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Etnomusica 8: Viaggio nella Musica dei Popoli

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 03/02/2012 10:21:12

ETNOMUSICOLOGIA – 8

“Viaggio nella Musica tradizionale dei Popoli”, di Giorgio Mancinelli.


Si è già parlato di come, mettendo deliberatamente insieme persone di diversa tradizione culturale, la “ricerca sul campo” etnografica fa sì che malintesi, intese e sorprese del genere siano all’ordine del giorno, ma è con simili incontri, e con molti altri, che la ricerca produce gran parte di quanto gli antropologi arrivano a conoscere su gente di altre società. La raccolta dei dati nel corso di un lungo periodo passato a stretto contatto con i membri di un’altra società, considerata ‘osservazione partecipante’, fondamentale nel fornire dati sull’interazione sociale, di quelle che sono le credenze e i valori culturali di una società propriamente formata. Senz’altro il metodo migliore a disposizione di ricercatori e studiosi che aspirano alla comprensione olistica della cultura e della condizione umana. Per la maggioranza degli antropologi culturali la ricerca sul campo (musicologica, sociologica ecc.) è l’esperienza etnografica che caratterizza l’intera disciplina. Pertanto, ogni singola forma di ricerca a qualsiasi livello, anche elaborata, purché veritiera, cioè inconfutabile perché raccolta da fonti attendibili e documentate, ha ragione di essere svolta e trascritta, affinché nulla vada perduto di quanto l’umanità ha prodotto in seno alla formazione, crescita e avanzamento della propria cultura.
Due sono i termini delle scienze sociali per indicare questo processo di sviluppo cognitivo culturale e sociale che il ricercatore deve tenere sempre presenti: socializzazione e inculturazione. Il primo, socializzazione, mette a fuoco i problemi organizzativi che si pongono agli esseri umani in quanto organismi materiali che devono vivere insieme e far fronte alle regole di condotta sancite dalle rispettive società. Il secondo termine, inculturazione, mette a fuoco i problemi cognitivi incontrati da esseri umani che vivono insieme e devono venire a patti con i modi di pensare e di sentire ritenuti appropriati nelle rispettive culture. Serve quindi ascoltare simultaneamente al pensare e all’agire partecipando alle attività caratteristiche riscontrate nel gruppo umano o area culturale che si vuole conoscere, per poterla poi rappresentare, scrivere, o anche agire con l’esperienza stessa. L’opera di socializzazione/inculturazione in realtà produce un ‘sé’ socialmente e culturalmente costruito, non sempre in grado di definire se stesso come identità definita, pertanto necessita di una conoscenza approfondita della teoria olistica dello sviluppo cognitivo, per poter svolgere i compiti richiesti, nella fase di sviluppo della specifica società che il ricercatore tiene sotto osservazione. La distinzione è utile per l’antropologia, perché consente di descrivere le somiglianze e le differenze che si osservano comparando i modi di pensare e sentire nelle diverse culture. la scoperta del mondo in tale contesto non è attività solitaria ma, al contrario, va di pari passo con l’apprendimento delle forme simboliche (di solito la lingua) usate dagli altri per rappresentare il mondo.
Alcune tra le ricerche più interessanti nell’ambito dell’antropologia cognitiva, furono svolte da G.H.Mead (*) e Lev Vygotskij (*), le cui ricerche hanno rivelato che la vita umana è sociale sin dal principio e l’identità individuale si acquista solo nel contesto sociale. Come scriveva Vygotskij. «La dimensione sociale della coscienza è primaria sia cronologicamente che oggettivamente. La dimensione individuale della coscienza è derivata e secondaria». Come Vygotskij, Mead credeva che « ..lungi dal conculcare e danneggiare la natura umana, la socializzazione e l’inculturazione la completino ed esaltino». Infatti, il segreto dell’umanizzazione sta nella padronanza dei simboli, che comincia quando si impara a parlare: «È con il controllo dei sistemi simbolici della cultura che si acquisisce la capacità di distinguere gli oggetti e le relazioni che popolano la realtà e, soprattutto, si impara a vedersi come oggetto e come soggetto». Ma se l’analisi di Mead si concentra in primo luogo sulle interazioni dirette, gli antropologi (e i ricercatori), dal canto loro, hanno bisogno di una cornice teorica che le trascenda. A questo punto ècco diviene importante quanto necessaria l’opera di Vygotskij, il quale offre una visione ampliata del contesto, compatibile con l’analisi marxiana della società, più attenta all’interazione diretta: «Insomma – conclude Vygotskij – l’estensione della zona prossimale dipende da fattori sociali, culturali e storici, che variano da società a società, con conseguenti e prevedibili riflessi sullo sviluppo cognitivo, sociale e ovviamente culturale e artistico».
Non ci rimane che cercarci uno spazio fattivo per il prosieguo della nostra ricerca che ormai spazia in ogni direzione lecita (e illecita), che miri a cogliere fra i molti che abbiamo scandagliato, un carattere universale degli esseri umani e delle culture, che si discosti dall’angusta applicazione della categoria solo ai fenomeni estetizzanti, prodotti da intelletti raffinati nelle civiltà superiori. Noi invece, abbiamo deciso di spingersi oltre, andando a cercare proprio quelle definizioni che più ci permettono di travalicare le barricate della cultura ufficiale che non ci hanno permesso, fino ad ora, di assecondare la conoscenza, con quella che è la realtà odierna. Secondo la definizione del noto antropologo Alexander Alland (*):
«Il prototipo (culturale) occidentale contempla la distinzione fra arte e non-arte. Certi dipinti, canzoni, racconti, sculture, danze ecc. sono considerati arte, altri no. Chi sposa questa opinione sosterrebbe, per esempio, che è arte ‘La Gioconda? Ma non l’immagine di Elvis Presley dipinta su un velluto nero, perché? la risposta forse ha a che fare con la bravura dell’artista nel cogliere qualcosa di importante incarnato da Elvis e con la cultura alla quale appartengono sia l’artista sia Elvis, cioè con il grado di felicità estetica della trasformazione-rappresentazione. Ma la risposta implica in parte anche la forte specializzazione delle società occidentali, che ha fatto emergere un «sistema dell’arte», formato da critici, storici, insegnanti, giornalisti, scuole, musei e simili, come pure artisti di professione. Costoro si arrogano il diritto di definire la vera arte, di decretare gli stili, i mezzi e le forme appropriati, di distinguere tra arte e artigianato. Che per i molti che hanno comprato quei dipinti l’immagine di Elvis creata dal pittore sia piena di significato – che lo stile e il mezzo tocchino la loro sensibilità – non dissuade i suddetti santoni dal considerarli paccottiglia. Così, Elvis su velluto per loro non è arte, perché non affronta problemi di estetica, non concerne né il bello né il vero, non palesa la lotta dell’artista per produrre un nuovo stile di espressione, diverso da tutti gli altri che l’hanno preceduto, o perché l’artista sembra ignorare o disprezzare la sperimentazione stilistica che compone la storia dell’arte occidentale. Ciò nonostante, arte non è solo quel che una casta di esperti definisce tale, ma anche significato, abilità, mezzo».
