Pubblicato il 05/09/2016 08:33:30
Carlos Sánchez, o la stravagante vaghezza di vivere.
“Per vivere ho scelto mille imbarcaderi incerti e ha ancorato la mia nave senza presunzioni né smarrimenti. Ho portato sempre il necessario dentro di me una piccola fiamma di luce brillante come un faro e una quantità imprecisata di parole senza voce..”. . . . “Non ho visto ancora volare la poesia nello spazio vuoto della stanza sarà come sempre incollata ai vetri sporchi della finestra..”
In un vecchio libro che spesso leggevo da ragazzo c’era un racconto che ogni volta mi colpiva e che accendeva in me la voglia di viaggiare attraverso paesi che neppure conoscevo. ‘Dagli Appennini alle Ande’, tratto dal libro ‘Cuore’ di Edmondo De Amicis era il libro più amato che avevamo da leggere a scuola e sul quale, ogni volta, scorrevano le nostre lacrime di fanciulli. Allora le Ande potevano essere in qualsiasi luogo dell’emisfero a me sconosciuto come dietro l’angolo di casa e, per quanto il maestro si sperticasse a spiegarci in quale parte di mondo fossero situate, a me sembravano così a portata di mano che una notte sognai di poterci arrivare. E infine vi arrivai, ma avvenne tantissimi anni dopo, quando non ero più un ragazzo e da tempo avevo smesso di sognare. Solo allora ho capito il senso occulto del racconto, il peso di quella ricerca, la fatica del viaggio, la gratificazione a un volere/potere che sapeva di riconoscimento …
“Da grande ho imparato che gli uccelli volano guidati dalla necessità che gli amori si dissolvono nel vento del tempo che le rivoluzioni finiscono annegando nei fiumi della storia che l’eternità non dura. Ma non mi dispero continuo a cantare”.
E camminando canterò fin quando avrò fiato in gola, sembra voler dire Carlos Sánchez, nel ultimo libro di poesie ‘Continuerò a cantare’ 2015, e nel precedente ‘La poesia, le nuvole e l’aglio’ 2009, entrambi per le Edizioni Librati.
A distanza di tempo quel piccolo libro, polveroso di anni, mi è tornato tra le mani e non ho potuto far altro che aprirlo e rileggerlo qua e là anche se in modo diverso di quando lo avevo letto da ragazzo, quasi come un vademecum degli anni trascorsi, di una vita consumata tra le righe, nelle frasi più dolci e talvolta amare che hanno fatto di quei racconti una eccellenza della letteratura non solo italiana. A sua volta l’argentino Carlos Sánchez nativo di Buenos Aires ha viaggiato per lungo tempo per il mondo, dall’America Latina all’Estremo Oriente, per poi raggiungere l’Europa e approdare in Italia, dopo aver percorso una sorta di itinerario inverso: “Dalle Ande agli Appennini” dove, ‘dopo molto camminare’ in fine si è fermato …
“Per fortuna ho imparato più dalla gente che dai libri di certo essi mi hanno dato le parole i concetti coi quali il mio intendimento insieme al vissuto si sono fatti carne”.
Ed è a quel ‘vissuto’ che il poeta fa più spesso riferimento nei suoi versi che hanno il peso della leggerezza intrisa degli umori del tempo, che ha come attinenza la scioltezza del momento, l’effimera agiatezza della consolazione, “..il calcolo dei giorni è inesorabile”. La sua carriera di professore di lettere ci dice ch’egli è uomo di grande esperienza comunicativa e comunitaria che tuttavia, non ostenta nel parlare né nello scrivere, mantenendosi dentro una linearità affatto artificiosa che ‘dice quel che dice’ con la semplicità e l’uso del lessico comune, quasi pedestre, “in questo meraviglioso quotidiano” …
“Appena una timida parola di uso volgare stordita tra tante parole confusa tra tanti concetti invecchiata fucilata dimenticata- Libertà”.
Libertà non è una parola presa a caso per chi arriva da paesi che in passato hanno conosciuto le guerre e l’oppressione del potere, e non è neppure l’esternazione di un dolore ormai cessato che il poeta riversa nelle pagine di questo e dei suoi altri libri di poesia. Direi piuttosto, usando le sue stesse parole “..che certi spazi sono rimasti vuoti”, in quanto reiterati o, per così dire, ricompensati dalla serenità successivamente acquisita, “..Sarà che mi sono distratto oltremisura nell’aggiustare l’equilibrio nel suo contenitore; sarà che ho scelto solo una stanza buia dove sviluppare le mie fondamenta di vita” …
“Non so se sono confuso se sono male orientato. Non sono un uomo di cultura non so se il Big Bang si sia generato solo per creare in questo minuscolo pianeta un Oriente e un Occidente..” . . . “..dove vivo abbaiano i cani crescono gli orti e gli uomini camminano. Non ci sono luci che accecano né grandi vanità girando per le strade si vive ridotti stretti quasi senza parole. Si sa che più in là c’è il mondo che ancora ricordo nel suo terribile sgomento”.
