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Fabio Franzin

Argomento: Intervista

Testo proposto da LaRecherche.it

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Pubblicato il 03/12/2011 20:32:00

[ Intervista a cura di Paolo Polvani ]

 

 

Nell'Italia di oggi si stenta a credere che il Nord Est abbia alle spalle una storia di emigrazione.

 

Ho due zii materni emigrati in Canada (o meglio, in Canadà, come continua a dire mia madre, o come dice la famosa canzoncina della casetta) nel primo dopoguerra; credo che, qui in Veneto, ogni famiglia ne abbia ancora, o ne abbia avuto, qualcuno: sia nelle Americhe, oppure in Svizzera, Belgio, Francia… due miei coetanei, compagni di giochi in gioventù, hanno aperto delle gelaterie in Germania, dove vivono e operano da almeno un ventennio. Ora assistiamo alla fuga dei cervelli, che in sostanza vuol dire che chiunque abbia qualche capacità e spirito di avventura, parte per l’estero a cercare la fortuna che qui gli/ci è negata per le ragioni che tutti sappiamo. In tutto ciò c’è quel “nomadismo” naturale dell’umano (e di ogni altra creatura), che li ha sempre portati, già da epoche lontane, a spostarsi se i pascoli si inaridivano o se avverse condizioni minavano la sopravvivenza della specie.

Nella terra in cui vivo, terra che, come ripeto, ha avuto una massiccia epopea di emigrazione, si è assistito a un bieco individualismo, a una triste mutazione antropologica, tutta spesa nell’assurdo tentativo di “recintare” il proprio eden privato - e non solo, a mio vedere, a causa dei manifesti razzisti della Lega, essa semmai ha saputo fiutare e incanalare tale pulsione -, a un finto oblio di comodo, abilmente shakerato con l’ipocrisia e la convenienza (proprio come fosse una sorta di spritz, l’aperitivo tanto di moda, qui) e con quello spruzzo egoistico di Aperol, che si può riassumere nel titolo e nel sottotitolo di un saggio di Gian Mario Villalta: “Padroni a casa nostra – perché nel nord est siamo tutti antipatici”; quelli che in osteria, ancora oggi, blaterano di mandare via “i foresti” da “casa nostra”, sono quelli che gli hanno affittato a prezzi esosi case coloniche prive di luce e acqua chiuse da decenni, quelli che li assumono nelle loro fabbriche in crisi in luogo dei “padani”, perché essi, essendo forse più disperati, si rivelano più malleabili all’inumana flessibilità richiesta ora dai mercati, e perché più ricattabili, spesso pagati in nero, o con assegni postdatati.

 

 

La scelta del dialetto appare più di una vocazione, qualcosa di profondo, viscerale.

 

Il dialetto, lo affermo da almeno due decenni, è la lingua della mia anima, lingua viscerale proprio come dici tu. In più la sento più schietta e concreta dell’italiano, più aderente al mio dettato. Se avverto che la mia scrittura va ad indagare sino al nucleo, alle radici della vita, le parole nascono in dialetto, in esso ritrovano la sorgente ove sono sgorgate.

 

 

Come sono i ricordi della tua infanzia ?

 

Sono i ricordi di un ragazzino che ha vissuto i suoi primi sette anni di vita in città, a Milano; trapiantato in un territorio che, allora, nel 1970, era ancora vasta campagna. Con tutti i nomi che una campagna conteneva, insieme ai fossi, alle siepi, agli alberi. Nomi da dover imparare per essere accolto dai coetanei. Nomi che poi sono penetrati a fondo in me, proprio come certe radici, avvitate ai sassi del costato, ardue da estirpare. Oltre alla campagna, proprio di là della strada, di fronte al rione di case popolari dove sono vissuto sino ai trent’anni, c’era una fabbrica abbandonata (uno dei primi capannoni del famoso, ed ex ormai, miracolo economico dei distretti industriali); lì dentro, fra polvere e merde, quadri elettrici scassati, schegge di vetrate e tubi pendenti dal coperto, vi passammo tutta la nostra infanzia a giocare e far prove di coraggio. Fra il chiuso del capannone e l’aperto dei campi siamo cresciuti. Ora mi sembra che la nostra infanzia abbia combaciato perfettamente con la modificazione subita dal paesaggio in questo lasso di tempo.

 

 

Esiste un rapporto tra la tua scrittura e il paesaggio ?

 

Certamente, ne è parte fondante. Aver avuto un gigante come Zanzotto nella stessa provincia, poi, non poteva non acuire questo rapporto. Le sue battaglie, le sue invettive, le sue amare riflessioni sui mutamenti così repentini e caotici, avvenuti nel paesaggio in queste terre, sono ora nostre per eredità e memoria.

Io penso il paesaggio non come a uno scenario, o a un misero fondale davanti a cui l’uomo recita le sue passioni, ma come benigne creature: erbe, fiori, alberi, bestie, cieli… che interagiscono con le passioni umane, come è nelle tele della grande pittura veneta del ‘500, e proprio nel Giorgione, Tiziano, nel Bassano, nelle loro arcadie o nei loro luoghi ameni io trovo il conforto di un luogo che ritorna origine e beltà, gesto e parola.

 

 

Hai un metodo di lavoro? ci sono poeti legati a vezzi, manie, abitudini e scaramanzie circa il metodo di scrittura.

