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Etnomusicologia: l’incanto sottile della musica giapponese

Argomento: Cultura

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 31/10/2018 16:42:15

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGIA XIV – prima parte
L’incanto sottile della tradizione musicale del Giappone. (1)

Immagino possa sembrare disagevole per il lettore affrontare il ‘racconto’ che mi accingo a fare in questo contesto sulla musica giapponese di per sé ‘incomprensibile’ all’orecchio di noi occidentali, iniziando proprio dalla forma più difficile da comprendere dei generi di intrattenimento del Giappone, il ‘teatro’ Noh. Tuttavia è nell’espressione di tale forma che ho trovato, per così dire, lo spunto iniziale, da cui partire. È nel teatro infatti, che si sprigiona non solo la musica ma tutta l’arte di questo popolo immaginifico, la cui fantasia creativa ha trovato nella conservazione dei suoi forti ideali estetici, la propria ‘filosofia di vita’.
Si diceva un tempo, e a ragione, che per sapere che cosa saremmo stati in un prossimo futuro, bisognava guardare al Giappone, alla sua estetica aulica e popolare delle arti, alla raffinata eleganza del suo modo di vivere, alla sua tradizione letteraria e poetica, musicale e teatrale, al millenario e filosofico uso delle arti marziali. Quest’ultime non tanto per il loro condizionamento ‘offensivo’, quanto per l’insieme altresì ‘difensivo’, maturato nel rispetto di un eventuale nemico irrispettoso delle regole fondanti del suo comune vivere ordinato e silenzioso, necessario alla salvaguardia della sua cultura millenaria, tra le massime espressioni estetiche del suo popolo.

“Uguisu ni – / “Ah! L’usignolo –
yumesama sareshi / esco da un sogno al suo canto
asage kana”. / (2) riso del mattino”.

È scritto che la consapevolezza di qualsiasi gesto, di qualsiasi parola, di qualsiasi accadimento è di per se stesso una forma di meditazione, un ponderare della mente che tende ad acuire i sensi, nel fluire cosmico dell’esistenza. Un meditare che Ryōkan (3), monaco buddista del Sútú Zen, uno dei massimi poeti e calligrafi giapponesi, ha perseguito nei suoi componimenti poetici che fanno da ‘intermezzo’ al testo di questa ricerca letteraria, nella particolare forma dell’ ‘Hayku’.
Una forma diversa dai modelli stilistici tradizionali della struttura narrativa, in cui prevale il linguaggio scarno, privo di abbellimenti lessicali e di strutture complicate, sebbene, al tempo stesso, profondo e semplice nel contenuto, la cui forza evocativa è originata dalla suggestione propria del sentimento umano nei confronti dei fenomeni interstiziali dei sogni, e di quelli naturali come il trascorrere delle stagioni.
Anche per questo Ryōkan è chiamato “Il poeta dello Zen”, perché nel leggere le sue poesie ci si può fare un’idea della dottrina, della pratica e dei risultati riportati in ambito della cultura orientale, nel perseguimento del ‘sentiero di luce dell’uomo in cammino’, i cui insegnamenti fondamentali si possono riassumere proprio nella meditazione, così come nella libertà interiore, la comprensione, la partecipazione e l’ indulgenza. Insegnamenti questi che vanno al di fuori dei testi scritti, che non si basano sulle parole, ragione per cui lo Zen in Giappone è considerato più che una vera e propria religione: una disciplina di vita.

“Machō shite / “Cima raggiunta
hitoridachi keri / da solo mi alzo in piedi
aki no kaze” / vento d’autunno”

Tuttavia chi vuole vedere nella pratica Zen una mera disciplina solo meditativa, ne tradirebbe l’intrinseca natura, che predilige l’azione diretta e un modo di mettersi in contatto con un’esperienza di vita che non siano vincolati ai dogmi e agli insegnamenti standardizzati. “I Maestri Zen sono a volte personaggi austeri, duri con i propri allievi al punto da usare come sistema educativo il bastone o ogni altra forma di umiliazione, che li impegni in questioni. I cosiddetti ‘koan’, in chiave di domande a volte senza risposta, perché imparino ad arginare la verbosità che contraddistingue i normali esseri umani e, inizino a incanalare ogni loro energia al raggiungimento di un unico scopo, al fine che questo avvenga in una sorta di rinascita interiore, che permetta loro di vedere il mondo con occhi nuovi. Il mondo è sempre quello, ma sono gli occhi a vederlo diverso, rinnovato”. (4)
“Di particolare interesse è il concetto di vacuità (mu), che diversamente dal nichilismo dell’odierna filosofia occidentale, non è di per sé un termine negativo, di privazione (o sottrazione di qualcosa), piuttosto uno stato di germinale possibilità dell’essere, una condizione che rende plasmabile qualsiasi verità successiva. Il suo simbolo, ‘Ensō’, è raffigurato da un segno circolare chiuso, tra i più potenti dello Zen. La meditazione si pratica preferibilmente nella posizione seduta, ‘zazen’, per quanto ogni scuola ha la sua pratica di meditazione e di concentrazione: ‘portare la mente alla calma interiore’, ‘raggiungere uno stato di profonda consapevolezza’, ‘pervenire alla capacità di osservazione e autoanalisi’” (5).

