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Etnomusicologia 5 - Oriente

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 10/08/2011 19:10:50

ETNOMUSICOLOGIA 5

“ORIENTE: Introduzione all’ “altra” musica”, di Giorgio Mancinelli.
(Studi e ricerche effettuati per “Folkoncerto”, un programma di Etnomusicologia trasmesso da RAI – Radio Tre).

Ormai da qualche tempo, l’etnomusicologia non figura più una disciplina dal nome pretenzioso e dalla fisionomia complessa, come era per i processi dell’antropologia culturale (1), mediante i quali creatività, volontà umana e costrizioni materiali, plasmavano le così dette tradizioni. Tuttavia ciò non toglie che essa s’impone come uno dei saperi strategici per affrontare il nostro tempo. In merito, se da una parte è emerso un diffuso interesse teorico ed epistemologico verso i risultati e le procedure da questa utilizzate; dall’altra si è usufruito dei linguaggi e delle categorie da questa individuate ed evidenziate, per alimentare, legittimare e commentare sistemi di ricerca rivolti all’identità e alle pratiche di multiculturalismo. Va inoltre ricordato che se l’antropologia di per sé fa capo all’esperienza mentale, emotiva e fisica del contatto diretto con un mondo spesso sconosciuto, l'etnomusicologia si avvale di materiali già esistenti  che sono frutto di ricerca e che messe a confronto con il metodo comparativo, più spesso ne studia gli approcci significativi sul territorio, in ciò che un tipo di musica ha preso e/o ha lasciato sul territorio stesso,  e/o in una data cultura.
Pertanto, la dedizione antropologica rivolta allo studio dell'etnomusica dev'essere a sua volta estesa a tutti i popoli, nei luoghi e nei modi in cui essi vivono, riconoscendola infine come un’irrinunciabile conquista della sensibilità contemporanea che viene rivolta agli altri. A tutti quei popoli diversi e distanti tra di loro che potranno così, seppure per la prima volta e grazie alle testimonianze raccolte in primis dagli antropologi e successivamente dagli etnologi, entrare e contribuire alla discussione in corso sulle potenzialità e i limiti della specie umana, nonché sui rapporti tra le forme di vita e i modi di pensare rilevati nelle diversità culturali in cui si sono formati. In questo modo, concetti come “cultura”, “relativismo”, “etnocentrismo”, “etnografia” e di conseguenza “etnomusicologia”, sono oggi parole chiave anche per altre discipline e, più in generale, categorie inequivocabili basate su insiemi distinti di studi e ricerche che riflettono di raggruppamenti sociali accertati dall’antropologia linguistica e non solo.
“Sono ormai alcuni decenni che filosofi e storici della scienza hanno riservato un’attenzione speciale ai testi di antropologia, e da più parti si è intravisto nel fare antropologico, nel modo stesso di condurre la ricerca etnografica, nella pratica del dialogo, nel coinvolgimento del ricercatore, nella tradizione interculturale, uno stile scientifico non solo efficace, ma forse in grado di traghettare le scienze sociali oltre il modello, per lungo tempo egemone, avanzato dalle discipline naturali” (2).
Si consideri che fino a ad alcuni decenni fa si immaginava che il complesso delle scienze etno-antropologiche, diversamente chiamate anche a seconda delle tradizioni nazionali: etnologia, antropologia sociale o culturale, demologia, folklore, storia delle tradizioni popolari, sembrava destinato a scomparire dalla scena conoscitiva, poiché ancorato a un programma scientifico di documentazione di culture in via di estinzione, ciò non è più vero. L’odierna antropologia è stata capace di sviluppare, pur nei distinguo delle diverse discipline, una sua rilevanza fattiva nel campo della ricerca, aperta e razionale, che va oltre la semplice testimonianza di culture millenarie, esotiche e popolari, o la salvaguardia di patrimoni culturali. Bensì giocando un ruolo fondamentale nella comprensione del pensiero sociale moderno, con l’annuncio della fine delle differenze esistenziali, facendo esplodere il pluralismo delle interpretazioni, localistiche e identitarie, con il riconoscimento di nuovi soggetti sociali, per così dire “protagonisti” instabili o definitivi della nuova realtà sociale diffusa dal “multiculturalismo”, in senso di appartenenza e convivenza civile.
