Pubblicato il 27/09/2018 05:49:36
Gian Giacomo Menon … o la poesia del tempo lineare. Essai su “Geologia di silenzi” – Anterem Edizioni / Cierre Grafica 2018.
Il contenuto di questa raccolta poetica, rappresenta solo un breve sapiente assaggio dell’autore di ‘migliaia di carte, foglietti, appunti contenuti nei 25 contenitori trovati nella casa del poeta e confluiti nel Fondo Menon della Biblioteca comunale Vincenzo Joppi di Udine …
«..geologia di silenzi / il mare fermato nelle conchiglie / i fuochi nella terra / anni o secoli il tempo della nostra pietà»
«..l’altrove dei giorni / pozzi di erba nessuno specchio di luna / ed era ieri l’incontro di carissime mani / palestra della mia forza per cortili obbligati / campo liberato di passeri»
«..come suoni come suoni / quelle carte fra i raggi / e passare e ripassare le attese / e oggetti di morte le stelle / e sempre più lontani / aghi e teli e vetri / sempre più antichi / i ritorni».
Ed ecco che per chi ama la poesia, conoscere Gian Giacomo Menon (1910-2000), insegnante emerito di storia patria e filosofia, stimato e rispettato dai suoi allievi, diventa quasi un requisito indispensabile alla comprensione del nostro tempo. Se mai si è amato il proprio professore di lettere questa raccolta di suoi scritti costituisce il ‘dono più sentito e più grande’ da parte dei suoi ex allievi di diverse generazioni che hanno voluto rendere omaggio a colui che ha fatto dell’insegnamento e dello scrivere l’unica sua ragione di vita, e noi tutti non possiamo che essergliene grati. “Geologia di silenzi” riunisce in un unico volume – con il titolo che l’autore avrebbe desiderato – una minima parte del suo capitale poetico dal 1988 al 1998. Sono diverse, infatti, le date di composizione e cifra stilistica delle singole raccolte da cui il libro è desunto, e che pure presentano una comune caratteristica: di essere state personalmente selezionate dall’autore all’interno della sua sterminata produzione in vista di pubblicazione …
«..non più di una e di quella / ed era al principio / ed era la parola / non più di una / quando l’arco si tese sopra la terra / quella / quando la terra fu campo di artemisie / e sempre parola»
«..non si doveva nella presenza impreziosire il discorso con stanche / metafore / ed erano già stati consultati gli orari / i calendari messi fra parentesi / e sapere la faccia bucata dai continui tramonti / paura delle pulizie solitarie / repulsione»
«..il candore e una ruga […] stanchezza più della terra / un delirio sintattico / un verbo che scarta l’accento / un aggettivo perduto / e chiederti il nome» «..aghi verdi filtrano cotoni / una serie antica e rotonda / e incrostare il ricordo / distaccarsi di uccelli e di rami / i deserti della pioggia / integri e conflittuali / ed è come essere privati»
La raccolta, apparsa di recente nella collana ‘Itinera’ da Anterem Edizioni 2018, rende omaggio a un personaggio così poco conosciuto (direi misconosciuto), portandolo alla ribalta di quanti, ad esempio, si adoperano in ambito poetico, alla divulgazione e alla conoscenza di quella che potremmo definire ‘l’essenza stessa della vita’, o se preferite, in egual misura ‘il sale dell’esistenza’, ciò che rende alla ‘nuda parola’ il colore e la forza dei suoi più reconditi sentimenti: la poesia: “non più di un bisbiglio nella pena dell’essere”…
«..non il pugno e la verga / la schiuma del disprezzo / l’ammonimento della pena / tuoni si gettano per lunghe spaccature / risucchio di acque / il lepre spia dalle cove l’abbandono dei volti / la comune storia girotondo di alleanze / lotta di chiodi ed evasioni solari / spinta del silenzio / il tempo è la nostra siepe / dietro si affonda in antichi solchi / di rimorsi e di rabbia / occhio di scorpioni e bave di lumaca»
«..scambiati zodiaci / sostituire corde del cielo / è passata una luna ebbra di danza / tagliente nelle sue falci / verde scarlatta candida rigata di nero / un’altra luna è venuta / giusta nelle sue gobbe absidi e nodi / rotonda di stupori / bilancia di giusto mezzo / bere i suoi chiari silenzi»
Molto dobbiamo all’oculata e dotta biografia di Cesare Sartori che ci introduce alla conoscenza dell’autore: “che per un’ostinata, sofferta ‘decisione di assenza’ praticata con coerenza e determinazione, ha trascorso più della metà della sua vita praticamente tappato in casa […] accuratamente nascosto agli occhi dei più, sfuggendo ogni anche pur minimo côté sociale, ha diligentemente cancellato le proprie tracce dal mondo”; il quale, tuttavia, avverte il lettore che potrebbe “sembrare sciocca presunzione pretendere di racchiudere in poche paginette una vita come quella di Menon, ‘filosofo del nulla e poeta assoluto’ (Carlo Sgorlon), che sembra fatta di niente, ma che in realtà è una foresta lussureggiante” …
«..pomeriggi di infanzia sotto gli alberi adunata di tende ruote di spazio sulla città palloncini rincorsi dai passeri fucili di luce contro i cartoni chi grida gli zuccheri chi le scimmie maestre dell’uomo l’angelo piombato dentro la carne lungo tubi di ossa sentieri di midolla a scuotere fiumi sepolti un ribollire di pietre la pelle sconsacrata dall’affiorare di un dente per ferire greggi di stelle navigazione di erbe non sazia fame dell’essere e noi nocchieri impazziti per nuove correnti a reggere inconsulti timoni nella rapina delle mani»
“Come scrisse La Fiera Letteraria del 18 agosto 1966: di Gian Giacomo Menon non sappiamo quasi nulla. Sappiamo solo che è un poeta, un vero poeta, ed è questa forse l’unica cosa che conti. Quel che è certo era pazzamente innamorato della «vita incandescente delle parole: quello che è stato il più grande, fedele, immutabile, ossessivo e probabilmente unico vero amore e conforto della sua vita”. Quanto è anche testimoniato nei due saggi critici dedicati da Flavio Ermini e Giacomo Trinci a completamento del libro, dai quali apprendiamo alcune peculiarità di questo autore singolare, il cui poetare “fa i conti con la presenza invisibile dell’essere delle cose. I cui versi ci invitano a guardare oltre le apparenze, (oltre il silenzio delle cose)”…
“Noi – scrive Flavio Ermini – viviamo infatti come se ciò che non è visto, pensato, intuito ‘non fosse’. E invece è, pulsa, seppure nascosto, alla radice delle cose. […] L’essere è l’invisibile (nascosto nelle cose che noi siamo), è il silente, si cela (dentro di noi) e qui attende di essere raggiunto. Ne cogliamo la presenza quando abbassiamo le palpebre, quando facciamo i conti con le tenebre dell’interiorità, con l’oscuro dolorare delle cose. La (loro) immediatezza non è l’essere. […] La svalutazione dell’essere a favore delle apparenze è vista da Menon come una vera e propria ostilità nei confronti della vita. Ecco perché ogni dettaglio della condizione umana va vissuto, anche il più spaventoso, il più incomprensibile. Perché ognuno di quegli attimi può portarci al cospetto della nostra essenza”.