“Kakitsubata / “Un giaggiolo
ware kono tei ni yoi / accanto al mio capanno –
ni keri” / inebriante”.

“Ognuna di esse, comunque, indirizzata a scopi diversi: ‘meditazione del non-coinvolgimento’ che tende a superare i problemi del quotidiano in forma equanime e compassionevole; ‘meditazione profonda e più impegnativa’ che prevede la rinuncia alle comodità e alle distrazioni mondane’, che conduce alla liberazione completa dai condizionamenti e alla realizzazione di uno stato sereno, illuminato e compassionevole, detto anche ‘Nirvana’.” (6) Pratiche queste che hanno portato la meditazione Zen ad alcune ‘varianti’ all’interno delle diverse discipline, e di alcune espressioni artistiche, inclusa la musica.
Non è difficile, infatti, trovare accostati mondi musicali diversi, anche lontanissimi tra loro nel tempo e nello spazio, commistioni di generi inconsueti nel pop, nel punk-rock, e perfino nel bluegrass e nel salsa, sfruttando i mezzi tecnologici più sofisticati, finanche l’uso di strumenti elettrificati e computerizzati nell’elaborazione di composizioni tradizionali, e negli strumenti come il tamburo ‘taiko’ e il ‘koto’ a corde, lo ‘shamisen’ e le campane ‘tubular bells’. Si spiega così il perché nella musica contemporanea del Giappone, sono rintracciabili elementi diversi che sono serviti di base all’attuale cultura musicale.

“Mahiru naka horori / “A mezzogiorno
horori to / appaiono un po’ ovunque
keshi no hana” / i papaveri”.

Vale qui la pena di apprendere che il ‘nucleo orbitante’ della millenaria cultura musicale giapponese, è presente in molte varietà di stili e ancora oggi praticata in numerose occasioni comunitarie. Almeno una parte consistente di essa, che va dall’VIII al XVI secolo, è parte costitutiva del ‘Gagaku’ (7), una forma di ‘musica di corte’ semi-classica, elegante e raffinata, riservata al cerimoniale della Casa Imperiale, che presenta una certa ricercatezza nello stile e nella struttura melodica, pur avendo mantenute le coloriture di base e i timbri preminenti della musica popolare. Lo strumento principale di questa musica è il ‘koto’ introdotto dalla Cina nell’ VIII secolo spesso usato in chiave solistica.
Si tratta di una lunga cetra di prezioso legno di paulonia, specifico nella costruzione degli strumenti musicali, con tredici o diciassette corde di seta, tese agli estremi del corpo incavato che fa da cassa di risonanza. Ogni corda attraversa un ponticello mobile rigorosamente d’avorio, necessario a determinare la lunghezza della parte vibrante. Il musicista stimola le corde con tre linguette d’avorio fissate nelle tre dita: il pollice, l’indice e il medio della mano destra procurando al tempo stesso le diverse vibrazioni sonore di diverse corde. La stessa musica per ‘koto’ venne successivamente utilizzata per l’accompagnamento nei canti appartenenti alla tradizione ‘shamisen’, una sorta di ‘liuto’, che ha dato origine all’ ‘ensamble koto-shamisen’, sulla cui musica in seguito, si sono sviluppate forme di polifonia più sofisticate, a suo tempo codificate su manoscritti di difficile interpretazione, il cui segreto è conosciuto da pochi maestri.
Rientra nella medesima formazione classica detta ‘koto-shamisen’ un strumento ricavato dalla canna di bambù, si tratta di un flauto dritto lungo almeno 54 cm. che prende il nome di ‘shakuachi’, in origine utilizzato dai monaci buddisti erranti della setta ‘Fuke’, il quale, conservato a sua volta da possibili contaminazioni, ha dato forma al genere ‘kinko-shakuachi’ di alta levatura musicale che trova nella particolare tecnica di soffio nello strumento, effetti sonori di un colore molto delicato, quasi onirico, artisticamente misurato sul respiro della natura. La grazia e la rafinata eleganza prevalentemente poetica e musicale di tanti suoni melodiosi, talvolta sfumati e quasi evanescenti, non a caso si confonde con lo ‘spirito creativo naturalistico’ della concezione estetica di questa antica ‘terra dei ciliegi in fiore’.