“Di questo scenario sfaccettato, complesso, particolarmente dinamico, l’antropologia è oggi alimento, bersaglio di contestazioni, fonte minuta di documentazione, risorsa interpretativa; fornisce il sapere e il linguaggio della differenza e dell’appartenenza culturale, recupera memorie, costumi, patrimoni e classificazioni che il tempo e le strategie politiche tendono sovente a naturalizzare, a trasformare in complessi monumentali, in eccellenze da contrapporre nel conflitto tra identità (..) entro una sintesi chiara, sistematica e aggiornata, e quella sensibilità così attenta a valorizzare l’incontro etnografico, soprattutto di quegli approcci interpretativi a cui va il merito di aver rinnovato il campo antropologico, coltivando un’esplicita disaffezione verso il positivismo e avviando il ripensamento radicale dei modi di fare e di raccontare la pratica scientifica” (3).
Un’inedita focalizzazione questa, che segna un cambio di marcia nell’analisi antropologica, che va dai comportamenti ai significati, dalla cultura come sistema di adattamento alla cultura come configurazione di simboli, permettendo agli stessi soggetti coinvolti di mutare immagine e compiti: “all’etnografo di perdere l’illusione di potersi rappresentare come puro sguardo e, al nativo, da passivo portatore di cultura, quale era considerato fin’ora, di rivelarsi quel sensibile interprete delle proprie risorse culturali e dei rapporti veicolari”, rivolti a determinare i modi nei quali comunicazione linguistica e interazione sociale si costituiscono a vicenda. Per cui “la comprensione dell’altro culturale – per molti versi in Italia anticipata dagli studi di Ernesto de Martino – è costruita utilizzando elementi tratti dal sistema culturale sia dell’antropologo che dell’informatore”, onde nel riaffermare il significato del sé culturale dell’altro, scopriremo in parte il significato della nostra identità.
C’è da augurarsi che il lettore possa qui ritrovare quella sensazione vitale avvertita da Claude Lévi-Strauss che in Tristi Tropici (4) riferiva: “il mio pensiero sfuggiva alla soffocazione che la pratica della riflessione filosofica mi causava. All’aperto, l’aria nuova mi rinvigoriva, mi inebriavo di spazio mentre i miei occhi abbagliati misuravano la ricchezza e la varietà degli oggetti”, cui mi permetto di aggiungere la bellezza delle immagini, la fantasmagoria della natura dei luoghi, la meraviglia che mi è data di vedere.
Quello che qui di seguito viene offerto è un viaggio itinerante attraverso il tempo e lo spazio che porta ad avvicinare alcune esperienze della cultura dell’Estremo Oriente, tanto distante dalla nostra e dal nostro punto di osservazione, vuoi per sensibilità e filosofie diverse, che pure, in realtà, non si distacca molto da quella che di fatto è la funzione collettiva della musica universale, fonte infinita di bellezza e di armonia, da sempre veicolo di importanti informazioni culturali. Ciò, nell’intenzione di trovare una possibile chiave di lettura che ci permetta di penetrare il contenuto formativo di un tessuto mitologico e trascendentale, non già in modo comparativo, poiché il confronto tra Oriente e Occidente, mai come in questo caso, trattandosi di tradizioni musicali estemporanee, non si rende possibile e, a mio avviso, potrebbe risultare del tutto inutile.
Bensì, utilizzando, per la prima volta, una diversa forma di lettura, cosiddetta “evoluzionistica” (5), cioè utilizzando il metodo di ricerca più noto come “osservazione partecipante”, basilare per l’antropologia culturale e per l’interpretazione umana in genere. Una chiave diversa, quindi, allo scopo precipuo di rivivere insieme, seppure in poche e sfocate fotografie che non vogliono essere testimonianze del tempo, le esperienze della cultura musicale dell’Oriente, in qualche modo capace di affascinare e creare stupore, la cui meravigliosa realtà sopravvive nei popoli che la esercitano nel quotidiano e la mantengono viva.
