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- Arte e scienza
Limmagine e la sua complessità. Le macchie di Rorschach
Quello che segue è l'ultimo articolo sul mio blog, La Voce d'Argento; per gli altri articoli potete seguirmi qui. Struttura delle tavole e ipotesi artistica Lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach (1884-1922) pubblicò alcune immagini del celebre test sulla personalità nel 1921. Il test si fondava su dieci tavole che presentavano macchie d’inchiostro su una superficie: cinque tavole in b/n, due in nero e rosso, tre a colori. Le macchie non rappresentano nulla, oppure tutto: non si possono dire davvero astratte, sebbene per alcuni l’interpretazione le renda tali. Eppure nel test di Rorschach non è importante solo l’interpretazione dell’immagine (il “che cosa” è rappresentato), ma anche se l’immagine sia vista come ferma o in movimento; come siano state interpretate le eventuali sfumature; su quali dettagli si sia concentrato il soggetto; quanto tempo sia stato impiegato e molto altro ancora. L’interpretazione della forma, per esempio, comunica allo psicologo il grado di connessione del soggetto con la realtà. Il colore, invece, come ben descritto dalla tradizione di molte antiche civiltà, è connesso alle emozioni. Il movimento può evidenziare un bisogno di evasione, il desiderio di uscire da una situazione, la volontà di realizzare qualcosa: può indicare una persona con la tendenza a fuggire dalla realtà. Le macchie di Rorschach sono caratterizzate da un certo fascino, che le ha rese facilmente riconoscibili nei vari media, cinema in primis. Secondo gli studi di Richard Taylor, dell’Università dell’Oregon, il minor grado di complessità delle immagini evocherebbe un maggior numero di interpretazioni. La varietà tuttavia, benché ridotta al minimo, deve essere presente affinché la figura evochi effettivamente qualcosa di significativo. Non è un caso che la metà delle tavole sia in bianco e nero. Come è noto, in fotografia il b/n ha il pregio di “nascondere i difetti”, in molti casi di ridurre la complessità di un’immagine a favore dei tratti essenziali. L’artista giapponese Kazuo Shiraga potrebbe in qualche modo ricordare con le sue opere le tavole di Rorschach, così come molti altri artisti nipponici anche precedenti al Novecento. Ma si tratta con ogni probabilità di una coincidenza, forse con un piccolo punto di incontro: da un lato, le macchie di Rorschach invitano l’osservatore a leggere la figura e tramite questa lettura ad indagare se stesso; dall’altro, l’opera di Shiraga aveva valore soprattutto per il gesto compiuto dall’artista, quale esplorazione, talvolta esasperazione, della tradizionale ritualità giapponese, riflesso di una saggezza ormai quasi smarrita. Oppure, le tavole possono ricordare concettualmente un’opera come Abstract Painting (1960) di Ad Reinhardt: un dipinto puro, senza tempo, senza connessioni, disinteressato, con coscienza di sé. Eppure sarebbe ancora inadatto alla definizione delle tavole, che al contrario rispondono ad un interesse, benché risultino essere in una certa misura senza tempo e connessioni. Il critico d’arte Michael Fried presupponeva proprio questo in un’opera del genere: l’assorbimento visivo dello spettatore e la rimozione di ogni esperienza di temporalità, che – nel caso delle tavole – potrebbe consentire un’indagine dell’individuo smascherando le strutture successive ad un trauma o ad un determinato evento. In tal senso, le macchie sarebbero in grado di fare luce sull’individuo ponendolo di fronte ad un’atemporalità in cui ogni esperienza e sentimento appare come un tutto, quel tutto che descrive la nostra identità. Non si può quindi riconoscere le tavole di Rorschach nel solco della ritualità nipponica, né in esperienze artistiche come l’Espressionismo astratto o il Minimalismo, dal momento che esse evocano una complessità che proviene, certo, dal soggetto che osserva, ma che dipende da una precisa volontà di suscitare questa risposta. L’elemento che forse rende suggestive le tavole, che da un punto di vista artistico le rende belle, è la forma relativamente semplice e definita, nella quale si inserisce la giusta misura di dettagli. Sono – per così dire – forme dotate di una propria grazia, non complicata da particolari emotivi di alcun genere. Aspetto che per assurdo farebbe venire in mente una scultura neoclassica! Alla luce di queste riflessioni, si possono considerare le tavole un’opera d’arte? Per quanto ne sappiamo, non erano state pensate in questo modo. Non sono state “consacrate” dall’ambiente della galleria e il mercato non ne dà un valore specifico, anche considerando che non esiste un vero e proprio originale (aspetto però che nell’arte contemporanea può essere trascurato). Esiste d’altra parte una discussione sull’autorialità, non tanto in senso artistico, quanto di diritto, incentrata su chi possa usufruire di queste immagini a livello commerciale, vantando un qualche genere di esclusività. Ad ogni modo, non è necessario che un’opera d’arte venga concepita in quanto tale per esserlo a tutti gli effetti. Dopotutto, le macchie di Rorschach producono in chi le osserva molte reazioni tipiche di chi ammira un’opera d’arte canonica. Quindi abbiamo stupore, disagio, senso della bellezza, paura e repulsione, in generale l’evocazione di stati d’animo spesso contrastanti. In due semplici parole: fascino e suggestione. Quanto basta – almeno a nostro modesto parere – per considerare queste tavole anche da un punto di vista artistico. Segnatamente, analizzeremo vari aspetti all’interno dei due macro-sistemi di tempo e di spazio. Eviteremo il più possibile di presentare le nostre suggestioni personali (altrimenti, per assurdo, si correrebbe il