E se noi rispondessimo che Elvis è arte perché nella trasformazione e rappresentazione della sua immagine, l’artista ha espresso ciò che già era bello in natura?
Ovviamente non è questa la diatriba in cui vogliamo cacciarci in questa sede, tuttavia bisognerebbe rifletterci su e magari farne oggetto di una peculiare ulteriore ricerca, (che ne dite?).
Per comprendere il termine trasformazione-rappresentazione della definizione di arte proposta da Alland, dobbiamo qui ricordare che i simboli rappresentano altro da sé. Essendo arbitrari, in quanto privi di connessione necessaria con ciò che rappresentano, si possono separare dall’oggetto o dall’idea in questione per essere apprezzati in sé, e addirittura servire per esprimere un significato del tutto diverso. Ci sono infatti teorie che dimostrerebbero il contrario, almeno sotto l’aspetto cognitivo interiorizzato. Scrive ancora Alland: «Poiché trasformazione e rappresentazione dipendono l’una dall’altra, esse viaggiano accoppiate. Non è che un altro modo per parlare di metafora: un disegno, per esempio, è una trasformazione metaforica dell’esperienza in segni visibili su una superficie; del pari, una poesia trasforma metaforicamente l’esperienza di un linguaggio denso e compatto. Il processo è uno di quei casi che impegnano l’attività tecnica dell’artista».
Il senso di questa affermazione serve qui a confermare la nostra convinzione che come per la poesia, portata ad esempio da Alland, lo stesso accade per la musica, per il canto o la danza, esattamente allo stesso modo che per ogni altra forma d’arte. Ciò aderisce in modo uniforme al nostro concetto primario che la ‘musica dei popoli’ corrisponde esattamente a quello che i popoli sono nella propria cultura, quindi che i popoli non solo fanno la musica, essi sono la musica che producono. Potremmo anche affermare che la musica è la metafora del mondo in cui viviamo, e viceversa che la musica influisce sulla cultura tanto quanto la cultura influisce sul nostro essere ‘musicali’, ma questo riguarda più quello che è l’effetto della cultura che ci siamo dati sulla musica che produciamo. Quando all’opposto abbiamo visto come una sorta di musica esisteva già in natura, ancor prima che noi umani ne cogliessimo l’intrinseco significato. E questo è un dato di fatto. Ciò a cui invece vuole portare la lunga dissertazione tenuta fin ora, opera in ragione del considerare arte e non, quella che è la trasformazione e la rappresentazione di quanto i popoli hanno trasmesso e continuano a trasmetterci in musica, indipendentemente dalle esigenze tecnologiche e commerciali che ne stanno impedendo la continuità.
Ciò che si vuole qui dimostrare è che, al di là dall’essere perfetta tecnicamente parlando, in quanto artigianale e frutto di esecutori improvvisati, nonché spesso virtuosi, la musica dei popoli va ascoltata e vissuta nel contesto del popolo e della ‘terra’ che l’ha prodotta. La globalizzazione ha recato danni irreparabili alla politica di conservazione delle ‘differenze’, (lasciatemi passare il termine che non è e non vuole avere alcuna declinazione col razzismo), che si cerca di portare avanti nell’arte come nella musica, che invece va letta come opportunità di un distinguere che l’ha fatta grande, altrimenti, ad esempio, non esisterebbero il ‘tango argentino’; la ‘dojna romena’, il ‘trallallero genovese’ ecc. ma solo il tango, la dojna, il canto a orecchio ecc. Ciò vale per tutte le altre forme di espressione popolare, che riguardano le cose e gli esseri umani. Se la natura ci ha fatto diversi l’uno dall’altro ci sarà pure una ragione? Dunque ci ostiniamo a voler essere tutti uguali, perché lo pretende la globalizzazione? Io dico no, siamo perfetti così come siamo. Un mio amico azzarda anche dire che siamo uno peggio dell’altro, ma questo è un altro discorso, e sono certo che il riferimento fosse alla politica, mai la natura comunicazione umana è stata così problematica come nel cercare di costruire il significato di ciò che forse un significato non lo ha. Manteniamo quindi il potere dell’immaginazione che è in noi, conferito a noi stessi, da quel ‘libero arbitrio’ di cui siamo sostenitori, per attingere al potere indipendente direttamente, seppure in modo olistico, dalle fonti cosmiche che, nel determinare le azioni che possiamo o non possiamo intraprendere, pure ci governano.
Facoltà essenziale di tutti gli esseri umani che ci permette di rivestire di significato tutto quello che pensiamo, diciamo e facciamo attraverso quell’immaginazione che ci da la capacità di intraprendere sempre nuove esperienze: «indipendentemente dal grado di complessità del sistema sociale e dal fatto che il potere di coercizione sia o non sia monopolizzato da un’autorità centrale». Hoyt Alverson (*) sostiene che «la fede nel proprio potere di investire il mondo di significato (la “volontà di credere”) e nell’adeguatezza della propria coscienza per ragionare e influire sull’esperienza personale, sono tratti essenziali di ogni identità personale»; e solo quando quell’identità personale è irrimediabilmente annientata dalla deprivazione estrema, quell’essenziale facoltà umana si spegne. Ma il potere dell’immaginazione umana di investire il mondo di significato è anche potere di resistere agli influssi esterni, materiali e retorici. Questa capacità – non solo di scegliere ma anche di rifiutare le scelte alternative che altri vogliono imporre – costituisce il nucleo dell’identità personale dell’uomo, che Alverson definisce come «le convinzioni autentiche della persona riguardo a chi e che cosa è, capaci di resistere ai cambiamenti delle forze esterne che ne dettano le varie azioni sociali. Ciò non vuol dire che gli individui elaborino il significato delle esperienze in perfetto isolamento.
Del resto, tutte le attività dell’uomo, compresi crescita e sviluppo dell’identità personale, si svolgono in un contesto sociale, culturale e storico; inoltre, ogni individuo ha la facoltà di interpretare quel contesto dal proprio peculiare punto di vista, in conformità con le sue esperienze particolari. Ed è su queste leve che invito il ricercatore a fare le proprie valutazioni quando sceglie come campo di investigazione la musica etnica o popolare che sia, pensando che un possibile sradicamento dal contesto sociale, economico, culturale, snaturi la musica dal suo naturale coinvolgimento intrinseco nelle popolazioni che l’hanno prodotta. Dando così luogo a quei cambiamenti sostanziali di valutazione che Emile Durkheim (*) designava come ‘anomia’, cioè «l’incapacità di assegnare un senso (o anche un valore), a quelle attività (manufatti, prodotti, oggetti, cose) elaborate dall’uomo che tuttavia gli sono correttamente riconosciute», in cui pure rientra la musica in qualità del suo carattere ludico. Carattere che Umberto Eco, nel saggio introduttivo a “Homo Ludens” di Johan Huizinga (*), considera «..uno spregiudicato coraggio nel livellare, agli occhi dell’indagine, i portati della cultura “alta” alle manifestazioni della vita (..) come realizzazione di una razionalità immanente, il riconoscimento dei rapporti interumani come base concreta dello sviluppo storico».
