Pubblicato il 07/11/2024 16:43:51
‘Pathenope’ di Paolo Sorrentino … un film per il piacere degli occhi,
realizzato con grande maestria da un soggetto scritto e diretto dallo stesso regista che ripercorre le tappe di un ‘viaggio della vita’, forse autobiografico e/o quantomeno, in astratto, di un ‘sogno ad occhi aperti sulla bellezza’ che sfiora il sublime per gettarsi, abbandonato l’alone del mito, nelle braccia della bruttezza, che della bellezza è figlia. E ché, non conoscendo noi cosa c’è al di là e quindi che va oltre il sublime, anche la bruttezza assurge a un valore altissimo e/o al contrario bassissimo, del quotidiano che conduciamo. Entra, per così dire a far parte di noi, di ciò che siamo, di quello che vogliamo e che infine si mostra come saremo e/o siamo riusciti ad essere. Un cinico arazzo tessuto da mani sapienti dai colori smaglianti di una fotografia eccezionale, accompagnata dalle voci e dalle musiche che hanno sottolineato gli anni di riferimento del film, la Napoli bella ed edulcorata quanto fastidiosa degli anni che vanno dal 1950 ai giorni nostri, che si autoincensa della sua straordinaria bellezza. Guai a cambiarla, così come il regista de ‘La grande bellezza’ non intese cambiare quella Roma strafottente e indiavolata, amante amara di una élite compassata e al tempo stesso compiaciuta. Dove finanche i dialoghi sapienti e caparbi, ridotti all’essenziale, non parlano se non per sottolineare l’estrema emozione di quel mondo ‘al femminile’ di una stupenda Parthenope, né mito né sirena, (o forse entrambe le cose), ostinata a vivere la vita nel bene e nel male ch’è la sola (l’unica?) che gli è data, e che l’esistenza le offre della natura che l’accoglie. S’è detto un film per il piacere degli occhi, sì che al pari di un film del muto, i dialoghi potrebbero anche non esserci, tanto le immagini perpetuano un comunicare visivo proprio del linguaggio gestuale, un’espressività così ricercata negli interpreti, tutti straordinari, che sbalordisce per l’efficacia della poesia che incarnano. Sì che il tempo che passa, una certa lungaggine del film, quasi non s’avverte ma si stempera perdendosi tra la luminosità delle giornate assolate e le oscurità degli anfratti, dei momenti di piacere e delle lotte interiori dei personaggi. Quella è Napoli e quelli sono i napoletani, hanno sottolineato due ragazzi all’uscita dal cinema, mentre noi antropologi, sociologi, psicologi da strapazzo, in quanto animali razionali dipendenti ci arrabattiamo alla ricerca di un’identità che forse non abbiamo mai avuta. Un film che può piacere o no, ma che non può lasciare indifferenti per la sua impronta registica determinata, che ha fatto molto discutere i critici di mezzo mondo che lo hanno incensato e, a loro volta negato come autentico capolavoro che il regista Paolo Sorrentino ha più volte sfiorato nei suoi precedenti film, per me decisamente da vedere e rivedere alfine di poter entrare in quella che i napoletani chiamano ‘malia’, una sorta di ‘ardore’ o forse di autentica ‘follia’ che prende il corpo e la mente stravolto dalla ‘passione’, cui le parole non aggiungono niente, che servono solo a incasinare (leggi scompigliare) la vita di chi ne è colto senza colpa, solo a colmare l’imponderabile solitudine che pure miete le sue vittime, così per un infame gioco del destino, molti di noi in ogni ambito della nostra esistenza.
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