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Intervista a Nicola Romano, di Maria Gerace

Comunicazione di Nicola Romano
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Pubblicato il 20/08/2012 09:01:25

Nicola Romano, autore di una lunga serie di raccolte poetiche, nasce a  Palermo nel 1946, e tuttora vi risiede. In veste di giornalista pubblicista tratta argomenti culturali e sociali su diversi quotidiani e periodici. Il suo recente lavoro poetico, Gobba a levante (Pungitopo Editrice), rappresenta, rifacendoci alla definizione di Paolo Ruffilli che ne ha curato la Prefazione, «la mitologia del quotidiano» con le sue radicali contraddizioni. Vincitore di diversi premi e concorsi nazionali di poesia – “Rhegium Julii”, “Città di Como”, “Giorgio La Pira”, “Silarus”, “Poesia in Aspromonte”, “Antera”, “Emilio Greco” – ha, inoltre, attraversato l'Irlanda, in compagnia dell'attrice Mariella Lo Giudice e dei poeti Maria Attanasio e Carmelo Zaffora, ospite di diversi incontri di poesia. I suoi versi hanno raggiunto un grande successo e parte di essi è stata tradotta in lingua spagnola, irlandese e romena. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo.

 

Ne Il mio rione colpisce molto la bellissima quanto eloquente immagine che ci restituisci del tempo, un tempo che «smemora stagioni», «annerisce sulle case», e altrove si materializza come fatto di «giorni che immemori cadono e veloci». Con il trascorrere delle epoche, la percezione che di esso si è avuta ha subito una significativa accelerazione e una conseguente contrazione. Come giudichi quest'umanità impegnata nella sua folle corsa contro un tempo che sembra sfuggire a ogni tentativo di razionalizzazione?

 Qui bisognerebbe addentrarsi su concetti filosofici coi quali non oso, e non posso, confrontarmi. Quando diciamo “tempo” pensiamo a quello convenzionale fatto di ore, di minuti, di anni, non sapendo di trovarci dentro un sistema che prescinde da un calcolo di tempo tradizionale. Io penso che quello che veramente conta è il nostro tempo interiore, fatto d’innumerevoli scansioni dovute alle nostre aspirazioni e al nostro bagaglio emotivo e culturale. E’ risaputo che una vita non basta per poter realizzare tutto ciò che si vorrebbe, ma se sapessimo convenientemente sfruttare a pieno il gran dono dell’esistenza allora potremmo dire di aver passato bene il nostro tempo, perché a volte la pienezza può concretizzarsi in un’occasione, in un progetto, in un percorso, in un ideale. Un viaggio, qualunque sia la destinazione, non è solo questione di tempo, ma è soprattutto il “come” e il “perché” si affronta tale viaggio. Dibattuti sempre tra passato e futuro che non sono governabili, quello su cui possiamo agire è il tempo presente che purtroppo, per una serie di circostanze a noi ben note, sembra essere diventato anch’esso ingovernabile.

Mentre noi facciamo discorsi raffinati e che ci arricchiscono dentro, parallelamente scorre una parte di mondo che non sfrutta a dovere il suo tempo oppure che fa del tempo un’arma per prosperare economicamente, e pure in maniera spudorata ed arrogante. La concorrenza, la comunicazione mediatica, i “last minute”, il “prendi ora e paghi fra sei mesi” ormai sono operazioni che tendono a razionalizzare interessi di parte, ma che in definitiva concorrono a deformare ed a strozzare il tempo puro.

 

La comunicazione è quel processo che indirizza l'agire sociale; attraverso l'apprendimento della parola l'uomo, inserito nel processo comunicativo, interagisce, a diversi livelli, nella e con la società. Più volte nelle tue liriche valuti, giudichi e analizzi il senso, il peso, più in generale, il ruolo delle parole.

 

Generalmente, nelle conversazioni, Io sono di poche parole proprio perché assegno ad esse molta importanza, le ritengo un preciso veicolo per la diffusione del messaggio e penso, inoltre, che nella loro scelta esse debbano contenere la vera essenza di quel che si vuole comunicare sia a livello d’informazione che a livello letterario. Malgrado il pensiero sia così complesso da non poterlo esprimere per iscritto con adeguata corrispondenza, nella scrittura le parole escono dall’inconscio, quelle che vengono fuori non possono essere sostituite da altre, se arriva quella vuol dire che contiene la giusta tensione nonché i suoni e i segni di quel che si è maturato dentro e che s’intende trasferire. Io ho avuto il bene di ascoltare in privato le conversazioni del professore Giuseppe Cottone, morto in piena lucidità intellettuale all’età di 104 anni, il quale era un cultore ed un ammiratore del “logos”, di quella parola che chiede attraverso il poeta di ottenere un’esistenza nuova. In buona sostanza, si può addirittura asserire che a volte, a prescindere dai contenuti, l’intero paradigma di un testo, formato da un insieme di parole, può essere materia stessa di quella poesia, come diceva il poeta americano Allen Ginsberg.