Non va qui dimenticato che E. Durkheim si è espresso più volte su come l’oggettivazione della realtà sociale abbia portato al formarsi della coscienza collettiva; che «la realtà sociale possiede una sua oggettività, che si pone come una cosa, come un fatto di fronte a noi; che il fatto sociale è trans individuale: una volta costituito è esterno alle singole soggettività che l’hanno generato, vive di vita autonoma ed è indipendente dalle volontà-intenzionalità dei singoli, e che, una volta costituito come fatto oggettivo, condiziona l’individuo con una forza coercitiva a cui egli non può più sottrarsi, sia dall’esterno (norme scritte, istituzioni, tradizioni..), sia dall’interno (attraverso l’interiorizzazione delle norme e i sentimenti della coscienza). Fautore inoltre del riconoscimento di una “coscienza collettiva” per cui l’individuo scompare completamente nella realtà sociale che Durkheim definisce: «la consapevolezza collettiva è la più alta forma di vita psichica» in senso assoluto. Dal che possiamo ben far derivare la concezione della musica come espressione ricreativa dello spirito all’interno di una sua funzione sociale ben definita. Interpretata così, ècco che l’indole imitativa della musica subito diventa gioco, ludo, elemento competitivo, acquista senso di collettività, uno dei fattori che spingono alla creatività, si consegna al potere intrinseco dell’immaginazione. Sotto questa nuova luce infine, anche la rivalità degli strumenti, lo scambio delle reciproche parti, finisce per essere un gioco, un bellissimo scambio di partiture, di assonanze, di pause, di silenzi, tale è che anche la danza col suo intrecciarsi di passi, di movenze, di salti è gioco, gioco allo stato puro.
Non è forse in questo modo, o i modi, in cui dobbiamo re interpretare il nostro ‘gioco’ di andare alla ricerca della musica dei popoli? Sono sicuro di sì, perché ci offre la possibilità di vedere il tutto con altri occhi, ascoltare con altri orecchi, muoverci e saltellare con altri ritmi, che forse fino ad ora non avevamo mai conosciuti o soltanto mai compresi. Perché è in essi lo spirito del tempo che li conduce, che ha permesso loro di formarsi in una, in molte, tradizioni di cui molti sono i popoli che ne vanno fieri, che non hanno perso l’istintivo piacere che la musica trasmette, da sempre, in ogni angolo del mondo. Non mi stancherò mai di parlare della forza comunicativa della musica e di quella etnica in particolare, perché è in essa infine che ci scopriremo ‘vivi’ , nel ‘senso’ ultimo costante e infinito della nostra esistenza. Come ha scritto Leonardo D’Amico (*), etnomusicologo, in apertura del volume “Musica dei Popoli”:
«Scoprire così che la voce non è solo come ci sembra di conoscerla ma che può essere modulata in mille modi producendo suoni e melodie che vibrano a ogni livello. Scoprire il canto armonico, dove l’artista “canta” due suoni contemporaneamente e che le stesse generano un terzo suono armonico. Per cui il corpus di queste conoscenze orali, delle capacità manuali nel costruire e suonare strumenti, dell’insieme delle conoscenze musicali che ogni popolo ha in sé ed è in grado di esprimere, fino alla sua estinzione, sono un patrimonio di grande valore per tutta l’umanità, carico di significati per la comprensione di se stessa e delle altre culture che la formano, una ricchezza di cui continueremo ad avere bisogno».
“Musica dei Popoli: viaggio nella musica tradizionale del mondo” edito da Atlasmundi.com - Castelvecchi Editore, è però molto di più, a suo modo è un libro di ricerca illustrato e documentato, uscito in sordina nel 2005, sfuggito ai più senza una vera ragione, e del quale sono venuto in possesso solo recentemente. Al cui indice troviamo numerosi nomi conosciuti, oltre a Leonardo D’Amico s’intende, Paolo Scarnecchia, Roberta Tucci, Ignazio Macchiarella, Giovanni De Zorzi, Gilberto Giuntini e altri. Nonché delle belle fotografie che illustrano il volume, firmate da Alessandro Botticelli, Maurizio Mancuso, Giulio Meazzini, Carlo Razzolini, Enrico Romero, Mario Serni, Antonio Sferlazzo. Straordinario il materiale raccolto, l’impaginazione grafica, le ricerche iconografiche, il mare di parole spese nei testi introduttivi e le schede di presentazione degli artisti, tutti di gran pregio artistico da solleticare la curiosità degli addetti ai lavori ma, ancor più, di quanti si avvicinano per diletto o per piacere alla musica etnica. Un viaggio che si ripete con maggiore fantasmagoria nel DVD allegato, regia di Francesco Mizzau che, visto il materiale a disposizione, avrebbe potuto darci qualcosa di più. Pur tuttavia, la sottile polemica intrisa nelle mie parole, vuole significare che non si è voluto cercare il bello in assoluto, proprio perché, come si è detto più avanti, è il contesto che fa la differenza fra il naturale etnico, e il sublime artato. Dunque un DVD che va apprezzato come valore aggiunto a un libro che già dice molto di sé e della materia che tratta e l’azione del Centro FLOG e del Festival Musica dei Popoli come contributo attivo nella salvaguardia e impegno nel prendere coscienza dell’importanza culturale di un patrimonio immateriale che possiamo paragonare alle grandi opere dell’arte del passato, e del nostro più recente presente.
Bene ha fatto Leonardo D’Amico, responsabile per FLOG e direttore artistico del Festival Musica dei Popoli e del Festival del Film Etnomusicale, a realizzare quest’opera che davvero mancava e tutt’ora manca sul mercato librario italiano, e che documenta l’attività partecipata del FLOG (Fondazione lavoratori Officine Galileo) nata nell’insospettabile data 1945, nel cui statuto, pensate, si legge:
IL FLOG.
«..la fondazione si propone di svolgere un’attiva opera educativa allo scopo di migliorare la cultura dei lavoratori delle Officine Galileo e le loro facoltà tecniche e morali, poiché solo attraverso un maggiore approfondimento delle cose della natura e del mondo, gli animi acquistano carattere e gli uomini coscienza del proprio destino».
