Pubblicato il 20/04/2016 04:57:38
FLAVIO ERMINI "IL GIARDINO CONTESO" - Moretti & Vitali, 2016.
L’ultimo lavoro saggistico di Flavio Ermini – ‘Il giardino conteso’ – “..porta a un passo dall’esperienza originaria dell’esistenza e indica che testimoniare e custodire il senso di tale esperienza è un compito al quale non possiamo sottrarci. Bisogna prendersi cura dell’assillante sofferenza, esserne coscienti, al fine di perfezionare la conoscenza del bene congiunto di bellezza e verità.” Ecco perché nelle ultime pagine de Il giardino conteso, la parola diventa propriamente esperienza poetica; prende la parola per far sì che l’essere si dispieghi e contenda il giardino all’ingannevole apparire. Premessa: l’antistoria. Apparteniamo al principio, alla parola sorgiva, dove ogni cosa nasce per la prima volta e apparire, di un’alba che non conoscerà mai il giorno. È forse uno stadio estatico del linguaggio. La parola si fa avanti sotto forma di un’incerta natura... forse il “tu” dei nascenti. Apparteniamo al principio. Viviamo ogni giorno il nostro apparire. Ma non ne siamo coscienti. Non sappiamo riconoscere il puro scaturire. Quel punto ortivo resta un enigma. Guardiamoci attorno. Assistiamo a un sempre nuovo manifestarsi dell’essere, che ci impone un sempre diverso modo di pensare. Assistiamo a un principio che mai smette di venire alla presenza. Siamo elementi di una realtà originaria che si manifesta solo in un “prima”: prima del respiro, nello schiudersi della corolla; prima del nome stesso, nel suo formarsi sotto l’inchiostro. Quella realtà originaria è la dinamica che impone ai petali di essere. Ha radici nella sostanza aurorale del mondo e si precisa come patria che attira a sé. In quella realtà originaria, tra il principio e il respiro, si formula una parola... forse il “tu” della natura. La parola si avverte nell’istante in cui si annunciano altre forme: le labbra, la lingua, il palato... il talamo, gli stami... I nascenti prendono vita, si fanno incontro alla parola, la interpellano nella precarietà, nell’incalcolabilità.
Non seguiranno una “storia” – l’hystoria dove si consuma il deturpamento del principio –, ma la “vera storia”: propriamente un’antistoria. I nascenti sono già da sempre estranei al divenire storico, ancorati come sono alla parola originaria. Solo in relazione alla parola albale si forma il corpo edenico, archetipo incorretto della natura umana. La materia informe non è un episodio accidentale, poi superato, ma la struttura che sempre di nuovo si forma. Il senza-forma nascente è estraneo alla successione cronologica, tanto che il calendario a questo proposito non potrebbe fornire alcun ragguaglio. Fare esperienza del mondo significa fare esperienza del sensibile, grezzo e latente; prendendo atto che l’antistoria coincide con la situazione di smarrimento e indecisione in cui si trova l’essere al suo levarsi dallo stato di latenza. Questa iniziazione non ha parole né segni. È un restare nei pressi del principio, perché è l’unico modo di far avvenire gli innumerevoli altri cominciamenti. Tra il primo inizio e tutti gli altri c’è un percorso che i nascenti faticano a conoscere, carico com’è di eventi misteriosi e inesplicabili. È un cammino fuori-memoria, tanto che l’andare a ritroso – così come il seguire il circolo del tempo – lo riapre continuamente, e continuamente fa sì che i nascenti siano chiamati a vivere, come impone Rilke: «Compiere ancora una volta la propria infanzia». Ovvero, compiere il cammino verso l’origine, verso l’inizio dell’esistenza, e stabilirne la direzione e il compito. I nascenti sono appena definiti da un elenco di membra e di foglie, un insieme composito di arti, infiorescenze e rami, atteggiamenti isolati o connessi, ma sempre indipendenti da ogni schema unificante, fedeli come sono al chaos aurorale. La necessità di un sistema generale è estraneo alla mentalità arcaica: ogni singolo fenomeno è spiegato in modo locale. Nella profondità del tempo e nella frammentazione dello spazio possiamo scorgere le ombre di figure così lontane dalla funzionalità del tempo e dello spazio da potervi rinvenire l’essenza dell’essere.