“Sawasdee!”, le mani congiunte sul petto e il capo chino, onorati del dono di una ghirlanda di preziose orchidee e profumatissimi gelsomini, è questo il più gradito “benvenuto” che l’Oriente offre al visitatore, in tutta la sua floreale bellezza e la naturale cortesia del suo popolo: la Thailandia, nome attuale di quello che un tempo fu il favoloso impero del Siam. Una civiltà profondamente imperniata sulla religione e tradizioni che hanno resistito nei secoli, il cui splendore sembra non conoscere tramonto. Appena giunti a Bangkok, la sua capitale, si è immersi in una natura regale che accende incensi odorosi agli angoli delle strade, in onore degli innumerevoli Buddha d’oro e di giada, di bronzo e di pietra, che la religiosità popolare celebra con grande partecipazione: dalla tradizionale festa per l’arrivo della primavera, alla purificazione della casa, ai pellegrinaggi ai templi, alla donazione delle nuove tonache ai monaci del Wat-Po, il più grande e dalle guglie più splendenti, che si stagliano meravigliose nell’azzurro del cielo.
È la primavera, infatti, il periodo dell’anno migliore in cui visitare quella che è ancora oggi ritenuta la “Porta dell’Oriente”, cresciuta attorno a quello che è il fiume sacro per eccellenza, il Menam Chao Phraya (o semplicemente Menam) (in thailandese แม่น้ำเจ้าพระยา, dove Menam, da แม่ (mèe)=madre e น้ำ (naam)=acqua, significa appunto fiume. E Chao Phraya, termine onorifico feudale traducibile con eccelso, è uno dei due principali fiumi della Thailandia, che scorre nella pianura alluvionale da esso e dai suoi affluenti formata. In questa stagione si tiene infatti la regata detta Tot-Kathin, che da inizio ai festeggiamenti annuali, in occasione delle cerimonie e delle processioni solenni, con il supporto di riti e preghiere, danze, canti e fuochi d’artificio, ma anche di musica e colori che la tradizione, lontana dalle influenze occidentali, ripropone ogni anno in tutta la sua magnificenza di colori e di festa.
Colori che la natura lussureggiante di questa terra distribuisce con ampia generosità, in un’atmosfera più sognata che reale, dove il tempo sembra scorrere più lentamente che altrove, sospeso tra presente e passato, per una sosta riflessiva all’interno di un giardino di delizie, profumato di mille essenze aromatiche, saporoso di mille frutti unici e bizzarri, arricchito di fiori multiformi e meravigliosi fra i quali abbandonarsi, sorpresi dello splendore e della bellezza dei luoghi, e infine perdersi per effetto di un costante dualismo, nell’armonia della sfera delle forme ideali. Qui, lontani dai nostri lidi europei, si può restare abbagliati dalla luminosità degli spazi, dalla lucentezza dei colori, dalla varietà degli scenari che si presentano davanti ai nostri occhi e dalle diversità delle situazioni cui siamo abituati.
Allora lasciarsi trascinare su una giunca fino al “mercato galleggiante” o raggiungere le assolate spiagge del Sud; o spingersi sulle alture del montuoso Nord, attraverso piccole cittadine pullulanti di vita e di lavoro; oppure condursi alla scoperta di antiche città abbandonate, nascoste nella vegetazione, è di per sé un viaggio dei sensi. Così come lasciarsi iniziare all’oppio in una fumeria nel quartiere cinese; o farsi praticare sul corpo il tatuaggio di un grande drago, o di un pesce volante dai poteri magici. Oppure, e perché no, trovare un adeguato rilassamento alle sofisticate “delicatezze” di un massaggio, nelle apposite “case del relax” e scoprire i misteri di quell’arte raffinata e accurata dell’ “amore per il corpo”, in modo autentico e avvolgente, lontano dalle implicazioni dei legami formalizzati.
D’importanza fondamentale, per una introduzione alle tradizioni musicali della Thailandia di oggi, è necessario risalire a quelle che erano le formazioni strumentali dell’antico Siam. Un regno travagliato da mille guerre di sudditanza tra le altrettanto numerose fazioni ereditarie degli Imperatori che vi si sono succeduti, e che hanno incrociato le armi sul terreno della storia, provenienti dalla Birmania (Kmer), dalla Cambogia, dal Laos e, in parte, dalla Cina. A tal punto che le sovrapposizioni e le contaminazioni, delle une sulle altre, non sono quasi più avvertibili, poiché derivanti da una stessa fonte religiosa buddhista / induista, verosimilmente derivata dall’India arcaica e profonda, il cui repertorio è comune a tutta l’area musicale e abbraccia le regioni limitrofe dell’Indocina.