rischio di divenire a nostra volta oggetto di studio), concentrandoci invece su alcuni valori oggettivi della rappresentazione. Prima di fare questo occorre però una precisazione. Le macchie di Rorschach sono state studiate affinché determinate forme e sequenze potessero produrre determinati risultati. L’obiettivo di questo test è di fare emergere la personalità prima di tutto attraverso lo strumento della vista. Per quanto queste immagini siano state elaborate in una mentalità scientifica, esse rimarranno sempre ciò che sono, appunto immagini, e come tali hanno in comune fattori (come linee, profondità, sfumature, tonalità, etc.) che le avvicinano a qualsiasi altra raffigurazione di tipo non scientifico. L’individuo e il tempo Il soggetto è dunque posto di fronte alle tavole. Il bianco e il nero aprono da subito ad una concezione duale, non necessariamente di conflitto, ma comunque di confronto. Per millenni si sono prodotte teorie sui colori e sul rapporto tra bianco e nero, non ultima la teoria di Goethe, che attribuì al b/n due valori qualitativamente differenti. Laddove Newton definiva l’oscurità come assenza di luce, Goethe asserì che l’oscurità interagiva con la luce come una polarità “opposta” (il termine è qui solo funzionale al discorso) alla luce stessa. Nelle macchie di Rorschach questo rapporto produce una serie di sfumature, quasi un chiaroscuro, in cui il colore puro è solo l’elemento di partenza, a livello concettuale, per un’elaborazione della forma tutt’altro che semplice e definita. Ed è proprio la forma, legata a quelle increspature di colore, a determinare il grado di sorpresa nell’osservatore. Il linguaggio non verbale diviene una chiave di lettura molto importante; espressioni e tic nervosi possono rivelare molto del rapporto tra il soggetto e la forma. Ma questa non è che un’indagine che agisce a livello psichico, non già propriamente interiore. Questo è chiaro nel momento in cui l’osservatore comincia a giustificare, a motivare la propria descrizione. In questo processo può intervenire o meno l’operatore, ma nel complesso risulta centrale il tempo impiegato dal soggetto a formulare una risposta; ciò ancora prima del contenuto di tale risposta. Pur in un contesto sociale che ha ormai quasi anestetizzato i sensi rispetto alla complessità interpretativa, la mente elabora ben oltre la nostra coscienza. Ecco dunque che il soggetto si trova di fronte ad una notevole complessità a livello percettivo, in cui operano diverse dicotomie, quali per esempio pieno e vuoto, luce e oscurità, incombenza e distacco. Il soggetto interpreta forme e colori attraverso il proprio stato d’animo e al complesso delle proprie esperienze, e nel fare ciò interpreta necessariamente l’immagine in un contesto temporale, poiché è nel tempo che si consolidano ricordi, traumi, sensazioni e aspirazioni. Come già descritto sopra, le tavole favoriscono questa attualizzazione di passato e futuro, aprendo ad una stratificata indagine di sé. L’individuo e lo spazio Secondo molti esperti, la tendenza a girare la tavola per osservarla in diverse prospettive è qualcosa di positivo. In effetti la forma muta, si arricchisce di aspetti nuovi e porta con sé un messaggio più completo. Tuttavia questa è solo una prima, possibile, esplorazione in senso spaziale delle tavole. Non si dovrebbe infatti escludere un’analisi della profondità, che può persino sfociare nella tridimensionalità, non tanto dell’immagine in sé, quanto del supporto impiegato per rappresentarla. Ecco allora che l’immagine può essere anche interpretata nel contesto dell’oggetto-foglio, quindi del materiale, dell’eventuale sostegno, dell’ambiente, del tipo di inchiostro. L’osservazione delle macchie porta così il soggetto nel vivo dello spazio e ne attiva tutti i sensi. Si pensi, per esempio, alla tipologia di carta (ruvida/liscia, nuova/ingiallita), al suo odore, al rumore che farebbe se fosse strappata con le mani e via discorrendo. Sono tutti fenomeni, questi ultimi, dal carattere mutevole, dipendente cioè dal contesto specifico oltre che dalla volontà del soggetto. In qualche modo, è un modo che il soggetto stesso ha di interagire con lo spazio e di accettarne alcune leggi, princìpi, regole. Così come di imporne di proprie. Alla luce di queste considerazioni, forse le macchie di Rorschach si avvicinano di più ad un’opera concettuale: le tavole rappresentano infatti ciò che è nel pensiero dell’osservatore e in modo molto impersonale tendono a plasmarsi in base alla sua volontà interpretativa. Così dunque, tanto nella prospettiva temporale quanto in quella spaziale, ciò che avviene con l’osservazione delle macchie di Rorschach è una circoscrizione. Abbiamo già affrontato questo aspetto nel discorso sulla settorialità (qui): l’uomo ha appunto la necessità di circoscrivere una parte del reale per poterla analizzare. Ne nasce dunque una categoria, che a lungo andare può divenire per esempio un campo specifico di studio. Più la categorizzazione diviene complessa, più sfugge il significato complessivo e ci si perde nel molteplice. Apparentemente, l’unico modo per ritrovare un senso nel caos che si è creato è quello di concentrarsi su una o poche categorie specifiche, costruendo su di esse la nostra particolare realtà, individuando però quello che è il significato complessivo. Nel caso delle macchie di Rorschach, le categorie mentali svolgono un ruolo fondamentale e proiettano l’osservatore in una realtà che ha significato solo se il soggetto è in grado di gestire il suo contatto con una forma specifica. Il problema, infatti, non è tanto la realtà che ci accingiamo a costruire, quanto il rapporto, o meglio, l’apporto (umano, etico, virtuoso) che intendiamo portare a quella specifica realtà.
