Somiglia a me ma è nella figura
l’indizio che gli dà il nome e le pose
sulle spalle cose da pareti e tavolo e
sedie sotto, contate di nuovo, e sopra
un ricordo di natale in una stella che
non conta la coda ma dove cade, attenzione!,
benché in nessun caso prenderei
il doppio del vino che stona col rosso.
Lì si vede l’uomo e le cianfrusaglie
che lo avvalorano. Il tronco somiglia
al tronco, il capo reclinato è il mio capo
e da ciò dipende l’ordine in pianta stabile.
Fa ridere questo modo di descrivere
una vicenda dell’essere speculato.
Con due dimensioni mente in profondità
mentre le riflessioni permettono le fughe.
La prospettiva deriva dal punto di vista
delle rivoluzioni planetarie e delle rughe,
oppure peggio: da sarti industriali
e “calza a pennello” - detto dell’ago
che per grandi linee ha usato domineddio,
e non l’industria dell’avvento, concedendo
alla pelle la piega che ha preso per tempo.
Lo specchio è un doppiatore simultaneo
per il quale la voce non viene messa
in luce e, lì davanti, le fornisco gemiti
come già capita ad ogni doccia fredda.
Ora mi colgo da ponente nel vetro alluminato,
riprovo l’ansia mentre uno sbuffo sterile
sgonfia le fibre e mistifica il vero
come il sughero sul mio presepio:
da qualche parte ho lasciato gli addobbi,
stelle da soli - usque tandem - mi sento dire.
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