- In molti... in molti film c'è una scena ricorrente. -
Rivolgo di tre quarti i palmi al soffitto restaurato, osservando tutti e nessuno.
- Il nostro protagonista sale sul palco, si avvicina al microfono ed afferra le redini del proprio discorso con una battuta a bruciapelo. Il giusto compromesso fra sagacia ed ilare sarcasmo che, puntualmente, suscita nel suo pubblico tonanti risate false oltre ogni ritegno. -
Sollevo l'intera arcata sopracciliare, annuisco e così punto l'indice sul costoso conciliabolo al mio misero cospetto. Ridono.
- Visto? A me è bastato un esempio calzante e senza pretese. Chi, come me, si diletta nell'arte della recitazione sa mentire ed io sono un discreto bugiardo, ma solo se si tratta di farvi credere che non mi chiamo come mi chiamo e che questo non è il ventunesimo secolo. -
La mano che prima si era rivolta al nugolo di pungenti profumi per donna altolocata, misto a dopobarba per uomini che non lo hanno scelto, va a posarsi sul mento irsuto e lì massaggia. Lo sguardo, mimetizzato dietro le lenti degli Oliver People, sfrutta il riverbero delle luci fredde per sfuggire qualche istante alla realtà. Detesto le luci fredde, sono nauseanti ma, malgrado questo posto sia mio, ho potuto dare ben poche direttive.
- Quel che voglio dire con tutta franchezza è che, in frangenti quali questo, non me la cavo degnamente se non distorco almeno un po' le... declamazioni? Chiamiamole pure così. Concluderò in ponderata fretta, confermandovi che è un piacere rivolgermi a voi da un piedistallo e non vi farò credere che sto ostentando. Sono lieto di ricevere baci da questo riflettore e sfido chiunque a confutare quanto affermo. -
C'è tagliente ironia nel mio azzardato sillabare ma mantengo quell'equilibrio, in continua fase di miglioramento, sul quale gli attori devono imparare a non vacillare. Malgrado le mie siano provocazioni sprezzanti, palesi, il tono aiuta a smorzarle e rielaborarle in sorrisi smaliziati ed espressioni contraffatte dall'ipnosi che sto attuando su molti dei presenti: “Dove sono? Cosa dice? Suppongo proprio di dover essere concorde! Mi sta offendendo, forse? Anche se fosse, quest'uomo ha una voce decisamente conciliante. Accattivante. Convincente.”
La mia lingua è un pendolo. Snervo, usuro ed intorpidisco gli spettatori di cui un artista non vorrebbe mai ascoltare il superficiale e danaroso giudizio ma che deve tollerare quantomeno alla prima dello spettacolo. La prima delle prime, ad essere onesti.
- Il Covert Theater è ufficialmente inaugurato e non serve che io mi dilunghi oltre: con “Il Mercante di Venezia” gli è stata resa meritata visibilità. Quel che basta a evitarmi di continuare con un simile sproloquio tanto impersonale quanto ridondante. Confido in una rinascita e, questa sera, siamo solo al principio di un lungo e doloroso travaglio. Non vi resta che bere a spese del neo-direttore, in altre parole il sottoscritto. E se di qui in poi non commenterete più lo spettacolo appena visionato, beh, la prenderò con la filosofia di chi non vi ha preso effettivamente parte. Godetevi quel che rimane di questa notte giovane. -
Un ghigno sornione s’incrina, mentre piego il capo bruno e mi congedo. Scarso ritegno, risultati ottimali: scendo il paio di gradini che mi dividono dalla mortalità sulla scia d'applausi forse inconsapevoli. É meglio che molti di loro non abbiano inteso dove volessi andare a parare ma biasimatemi! Avanti! Mi è stato giustamente imposto di rivolgermi agli invitati in qualità di nuovo gestore del teatro ed io, a mio modo, ho adempiuto. Porre un freno alle mie polemiche sibilline risulta impossibile, è assodato, ma con il tempo ho appreso la maniera di propinarle senza destare tedioso disappunto. Non è un dono, non sono bravo, non ho vinto alcun frisbee. Si tratta solo di una magagna in meno da sciogliere nel bicchiere dal fondo spesso in cui mi sto specchiando proprio adesso.