Id: 2218 Data: 23/07/2018 10:23:31
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- Letteratura
Il fantasy e le sue razze da un punto di vista simbolico
Questa riflessione prende le mosse dalla lettura dell’interessante articolo di Luca Pappalardo, intitolato È tempo che il fantasy abbandoni le razze? (e che trovate qui, sul sito di N3rdcore). Ci siamo così confrontati con gli antichi miti e con il significato che essi hanno avuto nel contesto di una società tradizionale, per poi analizzare come questa eredità sia stata recepita nel presente. In tal senso abbiamo seguito l’articolo di Pappalardo per proporre ulteriori sfumature al suo discorso. In quanto al metodo, imposteremo il discorso non tanto in termini storici, quanto simbolici, altrimenti l’intero genere fantasy rischierebbe di perdere terreno rispetto alla realtà storica e sociale, con il rischio di subordinarsi ad essa. Al contrario, dal momento che riteniamo che il fantasy sia parte di un’eredità più antica (persino di origine sacrale), sosteniamo che quando esso sia cosciente del proprio passato e delle possibilità presenti, possa offrire utili contributi alla società stessa. Partiamo con ordine, analizzando il concetto di “razza” espresso dalla cultura fantasy. Innanzitutto, qual è la distanza tra reale e immaginario? Esiste un peccato originale del genere o siamo noi ad aver frainteso quella differenziazione, ormai troppo legati a discorsi politicamente corretti? Il concetto di razza è una categoria che nel fantasy determina l’appartenenza a Uomini, Elfi, Orchi e via discorrendo. Che si tratti di un dogma – come suggerisce l’autore dell’articolo – è un fatto successivo: in origine non era ritenuto tale, poiché esisteva la coscienza di un’esistenza non solo in senso orizzontale, ma anche verticale. Questa origine era di tipo sacro e coinvolgeva la sfera spirituale. Le dottrine sacre trasmesse oralmente hanno attraversato i secoli sotto due forme molto diverse: una forma sacerdotale, come quella conservata nella Bibbia o nei Veda, e una forma popolare rimasta orale fino ai nostri giorni e che si esprime nei racconti e nei miti, questi simboli incompresi. I contenuti delle leggende non sono, come si crede, favole infantili, ma un insieme di dati di natura dottrinale che celano la saggezza delle età antiche sotto una favola preservata, dalla sua stessa oscurità, da ogni deformazione. Queste narrazioni non provengono, come ipotizza una teoria di moda, da un inconscio collettivo, ma costituiscono una memoria ancestrale, una sovramemoria, si potrebbe dire, poiché questa memoria immanente forma il residuo incompreso di una coscienza antica. (Luc Benoist, L’esoterismo, Luni Editrice, Milano, 2015, p. 36) D’altra parte, in tutte le tradizioni si riconoscono temi iniziatici, che alludono soprattutto a qualcosa di nascosto (Benoist ricorda il soma degli indù, il sacro Graal, la Pietra Filosofale degli alchimisti e molto altro). L’eroe si mette in viaggio e può subire sfide e metamorfosi, di cui la più estrema è la morte, ma al contempo gli è concesso di interagire con il soprannaturale e di utilizzarlo come strumento. «È facile costatare che ciò che invecchia in un’opera, ciò che appare datato, è la sua “psicologia”, troppo legata alla classe sociale, ai costumi del tempo e alla sua storia. Ciò che invece resiste e che dura è la sequenza dell’azione, cioè quella dei riti. La storia d’un uomo, il suo cammino e la sua caduta attraverso gli ostacoli sono il soggetto eterno dei racconti e dei romanzi». (Benoist, p. 38) J. R. R. Tolkien non fu affatto estraneo a questa “ritualità” e a questo “codice” narrativo, tanto più che anche nell’àmbito della suddivisione per razze, viene definito come il punto di partenza simbolico da parte di Pappalardo. Lo scrittore britannico visse in effetti in un’epoca che era molto interessata ad indagare il legame tra biologia, fisiognomica e razza. Gli esempi sono molteplici: senza scomodare Cesare Lombroso, basti ricordare tra i tanti il cugino di Darwin, Francis Galton, che catalogò diversi ritratti fotografici nel vano tentativo di individuare gli elementi distintivi di un criminale. Dunque, questo razzismo ritenuto scientifico non indagava solo razze diverse, ma persino individui all’interno di una stessa razza, con la conseguenza di aggiungere un’ulteriore discrimine nella società. Se tuttavia tale era il background, scrittori come Tolkien attinsero a modelli e categorie che avevano una ragione prescientifica. Detto ciò, qual è l’obiettivo di questa categoria? Bisogna distinguere un prima e un dopo. E si può considerare l’Illuminismo come uno spartiacque storico. Abbiamo quindi ricordato che l’origine di queste figure (Elfi, Nani, etc.) risieda nel mito e nel folklore, declinato in varie forme (fiaba, favola, ma anche in forme legate ad altri generi come la letteratura odeporica). Queste creature rappresentano evidentemente un mondo “altro” rispetto a quello umano, in