Incredibile riportare a quella data, il 1945, un’apertura tale e un’iniziativa senza precedenti, l’ultime risalgono alla fine dell’800 inizio ‘900 con Pestalozzi, Pitré, De Martino, Carpitella, Leydi. No, dimenticavo uno scrittore importantissimo che certamente non è sfuggito neppure a voi che leggete, il suo nome era Pier Paolo Pasolini (*) che nel 1975 realizzò la più importante raccolta mai vista sul folklore italiano, titolata “Canzoniere Italiano”. Ma questa è tutt’altra storia che sono certo di poter riprendere in futuro e che comprenderà tutte le Regioni d’Italia. Tuttavia questa del FLOG è degna di essere conosciuta dal più folto pubblico possibile e spero proprio che il Presidente del FLOG dott. Andrea Bellucci, non me ne vorrà, se nell’impossibilità di chiedergli l’autorizzazione, mi permetto di pubblicarla, nel rispetto di come egli l’ha trasmessa a noi nelle pagine del libro sopracitato, e neppure la Castelvecchi Editore:
«Con queste idee, ventisette fra dirigenti, impiegati, e operai delle Officine Galileo si trovarono insieme, di fronte ad un notaio per dare vita alla FLOG. Da quella data e per i sessant’anni successivi, la FLOG. soc. coop. È stata compagna delle Officine Galileo e del quartieri di Rifredi, in tutto il loro travagliato percorso lavorativo e sociale, ha subito necessariamente tutte le trasformazioni che quel percorso le ha chiesto, e principalmente ha dovuto rassegnarsi, nei primi anni ’80, a vedere gran parte del proprio corpo sociale allontanarsi dalla sede originaria di Rifredi, quando le Officine Galileo si sono trasferite nel sito di Campi Bisenzio. Tuttavia ha avuto, nel tempo, anche il merito di realizzare e di diventare proprietaria di uno dei più belli impianti sportivi, ricreativi e culturali della città di Firenze: il Poggetto, mantenendo, unico esempio in Italia di società cooperativa gestita dai lavoratori in modo totalmente volontario, gran parte di quei principi, che sono a fondamento della sua costituzione. Una delle trasformazioni decisa dagli amministratori della FLOG in una riunione del 1975, grazie anche alla collaborazione di alcuni esperti e con il sostegno delle istituzioni locali, fu la costituzione del Centro FLOG Tradizioni Popolari, dove confluì tutto il lavoro, documenti audio-visivi sul folklore nelle varie regioni italiane, archivio fotografico e ricerche bibliografiche, svolto fino ad allora dalla Gestione Culturale. Si trattò di una scelta importante e lungimirante, poiché in meno di un decennio il Centro FLOG Tradizioni Popolari arricchì la sua proposta culturale con il Festival Internazionale del Film Etnomusicale, grazie anche alla volontà della FLOG di offrire al proprio corpo sociale e alla città di Firenze una significativa testimonianza delle tradizioni popolari non solo italiane, ma addirittura mondiali, grazie anche al sostegno di nuovi partners istituzionali: il Ministero dei beni Culturali, la Regione Toscana, la Provincia e il Comune di Firenze. Il lavoro svolto dal Centro FLOG Tradizioni Popolari nei trenta anni successivi alla sua costituzione è andato ad arricchire una già fornitissima Mediateca, documentazione registrata in suono ed in video, che ha avuto il riconoscimento del proprio valore storico e culturale dalla Sovraintendenza Archivistica della Toscana. Proprio questi due aspetti, l’interesse da parte della Sovraintendenza e la qualità di materiale archiviato, ma registrato totalmente su supporti magnetici, hanno destato il mio interesse, come attuale Presidente di questa Istituzione, ad avviare il recupero e la salvaguardia di tutto questo materiale, a volte unico, trasferendolo dai supporti magnetici, degradabili con il tempo, su supporti più sicuri quali CD-ROM e DVD. questo impegno deve essere considerato tuttavia il primo passo, poiché è mia convinzione che questo materiale artistico, pregevole in sé e certamente di grandissima importanza storica, debba diventare patrimonio della collettività, mediante la possibilità di consultazione in rete, in modo che possa essere raggiunto uno dei principi fondanti della cooperativa, cioè il miglioramento degli uomini nello spirito e nella mente. Questo volume, che celebra le trenta edizioni del Festival Internazionale Musica dei Popoli, raggiunge in parte quell’obiettivo, e mi auguro che il lavoro svolto durante il mio mandato di Presidente della FLOG, sia ripreso e possibilmente migliorato dai miei successori» - firmato Il Presidente della FLOG Andrea Bellucci.
Che dire, un bel traguardo raggiunto davvero, e “Musica dei Popoli” è diventato un Festival storico, che dopo tre decenni è entrato a pieno titolo a far parte della storia culturale fiorentina e toscana, e che ha avuto ed ha tuttora, una risonanza a livello nazionale e internazionale. Fin dagli anni Settanta, con i suoi concerti di musica tradizionale e popolare europea ed extraeuropea, il Festival ha dischiuso un universo musicale sconosciuto prima di allora (o noto solo ad una ristretta cerchia di etnomusicologi), introducendo per prima in Italia musiche tradizionali di tutto il mondo: africane, asiatiche, latinoamericane e popolari europee. In tutti questi anni, il Festival ha contribuito a mettere in evidenza il fatto che “la musica” non è solo la musica classica, il pop/rock angloamericano e il jazz, ma che le “musiche del mondo” costituiscono un vasto e ricco patrimonio artistico e culturale, per niente marginale o inferiore rispetto alla musica prodotta dalla civiltà occidentale. Con ciò il Festival ha sempre avuto come obiettivo primario la valorizzazione della musica come bene artistico e culturale, proponendo attività di spettacolo tendenti alla diffusione della conoscenza delle musiche dei popoli all’insegna del relativismo culturale.
Nelle sue 30 edizioni, dal 1979 al 2005 – considerando che per tre anni (1980, 1985, 1987) vi sono state due diverse edizioni, una estiva e una invernale, nello stesso anno – “Musica dei Popoli” ha presentato più di 300 proposte artistiche, tra solisti e formazioni strumentali, vocali, musico-coreutiche e musico-teatrali di ben 80 nazioni dei cinque continenti. Anche per questo “Musica dei Popoli” va considerata come la prima rassegna internazionale di musica etnica e folklorica in Italia e una delle prime nel mondo. Si pensi che la prima edizione del WOMAD , il festival di musiche del mondo voluto da Peter Gabriel e Paul Simon, è del 1982. “Musica dei Popoli” ha dunque il merito di essere stato anticipatore delle mode e dei gusti musicali legati al fenomeno ‘world music’, etichetta comparsa intorno alla metà degli anni ottanta. Né va dimenticato che “Musica dei Popoli” è stato il primo festival a presentare in Europa ensemble come i Musicisti del Nilo (1979), e i Tamburi del Burundi (1980), successivamente passati all’etichetta discografica Real World di Peter Gabriel e quindi entrati nei circuiti commerciali mondiali.
Il Festival “Musica dei Popoli” per primo in Italia ha fatto conoscere il patrimonio musicale di popoli fino allora poco conosciuti o pressoché ignoti, come gli Uzbeki, i Tgiki, i Kazaki dell’Asia Centrale (1985), o come gli Yacuti, i Buriali e i Tungusi della Siberia (1987); inoltre, ha portato in scena feste e riti tradizionali di gruppi etnici africani che, grazie all’isolamento geografico e culturale, hanno mantenuto modi e stili di vita tradizionali, come i Bafut del Cameroun, i Senufo-Fodonon della Costa d’Avorio o i Dogon del Mali. La presenza al Festival di questi gruppi etnici un tempo detti “primitivi”, poi “arcaici” e oggi “di interesse etnografico” , ha indubbiamente messo in luce la problematica inerente la “messa in scena” di pratiche cerimoniali decontestualizzate e defunzionalizzate rispetto all’originale habitat naturale e culturale, lo sradicamento dei musicisti tradizionali e del conseguente effetto di spaesamento, il rischio di eccessiva “spettacolarizzazione” di un evento rituale originariamente non concepito come forma di spettacolo e il rischio di cadere in facili esotismi.
