Di questo tavolino al caffè,
dove nei pomeriggi invernali brillava
un giardino di brina,
sono rimasto io solo.
Potrei entrare, se volessi,
e tamburellando con le dita nel freddo vuoto
convocare le ombre.
La nebbia d’inverno sul vetro è la stessa,
ma non entra nessuno.
Il mucchietto di cenere,
la macchia di putredine coperta dalla calce
non si toglie il cappello, non dice allegramente:
Prendiamoci una vodka.
Incredulo tocco il marmo freddo,
incredulo tocco la mia mano:
è così – io sto nel divenire della storia
e loro sono chiusi ormai per tutti i secoli
nel loro ultimo detto, nel loro ultimo sguardo.
Lontani, come l’imperatore Valentiniano,
come i duci dei Massageti, di cui non si sa nulla –
sebbene sia passato solo un anno, o due, o tre.
Posso ancora fare il boscaiolo nel lontano nord,
parlare da una tribuna o girare un film
con metodi che loro non hanno conosciuto.
Posso scoprire il sapore che ha la frutta delle isole oceaniche,
farmi fotografare vestito come usa nella seconda metà del secolo.
Ma loro ormai per sempre sono ridotti a busti in jabot e frac
di un mostruoso Larousse.
Pure talvolta, quando il crepuscolo colora i tetti della povera via,
e fisso il cielo – vedo là, tra le nuvole,
un tavolino che oscilla. Il cameriere volteggia col vassoio,
e loro mi guardano scoppiando a ridere.
Perché ancora non so come si muore per crudele mano di un uomo.
E loro lo sanno, lo sanno bene.
da “Salvezza”, in “Czesław Miłosz, La fodera del mondo”, Fondazione Piazzolla, Roma, 1966
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