cui è coinvolta soprattutto la magia. Pappalardo cita a proposito lo scrittore e politico Joseph Addison, quando afferma che bisogna evitare di far parlare le fate come persone della specie umana, poiché è vero che questi esseri possiedono l’intelligenza, ma la applicano ad un altro contesto che non è umano. Era il 1712, l’Illuminismo doveva ancora affermarsi, ma la guerra civile inglese aveva posto le prime basi di una generale rivoluzione nel pensiero occidentale. Quando l’Illuminismo si diffuse, si ritenne che la ragione avrebbe potuto vincere le tenebre dell’ignoranza e della superstizione, coinvolgendo troppo spesso in queste categorie fenomeni che erano tutt’altro che ridicole speculazioni primitive. Nel caso del mito e del folklore, si trattava di un sistema di codici, di segni e di significati, da rapportare non solo all’esistenza terrena, ma ai diversi piani dell’essere. Tuttavia, nei secoli successivi, questa razionale distinzione ridusse le stesse “razze” soprannaturali a semplici metafore materiali, individuando in esse il nemico storico di turno. Se è vero che nel fantasy magico e umano rientrano in un medesimo discorso, questo – aggiungeremo – avviene proprio perché (se non altro in origine) vi è la convinzione che oltre all’Uomo possano coesistere ulteriori manifestazioni dotate di intelligenza. E che queste, esprimendo diverse caratteristiche della manifestazione, agiscono non solo in modo diverso, maappaiono all’Uomo anche in forme diverse. In questo senso, la distinzione “fisica” è riflesso di una funzione e non di una banale appartenenza di genere, come può essere quella di razza in àmbito scientifico. Giungiamo così ad affermare per vie diverse che il concetto fantastico di “razza” non esprime una divisione in sé, ma – se così si può dire – una distinzione di ordine “pratico”. Certamente, rimane un problema di fondo, ovvero la particolare connotazione assunta dal termine “razza” all’indomani dell’ascesa del nazismo. Ma – lo ribadiamo – nel fantasy questa distinzione esprime una caratteristica, una funzione particolare della manifestazione. Così, per esempio, otteniamo Nani dotati di maggiore forza, personificazione delle forze della terra, oppure Troll, simboli dell’aspetto selvaggio della natura. L’Uomo, invece, appare spesso caratterizzato in una molteplicità di forme, ma questo risponde a due ragioni: da un lato, l’accesso diretto alla propria forma, che permette di coglierne più caratteri; dall’altro, il fatto che l’Uomo – quale essere centrale nella manifestazione – non possa che risultare al centro di un discorso particolare come quello del fantasy (questo sempre in linea generale). Ad ogni modo, ritenendo che il mito e il folklore siano prima di tutto espressioni sacrali, siamo consapevoli che il fantasy – così come si è definito nell’ultimo secolo – sia stato circoscritto soprattutto all’espressione narrativa (nell’ampio senso a cui fa riferimento Pappalardo). Ancora una volta, però, giungiamo a conclusioni in comune, pur partendo da strade diverse. Nel fantasy, le diverse razze – in base alla loro specifica funzione narrativa – partecipano come strumenti alla trasmissione di un messaggio, che riguarda tanto l’essere umano nello specifico quanto la manifestazione nel complesso. Riprendendo l’esempio di Tolkien e dei suoi protagonisti Hobbit, egli si allontana solo apparentemente dal proprio antropocentrismo. Gli Hobbit, infatti, sembrano declinare un’umanità edenica, “fuori dal mondo” e per questo così pura e sincera in tutti i suoi aspetti di vita. Non a caso vengono chiamati spesso in modo dispregiativo “mezzuomini”, rifacendosi appunto ad una categoria fisica, esteriore, che viene respinta dagli stessi Hobbit attraverso la bontà e la determinazione delle proprie azioni. Almeno in tal senso, essi fungono dunque da modello all’umanità coinvolta nella sfida tra bene e male. In definitiva, nel fantasy non esiste alcun “peccato originale”, poiché il termine “razza” si rifà ad una distinzione che non ha nulla a che fare con la biologia e la scienza moderna. Mescolare questi due aspetti, al massimo, può essere l’errore. L’unico vero limite di questo termine, dunque, sembra essere di ordine sociale. Dal momento che il fantasy è sempre più partecipe del mondo, questo stesso mondo tende a reificarlo. Tuttavia, sostituire quel termine con altri come “genere” e “etnia” vorrebbe dire confermare l’idea di un errore originario dal quale invece sarebbe bene distaccarsi. Se il pensiero scientifico dovesse egemonizzare anche l’àmbito del fantasy, allora si ridurrebbe ancora di più lo spazio per poter trattare, anche in forma ludica e non per forza esistenziale, del rapporto che l’Uomo ha non solo con i sensi, ma anche con l’immaginazione e l’intuizione. Per poter leggere altri articoli e riflessioni, mi trovate come argyrosingh sui vari social (IG, fb, tw, Pinterest, Tumblr). Questo articolo è tratto dal mio blog, La Voce d'Argento (qui).