La legittimità o meno di tali “esplorazioni” etnoculturali è un problema tutt’oggi dibattuto (e irrisolto) a livello internazionale tra gli etnomusicologi e i direttori artistici di festival etnomusicali; ma ritenere che per conoscere ed apprezzare la musica di una cultura “altra” si debba “assaporarla” nel proprio ambiente, rischia di diventare una posizione elitaria, snob o (peggio) radical-chic. Forse la risposta a questo dilemma proviene dalla testimonianza di uno spettatore disabile, assiduo frequentatore da molti anni di “Musica dei Popoli” che, dopo uno spettacolo africano, ha ringraziato commosso perché questi spettacoli gli hanno permesso di compiere straordinari viaggi in luoghi lontani. Con l’immaginazione.
Infatti, molte delle manifestazioni che si sono susseguite negli anni, non sono state dei semplici concerti – nel senso di manifestazioni prettamente musicali – ma delle forme di “performing art”, in quanto racchiudevano al proprio interno rappresentazioni coreutiche e teatrali oltre che musicali, laddove il gesto e il suono costituivano un’unità inscindibile. Le forme di teatro orientale pure presentate al Festival, come il Kathakali del Kerala, l’Opera di Pechino, il Teatro delle Ombre Cambogiano, o il Bharata Nathyam indiano, sono vere e proprie forme d’“arte totale”, che includono musica, danza, recitazione, gestualità. Ma non solo. “Musica dei Popoli” inoltre ha avuto anche un ruolo importantissimo nella divulgazione della musica italiana di tradizione orale. «In un paese come l’Italia – come scriveva Diego Carpitella – dalle alte cime colte e dalle altrettanto profonde radici etno-musicali», la rappresentazione di musiche popolari di tradizione agro-pastorale o artigiana ha costituito un momento fondamentale nella concorrenza di stili, generi, repertori e strumenti musicali legati al mondo popolare. Le presentazioni di suonatori e cantori tradizionali hanno messo in luce la ricchezza della musica strumentale e vocale del Meridione italiano, la polivocalità dei ‘tenores barbaricini’, delle squadre di ‘cantori genovesi di trallallero’ o delle ‘confraternite laicali sarde e siciliane’, il ‘folklore vesuviano’ con i ‘cantatori a fronne’ e le ‘tamburiate delle paranza’ di Somma Vesuviana, gli ‘stornelli toscani’ di Caterina Bueno, gli ‘zampognari calabresi e siciliani’, i grandi ‘maestri di launeddas’, da Dionigi Burranca a Luigi Lai, e le grandi voci della musica popolare italiana, da Beppe Barra a Elena Ledda, da Giovanni Coffarelli a Marcello Colasurdo. Alcuni vecchi maestri che hanno partecipato al Festival, come il violinista Melchiade Benni o il suonatore di launeddas Dionigi Burranca, sono oggi scomparsi e le loro esecuzioni, registrate e depositate presso i nostri archivi, costituiscono oggi documenti importantissimi per l’etnomusicologia italiana.
E ancora, al Festival, sono stati rappresentati stili, generi e repertori che difficilmente possono rientrare in una griglia tassonomica, e comunque faticosamente etichettabili come “musica etnica”, tantomeno come world music. Pensiamo, ad esempio alle tradizioni musicali devozionali, come il ‘qawwali’ pakistano, il ‘sama’ dei dervisci turchi, il ‘lila’ degli gnawa marocchini o i ‘canti della Settimana Santa’ delle confraternite laicali sarde o siciliane. Passando dall’ambito sacro a quello profano, questa grande “scatola magica” musicale che è stato il Festival “Musica dei Popoli”, ha visto inclusi anche i canti conviviali d’osteria, dal ‘rebetiko’ greco al ‘fado’ portoghese passando per il ‘trallallero’ genovese, o le musiche di festa, come quella ‘lauterasca’ degli zigani romeni e ‘klezmer’ degli ebrei ashkenaziti. Grazie alla conservazione e catalogazione di questi materiali durante tutti questi anni, oggi la Mediateca FLOG è uno degli archivi più ricchi esistenti in Europa, soprattutto per quanto concerne il campo delle discipline demo-etno-antropologiche (in primis l’etnomusicologia). Il valore scientifico e culturale del nostro patrimonio archivistico è dimostrato dal fatto che dal 1986 parte dei nostri materiali sono sotto la tutela della Sezione Beni Archivistici del Ministero dei Beni e le Attività Culturali.
Il Festival “Musica dei Popoli” che fu iniziato e guidato da Gilberto Giuntini ha visto nel tempo la presenza nel Comitato Tecnico e Scientifico del FLOG: Diego Carpitella (La Sapienza di Roma), Ivan Vandor (Istituto Inter. di Musica Comparata di Berlino), Simha Arom (C.N.R.S. di Parigi), Roberto Leydi (DAMS di Bologna), Guido Turchi (Accademia Chigiana di Siena); mentre la segreteria e il coordinamento organizzativo era a carico di Ingrid van den Assum, il cui contributo è stato notevole non solo nel lavoro organizzativo e promozionale delle attività del Centro, ma anche per il meticoloso e scrupoloso lavoro di conservazione ed archiviazione dei materiali che oggi compongono la Medioteca del FLOG. Va inoltre attestato che il Festival negli ultimi anni, ha saputo tenere fede al suo intento originario, quello di rappresentare culture extraeuropee ed euro folkloristiche tramite le manifestazioni musicali e coreutiche come espressioni artistiche e culturali dei popoli d’appartenenza, e nel rispetto assoluto della politica culturale del Centro FLOG, che si sempre espressa attraverso attività interculturali come festival e rassegne di musica e cinema etnomusicale, diretta al riconoscimento e alla valorizzazione delle diversità culturali espresse attraverso il linguaggio dei suoni. Ed è in questa direzione che il Centro FLOG intende proseguire il suo cammino.