"Signor Humphrey? I bozzetti in china lungo il corridoio principale sono opera sua?"
Mi si avvicina languida una bruna alta e segaligna. Con i tacchi, quasi raggiunge il mio metro e novantacinque il che è inquietante quasi quanto la contraddizione fra il suo aspetto austero e l’aria goffa e sognante dipinta in volto.
Le ciglia vibrano: deglutisco, prendo atto, sorrido, annuisco.
“Ehi, ho un teatro tutto mio! Ma questo già lo sai: dimmi qualcosa che proprio non so.” Penso fra me e me.
Gli occhi atipicamente spalancati come fauci umide, annacquano la figura che, dinoccolata, mi sosta davanti sull'orlo di spigolosa grazia.
La osservo come fosse una bambina inscatolata all'interno di uno spot a colori e con sprezzante tenerezza - perdonate il litigioso binomio - la compatisco. Il velo pietoso con il quale ho fasciato la mia interlocutrice - come ha detto di chiamarsi? - non è tessuto nella presunzione di un effettivo presuntuoso. Presuntuoso, frustrato, bisbetico ed annoiato individuo: la mia è solidale benevolenza per una squallida pena che provo nei suoi riguardi, nei miei e in quelli di tutte queste vittime del progresso regressivo. Arriccerei una narice al fine di palesare un disgusto trito e poco originale ma, anche se nessuno deve scrivere un libro che mi veda protagonista, sarebbe spiacevole. Perché dedicare smorfie a chi è caduta nel mio irrispettoso tranello, senza prima accertarsi della presenza di una trappola? Forse non volevo abbindolare nessuno, forse volevo sbrigarmi e null'altro o forse... ho colto la palla al balzo. Un patetico guizzo diluito a risollevare quest'animo dissacrante e dissacrato: trarre mere soddisfazioni da subdole capacità oratorie.
Si direbbe che la graziosa signorina mi trovi un bel soggetto su cui testare moine da villica ripulita e anche se non ho ascoltato una parola del suo discorso, il cui principio timido è capitolato nell'ottusa superbia del Saccente Capitale, le permetto di studiarmi seguendo l'indiscutibile linea di parametri totalmente errati. Dal canto mio, faccio altrettanto e attivo con discrezione le mie fasulle capacità d'antropologo distratto. Muove le labbra secondo un ritmo realmente lento solo nella mia mente: la mandibola viene in avanti ed è impossibile non notare come i filari di denti, esageratamente lunghi, spuntino oltre lo strato di rossetto amarena. Ho a che fare con un albionico ronzino le cui abilità di bestia menzognera vanno affinate decisamente meglio. Senza nome, senza spessore, continua nitrendo sull'onda della tattica più usurata del mondo: piuttosto che ascoltare questo soliloquio barocco e di gusto discutibile, che sorridere di compiacimento fittizio come a fornirle un dieci e lode ad ogni conoscenza ben poco inerente ed espressa ostentatamente, preferirei convenire con la sua coraggiosa scelta di giungere al dunque. Gradirei mi sfilasse di mano il bicchiere e la smettesse d'arredare i preamboli: "del suo operato poco mi fotte, signor Humphrey. Piuttosto, fotta me e facciamola finita. Dietro quella parete c'è spazio per entrambi."
E non lo credo perché persuaso d'essere attraente - lo sono, è un dato oggettivo le cui statistiche non vengono da me gestite - ma poiché convinto che, per la trentenne al mio cospetto, l'astinenza sia una brutta bestia. Non è il mio tipo, però mi piace il discorso subliminale su cui edifica la tiritera della donna facile che non vuole risultare tale.