Id: 2171 Data: 01/06/2018 09:46:21
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- Esoterismo
Un libro lungo millenni
Il passato è innanzitutto una dimensione del tempo. Il pensiero dello scorrere del tempo si lega inevitabilmente a un sentimento, poiché tendiamo sempre a creare un rapporto con gli altri esseri umani, o con determinate circostanze (se non persino con gli oggetti), e a un livello materiale questo può accadere solamente in relazione al tempo trascorso, ovvero al ricordo. Questo legame è dunque consolidato dalla memoria, che è la nostra coscienza delle cose passate. Non sbagliò Italo Svevo, quando ne La coscienza di Zeno scrisse: «Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia». Storia e memoria sono infatti il simbolo del sentimento che noi proviamo verso ciò che è passato, sia a livello personale, che collettivo. Non pare infatti che possa trattarsi di altro che di sentimento; è facile, per esempio, tornare con la mente ad incontri significativi della propria vita, traendone un generale senso di serenità e di ottimismo. Da un lato è il ricordo in sé a provocare un’emozione che supera persino il dolore contingente di un avvenimento; dall’altro tali esperienze suonano spesso come un monito per affrontare il presente. Émilie du Châtelet, nel Discorso sulla felicità, non a caso afferma: «La nostra felicità non dipende soltanto dalle gioie attuali, ma anche dalle nostre speranze e dai nostri ricordi. Il presente si arricchisce del passato e del futuro». Certamente la speranza è una qualità che dipende molto dal vissuto particolare dell’individuo; per questa ragione, prima ancora di guardare avanti per tentare di realizzare i nostri progetti, il passato offre una maggiore possibilità di analisi critica. E questa analisi ci consente di creare dei veri e propri modelli, fondati su persone o su circostanze, che costituiscono dei capisaldi indispensabili per una maggiore coscienza. A patto però che il sentimento del passato non esca dai propri confini e scada in un particolare genere di sentimentalismo, che sarebbe persino più deleterio di una qualsiasi perdita di memoria. Il passato, peraltro, non possiede solamente una dimensione individuale, bensì anche collettiva, senza che tra le due entità vi sia una divisione netta. Dopotutto è proprio la Storia ad essere frutto dell’opera di singoli esseri umani, per quanto la loro coscienza e le loro idee siano sempre maturate almeno su una base storica, ovvero sulla relazione con l’esperienza di altri uomini. Lo stesso genere biografico è rintracciabile in qualche misura già nell’antico Egitto, nell’opera anonima Le avventure di Sinuhe. Ma questa relazione dice ancora poco rispetto a quella dicotomia tipicamente occidentale che vede da un lato la Storia come un’alternanza caotica di eventi; dall’altro, come una logica, di natura divina o prettamente razionale. Notiamo però che tale dicotomia è solo apparente e risponde – se così si può dire – ad un errore di “catalogazione”. Nel senso che la distinzione può sussistere soltanto in ragione di una mentalità post-galileiana: fu appunto Galileo a interpretare le Sacre Scritture secondo una visione storicistica, applicando il metodo sperimentale ad un contesto che però non lo richiedeva. E che infatti ne falsò i risultati. La logica che definiamo “divina” semplicemente non è sullo stesso piano di quella “logico-consequenziale”, intendendo dire con ciò che risulta sempre deleterio porre a paragone due elementi nettamente distinti e che anzi dipendono l’uno dall’altro. È pur vero che già prima del Seicento, in Occidente, esistettero i concetti antitetici di “caso” e “fortuna”, che di fatto portarono a quell’infinito dibattito storico che si protrae in parte ancora oggi (e rimarrà insoluto fintanto che si paragoneranno due ordini diversi di coscienza, l’una universale, l’altra meramente materiale e particolaristica, valida appunto per la sola concezione della Storia occidentale). Niccolò Machiavelli, ne Il principe, fece addirittura della fortuna una sorta di nemico da fronteggiare ad ogni costo con l’uso dell’ingegno: un caso emblematico del rifiuto rinascimentale e del moderno Occidente rispetto a tutto ciò che esula dal dato “scientifico”. E dove Machiavelli si limitava a riconoscere la fortuna come un’entità esterna al dominio umano e che andava per questo soggiogata, Francesco Guicciardini, che visse negli stessi anni del delegato fiorentino, nei Ricordi(numero 126), affermò: «La natura delle cose del mondo è in modo che è quasi impossibile trovarne alcuna che in ogni parte non vi sia qualche disordine e inconveniente; bisogna risolversi a torle come sono e pigliare per buono quello che ha in sé manco male». In questo caso, si riconosce che la “natura delle cose” presenta un ordine (sottinteso nella frase) a cui corrisponde in modo quasi inevitabile un disordine. La risposta di Guicciardini – che è comunque pervasa dall’ottimismo e dalle euforie rinascimentali – appare dunque più cosciente della realtà rispetto a un sentimento di supereroismo nei confronti di tale natura. Non a caso, con lo sviluppo di un pensiero marcatamente razionale, tra i due storici fu preferito proprio Machiavelli. Fu con il Settecento illuminista che la discussione intorno al caso venne vista attraverso lo sguardo