RUBEDO DELL’ALBA
UNA FALSA PARĀMPARA SENZA TESTO A FRONTE
(ritratto di Savitri a punto croce)
ERITREA
Gerard De Nerval
Zaffìrea colonna, arabo ordito
– Vieni – pippioni piangono un’idea:
da piede azzurro a fronte di granito
porporina si srotola Giudea!
Sul fiume se rivedi Benaréa
tendi l’arco in corsetto orobrunito:
ché l’avvoltoio a Patna s’allea
e con farfalle il mare s’è sbianchito.
Mahdèwa! Sull’acque flotte veliere,
libera ai tuoi ruscelli rosse antère:
scioglie l’Atlantico un Catai nevoso:
ma la Donna Scarlatta come suole
dorme ancora sotto l’arca del sole
e nulla turba il portico serioso.
Ecco il primo canto del primo libro di Savitri, il monumentale poema di Sri Aurobindo sull’attraversamento dell’Abisso…
Non allarmi l’intrusione suicida d’uno sprovveduto in un campo minato riservato a esercitazioni di bonifica poematica per più qualificati e dotti traduttori lirici italiani: non prometto ai rari e scelti lettori un’Alba più tersa e più Simbolica.
La tracotanza di voltare il blank verse mantrico di Aurobindo nel mio smorto endecasillabo italiano di terzo millennio, tutto ancora intriso d’accorate invocazioni a poetici, ineffabili “tu” novecenteschi, è poi – me ne rendo conto da oscuro artigiano della parola poetica – imperdonabile ripiego di disperato (non per natura né per simmetria) di fronte al proprio vuoto.
Il baluginio del lume sovramentale diviene tenebra se non che la fiammella poetica sia alimentata con olio soavissimo e non rancido. Line by line, day by day, l’approccio cognitivo possibile all’intraducibile secondo Mére (al secolo Blanche Rachel Miriam-Mirra Alfassa, compagna spirituale di Sri Aurobindo)… Ma alla prescrizione di tale ferrea disciplina non seppi e non volli attenermi.
Non è certo una traduzione fedele e tuttavia non riesco a trovarla del tutto malfatta, sono certo che ve ne convincerete se avrete la perseveranza e il gusto di ritrovare al suo posto il nome splendente di Satyavan al congedo dell’Alba a prefigurare il lunghissimo cammino iniziatico attraverso un poema galattico. Ma non è proprio neppure una transcreazione (in cortocircuito l’ispirazione sulle tracce di poeti assassinati): forzato lo sbarramento, ignorato il divieto d’accesso d’un incipit paragonabile, per tono incantatorio e oracolare, a quello dell’Endymion di Keats, fu solo tormento di lima impaziente su certi miei giorni febbrili fra i tanti d’oblio, quel che, novello Peter Ibbetson, mi tenne prigioniero d’un amoroso sogno esicastico per più d’un anno. Ché la passione non mi bastò e nel confronto fui stolidamente votato al fallimento del mio idioletto endecasillabico e nel corpo a corpo in cui agognavo di svelar la Dea, nudo mi ritrovai spesso io solo e vergognoso di fronte al pudicissimo corps sans organes della mia belle dame sans merci che, abbigliata come un’amazzone vittoriana, sdegnava di cavalcare un somaro, più fiera d’esser condotta dai nobili garretti del blank verse. Pure, l’aspra speranza di conquistarla, non mi risolse a centellinarle rasa aurovilliani, nell’intento d’inebriarla e destarla Titania all’amore per Bottom, ma, più familiari per me i sobri balsami d’assenza della viola del destino rispetto a quelli esotici, scelsi il rovescio del dhwani e dissi il non detto senza risonanza.