“Mizu no mo / “Superfice d’acqua
ni ayaori midaru / ornata come seta
haru no ame” / pioggia di primavera”.

Quando nel 1984 Takeo Kuwabara (8), professore emerito dell’Università di Kyoto e Membro dell’Accademia d’Arte del Giappone, confermò la sua assistenza alla delegazione culturale del Giappone in occasione della rappresentazione di uno spettacolo del teatro Noh, alla presenza di S.S. Giovanni Paolo II da parte della Scuola Takigi-Noh diretta dal Maestro Iwao Kongoh, l’avvenimento rese gran parte dei rappresentanti culturali intervenuti, meravigliati e senza parole. Non tanto per l’avvenimento in sé, quanto perché la messa in scena di “Hagoromo” (L’abito di piume) sarebbe avvenuta di notte e all’aperto, con l’illuminazione di un falò che riprendeva in senso letterale la forma drammatica del Takigi-Noh, il cui significato è “Noh con legna da ardere”, tra le più antiche dell’arte del teatro giapponese.
Le cronache dell’epoca riportarono che l’evento serviva a formalizzare l’incontro delle due diverse culture, quella italiana e quella giapponese, e che fu un grande onore per entrambe le delegazioni delle due diverse culture, caratterizzate da una medesima volontà di ravvivare l’antica amicizia nel segno della pace e della fratellanza tra i popoli. Il fatto che un dramma proprio della tradizione giapponese venisse eseguito non solo sui palcoscenici di Kyoto e Tokyo ma anche a Roma e a Firenze, in quanto predominanti città d’arte, forniva inoltre l’occasione per un incontro dello spirito orientale con quello occidentale, lo spirito del Noh con il misticismo del Cristianesimo. Di fatto la rappresentazione si svolse in notturna nei giardini della residenza papale estiva di Castelgandolfo, avendo come sfondo non la tradizionale ‘casa’ del Nō, ma un giardino di tipo europeo e alla luce di un grande falò. Come Takeo Kuwabara (9) ebbe a dire in quell’occasione: “È di grande significato per la storia della cultura universale il fatto che il Noh venga altamente apprezzato e che trovi anche qui una sua specifica affermazione e un suo eccellente consenso, al pari di molte altre forme di spettacolo”. (9)

“Yama wa hana / “Montagna in fiore
Sakeya sakeya / solo un grido: sake, sake!
no sufibayashi” / l’eco dei boschi”.

Il Noh in quanto forma di teatro-danza è considerato ufficialmente una cerimonia rituale, l’esempio più tipico del teatro drammatico giapponese pressoché unico al mondo. Nel periodo Tokugama ricevette una speciale protezione da parte governativa e tenuto al riparo da ogni sorta di contaminazione esterna. Nei suoi 600 anni di storia è sempre stato eseguito al chiuso durante le cerimonie di stato e in quelle più rappresentative della cultura propria del Giappone. Come si rileva dai testi narrativi che privilegiano in tutto e per tutto la forma lirico-poetica, nell’uso dei costumi tradizionali di pregevole fattura indossati durante le rappresentazioni, nelle trame dai disegni di natura simbolica e nelle decorazioni di stravagante bellezza. Il tutto di una delicatezza piena di sensibilità per il dettaglio e una percettibilità artistica non comune ad altri popoli, come dire, più raffinata, sebbene in Cina e forse in Corea si respiri una corrispondenza molto affine e tuttavia diversa.
L’antica arte del Noh si caratterizza per il simbolismo molto accentuato, spesso di difficile interpretazione per i suoi toni aspri, talvolta violenti, coadiuvati da una gestualità affine alla cultura dell’epoca in cui si è affermato, di fatto conserva intatta la sua vitalità del teatro aulico medievale. Si svolge su un palcoscenico essenziale, cioè scarno di elementi scenografici, sotto una struttura architettonica che rappresenta la ‘casa’ tipica, con il pavimento ricoperto da uno strato di stuoie di paglia di riso, dette ‘tatami’, comuni in tutte le case giapponesi. Non si fa uso di una scenografia mobile, bensì solo di un fondale con il disegno stilizzato di un pino, quanto basta a eludere ogni tentativo di creare l’illusione ‘teatrale’, contrariamente del teatro occidentale, non minimalista.

