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’Felicità, che pure esisti’

di Teresa Cassani
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Pubblicato il 28/09/2024 14:10:05

“Felicità, che pure esisti”

Emilia si è affacciata alla porta.
-Piera, vieni?
-Sì- risponde la figlia di Giuseppe Riccardo distogliendo lo sguardo dallo scrittoio- una passeggiata sul lungolago è quello che ci vuole.
-Prima però ci fermiamo al Centrale- dice Emilia.
-Va bene- concorda Piera.
È sempre bello gustare una bevanda calda seduti al tavolino del Caffè ed è un piacere attraversare la piazza attorniata dai palazzi razionalisti e neoclassici, avvertire l’alito fresco del lago che esce dal portico. Il caffè Centrale con le sue sedie imbottite, ricoperte di velluto rosa, le specchiere e i quadri che si stagliano sulla carta da parati, a Piera ricorda immancabilmente il locale di Firenze.
Emilia deve confidarle qualche problema familiare, lei vuole ascoltarla mentre il suo pensiero in parallelo rincorre i ricordi che in questa domenica di ottobre si affacciano vivi.
L’ingresso al Caffè è seguito dagli ossequi del proprietario che si compiace per la presenza inattesa della moglie e della figlia dell’ingegner Badoni.
Un cameriere con i capelli impomatati serve le due ospiti importanti ed è dal liquido color miele, versato nella tazza di porcellana, che emerge davanti agli occhi di Piera l’immagine di Antonio.

L’aveva conosciuto alle Giubbe Rosse, caffè storico di Firenze. La splendida giornata di maggio fugava il pensiero nefasto della guerra in corso. Camilla faceva le presentazioni mentre Eugenio notificava che anche lei scriveva poesie, sospirando con un: -Se solo avesse un po’più di fiducia in sé stessa!
Piera aveva spalancato gli occhi malinconici, offerto un mezzo sorriso a quell’uomo assorto, dall’aria estatica, forse scostante, il quale tuttavia si era scosso e l’aveva guardata con puntiglio rivelando il tratto egocentrico di chi non vuole lasciarsi sfuggire un’occasione.
La passeggiata sul Lungarno che seguì le ricordò quelle sul lungolago, ma l’atmosfera percepita era più esaltante. Sapeva che avrebbe letto in una notte “Il ricordo della basca” e poi gli avrebbe chiesto dei personaggi che popolavano incredibili racconti in cui le parole e i costrutti linguistici scoprivano una nuova dimensione, ambivano a dire qualcosa che le sfuggiva.
Di Antonio Delfini l’attirava non l’aspetto fisico, lui non era bello come appunto le aveva detto la Cederna, l’attirava il suo essere insolito, imprevedibile. E quel misto di cose che era. Quell’infiammarsi per un’ideologia, quel sangue di vino attratto dai baratri.

-Piera, lo sai che vorrei parlarti di tua sorella – dice Emilia, posando sul piattino la tazzina del caffè.
Emilia vuole che lei le dica del sogno infranto di Laura, intuito con la sensibilità di chi scrive versi.
E nel sogno di Laura adesso è Piera che si specchia.

Da un po’ aveva preso spontaneamente a dargli del tu quando gli scriveva e, dopo che Delfini le aveva confidato, in una lettera datata agosto’43, della sua insofferenza per la vita militare e della sua disillusione per il regime, lei aveva consolidato l’idea della comunione di anime. Ma era subentrata una stasi, fatta di gelo, finché Antonio non le aveva chiesto di ritornare al “lei “.
Allora Piera aveva capito che per lui era solo una distrazione passeggera in mezzo a un groviglio di sentimenti e pensieri.
Ma, anche se l'assenza richiamava spesso la presenza di lui, la passeggiata sul Lungarno diventava a poco a poco un ricordo tranquillo.
Adesso si sorprendeva a guardare con gioia la forza del Gerenzone che faceva muovere i magli e i mantici per lavorare il ferro nella sua fabbrica. Sentiva, con ritrovata serenità, di poter contrapporre alle piene che non erano state la certezza del rifugio e dell'impegno tra le mura dell’attività paterna.

-Piera, allora mi dici che cosa ti ha confidato Laura?
Emilia è sulle spine e Piera sta per parlarle dell’amore di Laura.
E del suo.


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