Oh mia Savitri, Savitri, Savitri … il brucia incensi è ormai freddo e ho ascoltato troppe volte mastro Nirodbaran recitare questo canto con la voce del giorno già fatto, al monotono rintocco d’una pendola. Aurobindo fu poeta di lingua inglese: avesse composto Savitri in italiano, il metro scelto sarebbe stato, senza dubbio, l’endecasillabo. Savitri sarebbe stato ugualmente mirabile e diverso, come scritto in lingua verde. Ma questa non è che la scusa d’un traduttore dilettante poco pratico delle sottigliezze dell’arte. Troppe e scandalose le omissioni e le libertà che mi presi per nutrire il mio ritmo. Nei miei viaggi per travasare il mare col mio guscio di noce, troppo si perse del suo sale sapienzale. Cosi, nigredo da albedo, poesia nera da poesia bianca, ecco che Savitri, l’alba d’ogni primavera, parafrasata a punto croce, non fu per me la Dea Bianca ma l’ombra ottusa e immota di Babalon sulle magie botticelliane dell’originale, in acromatico chiaroscuro... Resti a calcinarsi come un sentiero perduto della poesia futura, questa mia lattea fungaia cenerina, in cui la parola travestita s’è vuotata di luce per propiziare l’epifania del sole.
SAVITRI
(reloaded)
dm
da SRI AUROBINDO
prima parte
libro uno
canto I
ALBA ARCHEMATICA
L’ora gli Dei cullava in sogno ancora.
Per il sentiero dei divini avventi
l’immensa notte dei presentimenti
sola giaceva ove se stessa adora,
buia, protesa, immota sui Silenti.
Si poteva sentire opacizzare
in cieco impenetrabile cifrare
l’abisso d’infiniti corpi assenti;
un (α - ω) era quel mondo.
Potere del sé desto illimitato
caduto fin dal primo al niente in fondo
chiamando il grembo oscuro da cui venne,
via dal nodo insolubile natale,
via dal lento procedere mortale,
e di finir bramava in vuoto nulla.
Come in oscuro principio del tutto,
muta snervata parvenza d’ignoto,
permutando per sempre l’atto inconscio,
per sempre rivolendo non vedere,
cullava l’incolta cosmica forza
che mossa in sonno inventivo soleggia
e nostra veglia prende nei suoi gorghi.
Per l’estasi vana enorme di spazio
stupore informe senza mente o vita,
trottola d’ombra in vuoto inanimato,
respinta ancora in sogni non pensanti,
la Terra abbandonata in cavi abissi
smemorava il suo spirito e il suo fato.
E calmi, neutri e vuoti erano i cieli.
Nel buio allora s’agitò qualcosa;
un moto ignoto, un’impensata idea,
persistente, non paga, senza scopo,
punse il dormiente a destare ignoranza,
esser voleva e il come non sapeva.
Lo spasmo venne, tracciò un tremore,
si diede vuoto a vecchia stanca fame,
pace nel cavo suo demone illune,
poi trasalì per quella luce assente,
abbacinato dall’oblio dei giorni
come chi cerchi l’inganno d’un tempo
e trovi il corpo della verità.
Come se anche in questo profondo nulla,
anche in quest’ultima dissoluzione,
irrimembrante un’entità scrutasse,
pegno d’un passato morto e sepolto,
dannata a riesumare morso e sforzo,
ravvivandosi in nuovo mondo vano.
Una coscienza informe scelse luce,
sognava vuota mantica altra scelta.
Come un dito bimbesco sulla gota
a rammentare il bisogno infinito
alla distratta madre universale,
volle la vasta oscurità l’infanzia.
Invisibilmente un varco divenne:
incerta tinta lunga e solitaria,
un sorriso dei deserti d’amore,
turbò la vita in sonno nel gran cerchio.
Venuta d’altra riva d’assoluto
la visione passò di muti abissi;
un’avanguardia tattica solare,
bloccata in una cosmica bonaccia,
in stanco mondo torpido e malato,
un angelo cercava desolato
memoria di felicità sepolta.
Intromessa in un sistema insensato
il suo messaggio disserrò il silenzio
gioia e coscienza chiamando avventura,
e conquistando la nuda natura
di nuovo a dire sì costrinse i sensi.
