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SFINX - In nome della sfinge.

Argomento: Mitologia

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 07/04/2013 07:11:12

Shesep Ankw, (antico nome 'ieratico' della sfinge) il volto del dio vivente.

Quale “immagine del dio vivente” la Sfinge simboleggiava un tempo la potenza del Faraone che proteggeva il bene e scacciava il male, messa a guardia del tempio di Osireion (oggi in fase di recupero), probabilmente voluta da Khafre o Khefren (Chepren IV dinastia) e risalente al periodo detto dell’Antico Regno. Da nessuna delle fonti si rileva però, che il volto della Sfinge riprodurrebbe il volto del faraone che l’ha commissionata, poiché ci troviamo di fronte alla totale mancanza di testi che ne confermano l’attribuzione.

Idillio (dell’apparente bellezza).

“Da tutte le cose Uno … e da Uno tutte le cose” recita un frammento di antico papiro, arguendo sulla metafisica dell’ordinamento del mondo in costante tensione e apparente conflitto, per cui: “tutto ciò che esiste muta, e il mutare è al tempo stesso contesa, che va oltre l’umana comprensione, quando, davanti all’armonia sì grande del creato, essa s’affissa e non se ne fa ragione”.
Quando, nel rimare l’umano ch’è in sé, chi vive in mezzo a sì eclatante bellezza, tosto si bea nella molteplicità che fa dell’immagine una “verità” assoluta, al passo col tutto, che concesso gli è far conoscenza d’ogni cosa della terra, dell’aria, dell’infinito astratto, poiché il soggetto ultimo dell’uomo è l’uomo stesso, così come il fine dell’armonia del creato, è in altro modo un Sé medesimo che si scinde nei molti.
Non v’era dunque idillio che non potesse accadere, né che l’incomprensione dei molti si discostasse dall’Uno, né viceversa, che la volontà dell’Uno non ricadesse sui molti, su tutti coloro che per una coincidenza tensionale degli opposti, fossero giunti a chiedersi di conoscere se stessi, nel corpo e nello spirito che gli erano propri, così come delle cose e dell’armonia che sono del mondo.
Così come non v’era limite che non potesse superare, che oltrepassare dell’aldilà la soglia non gli era concesso, “senza prima aver sollevato ciò ch’era inferiore a lui, e abbassato ciò che lo sovrastava”; che d’ogni misura era possibile venire a capo, che all’enigma del creato corrisponde un logos certo, che della profondità dell’anima si fa ragione, fino a raggiungere l’armonia cosmica, illimitata, sconfinata, e tuttavia manifesta.
La Sfinge dunque, come immagine statica nel mutamento, assisa tra la notte e il giorno, tra la luce e le tenebre, tra la vita e la morte, soglia e frontiera lungo la quale transita il perituro e l’imperituro, in cui l’Uno si manifesta nella pluralità molteplice, affermazione dell’illimitatezza, dell’armonia nascosta che regola tutte le cose: il movimento degli astri, le fasi della luna che ne fa rifulgere lo sguardo.
Quand’anche la sua vista fosse spenta, il suo sguardo pur rimira nella notte la luce infinitamente lontana che oltre la curva declina all’estremo margine dell’universo, nell’attesa costante del riaccendersi del giorno. E la sua bocca, quand’anche fosse muta, deturpata nell’estremo anelito, pur dice, e il suo dire è logos eterno, è verbo, causa e sostanza che lega l’Uno alla molteplicità delle cose, e tutte le genera nel loro mutare.
Simbolo e mistero dell’enigma che da sempre opprime l’anima umana, la cui misura è nella “misura delle cose”, a cui tutto appartiene: il pensiero dei singoli come l’utopia dei molti, i costrutti e gli amplessi, le argomentazioni e le strutturazioni, così come le costruzioni ardite, le città ideali solidificate entro emisferi di cristallo, verticalizzazioni inimmaginabili che s’impongono come misura di tutte le cose.
In ciò che tutto riassume in modo inequivocabile, il buono e il male, la bellezza e la bruttezza del mondo, il sogno e la veglia, la vita e la morte, in un non-luogo fuori della realtà, all’origine d’una mitologia sommersa che risorta dalle sabbie del tempo, entra nella leggenda, come sulla superficie di una tela o meglio, d’una scultura rubata alla pietra, partecipe della costruzione del mondo, che si erge a difesa di un feudo di sale.
A Ghiza, dove il vento del deserto risveglia il sonno dei dormienti, talvolta si leva il suono d’una melodia, o forse un canto, ora flebile, ora sostenuto, compagno della veglia e del sonno, che ha permesso di chiamare soglia quella che invece è una frontiera posta tra la notte e il giorno, tra l’oscurità e la luce, nel cui spazio interstiziale l’uomo è colui che sta in bilico tra la vita e la morte, tra la fine relativa e la rinascita apparente.
È qui, che nell’assoluto enigma dell’esistenza, la Sfinge leva il suo sguardo altero. Il deserto è là, e invita al mistico sentire l’imperscrutabile bellezza del creato, il cui silenzio rallenta i ritmi melodiosi della vita. Quando la vita oltrepassa la sua naturale durata e s’avvia verso l’assoluto, in cui tutto è partecipazione, tormento, passione, dolore, sofferenza, coinvolgimento d’amore, in grado di sedurre l’animo del più sensibile amante.