“Yamashigure sakaya / “Pioggia di motagna
no kura / nel magazzino di sake
ni nami fukashi” / grandi pozze d’acqua”.

Eppure l’illusione drammatica è resa intensamente, allorché nel repertorio del Noh si conoscono almeno 250 caratterizzazioni che distinte in cinque categorie: Divinità, Uomo, Donna, Pazzia, Demonio, che agiscono in continuo contrasto con la vita e la morte, a cui si fa spesso riferimento nei testi. Un teatro questo caratterizzato dall’uso di maschere dai caratteri spesso terrificanti, seppure di una bellezza straordinaria, che s’avvale della genialità del gesto cόlto nell’attimo riflessivo che lo determina, reso altresì vitale dai movimenti/atteggiamenti dei corpi in movimento. L’espressività ‘austera ed aulica’ delle maschere gioca in questo caso un ruolo catartico essenziale, peculiare dei sentimenti dei diversi personaggi che gli attori si trovano a interpretare, al cui servizio operano per ogni spettacolo portato in scena, decine di insegnanti di ‘stile’, per quanto riguarda la gestualità; e altrettanti per la ‘modalità’ del canto e l’utilizzo della musica sempre misurata al gesto che accompagna.
Ciò, per assecondare i movimenti stereotipi del corpo, studiati fin nei minimi dettagli, del protagoniosta principale, lo ‘Shite’, il quale porta sul volto una maschera priva di espressione emotiva, tuttavia utilizzata in chiave mimica sulle emozioni e i più reconditi sentimenti umani. La rigidità dell’abito che indossa, lo mantiene in una postura innaturale che facilita il suo corpo, protratto leggermente in avanti col busto, nel trovarsi pronto per il movimento successivo. Di fatto all’interno della figura ‘stilisticamente esagerata’ modellata dalla linea severa dell’abito, il corpo dell’attore vi si conforma, nascondendo così l’esistenza visibile della propria persona, avvicinandosi così al personaggio verosimilmente reale che interpreta.
Va inoltre considerato che ciascun movimento eseguito dall’attore sulla scena serve a esprimere un’emozione convincente, intrinseca della ‘filosofia estetica’ di ogni forma tetarale giapponese, di cui il Noh rappresenta la massima espressione: sia per la sua portata di ‘bellezza’, il cui splendore si vuole sia assoluto ‘privilegio dei vivi’; sia perché in netto contrasto con la staticità della morte che, per quanto possa essere equilibrata, sia comunque ‘privilegio dei morti’ e non merita l’appellativo di bellezza.

“Ake mado no / “A vetri schiusi
mukashi oshinobu / m’assale il passato –
sugure yume” / sogno reale”

Il ruolo principale tenuto dallo ‘Shite’ (che letteralmente significa ‘ombra’), prevede un compagno di scena, lo ‘Tsure’, in rappresentanza di un suo probabile ‘doppio’, i quali, di sovente rappresentano fantasmi o incarnano spiriti di uomini del passato, oppure un animale o talvolta una creatura sovrumana. Altra figura importante, seppure ricoprente un ruolo secondario, è il ‘Waki’ che a sua volta ha un compagno, il ‘Wachi-Tsure’ che, diversamente dall’aulico Shite e dal suo doppio Tsure, non indossano la maschera mostrando in tal mondo di vivere nel presente, e la cui presenza in scena funziona da collegamento tra il mondo astratto con il mondo reale.
Come neppure indossa una maschera il ‘Kokata’ l’attore che interpreta il ruolo del ragazzo, e che interviene di tanto in tanto sulla scena, a portare una ventata di freschezza giovanile e richiama all’attualità rinvigorita del costume tradizionale.
Il perché di questa differenza si spiega col fatto che in un’opera Noh, soltanto lo Shite è il personaggio centrale del dramma, mentre tutti gli altri non hanno in realtà alcuna influenza sulla vicenda che si svolge sulla scena, sebbene la loro presenza serva a sottolineare la cancellazione dell’individualità (maschile) dell’attore che si trova a sostenere anche i ruoli femminili, ne imita i gesti e le movenze, la voce nei dialoghi e nel canto.
Molto quindi è lasciato alla bravura degli attori, veri e propri professionisti che con la loro eccellenza artistica rappresentano l’anima del Noh, resi famosi su tutto il territorio e i cui nomi sono tenuti in grande considerazione dal cόlto popolo giapponese. Prendiamo ad esempio un attengiamento tipico di un personaggio quale appunto lo Shite: avviene che durante la rappresentazione egli dia con la testa un piccolo colpo in avanti, e la sua maschera subito riflette un’espressione di profonda disperazione; solleva il mento e la sua maschera diffonde una gioia impetuosa, a sottolineare l’alone misterioso che circonda il teatro Noh.

