Calano le azioni del gelo mentre recuperano
le azioni del campo; in quella borsa la brina
è un affare: investe la zolla, investe il fondo
dei semi. Il terreno si avventa. Non c’è altro.
Nelle buche si consegna la posta in tempo.
La posta è il premio di sollevarsi in barba ai fossi.
Essere un prato, insomma, con una sola radice.
Ma a folate, tra mittenti e destinatari, si sciupa
la busta nell’angolo del francobullo. In nome
della scienza, gira voce che il timbro sia falso.
Annuncia il malessere - e già che ci siamo, speravo
che l’indirizzo non fosse il mio. Ma il male in persona
ti cerca per bene. Vaglia l’omissione del contatto
e ti trova a naso. Un segugio indiavolato.
Stamattina, all’uscita dal tunnel Quarantena,
sul lungomare Marconi, il sole era basso
sui colli. Tanto basso che mi ha spinto
ad un colpo di testa: improvvisa caduta di stille.
Passa, ho pensato, tra inverno e pandemia
una relazione parassita che ammala, dichiara
freddo "i sintomi ti governano". Ho conosciuto
questo gelo nonostante fossi coperto. Ora so
che se cala la seta mi comporto come pecora
alla tosatura: accettare la nudità purché liberi
dal peso e dai parassiti; e missione compiuta.
Con i suoi gradi, i miei eroi e la supponenza
degli scampati, ho tolto il bavaglio preservativo,
ho bevuto con un guscio di noce oceani
per le sete perse: amante di vita e nascosta
nella lunga esitazione del frutto maturo
che da lontano ha raccolto i semi grezzi
e li ha raffinati, temendo che fossero distolti
dal terreno, come si può avere una marcia in più
se mette a repentaglio anche il morso?
Siamo semi, io dico, e andiamo sparpagliati.
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