Idillio (dell’amore assoluto).

Il Sole era ormai prossimo all’orizzonte quando i due segreti amanti sigillarono abbracciati i lacci scarlatti dei loro pari destini, rivestendoli di una luce morbida e velata, a voler dare una sembianza di conciliazione che attenuava, pur nella lacera e irriducibile tensione dei corpi, il compimento del loro atto d’amore in un unico afflato, che le sabbie del tempo avrebbero reso supremo.
Lui, Leone fiero sotto la folta criniera di fuoco, guardava altero davanti a sé quell’orizzonte lontano, conquistato dalla passione che avvampa, che arde, che brucia, prima di abbandonarsi al tutto. Lei, Leonessa superba e franca, pronta a immolarsi nell’amplesso e diventare con Lui tutt’uno, immagine d’una stessa immagine, androgina e virginea, umana e antropomorfa, s’accovacciava al suo fianco, rapita da una passione che un’idea luminosa e splendente trasfondeva in un lucore arcano e febbrile.
Li sorprese il crepuscolo, che più non era luce e ancor non era buio, ove altre realtà si nascondevano: l’amore e l’orrore, il bagliore e la notte, la vita e la morte, che mute giacevano sopite nel cuore della Terra e nella dissolvenza dell’Aria, che aspettavano d’essere svelate. E come per un’istanza lineare e obliqua, beffarda e terribile, assecondando l’atto del concepimento avito, al tempo stesso, la Terra, “madre di tutte le cose”, li nascose al bagliore del guardo divino.
Allorquando, voltisi a guardare là dove il profondo buio ancora non era, appresero sorpresi d’affrancare il volere supremo di abbandonare il passato, e lasciare che il tempo irrompesse nel mito che sarebbe stato. Non già come ricordo, bensì come anelito estremo, per allontanarsi colà, ove si estendevano le regioni della lunga notte dell’oblio, fin dove l’avesse raggiunti la corretta forma in cui apparire.
“Noi siamo l’ultimo bagliore del tramonto e la prima luce del mattino”, disse superba Lei, e tuttavia muta, che nel pronunciare l’oracolo avrebbe disvelato la profetica aspettativa che sospingeva entrambi a entrare a far parte della bellezza che avrebbero incarnato. Ancorché la sabbia del tempo avesse discoperto, fra l’assoluto e il nulla, l’immagine suscitata da quell’idillio, frutto del loro amore appassionato.
Quella stessa bellezza che imponendosi all’evidenza, ometteva l’ambiguità d’una felicità pur raggiungibile, con una sorta di paradossale equivalenza tra innocenza e male, espiazione del castigo e del dolore, condizione essenziale per la rinascenza dell’androgino che i corpi dei due amanti, in uno solo uniti, avrebbero rappresentato.
Ma la densità dell’ineffabile, che non era della parola, prese luogo in Lui, illuminato ad aprirsi, a mostrare, nella vertigine insidiosa del lucore, sotto lo strato indicibile della sua esperienza terrena, lo strato nascosto dell’altro che avrebbe incarnato, al margine tra la spiritualità e la sensualità, in quel labirinto posto al limite del possibile, in cui tutto infine si perde, prima di assurgere alla soglia dell’eternità, alla struggente bellezza del creato.
Il mito era già lì, presente, immerso nell’abbaglio del Sole del Mattino, “il primo mattino del mondo”, nato da un enigma irrisolto e irrisolvibile dell’esperienza divina, silenzioso eppure vivo, scolpito nella consistenza della pietra. Un’entità dal volto umano e il corpo leonino che si dispiegava in un demoniaco sorriso appena trattenuto, nella bellezza del divino che il tempo non avrebbe mai più cancellato, testimone luminoso di un segreto oscuro che avrebbe attraversato i secoli a venire.
L’Ora era ormai prossima al tramonto, “l’ora più bella”, quando la maestosa Sfinge, levatasi dalle sabbie che la tenevano sommersa, muta parlò dagli antri segreti della pietra d’una verità sommessa e piana, immota eppure in movimento, resa luminosa dalla superiore chiarezza del sapere che l’anima e l’intelletto contemplava: “poi ché del ver m’è tolto, (del nulla) assai m’appago”, avrebbe detto il poeta (millenni dopo) di fronte all’infinita notte che lo sovrastava.

Idillio (della pace interiore).