Usata in genere nelle corti e durante le cerimonie religiose nei monasteri, la disposizione orchestrale ancora in uso, risale all’epoca delle dominazioni Kmer nel XIII secolo: due xilofoni siamesi “banard”, detti khong-wong e khong-wong-lek, precisamente una doppia versione dello stesso strumento, formato da due file di piccoli e medi gong, posti su un supporto circolare di bambù che ne permette la particolare vibrazione; due oboe pi-nai; due tamburi orizzontali a due membrane, detti kloang-thad e klong-jao-thou anche usati nelle cerimonie; due piccoli tamburi a una sola membrana, detti ramaha; ed alcuni cimbali piccoli, detti ching, e due più grandi, detti chap, di cui si fa uso continuato nei motivi a ritmo. Uno strumento di fattura complessa è l’ang-klung, unico nel suo genere, composto da alcuni legni che vengono battuti con le due mani.
Molte, come si è visto, sono le percussioni utilizzate, tuttavia non mancano gli strumenti a corda, sebbene occupino un posto di importanza relativa all’utilizzo per accompagnamento al canto: la viella a due corde d’importazione cinese; il solung a tre corde della famiglia dei liuti, in due versioni, dette jakae-saw e jakae-duang, e un particolare tipo di “viola da gamba” di dimensioni ridotte, denominata can spesso utilizzata in a-solo che ricorda da vicino la voce cantilenante dei monaci raccolti in meditazione. Particolare interesse rivestono invece gli strumenti a fiato, anche se alcuni vengono suonati soltanto in speciali occasioni rituali: fluti di bambù a sei fori, detti khluy; i già citati oboi pi-nai, e uno speciale tipo di “organo a bocca”, formato da canne di diversa lunghezza che ricevono aria da un solo bocchettone posto al centro, originario della Cina dove prende il nome di sheng. Altri strumenti a fiato che somigliano alla nostra zampogna e al flauto a canne contenuto in una rapa essiccata, vengono usati da gruppi di musicisti improvvisati che accompagnano le festività popolari, soprattutto nel Nord del paese, nella regione montana di Chiang-Mai.
Un’orchestra così concepita, costituita di soli strumenti tradizionali, o di antichi strumenti risalenti ai regni di Laos e Birmania, modificati e perfezionati dall’artigiano attento, si trovano oggi ad affiancare i gruppi più moderni che hanno ceduto all’elettrificazione e alle mode occidentali. Tuttavia è ancora possibile ascoltare l’autentica musica tradizionale in particolari occasioni e cerimonie rituali o nei volumi (Lp) che raccolgono “registrazioni sul campo” eseguite in illo tempore da studiosi e musicologi, tra cui spiccano le collane curate da Alain Danielou “Musical Atlas Unesco Collection” (6).
La musica che mi accompagna in sottofondo mentre scrivo, è tipica della forma Liké, tratta dall’album dedicato alla “Thailandia”, usata nell’accompagnamento delle leggende siamesi espresse in musica e danza che danno forma a una sorta di rappresentazione in cui la voce del protagonista, qui usata in forma monodica, quando non vengono usate preghiere corali collettive, si snoda al pari del suono prolungato di un flauto. L’armonia che l’accompagna è basata sulla composizione modulare ripetuta all’infinito, come all’infinito sono quasi sempre proiettate i racconti noti in tutta l’Indocina. Un’altra forma tradizionale di musica e danza, entrata a far parte del patrimonio tradizionale del teatro Thailandese, è quella detta Khon, una delle tre forme secolari che la compongono, insieme al Lakon e al Rabam. Un dramma danzato risalente al XV secolo con accompagnamento vocale e strumentale, derivato dal teatro detto “delle ombre” cambogiano con la successiva sostituzione delle marionette con gli attori, in origine ricordato come teatro di maschere.
Oggi gli attori hanno il volto scoperto e copricapo appuntito, a forma di piccola pagoda, che ne caratterizza i ruoli. I movimenti, per lo più, sono sincronizzati alla recitazione del testo, mentre il racconto si rifà al “Ramakien”, versione thailandese del noto poema “Ramajana” (7), illuminata dal riflesso dell’eroe epico Rama e delle sue lotte intraprese con il demone Ravana, definito tra i più seducenti e meravigliosi dell’Oriente, assimilativo delle importanti culture quali quella cinese e quella indiana. Altro aspetto eclatante è indubbiamente la danza, legata alla rappresentazione del testo, talvolta sostitutivo delle azioni stesse, oggi maggiormente studiato per i riferimenti dirette a partiture più antiche da dove, sembra, siano state separate. Le danze offrono uno spettacolo coreografico di grande richiamo per appassionati e non, ma soprattutto per l’autenticità dell’arte mimica, qui elevata a vera arte.