Ma vediamo quali sono stati i programmi di questa importante organizzazione attraverso le locandine e le intenzioni di programmazione dei vari “festival” che troviamo elencati a conclusione del libro, prima di accede al DVD che dimostra “de visu e de facto” quello che il Centro FLOG ha prodotto in questi anni:
1979, 1980,1981, 1995, 2004: “Musica dei Popoli” I, II, III, IV
1980, 1983, 1987, 1996:”Africamusica” I, II
1982: “Sud America Tre culture”
1984: “Musica dell’Himalaya”
1985, 1987: “Musica Tradizionale dell’URSS”
1985: “Genti d’Europa”
1986: “Americamusica”
1988: “Suoni dall’Asia”
1989: “Le vie della musica: Africa, Asia, America”
1990: “Tamburi nel mondo”
1991: “Mosaico Tzigano”
1992: “Le grandi voci della musica etnica”
1993: “Voci e vocalità della musica tradizionale”
1994: “Danzamusica”
1997: “Sonorità Mediterranee”
1998: “Suoni d’Oriente”
1999: “Suoni in movimento”
2000: “Le vie dei canti”
2001, 2002: “La festa e il rito”
2003: “Storie, miti, leggende”
2005. “Pulsazioni”

Vale qui la pena di citare almeno alcuni dei grandi artisti di nostra conoscenza che si sono esibiti, solo per rendere loro omaggio, sebbene anche tutti gli altri presenti nel DVD-Video con una selezione di brani per un totale di 120 minuti di musica e immagini. A loro chiedo venia di non potergli dedicare maggiore spazio benché siano più che degni del nostro riconoscimento. Grazie.

Un bell’esempio non c’è che dire di come avviare e sviluppare un certo interesse in una ricerca che si consolida strada facendo e diventa organizzazione, tendente, a tutti gli effetti, a ‘fare’ della cultura musicale del mondo, un punto di eccellenza della cultura del nostro paese. Che è anche un fare ‘politica culturale’ s’intende, che dovrebbe coinvolgere non solo i semplici cittadini, come si è visto, bensì quegli Enti che sono istituiti per farlo, cioè promuovere la cultura italiana e non solo in tutti i suoi molteplici aspetti e su tutto il territorio nazionale, a cominciare dal Ministero per la Pubblica Istruzione, al Ministero per i Beni Culturali. Non di meno la Chiesa che in quanto a tradizioni millenarie ne avrebbe di cui rivendicare il diritto, e che invece non ha saputo discernere o meglio, ridefinire quelle utili alla comunità cristiana e non, necessarie o quanto meno utili nel promuovere un incontro delle diverse confessioni basato sulle vere ‘necessità’ umane. Così come pure dovrebbe fare l’ “antropologia” madre di tutte le discipline che ne conseguono, che invece di riporre la sua dedizione al cambiamento stando al passo coi tempi, si è consacrata più a descrivere e a spiegare la realtà piuttosto che cambiarla, mentre avrebbe dovuto elaborare strategie atte a risollevare questa nostra società dal torpore spirituale, sociale e creativo che l’ottunde, e aprendo a spazi incontaminati di ricerca. I tempi sembrano reclamare una azione sociale svolta in questo senso.
“Saggezza Tribale e Mondo Moderno”.
È questo il sottotitolo della serie di documentari televisivi Millennium: dieci ore di programma, realizzata dalla PBS, la Tv di stato americana, con il coordinamento dell’antropologo David Maybury-Lewis (*), distribuita in circa 60mila esemplari nelle scuole pubbliche e proposta con successo in diverse reti nazionali: “L’idea è di cercare e conoscere la saggezza dei popoli tribali, di esaminare i sentieri che hanno scelto di non prendere e acquisire da questi processi nuove possibilità per l’uomo. Se iniziamo a capire i differenti popoli nella loro piena umanità, siamo molto meno disposti ad accettare la loro distruzione di massa” – riferisce Raffaello Carabini (*) nel suo articolo pubblicato in New Age /Music del (?), riferendosi al serial documentaristico, girato in 15 paesi diversi del mondo, esamina la sopravvivenza delle culture indigene nel mondo attuale, comparandone il loro assetto sociale con il progresso contemporaneo, in un continuo scambio di idee sulla possibilità di migliore realizzazione dell’individuo nei suoi vari aspetti, famigliari, artistici, politici, di rapporto con la natura, con la spiritualità, con il sesso, con la morte. Nei filmati, infatti, sono illustrati usi e costumi di dieci popoli in via di estinzione, dai messicani Huichol ai colombiani Makuna (all’epoca solo 600 superstiti), dagli aborigeni australiani ai Nyinba nepalesi, dei quali, malgrado le artificiosità, si riesce a compenetrare la forza e la vitalità “millenaria” di canti e suoni antichi, con la modernità e la tecnologia dell’oggi, lanciando un ponte carico di presupposti culturali e umani verso il futuro.
Non va qui dimenticato che lo sviluppo del pensiero e delle facoltà logiche e razionali ha permesso all’uomo di evolversi sino alla realtà attuale. La rapidità con cui è avvenuto questo processo ha però provocato una profonda frattura sia interna che esterna, tra natura e cultura, tra corpo e mente. La sfida dell’uomo contemporaneo è dunque quella di superare questa dialettica, riavvicinando le due polarità opposte, ed in questo lavoro ecco che “l’uomo primitivo che è ancora in noi” ha un suo ruolo, e può contribuire alla nostra autorealizzazione insegnandoci a sperimentare il mondo anche con quella immediatezza e sensibilità che gli sono proprie. Una riscoperta, questa, avviata da innumerevoli nuove proposte portate alla ribalta da artisti musicalmente qualificati che non solo hanno contribuito a portare la musica etnica alla ribalta del grande pubblico internazione, bensì l’hanno fatta ‘rivivere’ in modo splendido alle nostre orecchie, spesso recuperandone lo ‘spirito’ che l’animava. Operazione di recupero? Rivisitazione? Contaminazione? Tutto questo e niente di questo, se ci manteniamo che nel concetto che la musica è vita e continua a vivere con noi, nel susseguirsi delle generazioni e che quindi il riproporsi sulla scena sociale e culturale equivale al suo rinvigorire in altre forme e combinazioni possibili e inimmaginabili. Quelle forme che Roberto Valentino (*), in un articolo pubblicato in New Age /Music del (?) dedicato all’ensemble newyorkese del Kronos Quartet (*) spintosi ad esplorare i confini del suono, ha definito come “nuova proposta” nell’ambito della nuova identità di questo Terzo Millennio:
«Un’immagine quasi da rock band che non è certamente quella consueta del quartetto d’archi di impronta accademica. David Harrington e John Sherba, violini, Hank Dutt, viola, Joan Jeanrenaud, violoncello, hanno dato luogo a un repertorio eterogeneo che abbraccia aree sonore tra le più disparate che va dal jazz al minimalismo, dal rock al tango argentino, dalle avanguardie storiche del Novecento a quelle più provocatorie e graffianti dello scenario odierno. Che, al di là del riconosciuto valore tecnico individuale e collettivo, hanno aperto a un modo di intendere la musica senza più barriere culturali, senza più ostacoli e muri frapposti fra un genere e l’altro, senza più preconcetti verso musiche considerate “altre” o “extra”. Questi i segni distintivi più apparenti del gruppo, proprio per il suo modo di proporsi e per le sue scelte artistiche non propriamente convenzionali, fin dal suo apparire sulla scena mondiale, rompendo con certi canoni della cultura così detta ‘colta’ per sconfinare in aree ad essa estranee, provocando piccole rivoluzioni estetiche dimostrando un’apertura interpretativa fino a non molti anni fa impensabile, fino a conquistarsi uno spazio specifico nella musica contemporanea e probabilmente futura. Insomma, il Kronos Quartet sembra porsi come punto di incontro ideale di musiche e culture diversissime fra loro, in un gioco di commistioni solo apparentemente azzardate e di accostamenti solo di primo acchito disorientanti».
