Ti guardo da edera, cielo a secco,
e tra le tue pietre acconciate a vapore
qual cosa crepa.
Sarà l’altra quota o la glande miopia
che mette radici ad ogni occhiata;
se guardo precisamente, trovo
corrispondenze in ferie.
Che ho scritto di te, ieri?
Dillo per bene. Lo darò per buono.
E il chiaro dia letto, non lo scuro che tergiversa
sui connotanti. Dall’autobus passato,
solo alcuni scendono con la mente fresca.
Ma tutti, tutti, hanno ceduto il posto: è segno
della ribellione degli occhi, la spina più fragile della rosa:
e la formidabile pelle impone da petalo
un profondo fremito. Profumo di qualcuno, qui,
che certo scriveva meglio.
Non c'è altra acrobazia nel luogo
oltre l'agilità che hanno le tue ciglia.
Ricordo la scintilla innescata dalla carezza:
provocò un tremore tenero
sulle labbra prima che il viso combattesse
l'allusione del desiderio.
E il fragile rossore si posò
in asse col petalo e l’ansia del testo. Quanto
durano, come insinuano freni
in questi corpi con tanto spazio?
Sulla schiena, campo esposto a semi labbra,
una formidabile sonnolenza istantaneamente ritrae le ali.
Dichiaro nulla senza un buon evocato.
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