Chiamati ad assentire all’affacciarsi dell’essere umano al mondo, siamo in realtà indotti ad assistere al suo restare in vita come essere che si trova in accordo con l’incessante apparire. Pre-storico è l’incipit del linguaggio. Un non-luogo è il suo spazio. Da tale condizione parliamo, da una situazione pre-liminare di incertezza e disorientamento, connessa alla carenza di un habitat riconoscibile. Partiamo da quella «terra invisibile e caotica» nominata da Agostino; quella terra «che sta tra la forma e il niente, non formato e non niente, un senza-forma quasi niente»; quella terra dalla quale è stato tratto il mondo artificiale e ben ordinato che ora abitiamo. Siamo in quel non-luogo, precisa Meister Eckhart, «dove il principio sempre genera il principio». La trasparenza che il principio annuncia non è rimando ad altro da sé, non è rinvio a un fuori. Non è segno che qualcosa lascia passare. Quel principio – grazie al quale la luce si manifesta e risponde – è fatto di materia inafferrabile, invisibile. Più presente di ogni presenza, ha per nome un nome non ancora pronunciato. Puntualizza Hölderlin: «Enigma è ciò che scaturisce puro. / Anche al canto è dato / svelarlo appena. Tu continuerai / come hai cominciato». Non c’è fine al principio e la parola è la porta aperta al regno anteriore e al suo tutto indiviso. Non resta che aprirci un varco nell’ingens sylva, nel giardino che racchiude i morti e i viventi, essere e apparire, fiori e pietre. Non resta che inoltrarci nelle dense tenebre di luce di cui noi stessi, quali incessantemente nascenti, siamo formati. Ma forse l’essere umano ancora non è in grado di sopportare intorno a sé e in sé l’essenza della natura: il puro scaturire che nella contesa con il tutto indiviso costituisce la vera sostanza del principio.
L’apparire dell’essere è sempre enigmatico, talvolta ingannevole, in ogni caso incalcolabile. Così è pure il suo celarsi. Quali sono le vie che portano l’essere ad apparire? Come si manifesta l’essere? Dove si cela? Ogni sua manifestazione è davvero illusoria? Ce ne parla questo libro, indicandoci quali conseguenze comporta fare esperienza del mondo e del suo incessante scaturire.
Ne ‘Il Giardino Conteso’ viene tratteggiato il regno della caducità, il campo dell’apparizione, dove si trovano le cose in quanto cose-che-trapassano, limitate nella loro sembianza visibile e nella mutevolezza del loro contorno. Qui per un momento vige il tempo ingannevolmente determinato dalla volta celeste. Il confronto è impietoso tra la caducità che tutto consuma e la natura immutabile e imperitura dell’essere. Solo per un caso il vivente umano, effimero qual è, assiste a questa contesa e talvolta ne narra le vicende. Fatichiamo a riconoscerlo, ma l’apparenza non è uno spettacolo: le cose sono, i mari fluttuano, le nuvole passano, le costellazioni ruotano anche se nessuno c’è cui svelarsi. La seconda parte descrive proprio “La realtà singolare delle cose”, così come si manifesta al suo apparire, indipendentemente dalle nostre opinioni. La realtà singolare delle cose ci dice che siamo incastonati nella sostanza del firmamento e come il firmamento siamo elementi illusori. Ecco la questione che la seconda parte dell’opera pone: attraverso la molteplicità delle apparenze è possibile risalire alla sostanza di cui tutte le cose sono composte? Addentrarci in questo territorio sconosciuto può mettere a soqquadro le nozioni acquisite e rendere incerto il nostro passo. Ma solo così, avanzando verso l’ignoto, possiamo renderci disponibili a nuove verità. È un cammino lungo il quale costantemente vanno preparate le condizioni affinché ognuno di noi possa dirigersi anche verso la comune essenza.
Di questo cammino ci enumera i passi la terza parte dell’opera, “L’esperienza dello smarrimento”. Le tracce sensibili che seguiamo ci spingono sulle vie dell’errore. Nello smarrimento scopriamo sentieri nemmeno immaginabili fino a un attimo prima; scopriamo che a ogni interruzione nuovi percorsi invitano al cammino; siamo indotti ad assecondare i tracciati di una logica sequenziale messa continuamente sotto-sopra da sussulti altalenanti. In questo cammino incerto e accidentato si muovono i nostri passi. In questo inoltrarci nella molteplicità e nella dispersione, resta la fiducia di giungere prima o poi in prossimità di qualcosa di atemporale e incorruttibile come l’essere parmenideo. L’antistoria va narrata. Il pennino va ancora intinto nell’inchiostro. La mano non può tremare in questo rinnovato movimento, compiuto per accostarci a quello che Novalis chiama «fondamento dei sensi».