“Aki hiyori senba / “Cielo chiaro d’autunno
suzume no / tutti quei passeri –
haoto kana” / frullare d’ali”

“Hagoromo” (10), l’abito di piume (10), è uno dei più affascinanti e più apprezzati fra tutti i drammi Noh, si basa su un racconto popolare di pregevole fattura. In esso si narra, in una forma molto semplice, la storia di una Vergine Lunare che esegue una danza per un pescatore di nome Hakuryo, allo scopo di riavere il suo abito di piume che egli ha trovato in riva al mare nel quale si era immersa per nuotare, ancorché, essendo lei una creatura del cielo deve ad esso fare ritorno. La scena ha luogo nella baia di Mio a Suruga, un luogo noto per la bellezza del litorale e la veduta del monte Fuji:
“È una mattina di primavera e Hakuryo se ne sta immobile a godere la limpidezza del giorno quando improvvisamente avverte ‘una musica nel cielo, una pioggia di fiori, una fragranza celeste diffusa in tutti i lati’. Allorché, scoperto un meraviglioso abito di piume, lo raccoglie e si accinge a tornare a casa rallegrandosi della sua fortuna, una voce che lo chiama, chiedendone la restituzione. Avviene però che una voce ‘fantasma’ l’avverte della peculiarità dell’indumento, in quanto si tratta di un abito sacro, la cui perdita getta nella disperazione la fanciulla, senza il quale avrebbe perso la sua divinità. Quindi, posto davanti all’afflizione della fanciulla, Hakuryo, si dice disposto a restituirlo solo se ella acconsentirà ad eseguire per lui una danza celeste.
La fanciulla acconsente ma dice che prima deve avere il vestito per mostrargli una tale danza. Timoroso che la fanciulla lo inganni e che una volta riavuto l’abito voli subito via, Hakuryo rifiuta di nuovo, venendo sul momento ammonito dalla voce che: “il dubbio è per i mortali, in cielo non c’è inganno. Al dunque egli, rosso di vergogna le restituisce l’abito di piume col quale ella si appresta alla danza in una constante esaltazione della meravigliosa scena primaverile, accentuata dalla lirica salmodiata del testo eseguita dal coro, sulla musica ‘naturalisticamente astratta’ degli strumenti”.

“Yoi fushi no kotoro / “Dove assopirmi
wa koko ka / in questo stato d’ebbrezza –
hasu no hana” / fiore di loto”.

Il canto qui utilizzato si avvale di un testo antichissimo, tramandato di generazione in generazione, improntato sulla creazione del mondo e delle meraviglie del Palazzo della Luna, dove trenta fanciulle, metà vestite di bianco e metà di nero, eseguono i propri compiti a rotazione, determinando le fasi della luna, da quella nuova a quella piena, di pari passo con l’avanzare del racconto: “Nel frattempo appare in scena lo ‘Shite’ (voce altera del destino) con la maschera, e rivela le trame oscure del dramma (e del testo al pubblico presente). La bella maschera ‘zoh-onna’ dai lineamenti molto raffinati, talvolta maturi e gravi usata per i ruoli di creature celesti, incoronata da un diadema di metallo filigranato con un lòto bianco, fa il resto. La fanciulla, dopo aver reso omaggio a Seishi, il Monarca della Luna e alla Trinità Amida, manifestazione di saggezza, inizia una lenta danza accompagnata dalla musica, sostenuta dal coro, ‘Jiutai’, che si unisce nell’esecuzione per aggiungere alla stessa un tocco di colore e di appassionato sentore”.

Mi soffermo qui affinché si possa solo immaginare questo ‘bagno di bellezza’ in tutta la sua apparente semplicità, in cui la parola ‘immobile’ riferita ad Hakuryo disegna un quadro di pura limpidezza, un’assenza di sofisticata somiglianza che temporeggia nel ‘vuoto’ momentaneo, che di fatto non appartiene al ‘nulla’ assoluto. Immersi in questo incanto, immaginiamo quali sottigliezze avalla la mistica avvenenza del fatto soprannaturale descritto, quale raffinata arte scaturisce da una simile padronanza di linguaggio musicale, gestuale, rappresentativo, che la cultura giapponese ha verosimilmente regalato al mondo intero.