Un pensiero del vuoto irradicato,
un senso nacque nell’oscuro fondo,
a memoria tremò, cuore del tempo
come un morire antico rianimato:
ma l’oblio che segue alla caduta
sbiadito avea le rune del passato,
e da rifare era quel ch’era distrutto
ed esperienza avere d’innocenza.
Tutto può darsi con divino tocco.
Appena viva una speranza osava
nella notturna afflitta indifferenza.
Al modo che diverso amor richiede
timido azzardo d’una grazia innata
d’un orfano scacciato desdichado,
nomade meraviglia senza tregua,
divenne un angolo lontano in cielo
d’un flebile ieratico prodigio.
Trasfigurò la nera quiete inerte
al lungo brivido del tocco arresa
e di beltà stupì celeste il campo.
Pallido in mano a lucívago incanto
l’orlo di fase in dissolvenza ardeva,
d’oro coprì, su cardine d’opale
l’uscio dei sogni schiuso sul mistero.
Luceva una finestra sull’occulto,
cieca l’immensità forzò a visione.
La veste d’ombra scivolando cadde
dalle divine membra in abbandono.
E da tenue fessura che pareva,
da cui stentava un rivolo stellare
sfogò la fiamma e la rivelazione.
Breve iterò lassù l’eterno segno.
Incanto di mancate trascendenze
iride d’un tripudio mai veduto,
messaggio d’ignota luce immortale
giunto tremando in fiamma a creazione,
magnifica aureola fece l’alba
e l’ore inseminò col suo splendore.
Divinità brillò per un istante:
per poco non viveva la visione
e scese a coronar l’assorta sfera.
Rendendo un’arcana beltà beata
in cromatica mistica di glifi,
si delineò l’archematico mito
narrando un grande spirito d’aurore,
un codice dei cieli illuminato.
Quel dì l’epifania fu quasi schiusa
nei cui chiari senhal si pensa e spera;
fulgor deserto da sfuggente meta
sul vano opaco quasi fu scagliato.
Un altro passo ruppe il vasto vuoto;
centro d’infinità, viso in samadhi
ruppe gli eterni sigilli del cielo;
le Encantadas prendevano forma.
Nunzia dell’immutabile mutare
scese la Dea sapendo le distese
avvolte ai giri fissi delle stelle
e spazi vide sgombri al suo cammino.
Si volse a sbirciare il sole velato
poi pensosa al suo lavoro immortale.
Sentì la terra appressarsi l’Eterna,
udì suoi passi la natura insonne,
ciclopica vastità la guatava,
e sparso al buio il lume, il suo sorriso,
il silenzio all’incendio, i mondi accese.
Divenne una consacrazione, un rito.
L’aria in cerchio vibrò fra terra e cielo;
inno sull’ali un vento ierofante
si levò, morì sull’ara dei colli;
il blu svelava alti rami in preghiera.
Qui dove in penombra sfioriamo abissi
sul seno muto della terra ambigua
dove l’ignoto è passo dopo passo
e il vero siede in groppa al dubbio oscuro
sul campo incerto ove affatica angoscia
che fissa qualche vasta indifferenza,
teste imparziale di gioia e di pena,
sul suolo prono s’irradiò il risveglio.
Qui pur visione e il profetico lume
forme insensate in miracoli accese;
divino il soffio, poi stanco cessò,
in dissolvenza da spazi mortali.
Un sacro struggimento fiutò l’orma,
una presenza adorava, un potere,
troppo compiuti al cuor dei morituri,
di meraviglia a nascere presagio.
Breve d’un dio la fiamma può sostare:
l’animante beltà ci dà la vista
e dà passione occulta alla materia
e di colpo disfà l’eternità.
Quale anima in precorporea soglia
giungendo mortal tempo al senza tempo,
favilla di deità sepolta in zolla,
vanisce in piani inconsci il suo splendore,
sì transitorio ardor di fuoco mago
ora solveva in aria usata e tersa.
Finì il messaggio e l’angela disparve.