«Ma non è tutto – ha aggiunto poi – dando uno sguardo alla loro copiosa produzione discografica le sorprese non mancano, soprattutto nel confrontarsi con compositori di svariata estrazione artistica e provenienza geografica: se i primi due album si muovono amabilmente attorno a materiale tematico esclusivamente jazzistico (‘Monk Suite’, evidente omaggio a Thelonious Monk, che include però anche un paio di brani di Duke Ellington; e ‘Music of Bill Evans’), i successivi ne ampliano considerevolmente il raggio d’azione, che di volta in volta si trova a confrontarsi con compositori di svariata estrazione geografica, come l’australiano Peter Sculthorpe ‘String Quartet No. 8’, del finlandese Aulis Sallinen ‘String Quartet No. 3’, degli americani Conlow Nancarrow ‘Sting Quartet’ e Philip Glass ‘String Quartet No. 2,3,4,5’, oltre ad una singolare versione di ‘Purple Haze’ di Jimy Endrix, mentre in ‘White Man Sleep’ e il successivo ‘String Quartet No. 2’ compare per la prima volta il nome del sudafricano Kevin Volans, che diverrà uno dei compositori prediletti dal Krons Quartet – insieme a quelli di Bela Bartok, Witold Lutoslawski, H.Mikolaj Gòrecki, Alban Berg, Franz List, e inoltre Charles Ives, Ion Hassell, Thomas Oboe Lee, Ornette Coleman e ben Johnstone autore del celebre ‘Amazing Grace’».
«Niente male come manifestazione di eclettismo, in ‘Winter Was Hard’, John Lurie e John Zorn vanno a braccetto con Astor Piazzolla ‘Five Tango Sensation’, Terry Riley, Arvo Part, Anton Webern. Ma non è finita, per lo più è con i minimalisti che il quartetto sembra voler instaurare un rapporto privilegiato: Terry Riley si avvale del Kronos Quartet per alcune sue ambiziose partiture come ‘Cadenza On The Night Plain’ e ‘Salome Dances For Peace’; Philip Glass chiama David Harrington e compagni per alcuni episodi della colonna sonora del film “Mishima” diretto da Paul Schrader; Steve Rech per ‘Different Trains’ che sul disco fa coppia in ‘Electric Counterpoint’ con l’appannaggio della chitarra di Pat Metheny. Altra prestigiosa e particolarmente significativa collaborazione con David Byrne in ‘True Stories’ e con altri autori di segno diverso, come Sting e il sopranista Stev Lacy, unitamente a pagine di Thomas Tallis, istvan Marta, Dimitri Shosatakovich. Ma sono forse ‘Blak Angels’, scritta da George Crumb ispiratosi alla guerra del Viet Nam e inclusa nell’album omonimo, insieme a ‘Pieces of Africa’ e “Night Prayers”, ispirato da Giya Kancheli, che più ci informano del lavoro impegnativo nella ricerca musicale del Kronos Quartet», e scusatemi se è poco.
Come riporta Raffaello Carabini nella recensione a ‘Pieces of Africa’ (*), e come ha detto durante un’intervista il portavoce del Quartet:
«Crediamo che la nostra musica sia una specie di spugna che ne assorbe altre. È una risorsa naturale che vogliamo dividere con gli altri. nessuno di noi sa da dove verrà la prossima ispirazione, ma la cosa più importante è tenere sempre pronta ed aperta la nostra immaginazione, l’immaginazione è tutto» - e se lo dicono loro, possiamo davvero crederci.
«E infatti, chi se lo sarebbe mai immaginato che il sofisticato quartetto d’archi all’avanguardia musicale colta newyorchese sarebbe andato in Africa a trarre linfa vitale per la sua ricerca musicale a 360 gradi. Dopo un assaggio ridotto con musiche del compositore sudafricano Kevin Volans in ‘White Man Sleeps’, eccoli alle prese con otto artisti del continente nero, presenti in prima persona come virtuosi di strumenti etnici locali. Con il marocchino Hakmoun ‘Shade’ propongono musica cerimoniale sufi; con il gambiano Foday Musa Suso ‘Tilliboyo’ (collaboratore anche di Philip Glass e Herbie Hancock) ci presentano musica tradizionale mandingo; eccoli con il ghanese Obo Addy a fare i cori che accompagnavano i riti sciamanici, sempre combinando il loro stile elegante e raffinato con la forza dei ritmi e delle pulsioni di questi musicisti pieni di naturale vitalità, a dimostrazione della millenaria capacità creativa che l’Africa accoglie in sé, di pura ricchezza sonora».
Eccoci quindi giunti alla conclusione di un altro appuntamento con l’Etnomusicologia, sebbene in parte soggiogati dalle domande personali e dalle risposte forse poco soddisfacenti dovute alle esperienze da me (che scrivo) in parte vissute durante i molteplici viaggi cui ho preso parte con sincero spirito di ricerca, andando a cercare situazioni e a creare presupposti per incontrare alcune popolazioni, talvolta mettendo a rischio la mia incolumità. E ciò non perché abbia incontrato singole persone o intere popolazioni male intenzionate, quanto invece sono occorso in pericoli che avrei dovuto evitare, mentre altri, almeno quelli riguardanti l’integrità fisica o igienico-sanitari è stato più difficile scongiurare, ma questo non scusa il fatto che in qualche caso non ho potuto approfondire la ricerca come avrei voluto. Pur tuttavia a favore della ricerca etnomusicologica fin qui realizzata e che vede la luce una seconda volta, grazie alla diffusione on-line del sito che mi ospita: larecherche.it, che ho cercato di assecondare almeno nel titolo, mi ha permesso di entrare in contatto con “altri” modi di vita e mi ha fatto comprendere quanto l’arbitrarietà della mia concezione originaria, in realtà fosse ristretta. E questo grazie anche al confronto coi risultati soddisfacenti riportati dalle numerose trasmissioni radiofoniche, per anni sollecitate, dalla RAI-Radio, e dalla RSI (Radio della Svizzera Italiana).
Come del resto, se noi tutti, esseri umani, viviamo in mondi plasmati dalla cultura, avviluppati nella trama di significati e interpretazioni che ci siamo tessuti, il nostro compito di ricercatori non poteva e non può essere più preciso, cioè andare per il globo a osservare, raccogliere, registrare, la creazione multiforme delle società culturali che lo compongono e che fanno la storia della nostra specie. Voglio qui ricordare che la scomparsa di queste forme di cultura sarebbe per noi tutti una perdita tragica, perché con essa svanirebbe anche qualcosa di squisitamente umano e la consapevolezza di possibili alternative all’esistenza precaria che conduciamo. Ma come dicono gli autori Emily A. Schultz e Robert H. Lavenda (*), in “Antropologia Culturale”, più volte citato, l’insegnamento dei quali ho preso a piene mani:
«Conoscere ed esperire la varietà culturale fa sorgere, forse inevitabile, il dubbio. Arriviamo a dubitare della validità ultima delle verità fondamentali racchiuse nella nostra tradizione culturale, sancite e consacrate dalle generazioni che ci hanno preceduto. Dubitiamo perché la consuetudine con altri stili di vita rende assai ambiguo il significato ultimo di ogni azione, di ogni oggetto. L’ambiguità è parte integrante della condizione umana e gli uomini l’affrontano da tempo immemorabile grazie alla cultura, che ponendo azioni e oggetti all’interno di un contesto conferisce loro un significato palese. Il dubbio suscita angoscia, ma è anche liberatorio».