“Onajiku ba / “In questo posto
hana no moto / sotto il ciliegio in fiore
ni te hito yonen” / dormire una notte intera”.

Sono detti ‘Hayashi’ gli artisti che si esibiscono in musica nei quattro strumenti utilizzati nel teatro Noh: il flauto ‘shakuachi’, detto anche ‘nōkan o nohkan’; il tamburo ‘kotsuzumi’ o ‘ōtsuzumi’ ‘tamburo celeste’. Una tipica performance Noh deve coinvolgere questi elementi, il canto dello Shite e del Waki e il coro. L’esecuzione si avvale del tono alto del flauto che, con ingegnosi cambiamenti di tempo, serve ad accompagnare i passi di danza, in cui l’attore consumato (ricordo qui che anche la parte femminile è ricoperta da un attore uomo), fa sfoggio di un’ampia serie di sottigliezze mimiche, muovendosi all’unisono con la musica ‘stereotipata e minimalista’; fatta talvolta di brevi suoni pizzicati e/o stirati, seguiti da lunghe pause di silenzio meditativo. Quello stesso ‘silenzio’ – ad esempio – che abbiamo letto nel testo, lì dove Hakuryo immobile, si gode la limpidezza del giorno di primavera, quando improvvisamente avverte “una musica nel cielo, una pioggia di fiori, una fragranza celeste diffusa in tutti i lati”.

In una lettera citta da Arthur Waley (11) nel suo più noto reportage dal Giappone, un inssolito spettatore, dopo aver assistito al+ questo stesso dramma in Giappone, scrisse quanto segue: “Certamente più io guardavo la fanciulla divina, più mi appariva in azione, benché a volte l’azione se realmente avveniva, era così lieve che poteva soltanto darsi che essa ci avesse portati al punto da notare il suo respiro. C’è stato solo un movimento rapido nella danza (forse a causa di un leggero soffio di vento) da poter ricordare: il lancio della rigida larga manica al di sopra della corona con il suo loto e i campanelli pendenti. La cosa più bella che abbia mai visto.”

“Inabune ya / “La barca del riso
sashi yuku kata ya / si dirige dritta verso
mikka no tsuki”. / la falce di luna”.

Ma ècco che il tempo della musica accelera prima della fine della danza, “..allorché la fanciulla celeste, avendo mantenuto la promessa fatta ad Hakuryo, si accinge a lasciare la terra e a tornare alla sua casa sulla Luna. Quindi, fatto il giro del palcoscenico eseguendo le sue esemplari evoluzioni col ventaglio, onde spargere il suo ‘tesoro di bellezza’ sulla terra, inizia la sua ascesa al di sopra delle montagne di Ashitaka, mentre la sua immagine svanisce assorbita dalla bruma celeste sull’alto picco del Fuji yama”. L’esecuzione è accompagnata dal Coro che sottolinea descrivendole le diverse danze delle sue compagne lunari”.
Come un fiore austero ed elegante che trascorre sulla corrente di oltre 600 anni di storia attraverso periodi di turbolenza e di calma, l’arte del Noh è diventata il simbolo della caducità e insieme dell’eterno rinnovarsi della ricerca più profonda della manifestazione e dell’intelligenza, della bellezza e dell’essenza della realtà: un arazzo d’immagini e di suoni tessuti insieme con le trame più belle, accuratamente scelte in fatto di scrittura e di poesia, di musica, di danza, nonché delle arti più semplici elevate qui alla ‘nobiltà’ del vivere quotidiano, come la tessitura e l’artigianato, l’estetica di disporre i fiori ‘ikebana’, e la cerimonia del tè, in cui nulla è lasciato alla casualità. Ciò, per quanto il Giappone sia oggi anche uno dei paesi più industrializzati del pianeta, che ha conservato la sua millenaria tradizione insieme ad altri aspetti del suo passato, continuando a vivere con naturalezza, pur in mezzo a tanta frenesia tecnologica.

“Yoshi ya nen / “Che piacere dormire
Suma no ura / sulle rive del Suma
no nami makura” / le onde come cuscino”.

