'animosia capace di sentire", un'emozione generata dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall'oggetto. Di fronte alla magnificenza della natura, Fedele Romani e l'uomo in generale prova dapprima un senso di smarrimento, ma riconosce poi, proprio grazie all'esperienza del sublime, la propria superiorità: in quanto unico essere del creato capace di un agire morale, egli è collocato al di sopra della natura stessa e della sua grandiosità. La descrizione puntuale del paesaggio natio richiama poi all’intelletto del lettore attento e sensibile l’immagine del “Viandante sul mare di nebbia”, celebre dipinto di Caspar David Friedrich ed emblemadell’artista e del filosofo che avverte dentro di sé il sentimento del sublime: meraviglia e quasi sgomento di fronte all'immensità dell'Universo. Dal punto di vista meramente stilistico, il sublime stessoviene reso mediante espressioni che richiamano lo splendore del sole, i soavi profumi dei campi e l’amore, il quale fa vibrare le corde emotive dell’autore al ritmo dolce della vita. Emblematico il periodo in cui Romani descrive l’affetto che nutre per la sua famiglia ed il profondo sentimento che prova nelrimembrare la vita laboriosa che si conduceva nel villaggio natio: “vorrei saper esprimere tutto quello che ioimmagino, tutto quello che io vedo; vorreiscrivere la pagina che ho sempre sognato, ma non ho saputo mai scrivere; quellapagina in cui l’anima mia ha tante volte cercato di fermare le più musicali epiù divine sue vibrazioni”. Leggendo alcuni passi dell’opera pubblicata nel 1907 dall’editore Bemporad a Firenze si é trasportati nel suo mondo interiore, tanto che, grazie alla tecnica della narrazione in prima persona, spesso ci si confonde con il suo pensiero e con i suoi stati d’animo a volti velati di malinconia e a volte densi di comicità. Egli, infatti, é in grado di alternare termini aulici a dialettismi usati dagli abitanti del suo villaggio d’origine, facendo al contempo sorridere e riflettere coloro che fruiscono della sua nobile opera letteraria. Facendo un’analisi puntuale del testo “Colledara” emerge un altro interessante parallelismo che merita d’essere menzionato: quello tra la pianura pistoiese, la maestosità del Gran Sasso e l’animo degli abruzzesi. Questi ultimi, infatti, hanno in sé un innato sentimento volto verso la positività, la dolcezza e la gentilezza che richiama i brillanti colori della Toscana e un temperamento forte simile alla natura rocciosa della montagna che li avvolge tra le sue materne braccia. Infatti, l’espressione linguistica con cui i connazionali definiscono l’abruzzese é proprio “Forte e Gentile”. Non é un caso, dunque, bensì una coincidenza significativa, come direbbe Deepak Chopra, che la vita dell’autore si svolse prevalentemente in questi due luoghi così differenti tra loro tanto da essere complementari eparimenti venerati dall’illustre scrittore abruzzese. Uno scrittore che Giovanni Pascoli ricorda nei “Poemi Italici” insieme ad altri due amici, Giovanni Setti e Alfredo Straccali, definendoli “Santi cuori che non battono più. Nobili menti che pensano ancora. Dolci memorie che resteranno, sempre“.
