Pubblicato il 24/02/2019 10:31:51
Il Quaderno degli esercizi (1971-1979) appartiene alla produzione giovanile di Vito Moretti che insieme ad altri testi inediti poi confluì per volontà del curatore Massimo Pamio nel volume Una terra e l'altra. Ristampe e inediti. 1968-79 (Pescara, Tracce 1979) ed ora anche in Le case che nen ze chiude (Tabula Fati, Chieti, 2013) dove è racchiusa l'intera produzione poetica in dialetto dell'autore di San Vito Chietino. La sua lettura è interessante perché offre ai cultori e agli studiosi di questa poesia, sempre intrecciata tra motivi individuali e quotidiani e gli interrogativi allargati di una coscienza nel vivo di una inquieta contemporaneità, la possibilità di prender visione della solidità di una scrittura nella sostanza già esattamente matura all'interno di una voce presente e ferma nelle ragioni e nelle ispirazioni interne di un dettato poi pienamente esplicitato negli anni e nei testi successivi. Ed infatti, subito, nel primo testo possiamo imbatterci in una dichiarazione di poetica o se vogliamo nell'orgogliosa pronuncia di un cammino a partire dalle incisioni e dagli spazi che lo determinano. "Da ssopre a stu pendòne"- ci dice- " véde passà ogne delluvie,/e cénere/ e refére" ("Da quest'angolo/ vedo passare/ogni diluvio,/e cenere/ e fantasmi"). Di qui tutto il procedere, disteso in un' adesione quasi complice col lembo natale, è un racconto d'insieme nel richiamo oscuro e malinconico dei suoi elementi- la terra, il mare- in quel germoglio di bene e di pane tenacemente inseguito. Entro un canto nel cui levare non si cercano risposte ma lo scorgere come dal cielo la chiarezza delle cose che restano (l'oscurità diradandosi solo se si ha la volontà di andarla a conoscere come in "Tinghe na chiave") l'ascolto avviene dal basso, nel segno dell'altro, di un'umanità e di una civiltà colta nell'integrità e nel mistero dei suoi affetti e dei suoi doveri. Affermazione dunque di un "pìzzeche de monne" rimesso nella pratica di simbologie e figure familiari ora nel dire di una trasfigurata presenza ora nel rimarco di un pensiero in cui ogni parola "è nu cupirchie/ ch'aripare e métte chiuve" (è un coperchio/che ripara e mette chiodi") là dove l'identità nel rischio del buio richiama al fiorire. Eppure questo incamminarsi ci pare dapprima come la necessaria operazione di un autore nel rivelarsi- nella corrispondenza o meno- al suo carico d'origine. Non il bozzetto allora ma il timbro di una radice, di una voce a sé ascritta nel solco delle sue molteplici forme è ciò che Moretti persegue ed è per questo quindi che il termine "esercizi" risulta riuscito fuoriuscendo la scrittura dalla modulazione- e dalla conta allo specchio- della propria ombra. Il colore è nel chiaroscuro perché nella tonalità di una terra che sa e non si infinge alla vita, raccolta e trattenuta nelle sue logiche, il cuore e la testa nei pensieri che accompagnano fino a sera (prima che il buio s'approssimi e faccia piccoli). Il ricordo ancora vivo della madre scomparsa presto, il rosario della nonna coi suoi grani bianchi e neri, il mondo contadino nelle ansie e le gioie della semina sono solo alcuni dei segni coi quali il pensiero si nutre e procede nella dirittura del percorso. Fondo e baluardo di una coscienza e di uno spazio nei diversi riferimenti che si fa così occasione secondo il tramite della lingua materna della riconnessione del dato biografico "alla comprensione della realtà" nella sua "intimità individuale, alla psicologia della solitudine e alla riflessione sui segni effimeri della storia" come nel 1989 ebbe a rispondere a Vittoriano Esposito a proposito dell'uso del dialetto. Ed è per questo che ne caldeggiamo la lettura: fedele l'arco all'orizzonte, il braccio alla nascita.
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