Altri generi di arte teatrale giapponese sono il ‘Kyogen’ (12) (lett. "parole della follia"), è una forma di teatro risalente al XIV secolo. In cui si fa uso di maschere. Essendosi sviluppato assieme al Noh ed essendo rappresentato sullo stesso palcoscenico, come intermezzo tra un nō e l'altro, viene anche chiamato ‘nō-kyōgen’. I suoi contenuti sono tuttavia diversi rispetto a quelli del teatro Noh: il Kyōgen è una forma comica, il cui scopo è produrre nel pubblico il ‘warai’ (lett. ‘riso, risata’). Ma è il popolare ‘Kabuki’ (13) il cui significato letterale è ‘canto-danza-teatro’ e che quindi è in grado di accogliere la musica in tutti i suoi più svariati aspetti di utilizzo e a tenere la scena nell’attuale teatrale in Giappone. Non a caso il ‘Kabuki’, in quanto sintesi spettacolarizzata ha contrassegnato, negli anni ’70 del millennio appena conclusosi, un forte richiamo sulle giovani generazioni e un seguito ambivalente sulla scena nazionale e internazionale nell’evoluzione della musica contemporanea.
Occorre però fare un salto nel tempo prima di giungere ai nostri giorni, cioè prima di affrontare un esame comparativo che richiede uno spazio descrittivo a se stante, di cui nondimeno proverò a relazionare più avanti. Per ora soffermiamoci sul teatro Kabuchi in quanto forma di spettacolo ‘totale’ e sul vasto repertorio in fatto di danza, canto, musica e recitazione, che ha permesso e continua a sfornare una gran varietà di drammi sia di carattere narrativo storico-mistico, sia comico-musicale, nelle forme di danza-balletto con o senza narrazione, e che si fondono insieme nello ‘spirito’ innato, improntato sul fantastico, proprio dei popoli orientali in genere, in cui si rispecchiano le usanze e le tradizioni tutt’oggi in uso. Cosicché anche la musica, usata come sottofondo per i diversi generi di spettacolo cui fa da accompagnamento, trova una sua forma di comunicazione collettiva e di trasmissione della cultura.

“Ikiseki to noborite / “Piccoli stormi d’aironi
kuru ya / solcano il cielo –
iwashi uri” / crepuscolo d’autunno”.

È parte preponderante del tatro Kabuki il dramma danzato dal titolo “Kanjincho” portato in scena dalla Compagnia di teatro Popolare Kinoshita-Kabuki (14), in cui si narra la storia di un eroe mitologico: Minamoto Yoshitsune, il quale, a causa di un conflitto col fratello, fugge dalla città di Kyoto per cercare rifugio nel Nord del paese. Quella qui di seguito narrata riguarda la scena finale che si apre in presenza dell’eroe, il quale non avendo con sé i documenti necessari, viene fermato a un posto di blocco militare e dimostrare chi egli sia. Al racconto delle sue mirabolanti avventure e delle sue più realistiche vicissitudini uno dei gendarmi si riconosce come suo ex compagno. Questi è ‘uno degli onesti’, che si vuole lì presente per intercessione del ‘fato’, inscena una danza che richiede grande virtuosismo, e che serve a distrarre l’ufficiale dal suo proposito di tenere l’eroe prigioniero. Infine tutti ormai ubriachi dal vino offerto proprio dall’ufficiale, viene concesso all’eroe di passare al di là del blocco e superare così il confine, e salvarsi”.
La musica, del tipo ‘shamisen-naganta’ è qui usata per esprimere l’intensità drammatica del momento più critico di tutta la messinscena, ricca di spunti tradizionali, ed offre l’occasione per parlare delle misteriose forze della natura che contrastano l’eroe nel suo lungo cammino attraverso le montagne per raggiungere il nord del paese. Le percussioni esuberanti del tamburo tendono a ricreare l’impressionante avanzare di un ciclone che sta per abbattersi su di lui con tutta la forza del tuono, in un crescendo percussivo quasi ossessionante a imitazione del battito agitato del suo cuore. Per quanto credo sia più che mai evidente che l’arte comunicativa del Kabuki necessiti di tutto un apparato scenico che qui non è possibile elencare: dalle suppellettili agli strumenti di scena, ai costumi sfarzosi, alle maschere e ai trucchi estetici, ispirati dalla fantasia e dall’estro creativo che trova nel teatro giapponese un ‘nesso’ costitutivo tra l’irreale e il reale.

“”Yo no naka / “Tutto attorno a noi
wa sakura no hana ni / il mondo non è altro
nari ni keri” / che fiori di ciliegio”.

