Guardavo l’aster tra i quasi troppi
anni nel giardino che conta. L’anagrafe
è arida: a ‘sto punto la stagione è desolante.
Svetta il numero ecumenico dei decenni,
una frana ha spogliato il fianco, la pietraia
di pochi giorni muta. Come si racconta
è la roccia scalata per scavare una buca.
E in quella buca ci getta la mancanza
di fiato sopraggiunta.
Nel giardino l’aster si espone e viola
il suo traguardo. Lilla, per meglio indicare
la giovane pianta lì in persona. Quel fiore
ha tutta l’aria per gonfiarmi il petto:
luminoso, snello, profilo egizio, fa capolino
il mento, e la fragile raggiera finita
nella cruna di settembre per cucire
la bocca a ciò che sento.
Provo amore per una chioma di petali
influente. Quando la distanza tra due esseri
supera l’orizzonte compresso dall’anagrafe,
la posa che osservi mette tumulto
nelle fibre del giusto orientamento:
una contrapposizione artificiosa
usata in natura solo dalla moka
in attesa del caffé.
Le lancio uno sguardo appena vivo
mentre infuria la nemesi di stagione.
Non voglio andarmene. Adesso no.
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