Tuttavia esso esiste e come la libertà, è in qualche modo temibile, difficile da impugnare e brandire, e alla dialettica tra libertà e costrizione è affidato il nostro futuro. Sta a noi cercarlo.

Bibliografia:
E.A. Schultz – R. H. Lavenda, “Antropologia Culturale” – Zanichelli – Bologna 1999.
AA.VV. “Enciclopedia della Musica” – Garzanti 1996.
AA.VV. “Music” – Geoffrey Hindley – Hamlyn – London 1978.
R.J.Forbes, “L’Uomo fa il Mondo” – Einaudi Ed. - Torino 1960.

Note:
(*) George Herbert Mead, filosofo, sociologo e psicologo statunitense, è considerato tra i padri fondatori della psicologia sociale.
(*) Lev Semënovič Vygotskij, psicologo sovietico, padre della scuola storico-culturale, è stato definito dal filosofo Stephen Toulmin il «Mozart della psicologia». Solo negli anni ottanta è cominciata una ricostruzione critica dell'opera Vygotskij.

(*) Alexander Alland, “L'imperativo umano”, Ed. Bompiani. Lo studio di Alexander Alland ci offre un importante punto di osservazione su come fondamentali bisogni economici ed esigenze di appagamento emotivo vengono fatti corrispondere a particolari forme di strutture della società, dei rapporti di produzione e dello spazio fisico. Conosciamo dagli studi di etologia l'importanza della territorialità fra gli animali e sappiamo che in parte anche l'uomo risponde a questo esigenza. Ma sono proprio gli studi di etologia comparati a quelli di antropologia che ci evidenziano il radicale distacco dell'uomo dagli istinti elementari degli altri animali, anche dei primati. La caratteristica dell'animale umano è la capacità di strutturare l'ambiente in cui vive per renderlo funzionale non solo ai propri bisogni materiali, ma anche in funzione delle proprie esigenze emotive. Cioè l'uomo organizza lo spazio in cui vive, gli affida delle funzioni simboliche e normative per mantenere la sua struttura organizzativa.
(*) Hoyt Alverson, "From Time to Time Clock Storied” – sulla globalizzazione economica del nuovo millennio," in “Tempo all'alba del nuovo millennio: cambiamenti e continuità, (The Study of Time, X vol.), M Soulsby e JT Frazer (a cura di), (2001 ) 177-188.
(*)Émile Durkheim, francese, è stato un sociologo, antropologo e storico delle religioni. La sua opera è stata cruciale nella costruzione, nel corso del XX secolo, della sociologia e dell'antropologia, avendo intravisto con chiarezza lo stretto rapporto tra la religione e la struttura del gruppo sociale. Durkheim si richiama all'opera di Auguste Comte (sebbene consideri alcune idee comtiane eccessivamente vaghe e speculative), e può considerarsi, con Karl Marx, Vilfredo Pareto, Max Weber, Georg Simmel e Herbert Spencer, uno dei padri fondatori della moderna sociologia. È anche il fondatore della prima rivista dedicata alle scienze sociali, L'Année Sociologique, nel 1898.
(*)Johan Huizinga, “Homo Ludens” – Einaudi Ed.- Torino 1982.
(*)Leonardo D’Amico a cura di, “Musica dei Popoli” con DVD – A. Castelvecchi Ed. – Roma 2005.
(*)Pier Paolo Pasolini a cura di, “Canzoniere Italiano” – Guanda Ed. 1975.
(*) David Henry Peter Maybury-Lewis was an anthropologist, ethnologist of lowland South America, activist for indigenous peoples' human rights and professor emeritus of Harvard University. Born in Hyderabad, Pakistan, Maybury-Lewis attended Oxford University, at which he earned a D.Phil. In 1960, he joined the Harvard faculty, and was Edward C. Henderson Professor of Anthropology there from 1966 until he retired in 2004. His extensive ethnographic fieldwork was conducted primarily among indigenous peoples in central Brazil, which culminated in his ethnography among the Xavante, as well as post-modernist renditions. In 1972, he co-founded with his wife Pia Cultural Survival, the leading U.S. based advocacy and documentation organization devoted to "promoting the rights, voices and visions of indigenous peoples." Former president of the American Ethnological Society. Grand Cross of the Brazilian Order of Scientific Merit, Brazil's highest academic honor, in 1997. Anders Retzius gold medal of the Swedish Society for Anthropology and Geography, in 1998. Sue pubblicazioni: “Prospects for Plural Societies: 1982 Proceedings of the American Ethnological Society” (1984). “Akwe-Shavante Society” (1974);“Dialectical Societies: The Ge and Bororo of Central Brazil” (1979); “The Attraction of Opposites: Thought and Society in the Dualistic Mode (1989); “Millennium: Tribal Wisdom and the Modern World” (1992); “The Savage and the Innocent” (2000) Indigenous Peoples, Ethnic Groups, and the State (2001);“The Politics of Ethnicity:Indigenous Peoples in Latin American States” (2003)
(*)Roberto Valentino, articolo in New Age /Music del (?)
(*)Raffaello Carabini, recensione a ‘Pieces of Africa’, in New Age /Music del (?)
(*)Emily A. Schultz e Robert H. Lavenda (op. cit.)

Discografia Kronos Quartet: (essenziale)

“Released 1985 – 1995” 2CD – Nonesuch 7559 79394-2
“Short Stories” – Elektra Nonesuch 7559 79310-2
“Cadenza On The Night Pain”, con terry Riley –Gramavision 8122-79444
“Winter was Hard” – Elektra Nonesuch 7559 181-2
“Kronos” – Nonesuch 759-79111-2
“Five Tango Sensations”, con Astor Piazzolla - Elektra Nonesuch 7559-79254
“Plays Music of Thelonius Monk”, con Ron Carter – Landmark 2521-81505-2
“Performs Philip Glass” – Nonesuch – 7559-79346-2
“Night Prayers” - Elektra Nonesuch 7559-79356-2
“Black Angels” - Elektra Nonesuch 7559-79242-2
“Hunting Gathering”, con Kevin Volans - Elektra Nonesuch 7559-79253-2
“Pieces of Africa” - Elektra Nonesuch 7559-79275-2
“All The Rage”, con Bob Ostertag - Elektra Nonesuch 7559-79332-2



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