Al contrario del Noh nel teatro Kabuki il trucco dell’attore è piuttosto lungo e complicato poiché non indossando una maschera, se non raramente (allorché la maschera investe tutto il suo corpo), questi recita a viso nudo seppure attentamente tinto di bianco in contrasto con il colore della pelle. La ragione per cui il trucco giunge fino a metà del petto è che gli attori per lo più maschili spesso interpretano uno scambio di ruolo con quelli femminili. Esistono regole minuziose per accentuare col bistro e matite colorate le linee degli occhi e le sopracciglia, il naso, le labbra e la bocca. Il personaggio del ‘delinquente’ userà una tinta più scura per le labbra; mentre per i ruoli più ‘truci’, dei segni blu e rossi accentueranno le linee del volto e talora anche delle braccia e delle gambe. Mentre il ‘libidinoso’ accentuerà la sua figura con il belletto intorno agli occhi; segno più scuro caratterizzerà di volta in volta il ‘traditore’ e il ‘pensieroso’; sopracciglia ampiamente marcate denunceranno un volto esprimente crudeltà o dolore; un rosa pallido sarà adatto al ruolo di ‘adolescente’.
Appaiono chiari i legami molto forti che la disciplina Zen ha con ognuna di queste espressioni artistiche, in passato considerate manifestazioni spirituali e meditative, e che oggi inflenza ancora in modo assolutistico tutta la cultura contemporanea.Per intenrci faccio qui un esempio: se il pittore di paesaggi si identifica col paesaggio che ha davanti a sé, il cultore Zen è parte integrante del paesaggio, in ragione di una conzione mentale-filosofica che si può comprendere in modo univoco nel teatro Giapponese, onde coglierne la bellezza intrinseca, propria di quella qualità che si manifesta spontanea, e che si riflette in ogni spirito elevato.

“Yuku aki no / “L’autunno finisce
aware o dare / a chi poter confidare
ni katara mashi”. / la mia malinconia”.



Note:

1)I testi qui racolti in forma letteraria sono il frutto di ricerche svolte per il programma radiofonico “Folkoncerto” e in seguito per “Maschere rituali” entrambi andati in onda negli anni 70/80 sul canale RAI3 diretti da Antonio Tabasso, con la partecipazione della giornalista Landa Ketoff che ringrazio per la loro attenta e favorevole collaborazione, alle cui memorie dedico questa mia più recente riscrittura.

2) 3) I testi poetici che corredano questa ricerca e qui riprodotti appartengono al monaco giapponese Ryōkan (1758-1831), e sono tratti da “Novantanove Haiku” – La vita felice Editore- 2012.

4) 5) 6) In “Sentieri di luce”, Storie Zen - Edizioni del Baldo 2009.

7) Takeo Kuwabara, in ‘Catalogo Evento’ di “Takigi-Noh”, The Japan Foundation - Happodo Co., Ltd. 1984.

8) 9) The Pontifical Council for Culture – Radio Vatican TV Center – Japanese Embassy, Vatican – Japanese Institute of Culture of Kyoto – The Italian-Japanese Association.

10) “Hagoromo”, (l’abito di piume), è riassuntivo del testo tradotto dal giapponese, presente nel Catalogo (op.cit.).

11) Arthur Waley , grande trasmettitore dell'alta cultura letteraria di Cina e Giappone inoltre ambasciatore d'Oriente nell'Occidente durante il XX secolo. (Wikipedia) “NO Plays of Japan: an Anthology”, citato nel ‘Catalogo Evento’ (op.cit.).

12) 13) in Wikipedia, alle voci: “Teatro giapponese Kyogen” e “Teatro Kabuki”.

14) “Kanjincho” portato in scena dalla Compagnia di teatro Popolare Kinoshita-Kabuki, in “Cenni sulla cultura giapponese tradizionale”, redatto da Kokusai, Bunka, Shinkokai – Società per lo Sviluppo delle Relazioni Culturali Internazionali – Tokyo 1967.


Discografia utilizzata durante la messa in onda:

“Sunrise” – in Stomu Yamashta – Island 19228
“O-Fune-Matsuri Nekiromi – Bayashi” – O Suwa-Dako – in Philips 6586029
“Suite Kyushiu Folk Song” – in Toshiba 95003
“Il Sole tramonta sul Tempio” – Gruppo Str. Trad. Giapponese – in Arion 1016
“Hatoma-Bushi” - Yamairi Tsuru – in Atlas - EMI-Odeon 17967
“Chidori-no-Kyoku” – Traditional – in His Master Voice HLP2
“Awa- odori” – Traditional – in Atlas - EMI-Odeon 17967
“Sanbaso” – Traditional – in Toshiba 95004

Buon ascolto!








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