Ma se la parola può risultare scarna non è per cinismo dell’autore, né per ricercato minimalismo del poeta, affatto. Direi per lo più, per “il mestiere incerto dell’ignoto” appreso, forse, dai suoi contatti con la filosofia taoista dell’ - agire senza agire - che, nei paesi orientali di grandi tradizioni, “..si veste del colore della poesia e la trascende, e nel proprio divenire si cangia in trascendenza”, e che noi (lettori) pur riusciamo a sentire nelle diverse liriche qui contenute che la contemplano. “La poesia è uno dei più bei soprannomi che diamo alla vita” – scriveva Jacques Prevert lanciandosi in un haiku risonante amore per il futuro che verrà, e che Carlos Sánchez, sembra voler suggerire nelle sue parole entro un’effimera eternità …
“L’aria è foriera dei profumi dellinverno solo con sforzo posso immaginare la primavera in agguato i boccioli che eploderanno senza dubbio nella monotonia geniale del tempo. . . . Non so quanto possa essere rotondo questo mondo che naviga in uno spazio piccolo di questo universo non so neanche se il grande spettacolo sia degno dell’uomo”.
Siamo indubbiamente davanti a una sorta di ‘stravagante vaghezza di vivere’ che pure trova nella poesia la ragione d’una propria esistenza letteraria …
“Mentre cammino mi frugo nelle tasche le scarpe consumate le mani screpolate si annodano vedo cartelli con avvisi di pericolo incroci che non appaiono sulle mappe. Cammino, cammino senza contare i passi cammino senza ricordare quale fu il primo l’istante in cui mi trasformai in un pellegrino. Non so se arriverò non so nemmeno dove”. . . . “Le distanze si misurano con i sogni in quest’avventura fugace che è la vita”.
Per non dire delle ‘parole’ di cui fa uso nelle sue poesie, (ma è giusto chiamarle poesie?, che forse cambierebbe il senso di ciò ch’egli vuole comunicare?) …
“Le parole non sanno fare provano inutilmente ma non fanno vanno troppo veloci precedono di molto le nostre buone intenzioni che dopo si dimenticano. . . . Le avvolgo in carta regalo e diventano oziose”.
Ma l’ozio è spesso foriero d’inganno, se chi medita lascia ‘fare senza fare’, allora anche prepararsi un tè può ricevere quelle attenzioni che si riversano in noi, in tutti noi, alllorché c’immergiamo nel vuoto onirico delle pacate emozioni …
“Preparo un tè per quel pezzetto irlandese del nonno che porto in questo antico cuore carico di altre cose. . . . Bevo il mio tè camminando per la casa senza pensieri dedito come sono alla vita”.
Questa ‘vita’ cui il poeta cerca e vuole dare caparbiamente un senso, è in fondo la vita che noi tutti viviamo, seppure in modo diverso l’uno dall’altro, e che sempre più spesso ci fa chiedere: perché? E per quanto la domanda viaggi sospesa nell’aria in attesa che di una risposta che non arriva, siamo costretti nell’attesa di ciò che sarà, domani o in qualsiasi altro futuro, “alla catechesi di un dio vendicatore che ci accompagna fin dall’infanzia: (..) non so a cosa serva spiarmi se dopo non risponde. (..) Non sarà che alla fine lui avrà il mio volto?” …
“Ti seguo fino a perdermi in un bosco di alberi invertiti cantano i cervi le favole le pietre che rimangono sul camino ti seguo perché sei l’unica cosa che ho e non possiedo niente se non questo seguirti senza guardare dietro sernza storia come un lupo che ulula verso il mistero”.
Eppure sono certo di vivere, seppure sia assente nella mia ‘stravagante vaghezza di vivere’…
“Vivo in un mondo folle dove la mia pazzia passa inosservata tra tante pazzie. Nel manicomio le ideologie sono morte dicono i dottori i laboratori farmaceutici producono tranquillanti per curare qualsiasi barlume di libertà. Così si calma il sistema si democratizza la rassegnazione. Gli dèi seduti in una nuvola immensa non si danno pace e cercano senza consolazione di scoprire dove sia stato l’errore”.
Perché d’errore si tratta, non c’è dubbio alcuno …
“Una porta che si apre sul vuoto una finestra senza vista un soffitto che non copre il cielo un uccello che non sa cantare una montagna affondata in un pozzo un sole misero che non illumina un campo dove non cresce niente un vento che non muove le foglie un rumore di silenzi sordi una rosa morta nel camino. Visione fugace di un istante che si ripete in questa mia vita”.
