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La parola e la cura

Poesia

Valeria Serofilli
puntoacapo Editrice


Recensione proposta da LaRecherche.it

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Pubblicato il 30/11/2012 12:00:00

(I quaderni di Poiein, monografie di poeti contemporanei. Note critiche di Gianmario Lucini)

 

[ Recensione di Ciro Vitiello ]

 

Nel linguaggio della poesia italiana, e non solo italiana, vige una fenomenologia del lacerto, o latente o apparente o addirittura sotterranea, dal carattere mobile, variamente utilizzato. Il lacerto, o frammento, è un segno che transita da un testo a un diverso testo, portando con sé senso e memoria del tempo originario, per cui acquista un valore referenziale novello pur senza mai smarrire il primario contenuto. E tale fenomeno è parte integrante della cultura del poeta, capace di mimetizzare o di manifestare, secondo la sua teleologia di poetica. L’atto compiuto è comunque sempre cosciente ed è per questo che il frammento assume lo stampo del soggetto che lo utilizza. Tale premessa è necessaria per comprendere un moto ideologico e culturale che costituisce un tratto precipuo di certa scrittura della poetessa Valeria Serofilli. Si legga la breve lirica “Spazi”: “Mi urgono/interminabili spazi/in cui spiegar le vele/del groviglio di parole/che dalla mente/ vengono/ dipanate”. Qui vi sono tratti scoperti e altri solo accennati per suggestioni. Non c’è nessuno, infatti, che non percepisca subito l’eco sintagmatico che proviene dall’idillio più celebre del Leopardi, L’infinito, vv.4-5: “interminati/spazi”, il quale, a sua volta, accoglie la sintesi in memoria di un passo di Giordano Bruno da Gli eroici furori. Lo scenario della lirica contiene, analogicamente, una variazione che è modulata sul passo dantesco (“Per correr miglior acque/alza le vele, ecc.) e, impressionisticamente, su un testo di Campana. A rafforzo, si indica come Dante prenda dal Cantico delle creature di S. Francesco, Foscolo da Catullo, Leopardi dal Tasso, Carducci da Petrarca, per stare ai grandi del nostro passato. Tuttavia il gesto di Serofilli-  bisogna capire-  è di natura imitativa, quindi di accettazione passiva, che spegne il valore del frammento nella sua portata immaginativa oppure è in un’aura dal tono provocatorio? A primo acchito, sembrerebbe che l’uso del lacerto, in questa poetessa, sia ironico, calato in un ritmo riflessivo, di chiara coscienza di utilizzazione. È quasi una componente della sua poetica se, in una sua dichiarazione, scrive: “Sia sul versante lirico che su quello satirico, inteso in senso ampio, resta in me essenziale il gioco linguistico musicale del verso e la vitalità espressiva”. In questo scenario ottimamente registrato, la parodia di sé, del proprio essere nel linguaggio, sortisce, in fondo, una dimensione credibile e fattiva. E ancora, la poetessa, si smaschera, pudicamente, convinta che lo stato di responsabilità adduce a una scelta di campo e di indirizzo e, dunque, a ravvisare affinità e raccordi: “Indubbiamente Montale, oltre a Luzi, è per me un saldo punto di riferimento, anche se ritengo tuttavia che un autore, dopo un primo confronto, debba trovare un percorso personale in cui sia avvenuta l’interiorizzazione e l’utilizzazione del modello ispiratore nell’ambito di una propria espressione autonoma”. Ma prima di Montale, e ancor prima di Luzi, agisce Dante, che è presente un po’ ovunque nella linguisticità immaginativa di Serofilli (“e non ti curar di loro/ma vivi in ben altra controversia”, “Fuor di caverna”, composto da  fuor di e caverna “, e infiniti casi), finché non si approda a una massiccia regione, intitolata Dantesche, in cui tipologie prevalenti stanno i personaggi celeberrimi, coessenziali alla cultura italiana, quali Paolo e Francesco, Pier delle Vigne, Brunetto  Latini, Ulisse, Il Conte Ugolino. Ulisse, per esempio, rivisitato, volto oltre  il suo termine, è elevato a simbolo di un mai appagabile speculazione che vive, per traslato, nel seno della stessa parola quale fuoco della nostra perennità: “Assetato d’eccesso/spingendo il legno/oltre l’umano senso”. In fondo, chi ha intenzione di addentrarsi nella scrittura di questa poetessa, non può non tener presente, in itinere, che questo costume di composizione fonda la ricchezza perspicace del sentire poetico  tramite la rigenerazione di conglomerati precompressi con accorta


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