onnicomprensivo della ragione: fortuna o non fortuna, la ragione era in grado di rivelare il significato di ogni evento storico, rintracciando la catena di cause che avrebbero condotto al progresso. Così Charles-Louis de Montesquieu, nelle Considerazioni sulle cause della grandezza e decadenza dei Romani:«Non è il caso a dominare il mondo. […] Vi sono cause generali, sia morali sia fisiche, che agiscono in ogni monarchia, che la elevano, la mantengono o la rovesciano; tutti gli accidenti sono subordinati a queste cause; e se l'esito di una battaglia, cioè una causa particolare, ha rovinato uno Stato, vi era una causa generale per cui quello Stato doveva perire per una sola battaglia. In una parola, l’andamento generale porta con sé tutti gli accidenti particolari». Morale e scienza (questo lo strumento per indagare le “cause fisiche”) sostituirono quel contenitore polivalente che conteneva termini come “caso” e “fortuna”. Bisognerà attendere in particolar modo la fine della seconda guerra mondiale, con il suo carico di morti e di atroci scenari, per poter affermare che l’Uomo non è in grado di ricavare alcun insegnamento essenziale dal passato. E questa era una risposta evidente fin da subito a chi fu in grado di individuare quanto limitata fosse una società il cui senso era costruito su un sentimento del passato, elevato a sistema con l’applicazione del metodo scientifico in questo particolare campo di studi. Ci si accorse dunque – ma quella coscienza fu troppo breve – dell’inconsistenza del progresso, ma di tutta risposta, anziché ritentare un approccio tradizionale, si preferì spingere scienza e morale alle loro logiche conseguenze: l’annullamento nella materia e nella relatività. Tutto divenne a tal punto accettabile che il guadagno, l’avidità e persino il distacco dal presunto messaggio della Storia (che quel tipo di società stesso aveva costruito per sé) furono accettati in nome di un nuovo racconto del progresso. Il secondo conflitto mondiale non aveva dunque risolto nulla. Che cosa si può ancora dire in merito? Vale la pena fare un po’ di chiarezza in tempi in cui tutto è bianco o nero o senza sfumature. Noi tutti possiamo condividere l’importanza della memoria, che offre al presente la possibilità di porsi in relazione con il passato (sia esso storico o mitologico), ma la preoccupazione è di un altro genere. L’Occidente, nella sua visione sentimentale della Storia (ché la storia del progresso non è affatto razionale, di una ragione pura), tende a distaccarsi dal dolore, privato e collettivo, per ricercare una nuova stabilità. Ancora una volta materiale, poiché piacere e dolore incatenano l’Occidente in questo sistema autoreferenziale. È il discorso che si delineava all’inizio: se è vero che, nel contingente, la nostra felicità di esseri umani dipende anche dai nostri ricordi, la mancanza di modelli effettivamente validi ha reso vana la ricerca di una felicità situata al di là di quel contingente e che lo includesse nella sua inferiorità. Così, nella società occidentale degli ultimi decenni, non si può dire che siano mancati esempi morali, per non parlare della miriade di “icone popolari”, che però sono appunto questo: immagini, riflessi, idoli (si noti l’ambivalenza odierna di questo termine, che sembra addirittura contenere un significato positivo, a testimonianza del livello di confusione che si è generato). Ma a tutto questo, anche nei casi moralmente ineccepibili, è mancato appunto un principio superiore, che riconducesse l’uomo fuori dalla sua prigione. Né si poteva sperare che in una simile condizione, questa società fosse in grado di individuare tali princìpi e di ristabilirli. Non per questo è impossibile tentare un nuovo approccio, benché il lavoro sia estremamente complicato e uno dei rischi sia di finire in una fase di stagnazione. In cui la retorica prenda ancora una volta il sopravvento in entrambe le parti: da un lato, aggrappandosi e svuotando di forza e significato parole come “libertà” e “diritto”; dall’altro, ritornando a predicare l’esasperata convinzione nel primato dei tempi. Quest’ultimo, banale emblema della nostra effettiva “dimenticanza”. Arrivati al nostro tempo, ci si aspetta una soluzione. E crediamo che queste parole, ancora di Guicciardini (Ricordi, numero 114), permettano di riprendere il discorso dove si era interrotto: “Le cose passate fanno lume alle future, perché el mondo fu sempre di una medesima sorte; e tutto quello che è e sará, è stato in altro tempo, e le cose medesime ritornano, ma sotto diversi nomi e colori; però ognuno non le ricognosce, ma solo chi è savio, e le osserva e considera diligentemente”. Se non si può dire che la storia sia esattamente ciclica, è però lecito pensare ad una sorta di spirale, che ritorna su se stessa e può crescere, così come recedere. Nell’attuale fase storica la seconda possibilità sembra la più vicina a noi. Stiamo infatti assistendo ad uno stallo nei campi della cultura umanistica; l’insieme dei problemi umanitari, dalla fame alle crisi socio-politiche, ci stanno conducendo a conflitti sempre più ampi; infine, anche nell’ambito scientifico, non ci troviamo più di fronte a grandissime scoperte o teorie rivoluzionarie, benché questo tipo di società dovrebbe suggerire ben altri traguardi nel settore. In questi