Uno il richiamo, il poter solitario,
ad un segreto mondo si ridusse
il color di radiosa meraviglia
che gli occhi dal moribile distolse.
Per sua natura oltre misura bella,
dea più non tenne lo scrutar del tempo;
vero mistico eccesso per lo spazio
il suo corpo di gloria il cielo escluse:
non più viveva il prodigioso e il raro.
Fu il comune terrestre far del giorno.
Destato dalla tregua alla fatica
di nuovo il rombo del corso vitale
cicli di cieca caccia ad inseguire.
Si slanciò tutto al vivere invariato;
le legioni dell’albero e del suolo
all’istinto ubbidienti dell’istante
e, qui signor con la sua mente incerta,
solo a fissar le maschere a venire,
l’uomo levò la soma del suo fato.
Savitri pure si svegliò tra loro
che s’affrettavano al fulgido coro
- era l’esca bellezza d’apparenze -
festanti ad un boccon di breve gioia.
Simile a eternità da cui veniva,
all’esile piacer non prese parte;
possente tra gli umani ma straniero,
non rispondeva l’ospite incarnato.
Il richiamo che desta l’intelletto
all’avido suo moto ed incalzante,
l’illuso iridescente desiderio,
in cuore le suonò dolce ed alieno.
A lei taceva il lampeggiar del tempo.
In lei c’era l’angoscia degli dei
presi in matrice umana transeunte,
vinta immortalità dal deperire.
Sua antica gioia sovrannaturale
non conservava l’oro celestiale
o fondamento sul terreno frale.
Stretto sul temporale abisso un moto,
negò possanza la piccina vita,
magnificenza e quiete e voluttà
da lei portate nell’umana forma,
calma delizia d’animale unione,
chiave di porte d’estasi fiammanti.
Terrestre rosa d’Aquila e Leone
non volle eterno il rapimento in dono:
in dono ebbe la figlia d’infinito
il suo fior di passione: amore e fato.
Ora splendeva vano il sacrificio.
Ricca munifica divinità
per gli uomini era tutta sua natura,
più vastità sperando dall’innesto
che nei viventi corpi s’acclimasse
per dare un cielo innato al mortal suolo.
Sordo è il cuore d’argilla da plasmare;
morto lo fa l’eternità del tocco:
teme divina pura impazïenza
di quell’assalto dell’etereo fuoco.
Si lagna dell’atarassica gioia
quasi in odio ne rifiuta la luce;
trema alla nuda potenza del vero,
al dolce suo vigore d’assoluto.
Legge d’abisso imponendo alle cime
inzacchera i celesti messaggeri:
di miseria sue spine la difesa
alle mani salvifiche s’oppone,
di Dio la stirpe gli è fatal dolore.
Una gloria di folgori sul mondo,
radiosi lumi spenti da ignoranza,
tradito bene in lavorio del male,
in croce fu pagata la corona,
solo ne resta di splendore un Nome.
Fuoco giunge, tocca cuori e s’estingue;
pochi che la favilla a vita avvampa.
Troppo diversa, al mondo per salvare,
possanza d’incube ad un petto ignaro,
che dai precordi oscuri tornò fiele,
dolore, lotta, perdizione, a getti.
Vivere in pena ed affrontar la morte,
fato mortale assunse l’Immortale.
Intrappolata in argani di sangue,
in attesa di soffrir la sua prova,
reietta da sua stessa gioia innata,
vestendo il lutto di terrena vita,
nascosta pure a quelli ch’ella amava,
maggior divinità se umanizzata.
Un buio precognito a separarla
da chi la sospirava polo e stella;
e l’inalzava quel tacer le pene
venir nel cuore lacero veggente.
Simile a chi vegliando sui dormienti
ne porta i sogni e il peso d’incoscienza
pascendo di se stessa il suo nemico,
ignoto il suo karma, ignoto il suo dharma,
e senz’aiuto vede trema, osa.
Non più presagio il mattino fatale
seguito da un meriggio come gli altri.