Abitare altrove: “Sotto l’inchiostro”. La quarta parte dell’opera impone di imparare a vivere dopo il risveglio dalle illusioni; quando ciò che davvero interessa è l’impensato del pensiero, il non-detto delle parole. Impone di collocarsi ai confini della letteratura, della retorica, della poetica, della stilistica, della filosofia, là dove può configurarsi un’originaria relazione dell’essere con l’esistente. «Andare verso qualcosa e, nello stesso tempo, costruire quella cosa stessa» sostiene Martini. Sarà proprio quell’andare e quel costruire che ci porteranno verso “L’altrove poetico” della quinta parte. Qui viene affrontata la questione del linguaggio come apertura essenziale dell’uomo all’essere. L’esposizione all’interminabile disvelarsi dell’essere impone a tutti noi di fare i conti con il fondamento: una causa sempre operante che – separando l’indiviso dalla potenza – dà perennemente origine al mondo. Qui impariamo che la parola è destinata a dire il vero dell’essere, a rivelarsi come il corretto movimento per rispondere alla sua chiamata. Per farlo, la parola deve spogliarsi dall’hybrisumana, che induce l’uomo a proclamarsi signore della natura fino a farsi della natura il legislatore.
Nella sesta parte, la parola prova a dare risposta a tali istanze, facendosi esperienza poetica. Qui la parola apre il linguaggio all’accadere dell’essere e – facendosi largo tra le apparenze – offre al pensiero quell’inizialità che consente all’essere umano di portare a compimento il primo inizio e di prepararsi all’altro inizio; là dove il dire può trovarsi a contatto strettissimo con il tutto indiviso. Seguirne la via impone di orientarsi nel groviglio, di familiarizzare con le schegge e col frammento: una folata di vento, il moto del sole, il rumore di una pietra che cade. Seguirne il cammino impone di dire poeticamente quel medesimo che, manifestatosi della physis, si è poi ritirato nel nascondimento. Qui la parola poetica prende la parola per fare in modo che l’essere si faccia presente al fine di contendere il giardino all’ingannevole apparire.
Avvertenza d’Autore:
La notte senza mattino. L’inconosciuto è incessantemente in atto e il dire poetico non smette di segnalarci che è impossibile sottrarci al tempo delle tenebre e della contesa. Il compito del dire poetico è di parlarci della forma umbratile che, risalendo da uno sfondo pre-umano, ci abita e ci trasforma. Il dire poetico è la casa ospitale in cui il non-detto è portato a nominarsi come originaria contra-dizione. Qui nominazione e inconosciuto possono sostare, in un tenersi insieme dei differenti. Dire: per tornare in possesso della propria ombra. L’evento del linguaggio – nel dare vita con il nome a un’ombra tra le ombre – rende possibile l’apparire di ciò che non si potrebbe né si dovrebbe mai vedere: l’originaria, fisiologica inabitabilità del mondo. A iniziare da questo evento si può cominciare a riflettere veramente, così come accade davanti alle pitture nere di Goya, sul destino cupo dell’umanità. L’essenza della parola – ovvero ciò che impone alla parola di essere una vera parola – va pensata a partire dalla sua capacità di accogliere nel dire ciò che appare, per quello che è, in assenza di pregiudizi. La funzione svelante della parola consiste nell’aver cura del non detto e nel custodirlo insieme all’oscurità. Lo sa bene Mary Shelley quando dà parola alla nostra parte in ombra consentendole di rivolgere un appello al suo ottuso creatore:«Oh, Frankenstein, non essere giusto con tutti per calpestare me soltanto! Me, cui tu devi non solo giustizia, ma anche bontà e affetto! Non lo dimenticare, io sono la tua creatura: dovrei essere il tuo Adamo, e sono invece l’angelo caduto al quale di proposito tu neghi ogni felicità, sebbene io non abbia colpa». Il lavoro poetico si svolge al buio e dà parola all’oscurità che ci assedia, ovvero al profondo-senza-fondo della luce: il fuori come dentro assoluto. Non la notte del tempo cronologico, ma un’altra notte che nessuna aurora può rischiarare. A quest’altra notte non può corrispondere nessun altro mattino. Proprio come la terra verso la quale ci dirigiamo, che altro non è che questa terra che abitiamo, dove da sempre già siamo: una terra che è proprio qui, pur essendo altrove. Quest’altra notte senza un mattino, sopra quest’altra terra senza una nuova terra, è ciò che rimane indisvelato, ed è proprio ciò che nella parola viene custodito. Solo un dire che non nasconde il proprio non-detto, ma incessantemente lo riprende, può pretendere di farsi prossimo all’inaccessibile, e forse diventare l’inaccessibile stesso. Per avvicinarsi alla sostanza ultima del mondo, il dire poetico deve andare al di là del mondo, deve rendersi insensato, fuor-viarsi, dissestare il principio di non contraddizione. Iniziamo e terminiamo il nostro percorso terreno nella tenebra più fitta, che nessuna luce potrà rischiarare. Grazie al dire possiamo accogliere in noi l’ombra e farne esperienza, così come l’io impara a conoscersi facendo esperienza dell’altro. Ecco perché non si può prendere parola se non dal fondo dell’opaco, dal rovescio del discorso: propriamente dall’antidiscorso. Il vivente umano e il semplicemente-vivente sono compresenti nello stesso essere. Nel dire, il primo si fa trascinare indietro – come accade a Samsa – dalla metà in ombra di se stesso. Sarà nel corso di questo processo che dalla dimensione sotterranea potrà emergere la parola obliqua dell’errore e dell’imperfezione, la sola che può nominare quel luogo inospitale.