Id: 419 Data: 02/12/2011 14:01:53
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- Letteratura
Alceste De Lollis: poeta tra dolore e speranza
“La mia favola ècompita, il mio dramma è all’ultimo atto, anzi, all’ultima scena, dopo la quale calato per sempre il sipario non avrò più a temere o a sperare fiasco od applausi in questo mondo. La morte è un passo che tutti aspetta; ed io sono sulpunto di toccarlo giù”. E’ con queste delicate e profonde parole che l’illustre letterato e filosofo Alceste Tito De Lollis descrive il suo malinconico stato d’animo durante il dialogo con il tipografo, riportato nella sua celebre opera“Ricordi poetici” edita nel 1887. Nell’anno in cui egli restituisce le sue spoglie mortali a Madre Natura a causa di “un morbo crudele,che tra spasmi atroci ed acerbi dolori” lo consuma lentamente, lo scrittore abruzzese decide di pubblicare i suoi componimenti poetici al fine di donare ai suoi figli, ai suoi amici e a coloro che leggeranno tale opera nei momenti d iozio e di noia “un qualche sollievo, un breve passatempo”. La genesi della sua ultima opera, che egli definisce sua “prole spirituale”, è piuttosto singolare: si tratta di una raccolta di memorie e documenti su fogli bianchi che all’origine furono cuciti dallo stesso autore e che poi furono trascritti su un librazzo, ovvero su un voluminoso quaderno così denominato “per la rozza rilegatura e per la rozzissimacarta, non segnata neppure di un rigo da andarci sopra colla penna”. E’ una vera e propria autobiografia che permette al lettore attento di esplorare imeravigliosi meandri della sua nobile anima e di fruire dei suoi segreti e soavi ricordi. Affascinante scrittore dalla misteriosa personalità ebbe un’esistenza contrassegnata da diverse difficoltà di natura economica ed esistenziale, tanto da definirsi “un uomo non povero d’ingegno per natura, ma posto in contrasto colla fortuna, quasi caduto fuor di luogo, non so se per errore della prima, o per malignità della seconda; onesto, ma sventurato; sofferente sempre, che senza invidia ai beati della terra, ama di preferenza i sofferenti, disposto a sentire ed a ritrarre idolori altrui non meno che propri”. Nato il 28 febbraio 1820 a Fallo, un piccolo paese della provincia di Chieti, dal Medico Cerusico Don Nicola De Lollis e Maria De Lollis, il critico letterario studiò al seminario della città teatina dove ebbe come maestro Don Livio Parladore, “ottimosacerdote ed insegnante efficacissimo, che sapeva eccitare e mantenere il fervore degli studii”. Il 1839 fu un anno molto particolare: il 16 ottobre apprese la notizia della morte del padre ed il 4 novembre quella della madre. L’anno successivo la famiglia De Lollis fu colpita da un altro lutto: la prematura perdita del fratello maggiore, “giovane d’ingegno, di buoni studii, di buonissima volontà e d’incorrotti costumi” che “colto precedentemente da lento morbo, sentì aggravarsi il male dopo la perdita dei genitori, e non poté ad essi più a lungo sopravvivere”. Dal 1843 fino al 1848 Alceste De Lollis visse a Lama de’Peligni, in provincia di Chieti, dove ricoprì il ruolo di istitutore privato presso la nobile famiglia di Nicola Madonna, “cittadino distinto, colto e dotto giureconsulto, italiano liberalissimo”. Durante tale periodo, precisamente il 15 agosto del 1843, apprese la morte di una delle sue sorelle e chiese ai coniugi Madonna di potersi ritirare per pochi giorni nella loro casa di campagna al fine di vivere e “digerire nella solitudine campestre questo nuovo lutto domestico”. Lo stesso giorno della triste notizia compose la poesia “In campagna con un vecchio contadino” in cui fece una delicata e filosofica riflessione sulla condizione umana. La vista di un contadino “curvo, lento, stanco oppresso sotto il peso dell’età” e “dalla marra consumato” per De Lollis è, infatti, fonte d’ispirazione per la meditazione sulla sua condizione esistenziale che, come un pendolo, oscillava “tra le tombe e le sciagure”. L’uomo agreste, pur essendo provato dalla fatica fisica e dalla senilità, “sente in core il piacere della vita” e mostra “ridente la pupilla d’una interna voluttà”. Egli, invece, sussurra al suo intimo queste emblematiche parole: “Ed io verde negli anni, ne la bella giovinezza, quando schiuso ai dolci affanni il cor destasi all’ebbrezza, senz’amore, senza affetti vivo giorni maledetti, vivo solo al disperar”. Ilsuo dialogo interiore si presenta agli occhi dell’autore come un quadro senza tela dalle tinte oscure: “Ma una lampada morente, una pianta inaridita, ma deserta, ma tacente scura valle è la miavita, cupo abisso, immenso voto, in cui regna eterno immoto solitario il mio dolor”. Il doloroso ricordo per la perdita dei membri della sua famiglia d’origine viene espresso anche nella dimensione