Sesso. Finalmente muta, propone sesso sbrigativo che ponga fine alla propria, pruriginosa agonia. Tornato l’abito alle caviglie nodose, sarebbe libera di sospirare di sollievo. Riapparirebbe indifferente e civettuola ma solo dopo aver sistemato trucco, parrucco, dubbia dignità. Le sue amiche ad aspettarla nei pressi d’alcolici ormai offerti troppe volte. L'unione farebbe la forza: insieme, tra risolini ridicoli, tacchi instabili e forcine sbilenche, si sosterrebbero senza destare particolari sospetti sul loro stato d'ebbrezza. Lei ed io: ognuno per la propria strada come se nulla fosse mai accaduto. Come se davvero avessi creduto al suo vizioso modo di vantare notevole erudizione per impressionabili vittime delle sue chilometriche cosce già avvizzite.
Potrebbe anche sciorinarmi quali problemi le causa la ritenzione idrica, non sforzarsi di trasfigurare il suo repertorio per colpirmi: proseguo imperterrito il mio viaggio psichico sull'epilogo di questo discorso inconcludente. Le permetto d'esaurire le sue dotte fonti mentre sorseggio bourbon e, assorto, mi soffermo sul considerevole strabismo che la contraddistingue dalle sue simili ipertiroidee, come da britannica prassi.Suppongo stia pensando che la trovo oltremodo attraente e lo dimostra l'aria sorniona che le soffia indelicata sui lineamenti ora torti in una smorfia che non ha nulla di voluttuoso. Le labbra sottili, fortemente marcate dal rossetto gestito da mani tremolanti, si muovono senza sonoro ma la colpa non è sua: è mia che, distante anni luce, mi godo mentalmente ben altri spazi e ben altra compagnia. Sono sul punto di rifilarle una scricchiolante scusa della serie: “Mi perdoni. Starei ore ad ascoltarla ma, ahimè, devo contare quanti salatini sono rimasti nell'ultimo recipiente alla destra del tavolo”, quando un miracolo urbano sembra compiersi. L'equino in chiffon ha accorciato di molto le distanze, tanto che percepisco il suo fiato etilico schiaffeggiarmi le guance scavate ma non c'è più tempo: una comare, all'apparenza della sua stessa razza, trotta claudicante su trampoli niente affatto adeguati e, scusandosi alla buona, la trascina via.
Come se qualcuno dall'alto avesse deciso di dare una notevole svolta a questa serata, ecco giungere la compagnia d’attori che hanno lasciato, nei rispettivi camerini, linguaggio desueto e vite di cui mai si sono appropriati. Umili sovrani dell'unica forma di finzione con cui abbindolare la gente e renderla felice, si muovono in due gruppi compatti. L'uno dietro all'altro. Dal canto mio, come fossi inchiodato al pavimento, vengo assalito da un ronzante senso di confusione. Spaesato osservo la fauna circostante farsi sempre più famelica: dunque, sebbene percepisca un lieve capogiro da misantropia cavalcante, riesco a raggiungere un sano compromesso con me stesso. Un'altra risposta sibillina e non saprò contenermi. Un altro intervento tagliente come carta ed il teatro chiuderà ancor prima della pessima e sgrammaticata recensione che sputeranno, con inchiostro sbiadito, sul The Guardian.
Approfitto delle new entries all'ingresso e, in memoria del mio mestiere effettivo, mi mescolo ai teatranti cui passo vigliaccamente il testimone. Saranno loro ad intrattenere questi infanti con la Jaguar.
Finalmente inghiottito dal corridoio, gola arsa da tele e tappeti, mi muovo a passo svelto in cerca di un nascondiglio. Sono diretto verso il nucleo pulsante di quest’edificio ristrutturato di fresco: ampie falcate sicure mi conducono alle porte spalancate, materne, in attesa di un abbraccio. Mi fermo sulla soglia e la distesa di spalti non mi fa desiderare l'aria aperta, né la sigaretta con la quale contrasterei i suoi effetti benefici.
Ho bisogno d’intimità e, lo so, vi fa strano perché non c'entra nulla con l'autentico coito di cui sono cultore indiscusso. Mi chiudo, comunque, la porta alle spalle per non vanificare il segreto di quest'amplesso che non ha niente da invidiare ai piaceri carnali. Sono dove dovrei essere: c'è abbastanza spazio per tutti i Peccati Capitali, spettri invitanti, ospiti cui riservo la primissima fila purché lascino spazio a me, che ho l'impellente bisogno d'essere contagiato dal loro morbo.