“Per vivere … Ho visto centinaia di mari che ormai non ricordo con certezza e un’incerta quantità di uccelli e pesci saltellanti. Le tempeste hanno fustigato le mie vele senza abbatterle e le correnti a volte mi hanno allontanato dalla rotta venti tropicali ed antartici hanno colpito il mio volto senza mai togliermi quel tenue sorriso da viaggiatore alla deriva. Le grandi navi che ho incrociato nel mio lungo vagabondare mi hanno lanciato segnali di pericolo che mi sono rifiutato di decifrare ... Non ho mai accettato passeggeri a bordo nelle mie lunghe traversate una certa timidezza di fondo invadeva le mie parole ed i miei occhi … Mi sento un uomo fortunato in mezzo all’oceano un uomo che niente attende, che nessuno attende: forse la morte”.
C’è una strana alchimia in queste sue parole che risale il fiume avito dell’esistenza e si trasforma in vita, come per “..l’illusione d’inchiodare il tempo al muro”, o forse “..per smettere di pensare all’avvenire”, mentre nel presente “tutto scorre come un fiume”. Perché scrivo? Si chiede l’uomo Carlos Sánchez, approfittando per un istante dell’assenza del poeta: “Scrivo ora, perché non ho voglia di riordinare la stanza, di andare a comprare il giornale con le sue orrende notizie, di abbandonare questa finestra che s’immerge, nelle montagne innevate, perché è migliore sguitare in questo mestiere di vagabondo, di collettore di parole, di diffide con me stesso e con questa società aberrante … Scrivo perché mi viene voglia, scrivo per essere vivo, scrivo senza animo d’eternità”.
..Solo ogni tanto mi trattengo nel cammino e guardo, ma solo perché ho imparato a guardare.
Carlos Sánchez è nato a Buenos Aires, in Argentina, nel dicembre 1942. Ha viaggiato in molti paesi dell’America Latina e del Medio ed Estremo Oriente come consulente ed esperto in comunicazione sociale per diversi organismi delle Nazioni Unite e della cooperazione internazionale. È cittadino italiano e risiede a Folignano (Ascoli Piceno). Ha lavorato come lettore e professore di Lingua e Letteratura Ispanoamericana presso l’Università di Cassino, “La Sapienza” di Roma, e “Suor Orsola Benincasa” di Napoli. Ha pubblicato: “Gestos”, poesie (ed. Juan Mejía Baca, Lima, Perú, 1964); “America Latina, il mio paese”, fotografie (ed. Experimenta, Napoli, 1976); “Appunti di vita”, poesie (ed. Experimenta, Napoli, 1978); “Segno di terra”, romanzo, (ed, Lalli, Siena, 1983); “L’inquilino scomodo”, poesie (ed. Gemina, Roma, 1991); “La efímera dulzura de vivir”, poesie, (ed. Búho, Santo Domingo, Repubblica Dominicana); “Doce cuentos para ser leídos en conchos y voladoras”, racconti, (ed. Búho, S.D., Repubblica Dominicana); “Alta Marea”, poesie, (ed. Quasar, Roma, 2005); “La poesia, le nuvole e l’aglio” (collana “I Poeti di Smerilliana”, ed. Lìbrati, Ascoli Piceno, 2009), “Ricordati che non sai ricordare” (ed. Lìbrati, Ascoli Piceno, 2010), “Sempre ai confini del verso - Dispatri poetici in italiano”, (Antologia a cura di Mia Lecomte, Ed. Chemins de tr@verse, Paris, 2011). Le sue poesie si trovano nell’“Antologia della poesia argentina”, a cura di Raúl Gustavo Aguirre, (ed. Librería Fausto, Buenos Aires, Argentina, 1979). Attualmente collabora nell’Area Europea alla rivista polidiomatica on-line d’arte e cultura “I Poeti Nomadi”. Poesie, racconti e articoli, sono stati pubblicati in riviste e giornali dell’America Latina e d’Europa, come pure su numerosi siti internet.
Una definizione che bene gli si attaglia lo ritrae come una “ mente corporale senza tregua attraversata da un’infinità di molecole materiali, memoriali, astratte. Le trafitture lasciano cicatrici. Le cicatrici producono metafore. Globetrotter instancabile o sedentario che indossa la maschera del Gaucho di Folignano, fotoreporter e scrittore, cittadino precario di una catena seriale di città del mondo, ospite provvisorio del deserto e del cielo, egli si ritrova alla fine nella ricchezza di due lingue, il castigliano e l’italiano, il cui impasto fantasmagorico regala al lettore i loro morsi e la loro dolcezza”. Lieto di tornare a parlare del tuo essere poeta in questa società senza poesia. (G.M.)
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