Io guardo con diffidenza coloro che scrivono fiumane di parole e che magari pubblicano ogni due anni; il problema non è quello di scrivere poesie con belle parole ma di esprimere possibilmente poesia attraverso un processo che è difficile da spiegare e che comunque non autorizza a fare altrimenti. E, visto l’argomento, assegno molta importanza anche alla parte tecnica del testo poetico, perché un testo si va ad offrire agli altri e così come noi ci imbellettiamo prima di uscire da casa, anche una poesia deve essere resa gradevole dal punto di vista formale, senza eccessi comunque e senza mettere su una sartoria del verso.

 

Nella tua ultima silloge, Gobba a levante, vi sono diversi richiami alla memoria. Quanto forte è per te il nesso esistente tra memoria e “radici”, in riferimento al singolo individuo, a una generazione o all'intera collettività?

 

Io non sono per le raccolte a tema, ma riconosco che quest’ultimo libro contiene una base memoriale dovuta anche al raggiungimento di un certo stadio della vita in cui le rivisitazioni arrivano in maniera spontanea e naturale. Potremmo dire che l’esercizio della memoria rappresenta una vita sovrapposta a quella che praticamente si conduce, buona parte dei nostri giorni – specialmente quelli della mia età - la passiamo nel giardino della memoria anche perché essa, oltre ad accompagnarci ed a rappresentare un ambiente di ripescaggio, ci fornisce anche delle opportune istruzioni necessarie ad affinare quello che potrà essere il nostro futuro. E la memoria inevitabilmente affonda nel terreno su cui si sono sviluppate le proprie radici, intese come sviluppo complessivo della propria personalità. La memoria, e tutto quanto il resto dell’essere sensibile, si può dire che possiede una sua geografia connaturata all’ambiente fisico e culturale di ogni individuo, non disgiunta dagli accadimenti conseguenti alla condizione sociale ed all’epoca in cui si è vissuti. Il nesso pertanto è molto stretto: lo specifico ricordo si fa memoria attraverso il filtro del modo di essere di ognuno, fino a diventare memoria.

Oggi, però, sento più disgregata la “memoria collettiva”, ognuno sembra andare per strade diverse, e più difficile sembra instaurare un vero dialogo o un confronto che sia.

 

Ti servi delle parole e le plasmi in modo da suggerire al lettore delle immagini suggestive che comunicano la sensazione di vivere nei tuoi versi e di fare, attraverso essi, esperienza delle contraddizioni del quotidiano. Sebbene oggetto della tua analisi poetica sia una dimensione esistenziale frenetica contenitore di stress, interruzioni, sottrazioni, ansie il linguaggio utilizzato per la sua descrizione è, al contrario, pacato e riflessivo.

 

Nella sua sintesi il linguaggio risulta pacato dal momento che è stato mediato ormai dall’esperienza maturata negli anni. Agli inizi, quando la porta della poesia mi appariva invalicabile, molto robusta e quasi blindata, i miei versi risultavano più impulsivi, più taglienti (come fiamma ossidrica) e supportati da un linguaggio forse molto più sperimentale ed invasivo, ma col tempo i contenuti e le forme si sono andati delineando con maggiore chiarezza, la porta è apparsa più leggera e per la qual cosa la chiave da usare ha avuto minori dentature. E questo è stato riconosciuto anche da alcuni critici. D’altronde la parte difficile sta nel fare poesia con parole semplici, e in tal maniera ne guadagna pure la comunicazione che risulta più im-mediata.

Non si possono trasferire paturnie, schizofrenie e malesseri esistenziali in maniera eccessivamente personalizzata o gridata, ma occorre fare in modo che un’intuizione, appena descritta, possa diventare la più universale possibile, cioè fare in modo che gli altri si possano riconoscere.

 
Particolare attenzione riservi alle tematiche dell'assenza e dell'attesa. Che valore assegni ad esse e, soprattutto, può quest'ultima, nella sua paziente realizzazione, colmare il vuoto generato dall'assenza?