Flavio Ermini è poeta e saggista italiano. Dirige la rivista di ricerca letteraria Anterem, fondata nel 1976 con Silvano Martini. Fa parte del comitato scientifico della rivista internazionale di poesia Osiris (Università di Deerfield, Massachusetts) e della rivista di critica letteraria Testuale. Dirige con Yves Bonnefoy, Umberto Galimberti e Vincenzo Vitiello la collana Opera Prima (Cierre Grafica). Collabora all'attività culturale degli Amici della Scala di Milano. I suoi testi sono stati tradotti in francese, inglese, slavo, spagnolo e russo[1]. Il compito che Ermini assegna al pensiero poetico non è unicamente quello di confrontarsi con il pensiero filosofico sulla base della logica e della coerenza sistematica, quanto riunificare, in un solo luogo dell'anima, la domanda fondamentale di verità e senza la presunzione di possederla. A questo fine, Ermini muove su due fronti che stanno in rapporto di reciprocità e fusione, concependo la scrittura come «tentativo di ripensare la domanda sul significato della vita»: su quello della poesia ricerca «una lingua inaugurale, che consenta di riguadagnare la continuità originaria tra parola e mondo», su quello critico va nel senso di «un “pensare” che possa strettamente coniugarsi con il “poetare”». Non a caso la sua è stata definita «lucida e nel contempo appassionata ricerca ontologica della parola, della poesia e quindi [...] della storia umana. Si annullano quindi le distinzioni di generi letterari per dar o perlomeno tentare, un cammino di continua tensione che ristabilisca la centralità responsabile della parola e consenta ad essa percorrenze di ricerca che creino poesia e non ego-poeti». Su questa scia, vige anche in Ermini la «speranza di poter giungere a “guarire” le parole dalla saccenza e dall'esaustività di una significazione rigida». In raccolte come quella del 2010, ‘Il compito terreno’, si leggeranno allora poesie paragonabili a «illuminazioni improvvise: frammenti di pensiero sul sorgere della vita dal magma dell'inconscio, e sul destino dell'animale-uomo, consapevole di morte», con un'attenzione alla vita e al destino umani che in altre opere, come nel saggio ‘Il secondo bene’ (2012), sfociano nella concretezza del sogno, che si «riveste del suo antico abito regale», diventando «uno dei tratti caratterizzanti l'esperienza poetica e di pensiero di Ermini». De Francesco precisa poi che «la prosa e la poesia costituiscono, nella scrittura di Ermini, un unico dispositivo di espressione [...] in una prosa che non è tanto una forma di prosa poetica o di poesia in prosa, quanto essa stessa forma di poesia; e, parallelamente, in un discorso poetico che non è poesia filosofica ma è esso stesso pensiero, e, sul piano stilistico, esso stesso saggio», ribadendo che «nella scrittura di Ermini prosa e poesia, poesia e pensiero, saggio e discorso poetico coesistono nel medesimo spazio linguistico e semantico».
Fra le sue opere pioù recenti vanno qui segnalate:
‘Il moto apparente del sole’, premessa di Massimo Donà, Bergamo, Moretti&Vitali, 2006, Premio De risio, 2007. ‘Ali del colore’, immagini di Giovanna Fra, riflessione critica di Silvia Ferrari, Verona, Anterem Edizioni, 2007. ‘L'originaria contesa tra l'arco e la vita’, Bergamo, Moretti&Vitali, 2009, Premio Feronia-Città di Fiano 2010. ‘Il matrimonio del cielo con la terra. Materiali per un atlante’, Ruvo di Puglia, Tracce-Cahiers d'art, 2011. ‘Il secondo bene’. Saggio sul compito terreno dei mortali, postfazione di Franco Rella, Bergamo, Moretti&Vitali, 2012. ‘La tâche terrestre des mortels (edizione bilingue di Il compito terreno dei mortali), prefazione di Franc Ducros, Traduzione di François Bruzzo, Nîmes, Lucie Éditions, 2012. ‘Essere il nemico’. Discorso sulla via estetica alla liberazione, Milano-Udine, Mimesis, 2013. ‘Rilke e la natura dell'oscurità’. Discorso sullo spazio intermedio che ospita i vivi e i morti, Milano, AlboVersorio, 2015.
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