termini si può forse parlare di una nuova forma di decadentismo, che dimostra come il progresso tecnologico non sia necessariamente correlato al progresso come umanità. Conoscere il nostro passato, di individui e di umanità, liberandolo però dall’ottica autoreferenziale del “progresso”, è anche un modo per creare una relazione tra noi e i nostri antenati che ci accomuni nello spirito. Quando anche noi saremo superati dal tempo che scorre, tutto ciò che lasceremo sarà un breve ricordo se non saremo stati in grado di entrare nella coscienza più profonda, al di là delle teorie scientifiche e dei dogmi moralistici. Ogni storia è in fondo un racconto del passato: abbiamo raccontato troppo a lungo della nostra caduta oppure della nostra presunta evoluzione, a tal punto che non possiamo permetterci il lusso di assecondare ancora questo rinnovato sentimento di decadenza fine a se stesso. Se questa riflessione è stata di vostro interesse, continuate a seguirmi anche sul mio blog, La Voce d'Argento, e sui seguenti social: Instagram @argyrosingh Facebook, Pinterest, Tumblr, Twitter: argyrosingh
Id: 2137 Data: 23/04/2018 11:22:46
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- Sociologia
La percezione odierna del male e dellorrore
Vorrei aprire una riflessione su un tema tanto vasto da non riuscire a vederne i confini, cercando non di risolvere la questione, ma di proporre un punto di vista. Per millenni l’essere umano ha discusso su quali fossero le caratteristiche del bene e del male; come questi due poli agissero nell’Uomo e nella Natura; quale peso avessero la predestinazione o una volontà superiore. La risposta maggioritaria è mutata a seconda dell’epoca, fino a giungere all’odierna percezione, nella quale il relativismo di vizi e virtù va per la maggiore. Nel dettaglio, vorrei discutere alcune caratteristiche tipiche dei mali di oggi e la concezione del dolore altrui, limitandomi ad alcuni esempi emblematici. L’immagine in sé non urtò la mia sensibilità, per quanto ebbi sùbito una sensazione di tristezza nel pensare che quelli che stavo osservando erano davvero dei guanti di pelle umana e che qualcuno era morto, probabilmente con atroci sofferenze, per quei guanti. Tutto questo mi capita spesso, passando dalla rete alla tv e ai libri: avviene tutto in un istante; è una sensazione, una percezione del dolore altrui. L’immagine mi trasmette questo e accetto di vederla nella mia bacheca, proprio perché rappresenta una realtà e uno stimolo emotivo. Ciò che ha mosso queste parole è stato un post su Facebook. La pagina in questione si occupa di condividere foto e altri generi di immagini che in qualche modo hanno segnato un’epoca e la coscienza collettiva. Nello specifico, vidi una fotografia di un paio di guanti in pelle umana del noto serial killer Ed Gein. Avevo già sentito parlare di lui e della sua macabra collezione; avevo anche letto di lui nel libro I serial killer. Il volto segreto degli assassini seriali: chi sono e cosa pensano? Come e perché uccidono? La riabilitazione è possibile? di Vincenzo M. Mastronardi e Ruben De Luca.
Detto questo, parlando di quel caso specifico, mi capitò di leggere i commenti. Quello in primo piano, con svariati like e reazioni, recava la scritta: “Emporio Ar-mani”. Seguivano i consueti commenti: “Tu hai vinto”; “Commenti Memorabili” e via dicendo. In un’altra occasione, era stata condivisa una foto di Leonarda Cianciulli, la donna che uccise diverse persone per poter ricavare il sapone dal loro grasso corporeo. I commenti più apprezzati erano dello stesso tenore. Nel primo caso qualcuno espresse il proprio disappunto nel vedere quelle immagini a loro dire “strappalike”, che ruotavano intorno al macabro e al sensazionale per ottenere visibilità. Eppure, personalmente, non me la sento di incolpare quella pagina piuttosto che altre. Le pagine propongono del materiale seguendo una linea (in questo caso le immagini che hanno segnato un’epoca) oppure in base a quello che i followers apprezzano di più, considerando reazioni, commenti e condivisioni. Ripeto: le pagine propongono; chi usufruisce di quelle immagini ha tutta la responsabilità di come le interpreta. Al massimo, è sufficiente smettere di seguire la pagina, se quello che condivide urta la nostra sensibilità; al contrario, nel caso specifico in cui si mostrino violenze e torture reali, si agisce di conseguenza, con segnalazioni e denunce. Tutto il resto dipende dal fruitore. Introduciamo quindi un elemento: il black humor. Esso tratta di quei temi topici (morte, malattia, sessualità, religiosità, etc.) e li schernisce senza filtri, con ironia, non tanto per l’argomento in sé ma per le declinazioni che quell’argomento assume a seconda dell’epoca. L’umorismo nero entra nelle paure, nei timori e nei dubbi, che appaiono come enormi e mostruosi, e li rende accessibili, a misura d’uomo. Il buon umorismo nero, però, non banalizza mai quei temi. Anzi, dopo averli esplorati sceglie se abbandonarli in quanto insignificanti (problemi apparenti) o se suggerire una soluzione per assurdo (problemi effettivi). Per alcuni può sembrare superfluo, ma vale la pena ricordare uno scrittore come Jonathan Swift e la sua A modest proposal… (1729), in cui per risolvere il problema della miseria e della sovrappopolazione, l’io narrante