È questa un’arte antica, raffinata ed elegante, che si basa sui canoni rigorosissimi delle figurazioni contrapposte e le volute fantastiche delle dita e delle mani, “quasi poesia del movimento”, entrata nell’iconografia popolare di cui bisogna conoscere i significati nascosti per poterla gustare appieno. I danzatori e le danzatrici, infatti, vengono selezionati fin dalla più tenera età, e iniziati al cosi detto “teatro”: insieme di recitazione, mimica, danza, e musica. Discipline queste che permetteranno alla fine del percorso, di assumere quella sincronicità di movenze “aggraziate e leggere” del corpo, necessarie all’apprendimento dell’arte con quel che ne concerne.
Fatto rilevante in questa forma d’arte è che i danzatori (uomini) non si toccano mai fra loro, eccetto per una qualche speciale rappresentazione, bensì sfilano con grazia in elaborati e sfarzosi costumi filigranati d’oro e d’argento, completi di maschere fantasiose e copricapo regali. Le danzatrici si scambiano normalmente i ruoli, pur tuttavia è sempre all’uomo che spettano le personificazioni del re scimmia o i suoi demoni orrendi.
Una danza tra le più pittoresche è la “bamboo dance”, ovvero delle canne di bambù, entrata nell’uso anche nelle Filippine e in Malesia. La particolarità di questa danza è dovuta all’attenzione che i danzatori devono mettere per rispettare il ritmo, scandito da quattro grosse canne che si intersecano e che vengono battute l’una contro l’altra con cadenza ritmica. Si danza in coppia e diventa maggiormente piacevole, come un gioco, se la si effettua in molti. Bisogna solo fare attenzione a non lasciare uno dei piedi fra le canne. A essa si fa ricorso in occasione di giochi comunitari e feste iniziatiche, inclusa quella per l’arrivo della primavera.
La “danza delle spade”, tipica di tutti i popoli guerrieri, risale all’antico periodo delle guerre contro il nemico birmano e che insanguinarono questa terra per secoli. Si tratta di un aspetto dell’arte marziale che ritroviamo in molte tradizioni orientali e non solo, che qui assume la forma di intrattenimento coreografico. Altre danze provengono invece dai paesi confinanti come il Laos e la Birmania, tipiche delle genti Iko e Meo, abitatrici delle regioni montane che vivono secondo leggi ancestrali nel rispetto delle proprie tradizioni e ancora non assoggettate alla realtà culturale del paese che le ospita.
Fa parte del folklore locale, oltre alla danza, anche la “Thai boxing” per metà danza e per metà autentico sport che si gioca con molta partecipazione in ogni regione. Oltre ai pugni vengono tirati anche calci e ginocchiate, ammessi dal regolamento, mentre un’orchestra di flauti, tamburi e cimbali, scandiscono ritmicamente la lotta che si fa sempre più veloce e pericolosa. Caratteristica che distingue queste danze è da considerarsi la scioltezza del gesto, non legato a schemi preordinati o rappresentativi, e normalmente accompagnate con strumenti di fabbricazione locale e artigiana.
Fra le danze popolari che meglio mettono in evidenza la grazia femminile, la “finger nail dance”, o delle unghie lunghe, è indubbiamente quella che da più risalto all’incontrastata bellezza delle danzatrici Thai che, per l’occasione, ricoprono le loro unghie con lunghi petali d’oro. La musica per questa danza prevede numerose figurazioni e giochi con le mani in accompagnamento a passi molto flessuosi del corpo. Ogni regione ha le sue danze tipiche e molte sono quelle che danno risalto alla grazia femminile, ispirata e strettamente legata alla grazia dei fiori.
Ed è proprio ai fiori cui fare riferimento nel visitare quello che per eccellenza è considerato il Suan Sam Pra che ci permette di apprezzare la poesia racchiusa nell’arte della danza, come del resto lo è del canto e della musica: il “giardino delle rose”, a 30 km. da Bangkok dove, per l’appunto, vengono coltivate le rose più stupende che si siano mai viste sulla faccia della terra, e tutte le specie di orchidee, divenute il simbolo per eccellenza dell’accoglienza e dell’ospitalità thailandesi. Ancor più vi si coltivano il sorriso e la felicità, e non solo quella degli occhi, poiché è qui che ancora oggi è possibile fare un incontro con la vera tradizione, grazie alle scuole ci conservazione e di preparazione all’arte musicale tipicamente Thai.