La natura forte s’apre il suo varco
senza mai curarsi d’anime infrante;
si lascia dietro i caduti, procede:
ma dona la memoria del futuro.
Pure in quest’aspra disperanza il soffio
al rendez-vous pauroso con la morte
fu lieve da sue labbra e non fu pianto,
nessuno ebbe coscienza di sventura:
serena in volto e per coraggio muta.
A soffrire, a lottare: un simulacro,
ch’a mezzo un dio l’umano avea diviso:
spirito aperto allo spirito in tutto,
di fronte alla natura al naturale.
Ogni vita in quello spazio interiore
e distaccato, in sé portava il mondo:
dal Gran Panico attingeva il timore,
sui suoi poteri fondava la forza,
era materno amore universale.
Contro il male di vivere la lotta,
di sua sventura un nome più segreto
diede al tagliente mistico del sesso.
Inespugnata rocca schiusa al mare
a duplicare l’Unico sorgeva.
Prima la vita non doleva in petto,
sulla torpida origine terrestre
inerte, nell’oblio abbandonata,
riposava prona, pre-liminale
come un sasso ottuso, un astero quieto.
Tra due regni inchiodata nel silenzio,
era lungi al percuoter del dolore,
smemorando la pena del presente.
Poi lenta, vaga, l’ombra d’un ricordo,
e sospirando con le mani al petto
la riconobbe al punger di stiletto,
antica, quieta, fonda, familiare,
senza saper perché ci fosse e donde.
La mente ancora spenta, senza forze:
grevi, inservibili, i sensi svuotati
nel travaglio di gioia inappagata;
l’incombustiva torcia sensoriale
non la guidava al suo perduto tempo.
Soltanto il vaso dava forma all’acqua
ma traboccò alla cosmica piena.
Alla muta chiamata del suo corpo
l’alato forte spirito tornò,
al giogo d’ignoranza e di destino,
alla fatica tesa al trapassare,
lampadóforo in quei sogni struggenti
per il riflusso di marea del sonno.
Il suo punto d’unione si spostava,
fu giorno nelle stanze della vita,
ai vetri l’alba, l’ore e la memoria,
di soglia in soglia con pensoso passo.
E rammentò l’amor terreno in sorte
che la cingeva con l’antico abbraccio
in lotta con se stesso nella notte:
trimurti partorita dall’inconscio
desta al tormento e al pungolo divino,
e nell’ombra del suo cuore infiammato,
al centro oscuro del feroce alterco,
a guardia del baratro sconsolato,
erede d’un pianeta silenzioso,
spettro di pietra del dolente dio,
spazi fissò con occhi senza luce,
l’insensato penare e l’infinito.
Divina essenza dura in afflizione,
avvinta al suo trono, sete per sempre
dell’offertorio di represso pianto.
Ancora fu question d’ore contate.
Desio sacrificale e sofferenza
offerti in terra all’estasi immortale
sotto la mano eterna rianimati.
Nella veglia contò grani di sabbia,
nelle verdi dimore perigliose
dove udiva il lamento dei viventi.
Tra suoni umani, lo scenario fisso,
l’anima al divenire si levò.
Rannicchiata la forza avea raccolta.
Quel giorno Satyavan sarebbe morto.
☼
We reap not what we do not sow.
Song by a sheperd – William Blake
I testi, le immagini o i video pubblicati in questa pagina, laddove non facciano parte dei contenuti o del layout grafico gestiti direttamente da LaRecherche.it, sono da considerarsi pubblicati direttamente dall'autore L’Arbaléte, dunque senza un filtro diretto della Redazione, che comunque esercita un controllo, ma qualcosa puň sfuggire, pertanto, qualora si ravvisassero attribuzioni non corrette di Opere o violazioni del diritto d'autore si invita a contattare direttamente la Redazione a questa e-mail: redazione@larecherche.it, indicando chiaramente la questione e riportando il collegamento a questa medesima pagina. Si ringrazia per la collaborazione.