È qui, che nell’assoluto mistero del deserto, levasi impercettibile il respiro sommesso delle dune, come un suono melodioso che varia nel tono, ora più acuto, ora più basso, quasi di flauto o di strumento a corda; o forse di canto, una remota nenia che i sottili granelli di sabbia sgrovigliano, e che fa vibrare le dune di un tremito sottile, interiore, coinvolgente, capace di sedurre l’animo del più sensibile amante.
Come un sussulto del cuore profondo del mondo, o forse un affanno, che risuona di granello in granello, da una duna all’altra, da un deserto all’altro, il cui flusso sonoro investe l’intero corpo astrale e si conduce nello spazio cosmico, dove finanche l’eternità non ha più senso, poiché nel concerto dell’immenso risuona d’organo ogni singola voce, il pianto, il riso, il canto, ogni battito del cuore, ogni singolo respiro.
È qui, che il calpestio dei Cavalli del Sole, che lo sbattere dell’Ala del Falco, agitano il Leone che si cela nell’amante focoso, al cui fianco la Leonessa dall’ambito cuore, giace sommessa col generoso petto sulla calda sabbia del tempo, nell’attesa d’essere fecondata e che, nel tempo dell’aspettazione, apprende del profondo respiro che le sussurra accanto, acciò che il corpo disciolto dell’amante continui a rifluire in lei.
È come un getto che la sabbia improvvisa accoglie, e che si effonde nella guelta d’acqua purissima, che rende fertile ciò che prima era soltanto seccura; che alla tamerice dona la certezza del rigoglio, alla palma il nutrimento vitale, al sicomoro la gloria di un aldilà sempre fecondo, la cui ombra, che pur si distende sui muri del tempio, riveste di sacro nel canto e nella preghiera levata agli dei che sovente si manifestano tra le sue fronde.
Qui, nel complesso sincretismo della concezione osiriaca, che il ba, il destino oltremondano dei due amanti, s’avvale della certezza, dopo la morte, di continuare a vivere fino al loro risorgere a nuova vita, in un unico corpo, che insieme racchiude e conserva la natura e l’identità di entrambi. Ancorché paghi, guardano alla molteplicità che si rivolge all’Uno, affinché il Tutto sia spinto alla vera bellezza che rende visibile il segreto.
Tanto più nettamente si delinea la dualità dell’Uno, tanto più appare chiaro che nella bellezza svelata può darsi solo il sublime. Acciò che nella coscienza della sopravvivenza individuale, né l’uno né l’altro, preservati nello spirito, desiderano tornare a essere ciò che sono stati, ora che la forza e la regalità del maschio, così come la generosità e l’individualità della femmina, vivono uniti nel corpo accogliente della nuova creatura, la Sfinge dal volto austero, certi oramai “dell’eterno anelito dell’umano sentire”, che non troverà mai fine.
È qui, che più d’ogni altra personificazione, emerge colossale il segreto della sua origine divina, la cui immagine e orientamento la elevano a guardiana del Sole, astro di vita, di luce che scaccia le tenebre. Genio oculare di tutte le rinascite, il cui persistere nel mito sprigiona dallo sguardo avito del suo volto umano, nella manifestazione ierofanica che rifulge dal meraviglioso arco dei suoi occhi.
Simbolo univoco di grande mestizia pur nella sua maestosità, la Sfinge è l’incarnazione vivente di un dio aureolato di fiamme (nemes), che risplende come Hou-de-Horem-Kou, l’Horo (il dio dalla testa di falco) e Râ-Hrakhte (l’occhio che vigila sull’Orizzonte), la cui autorità si riflette nello scettro del potere solare, supporto divino di quello stesso “io”, di cui anche il faraone poteva dirsi figlio.
È questo il luogo, sulle rive del Nilo, che la possente Sfinge, poggia sulla sabbia i suoi crudeli artigli, affondandoli sul corpo massiccio della roccia nella quale si modella a immagine e somiglianza del divino, dal quale sono usciti tutti gli esseri “viventi”, immaginari e immaginifici, oltre che i munifici faraoni che fecero grande l’Egitto, coloro i quali s’apprestarono a significare la preponderanza dello spirito sulla natura umana.
Uno spirito ambiguo e tuttavia luminoso, capace di insufflare tutt’intorno, nelle specie viventi, anime di vita e principi intellegibili, in cui si ravvisa l’accoppiamento sconvolgente dell’animalità sacra e del pensiero divino, il cui limo rigeneratore, elemento primordiale che influisce sull’opera della perfezione, trova nel corpo fertile del proprio essere mascolino/femminino, il suo sfogo e il suo godimento.
È quì, infine, dove la divina Sekhmet mostra i suoi seni rigonfi, provocatori del suo petto, simbolo di ringiovanimento e di rinascita, nel ricordo che si compie “in suo nome” l’immane lotta per la vita, la selezione dei più forti, la fatalità che condiziona le sorti; madre e nutrice la cui interiorità risplende dei sogni e delle incertezze di quell’Eterno che a lei si è ispirato fin dall’origine del tempo.
Se mai gli uomini costruiranno un tempio all’universale bellezza del creato, il suo modello non potrà che essere lei, la maestosa Sfinge, nella sua duplicità maschile, in cui si avverte la forza e l’audacia contenute nel Leone che veglia sulla rinascita del Sole (Horo, Râ); e l’eterno femminino della Leonessa (Sekhmet, Nut) la dea infernale e celeste, oscura e solare, che leva lo spirito di luce e di eterna verità sulla grande anima del mondo.

 

 

 


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