propone di usare i figli dei poveri letteralmente come carne da macello. Introdotto questo elemento, è tempo di interpretare i dati. Riconosciuto il valore del black humor, che cosa mi ha lasciato perplesso e deluso nel commento fatto a quei guanti? Probabilmente la consapevolezza che quello non fosse umorismo nero, non tanto per la mia (personale) concezione di un umorismo rivolto a uno scopo, ma per la superficialità oggettiva di quel commento. Che se mai aveva un obiettivo, era proprio quello di mettersi in evidenza con un gioco di parole sarcastico. Si entra però così in un tunnel senza via di uscita, dal momento che i social network nascono invece con la premessa di poter far esprimere chiunque su qualunque argomento, dandogli la possibilità di emergere, anche se per un solo istante. E sotto questa luce, ogni commento – superficiale o erudito – perde il suo carattere e le pulsioni della maggioranza determinano ciò che è condivisibile e ciò che è da deridere. A questo ragionamento si lega Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1905) di Sigmund Freud: l’umorismo, in particolare quello nero, non è altro che un modo per esprimere pulsioni (sessuali, ma aggiungerei il termine “esistenziali”) che il soggetto maschera appunto dietro il motto di spirito. Considerato che una parte dei social network si sta trasformando in un deposito di sogni infranti, desideri inespressi, violenza verbale gratuita e supremazia del qualunquismo, non posso stupirmi o sentirmi offeso da quel commento sui guanti. E se aggiungiamo che di recente la Medical University di Vienna ha posto in relazione umorismo nero ed alte capacità cognitive (aspetto che a prima vista non mi sembra in contrasto con Freud, ma può anzi integrarlo), ecco che forse mi sarei dovuto fermare a quando ho riconosciuto il valore oggettivo delblack humor. E chiuderla così. Ciò nonostante qualcosa mi sembra ancora fuori posto. Altri studi fanno presente che restare troppo tempo sui social network incrementerebbe l’infelicità. Ora, gli studi scientifici su questo tema sono forse un di più, visto che la coscienza di ognuno di noi è in grado di cogliere questo aspetto. In tal senso, quel deposito degradato – a cui abbiamo accennato poco fa – non farebbe altro che incentivare quella frustrazione che invece dovrebbe contribuire a eliminare a suon di libertà di questo e libertà di quello. Ne nasce un circolo vizioso, per cui chi si esprime è anche colui che legge le espressioni altrui e questo dialogo, diverso dai dialoghi fatti di persona, sfrutta l’ambiente per far fuoriuscire le pulsioni represse. Nessuno ha mai ragione. E se proprio si dovesse avere torto in una discussione, basterebbe rifugiarsi nel proprio profilo o nella bacheca, cercando un pesce più piccolo con cui confrontarsi. D’altra parte, a patto di non condividere un invisibile “codice di dialogo” (che pure esiste: è l’educazione), qualunque discussione sul web è destinata a degenerare nell’autoreferenzialità. Per concludere riprenderei quel “mantra” che ci ricorda che il problema non risiede nella tecnologia, ma nel come la si utilizza. La logica vuole quindi che in un’umanità che dà per scontata la differenza tra bene e male, quella superficialità abbia ripercussioni sui sistemi che crea. Al principio di questo scritto ho affermato di aver letto il libro sui serial killer di Mastronardi e De Luca; aggiungo la mia passione per gli horror e il fatto che segua molte pagine sul tema; infine, tra una lettura e l’altra, non manco di leggere libri con temi macabri, dell’orrore o anche solo angoscianti e sinistri (da alcuni scritti molto crudi di Pasolini a Stephen King, Chuck Palahniuk, etc.). L’orrore è negli occhi di chi vede? Quante volte seguo la campagna pubblicitaria costruita intorno ai film horror in uscita e quante volte i commenti ribadiscono la solita storia del “non fa paura per niente”, “e questo sarebbe un horror?” e l’immancabile: “Non ci sono più gli horror di una volta”. Certe volte hanno ragione, ma come chi punta sempre su testa e prima o poi la moneta cade nel verso giusto. In maniera indifferenziata, sembra che tutto ciò che è nuovo non abbia la dignità di esistere come forma d’arte, ma questo non è che un riflesso del vero problema. Ci siamo abituati alle stragi, alla morte, alle contraddizioni e abbiamo fatto di tutto un fatto personale, accumulando rancore, per cui il mondo era meglio quando eravamo capaci di provare emozioni. Anche il fascino per il male è relegato quasi sempre a maniera e ritorna stanca la questione sul perché personaggi come Charles Manson continuino a sopravvivere ai loro modelli reali. La risposta preconfezionata è la stessa utilizzata per l’umorismo nero: è un modo per fare, per dire quello che il “codice di dialogo” ci impedisce. Ma c’è di più. In un libro, in un film o in qualunque altra opera d’arte devo essere capace di distinguere. Posso immedesimarmi in una parte qualsiasi, ma ciò dovrebbe forse avere un significato esistenziale, anche molto semplice, che ci aiuti a comprendere il gioco delle parti, la relazione tra il bene e il male. Mi sembra di riconoscere l’orrore non negli occhi di chi vede, ma in chi guarda quell’orrore senza provare emozioni.
Id: 2055 Data: 25/01/2018 12:10:30
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