Anne-Rose, una poetessa, vive solitaria a Parigi, dopo aver abbandonato il paesello natio, ed ha come compagna unica ed insostituibile la sua solitudine. Ella non ama Parigi, a differenza di molti che scelgono quella città per vivere spinti da un desiderio irrefrenabile, quasi un desiderio carnale, Anne-Rose lo fa per calcolo, quasi come accettando una ineluttabile sorte capitatale e alla quale non si può sottrarre. La donna piuttosto preferirebbe vivere a Stoccolma, città che conosce benissimo, per averla spesso visitata in sogno, di persona non c’è mai stata e difficilmente ci andrà, preferisce viverla così in modo immateriale, viverla svuotata della sua essenza umana, come pensiero fra i pensieri. Quasi come fa nel suo candido appartamento parigino, dove vive una vita pressoché impalpabile, fatta di pochissimi piaceri, o lussi, causa le ristrettezze economiche, in cui Anne-Rose si smaterializza nello scrivere poesie e rivivendo i suoi ricordi. Pian piano nella narrazione tutta la vita della donna si srotola davanti agli occhi del lettore, raccontata dalla viva voce della protagonista, che ripercorre gli eventi della sua gioventù e come l’hanno portata alla rarefatta esistenza attuale. La sua solitudine ha una radice profonda, fatta d’amore e di confidenza, ma un brutale doppio colpo di forbici la priva di questa radice e la rende come sospesa in una atmosfera che si fa sempre più rarefatta e che difende caparbiamente, così come difende la propria vita, o come un madre difende il proprio figlio. La solitudine, potremmo dire, è come un figlio per Anne-Rose, ella la nutre, la fa crescere, la preserva dai pericoli. In questo romanzo la solitudine non è vista come una condizione in cui uno si ritrova, quasi suo malgrado, e vorrebbe uscirne, qua piuttosto è una condizione cercata, nutrita, un bozzolo entro il quale vivere, addirittura in virtù del quale essere. Non starò a dilungarmi sulla trama semplice ma assai avvincente del romanzo per non privare il lettore dell’incanto della scoperta ad ogni pagina, quasi ad ogni rigo. Mi voglio soffermare piuttosto sull’eleganza musicale di Nicola Lecca, e non è questa una novità, egli è scrittore di rara bravura e giustamente ormai affermato, ma ogni qualvolta ci si imbatte in qualcosa di davvero ben fatto è giusto sottolinearlo. Più che un romanzo, visto l’amore di Lecca per la musica, è una partitura in cui una voce solista conduce il filo della narrazione, e gli altri - pochi - personaggi fanno da contrappunto, una sorta di orchestra in sordina che accompagna la partitura solista e ne sottolinea alcuni passaggi. A tratti mi ha ricordato il movimento del trio di Ravel in do minore, con il suo violino a riecheggiare la solitudine di Anne-Rose, e gli altri due strumenti a punteggiarlo, a riecheggiarvi il passato e tentare di portarvi un po’ di presente, un po’ di velocità in una esistenza rallentata ed imbozzolata sull’assenza di chi manca e sul ricordo di chi non manca perché non gli è mai stato consentito d’essere. La narrazione di Lecca, in questo breve romanzo, si fa austera e glaciale, ma non per questo manca di palpitante umanità, tutt’altro, è il linguaggio a voler essere asciutto, a non indulgere in sentimentalismi ma teso a creare con le sue coloriture, più che con le parole, l’aria evanescente di una esistenza ammantata di solitudine come di un mantello capace di rendere invulnerabili. L’unico contatto di Anne-Rose con il mondo è la poesia, ella è scrittrice affermata e il suo personaggio consente a Lecca di impreziosire il tessuto narrativo con brevi tratti poetici, che alimentano la vicenda e le donano talvolta un aspetto ancor più staccato dal rutilante quotidiano, relegando la Ville Lumiere in una sorta di acquario, attraverso il quale il brusio della grande città giunge come enormemente attutito, facendo risuonare la voce della protagonista nel torpido rumore di fondo della città. Ad un certo punto l’autore fa scrivere alla protagonista “Soltanto la poesia è in grado di uscire dal sogno” ed infatti la protagonista che si nutre di sogno, alimenta la propria vita isolandosi in un sogno del passato, riesce comunque a vivere nel mondo reale grazie alla poesia ed è anche la scrittura di Lecca, in questo libro, assolutamente poetica ad emergere dal sogno a piene mani capace di ricostruire da brandelli di sogni un libro che riesce a rappresentare il sogno in modo tangibile. Questo Ritratto notturno è un libro davvero bello, prezioso, capace di far risuonare le corde dell’anima con impercettibili tocchi, ma nel suo insieme è anche un grande affresco sull’animo umano, scritto con grazia e grande capacità, delicato ma vigoroso nel tratto fatto di pallidi riverberi e candida solitudine. Ricorda nella sua perfezione, algida, perfetta ma inamovibile ed elegante, le trine di ghiaccio che si formano sui vetri delle finestre.