 

Scrivo solo quando sento di aver qualcosa da dire. Sennò leggo o faccio altro. Non me l’ha ordinato il dottore di scrivere. Posso farlo febbrilmente per giorni, preso da un lavoro, da un’idea, quando scocca, come posso star mesi senza scrivere neanche una sillaba.

Non ho vezzi particolari, anzi, il mio “tavolo di lavoro” è una piccola scrivania posta in una rientranza del corridoio d’entrata dell’esiguo appartamento in cui vivo con la mia famiglia, interrotto spesso da mio figlio che mi chiede di giocare con lui, o da mia moglie, dal gatto che miagola e vuole le sue crocchette. Mi basta. Se qualcosa mi sfugge, o si perde per le interruzioni, come disse una volta Aldo Busi, vuol dire che non era poi così importante. Però se alzo gli occhi verso il muro, c’è un bel quadro rosso di Trucano, con un cuore grande tutto percorso da fil di ferro e schegge di vetro; ecco, se un vezzo c’è, è questo cuore infranto e innervato cui non so rinunciare per cercare con gli occhi la parola che non viene.

 

 

Coltivi altre passioni al di fuori della scrittura ?

 

Da giovane, prima di essere coinvolto totalmente dalla parola, la mia grande passione è stata correre. Ho un passato di discreto mezzofondista, da 4’05 sui 1.500 metri, ma mi sono poi spinto sino alla maratona, intorno ai trent’anni. Ora, alla soglia dei cinquanta, amo fare lunghe camminate, sia in pianura sia in montagna. Camminare è un esercizio che allena anche il pensiero, che lo purifica dalle scorie della realtà, ora così dissestante. Amo anche giocare a biliardo, con la stecca, la geometria delle sponde per raggiungere la palla di retro. Mi piace anche parlare con la gente, se non è spocchiosa, il mondo interiore che si svela, fra le parole, la compagnia che fanno le “ciacole”, magari davanti a un buon bicchiere di vino.

 

 

Nelle tue poesie si avverte una forte tensione etica, ma è la carica umana che le rende indimenticabili. Sei d’accordo?

 

L’etica, così demodée di questi tempi, è, insieme all’onestà, l’umile, ma immensa eredità avuta in dono da mio padre. Non per educazione imposta, ma solo per esempio. Mio padre non ci ha mai detto, a me e ai miei fratelli “bisogna comportarsi così e cosà”, ma l’ha fatto davanti ai nostri occhi. Così, per amore, è penetrata in noi. Poi, l’essere cresciuto in un ambiente umile, popolare, di gente che faticava a tirare avanti la carretta, ma lo faceva, comunque, con dignità e decoro: col vestito da festa la domenica, uno e solo quello, ma impeccabile, mi ha sempre fatto sentire parte di quell’umanità, testimone di una comunità che condivideva tutto, bene e male, ansie e speranze.

In un’altra intervista ho confidato che la molla che mi ha portato a scrivere è stato entrare in un bar, molti anni fa, e assistere alla dura reprimenda che il gestore di quel locale impartiva a una giovane cameriera, umiliata di fronte agli avventori. In quel volto arrossato dalla vergogna ho visto scritte le mie prime parole.

 

 

Il titolo del tuo prossimo libro, “Canti dell'offesa”, non lascia margini di dubbio sul contenuto. Secondo te, sono possibili spiragli di speranza ?

 

La speranza, come dice il noto proverbio, è sempre l’ultima a morire. C’è sempre una speranza da coltivare in noi, soprattutto in questa epoca così in crisi, e per crisi non intendo solo economica. Ma la speranza deve essere affiancata dall’azione, dal tentativo che è richiesto a ognuno di noi di aiutare le cose a cambiare. Con i miei “Canti dell’offesa” intendo dar voce al disagio, e all’offesa, che quella porzione di umanità (anziani, extracomunitari, portatori di handicap…) ha e sta subendo da parte di una società sempre più egoista, competitiva e menefreghista; che è poi quella porzione di umanità in cui sono cresciuto, come dicevo. Uno dei miei compagni di giochi, in quella fabbrica abbandonata di cui sopra, era un ragazzino down, e faceva parte del gruppo come chiunque altro, senza essere dileggiato o, peggio, compatito. E quando morì, tre anni fa, il suo funerale è stata l’occasione per rivederci tutti, anche se con alcuni ci eravamo persi di vista.

 

 

Pensi che la poesia possa svolgere un ruolo in un auspicabile processo di riscatto ?

 

La poesia offre la possibilità di “leggere” la realtà da una nuova angolazione, spesso inedita. E’ come per il biliardo: tu puoi colpire la palla direttamente, frontale, o andarla a prendere da un altro lato nel disegno creato dalle sponde. Quando ti è concessa un’altra possibilità, per quanto ardua e complicata, non sei mai davvero perso. Il disegno che le parole compongono sullo spartito dei versi è come quello dei bambini, dove il cielo è verde, l’uomo ritorna un rastrello piantato nella terra, nel mare i pesci si vedono.

Nel mio caso specifico, la poesia è stata un riscatto sociale, come nelle “confessioni di un malandrino” di Esenin: l’umile operaio cresciuto in un paesino di tremila anime è ora un poeta.

*

Di fabio Franzin proponiamo tre poesie tratte dalla raccolta Canti dell'offesa



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