 
L’assenza è importante quanto la presenza, sono due modi diversi di vivere una condizione o una persona fisica. Vi è pienezza anche nell’assenza, dal momento che si mettono in moto dei meccanismi elaborativi tali da riempire l’eventuale vuoto sentimentale. Una presenza penso che dia spazio ad un senso esteriore, mentre l’assenza muova gli ingranaggi di un senso interiore. Riguardo all’attesa, penso che sin dagli inizi del mio versificare ho lasciato trapelare grossi spessori di attesa, all’interno della quale si ritrovano (e si devono ritrovare) pure segni di consapevole speranza. E in quest’ultima raccolta il prefatore, il noto poeta Paolo Ruffilli, ha proprio evidenziato i tratti di una mitologia del quotidiano che si svuluppa “nel segno delle felici sorti progressive di leopardiana memoria”. E l’attesa, in Leopardi, è un classico.

 

Nel mondo occidentale viene data grande importanza alla parola parlata, di contro la cultura orientale dedica molta attenzione al silenzio. Viviamo una realtà fatta di eccessi, tra i mali che affliggono le nostre società vi è anche un'esuberanza nell'utilizzo di parole non ponderate, responsabili dirette di notevoli incomprensioni. In Aspetterò con ansia tu parli di «dimenticare / il nome delle cose / [...] ricominciare dell'eden / con una nuova mietitura di parole» e in Penitenza definisci le parole «pellegrine dell'aria / acerbe e menzognere». Quanto è importante recuperare la dimensione del silenzio, del "mettersi in ascolto"?

 

E’ proprio così, oggi la parola risulta molto inflazionata, sembra avere perso il senso ed il proprio peso specifico e, come se non bastasse, inoltre viene stravolta e deturpata dalla pubblicità e dalla tecnologia informatica che ha contaminato con un abbondante lessico straniero. Per questi ed altri motivi oggi è molto problematico porsi in ascolto o saper ascoltare il prossimo, perché innumerevoli sono gli attentati, gli equivoci e le distrazioni che la vita ci propina, ma bisogna comunque non perdere l’abitudine a ritrovarsi con se stessi e con gli altri. E’ una questione, ormai, di sopravvivenza.

Il silenzio sta nel “prima” e nel “dopo”, è la migliore piattaforma da cui partire per iniziare ogni manifestazione umana, ma è pure la stazione di arrivo, il luogo in cui si esaminano i comportamenti e l’operato che è stato posto in essere. Non ci può essere azione senza un preventivo ed intimo silenzio e non ci può essere un resoconto senza il supporto d’una onesta disamina anch’essa silente. E la “parola”, intesa come prodotto finale di uno stato contemplativo, ha il dovere di rivelare la dimensione di quel silenzio che l’ha generata, così come la pausa che segue si deve sciogliere in una sorta di eco interiore, per verificare gli effetti della comunicazione inviata o ricevuta. Per non dire che anche un testo scritto contiene i silenzi dei passaggi da una parola all’altra, delle pause, dei puntini di sospensione, degli spazi bianchi  delle pagine…

Sappiamo che la prima cosa creata è stata proprio la parola, attraverso quel “fiat lux” che ruppe i segreti del cosmo, e quindi vuol dire che prima di essa c’era il nulla, le tenebre, il silenzio, e allora dovremmo recuperare tale stato primordiale per poi dare spazio alla “bellezza” che ne consegue.

    

I tuoi versi, con il loro incedere meditativo a volte quasi mistico, manifestano la dimensione della fede: che ruolo ha quest'ultima all'interno della tua poetica?

 

Penso che i percorsi che portano alla Fede in primo luogo, ed alla poesia in seconda istanza passino necessariamente attraverso una condizione di trascendenza, che si rivela indispensabile per tentare il raggiungimento di qualche possibile verità, anche se non assoluta, o per cercare i presupposti per un’auspicabile evoluzione spirituale. E per raggiungere tali traguardi viene in aiuto il processo della meditazione. Se devo proprio dire, non vedo e non sento misticismo all’interno del mio fare poesia, ma il tema religioso che appare ogni tanto fa parte di una mia presa di coscienza del fatto che dentro la religione cristiana vi sono grossi insegnamenti di civiltà umana. E siccome uno dei compiti della poesia deve essere quello d’inseguire un certo impegno civile, ecco che molte ispirazioni possono giungere inconsciamente da una dimensione “altra”. D’altronde la poesia vuole ricomporre armonie, vuole assemblare elementi dispersi e vaganti, praticare una specie di rilegatura che evoca il “relego” latino.

Per non dire che poesia e religione si mutuano la stessa grazia della parola.



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