onirica dello scrittore, il quale scrive: “Son miei sogni orrende forme, i miei sogni son le tombe, sono squallide figure, genti oppresse da sventure, contristata umanità”. Il soliloquio è ambientato nella meravigliosa campagna abruzzese dove si può ascoltare il dolce canto del vento e osservare la limpida luna che allieta con la sua presenza il notturno cielo, una luna che diviene l’interlocutrice del poeta: “E tu lieta in tuo chiarore non ti celi ancora, o luna? Sol mi lascia nell’orrore d’una notte bruna bruna tra le tombe e le sciagure, fra le squallide figure tra l’oppressa umanità”. Il temperamento malinconico di Alceste De Lollis trova una ragionevole spiegazione nella sua particolare esistenza e nella prematura morte dei suoi familiari, infatti, in una nota relativa al componimenti poetico summenzionato egli afferma con profonda sincerità: “Forse fui da natura disposto a malinconia; ma le tinte malinconiche sono ben diverse dalle tetre ombre, che in parecchie di queste mie poesie, in quelle che più riguardano me personalmente, mostrano un animo funestato. Ciò si spiega colle dolorose ed irreparabile perdita, onde fui colpito nella mia prima giovinezza”. Il periodo trascorso presso la famiglia Madonna fu particolarmente importante per il filosofo fallese, sia dal punto di vista della crescita personale che della produzione artistica. Durante quegli anni, infatti, egli scrisse numerosi versi per sublimare il suo profondo dolore e la sua struggente solitudine che era diventata, ormai, compagna d’ogni giorno. Nel1845 Alceste De Lollis compose una splendida poesia dal titolo “L’Usignuolo” in cui immaginò di dialogare con questo uccello “degl’infelici amico” a cui confidava i segreti della sua umile anima. Un tempo il suo soave canto era gradito al letterato, quando il cuore “traboccante d’affetti in un sospiro scoppiava!”… dopo la morte dei suoi cari, invece, esso diventò un “eco lugubre di funesto passato”. La sua presenza, infatti, risveglia nel poeta la sofferenza che egli esprime in questi emozionanti versi: “Oltre il confine d’esta vita deserta il mio pensiero tra le nere di morte ombre si caccia ed alle tombe de’ miei cari estinti fugge atterrito dall’infausto mondo, in quelle fredde ceneri chiedendo all’agitarsi del mio petto pace”. Per Alceste De Lollis l’usignuolo è, però, anche simbolo della rinascita a nuova vita e speranza in un futuro migliore in cui poter esprimere le proprie potenzialità artistiche e letterarie. La sua esistenza, infatti, conobbe una svolta evolutiva all’alba del 3 dicembre1847, quando lo scrittore fu nominato Professore di Filosofia naturale e Matematiche sintetiche nel Real Collegio de L’Aquila dal Governo costituzionale. Gli anni successivi furono particolarmente fiorenti per lui: dal 1852 al 1860 ricoprì la carica di Patrocinatore presso il Tribunale di Chieti; nel 1860 fu Ufficiale di carico nel Dicastero della Polizia di Napoli, Caposezione nel Ministero della Pubblica Istruzione, Delegato al riordinamento degli studi in Abruzzo, Preside del Liceo di Chieti e dal 1865 al 1876 in quello de L’Aquila. Fu Provveditore a Chietifino al 1877, anno in cui passò a Teramo. Alceste De Lollis, padre dello scrittore Cesare De Lollis, ricordato come celebre filosofo giobertiano, cittadino onesto ed attivo, fu legato a varie personalità risorgimentali del liberalismo meridionale,tra cui: SilvioSpaventa, Bertrando Spaventa, LuigiSettembrini e Vittorio Imbriani. Oltre alla sua attività di patriota del Risorgimento è ricordata la sua attività di letterato forbito ed elegante che lo portò ad avere rapporti di amicizia con illustri studiosi della sua epoca, tra cui: Niccolò Tommaseo, Alessandro Manzoni e la poetessa teramana Giannina Milli. Se, dunque, la giovinezza dello scrittore fu segnata da dolori che lacerarono la sua sensibile anima, la sua vita da adulto conobbe momenti di intensa gioia perle mete raggiunte. Egli trovò un dolce conforto nella natura, che donava alla sua mente intensi silenzi che stimolavano la riflessione filosofica, e nell’intima fede in “Colui che tutto muove”. Alceste De Lollis fu un letteratodalla misteriosa personalità, uno spirito che visse “d’un alterno moto tra la speme e l’timor”, un uomo che seppe apprezzare la vita con le sue infinite sfumature, con le sue luci e le sue ombre… Un illustre filosofo che concluse il suo testamento spirituale con queste emblematiche parole: “E quando, o per lo spettacolo delle cose umane, o per l’età cadente, o per altra cagione vi accadranno delle ore malinconiche, ricordatevi qualchevolta di me, e sollevando il pensiero da questa terra al cielo, innalzate a Dio una preghiera pel vostro moribondo o morto amico”.
Id: 413 Data: 25/11/2011 12:40:24
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