Solo e privilegiato, lucido la mostrina di questo binomio sebbene il luogo meriti folle ferventi e scroscianti plausi. Questo, però, è il momento che non sono riuscito a godermi da quando ho stretto nei pugni le redini della direzione. Infimo tassello fuori posto in quest’alveare d'arte in legno e prosa, avanzo esitando sotto lo schiacciante peso di sacra devozione volta al profano. Dinnanzi a me si staglia il mutevole scenario dello spettacolo multiforme. Ora spoglio e non colante pudiche luci vomitate da riflettori pendenti, fonde il buio pesto per immaginifiche rappresentazioni fantasma con il rosso sanguigno, vellutato e pesante telaio di grandi guerre o piccoli sotterfugi. La scelta a chi osserva, quando nulla v'è in programma.
Saturo delle ciarle precedentemente assorbite, mi godo il silenzio santificato da quest’incedere servile: una mano passa in rassegna i sedili che scorrono al fianco come filari di cipressi. Una navata atipica è la via verso una morte cruenta, opulento banchetto per gli occhi maniaci del più appetente pubblico. Sotto le dita, imbottitura morbida e pregna d’odori altolocati; accarezzo lo schienale prescelto dal caos esterno come stessi massaggiando le scapole esposte di un felino mansueto. Sul palmo compare ciò che resta di una vera pelliccia ma non mi attira affatto il gioco secondo cui dovrei indovinare chi, di là, ne indossa una.
Procedo senza lasciarmi distrarre oltre dai falsi perigli del percorso tratteggiato, sino a che non m’imbatto in quattro scalini non ancora tarlati. Come in processione, li salgo recitando a mente una preghiera scostumata fino a trovarmi all'esatto centro del palco. Nessuno a rendermi omaggio. Nessuno a fischiare la mia performance giornaliera.
Senza autentico motivo, batto il tacco della scarpa sinistra sulla pavimentazione lignea. Una, due, tre volte come a rievocare il rintocco che scandisce un'esistenza alla mercè di tutto questo. Sembrerebbe il preludio d'inediti guizzi, a cui nessuno merita d'assistere. Lungi dall'arrotondato cicaleccio all'estremità opposta del mio attuale rifugio, non mi sento più desolato o arido. Qui rinasco dalle grigie ceneri di Dunhill Top Leaf, risorgo come un Cristo in fuga dalle mille ed una maschera e non dimentico come mi chiamo per le troppe volte in cui “Jude” è stato consumato, violentato, abusato. Qui...
“Signor Humphrey?”
Cosa dicevo, in proposito?
“Signor Humphrey?”
E' una voce femminile ma non sa affatto di spasmodica ricerca libidinosa: una goccia d'isteria si discioglie fra le corde vocali di quella che sembra Mrs. Plummer, la mia sottoposta. Ecco che uno spiraglio si apre su ciò che stavo elegantemente aborrendo e compare il disturbo in tailleur.
“La stanno aspettando per il brindisi d'arrivederci.”
Se io non volessi brindare? Se non volessi rivedere una sola fra quelle facce dipinte e preferissi restare qui fino all'indomani?
- Certo. -
Non si campa di “se” o di “ma”. Avere questo, significa scendere a laidi compromessi bene abbigliati.
- Smetto di vivere su questo palco e torno a recitare fra la gente. -
Nuovamente solo, batto le mani poco sopra la sconvolta chioma scura per poi perdermi nel suono rimbombante, infilarmi dentro e smettere di cedere alle cantilene del capriccio. Torno a fare l'uomo. Torno alla frustrazione. Dietro di me, lo strascico finemente tessuto di ognuna delle situazioni che mi calzerebbero infinitamente meglio di quella verso cui sono diretto. Una volta fuori di qui, niente sarà più lo stesso perché tutto tornerà uguale.
[ Racconto terzo classificato al Premio Letterario Nazionale Il Giardino di babuk - Proust en Italie ]
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