«..terra lenta dell’erpice fatiche di una vita si scardina il sasso dalla zolla nello spavento della locusta invidia di più forti ali e l’erba resta sospesa nel vento questa stagione di prove non si appoggia a stelle matematiche imponenti nei giri assegnati contro il caldo furore del sangue che tira il grido dalla sua parte e ogni perdizione non confondermi nell’istante della resa non goidicarmi se l’occhio si fa vetro sulla parete offesa dalla rinuncia tutto umano è il piede che incontra il suo ostacolo il braccio che decide di abbassare lo scudo» “Dopo aver posto il problema di come noi, lettori di poesia ci avviciniamo al testo poetico di Menon – scrive Giacomo Trinci – proviamo a configurare le modalità oggettive, la fenomenologia con cui la sua stessa poesia si è presentata nel tempo. […] Con questo voglio sottolineareche quando si parla dell’accensione ermetizzante, di una parola affrancata da ogni contaminazione storica e da una funzione comunicativa scontata, non dobbiamo mai dimenticare che quella parola nasce e si forma nel pieno di quell’energia dinamica tiopica della poetica futurista; il fuocoanalogico e pirotecnico con cui questa lingua crea sé stessa e la realtà che nomina contro ogni tentazione assolutizzante è figlia di quella temperia storica, e anche nello sviluppo successivo la poesia che produce risentirà di quella provenienza, pur con tutti i suoi necessari assestamenti”.
Tutto questo suo percorso storico/poetico – conferma Giacomo Trinci – “lo obbliga ogni volta a sfidare le ragioni della sua scrittura e a chiedere a nostra volta se, in generale, quello che appartiene alla poesia si possa tranquillamente chiamare «scrittura», nella sua accezione, diciamo consumata e pacifica (?) […] Di sicuro Menon è insieme dentro il suo scrivere, cioè «prigioniero della parola», ha bisogno di esserne posseduto, catturato e, perché no?, immagato dalle sue lusinghe e dalle sue promesse, non può uscirne, appunto; nello stesso tempo, è esterno ad esso, lo contesta, ne sente la dura insufficienza (lirica?), la crosta tenace e conservativa (poetica?) che lo tiene (legato al passato) e lo preme (verso il presente/futuro della scrittura)”.
Quella di Menon è di fatto una scrittura poetica tout court, che non stento a definire “poesia del tempo lineare”, il cui scorrere nel quotidiano passa, ma solo apparentemente, senza lasciare traccia alcuna sulla superficie della pelle, e che si traduce in un soliloquio costante che, poco a poco, penetra nell’anima, somatizzata nei sentimenti, nella ricerca e nel desiderio di una solitudine estrema. Quell’emarginazione che è annullamento, pari a una ‘fuga da sé e dal mondo’ che l’autore ostenta come controparte della sua funzione pubblica di professore amabile e amato dai suoi allievi, delle sue brillanti scappatoie nella società, e che nottetempo trasforma in maschera altera di un ‘io segreto altro a se stesso’, la cui causa emotivo-psicologica è primaria nello sdoppiamento letterario innescato dalla sua stessa scrittura …
«..seminare la vergogna nella carta stampata fra la doppia morte e la luna gettarla oltre i legni sconnessi dove la follia ha scavato la casa per un impegno più alto di api macinare la pena dell’ultima strada con la ruota che ingrana il rimpianto»
… scrive Menon in “Sulla poesia” il breve saggio incluso in questa raccolta, e noi che lo leggiamo, per un istane ci sentiamo ‘poeti del nulla’ , figli spuri di una poesia che è a noi contemporanea e che passa veloce senza lasciare traccia, come tutte le cose di questo mondo, «..che segnano solo momenti di vita momenti di umori andati venuti. Poesia è scrittura prosodica dove un azzardo di lacerti mnestici cioè una sequenza arbitraria di parole casuali si sistema in forme pseudorazionali nella virtualità di un discorso, così dunque come di notte i cieli contano (dicono, danno) con ferma voce in nome delle stelle e di giorno passano le acque inquiete della terra e l’uomo, io, un uomo casuale nudo e impaurito annaspo cercando ganci di sopravvivenza».
Grazie Professore!
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