È ancora qui che vengono conservati gli insegnamenti della tradizione nella loro forma originale, quel secolare patrimonio culturale, fatto di eleganza e giovialità, nello splendore della natura che ci circonda, e che qui trova una sua ragione d’essere, nel costume e nella prodigiosa creatività delle sue forme e dei suoi colori, delle sue profumazioni e dei suoi sapori. All’interno del Suan Sam Pra, infatti, si trovano una Scuola di Danza Thai, un’azienda manifatturiera della seta, e ancora, una Scuola per la creazione dei costumi e delle maschere tradizionali, ancora oggi in uso durante le sfilate e le cerimonie rituali annuali, tra le quali trova grande riscontro l’avvento della primavera, per eccellenza la stagione dei fiori, del sole tiepido e del vento amico che soffia costante ma leggero, il più adatto a far volare gli aquiloni.
È sufficiente spostarsi nel Phra-Mane Ground di Bangkok, il parco più grande della città, al quale fanno da sfondo le guglie dorate dell’antico Palazzo Reale. su questo spiazzo verde si svolge ogni anno, ogni giorno festivo incluso tra Febbraio e Giugno, la più curiosa festa del mondo: la “guerra degli aquiloni”. Qui migliaia di giovani Thai accorrono da ogni parte per celebrare l’arrivo della bella stagione. È così che il cielo si riempie di nuove fiori “come stelle” multicolori, raffiguranti draghi e farfalle, pesci e uccelli fantastici, rombi e trapezi con lunghissime code inanellate, che si sciolgono nel voluttuoso vento. A sera, quando il cielo tende all’imbrunire, qualcuno prende a suonare sui tamburi, una musica percussiva che accelera l’ansia dello scontro che avviene quando ognuno tenta di riguadagnare la propria stella che, immancabilmente, va a cozzare contro un’altra e un’altra ancora. Ne scaturisce un’autentica guerra stellare, la meno costosa della storia, dove l’indomani, bastano pochi spazzini municipali a raccogliere i resti di una battaglia festosa e innocente.

Note:
(1) E. A. Schultz e R. H. Lavenda, “Antropologia Culturale”, Zanichelli – Bologna 1999.
(2-3) Ibidem - Prefazione all’edizione italiana di Vincenzo Padiglione.
(4) Claude Lévi Strauss, “Tristi tropici”, Il Saggiatore – Milano 1960.
(5) “evoluzionismo”: caratteristica della prospettiva antropologica che impone agli antropologi di collocare le osservazioni su natura, società e passato dell’uomo in una cornice temporale che tenga conto del cambiamento nel corso del tempo.
(6) “Musical Atlas Unesco Collection” – Emi-Odeon – Collana discografica curata da Alain Danielou: (Neuilly-sur-Seine, 4 ottobre 1907 – Lonay, 27 gennaio 1994) è stato uno storico delle religioni e orientalista francese. Stabilitosi in India per 15 anni studia filosofia, musica e sanscrito nelle scuole tradizionali locali. Viene iniziato all'induismo śaivaita, impara a suonare la vina e adotta l'hindi come lingua quotidiana. Partecipa attivamente alla vita politica e alla lotta per l'indipendenza indiana diventando membro del Bharatiya Jana Sangh, un partito tradizionalista hindu. Diventa docente all'università hindu di Benares, poi passa a dirigere un'importante biblioteca di manoscritti sanscriti a Madras. Negli anni finali della sua vita torna in Europa per compiere studi comparati sulla musica prima a Berlino e poi a Venezia “Fondazione Cini”.
Opere: “Shiva e Dioniso”, Astrolabio, Roma
“Storia dell'India” (tradotto da Alessandra Strano), Astrolabio-Ubaldini editore, Roma, 1984.
“La Via del Labirinto, ricordi d'Oriente e d'Occidente”, CasadeiLibri.

(7) Traduzioni italiane di questa importante opera:
“Il Ramayana”, a cura di G. Gorresio, 3 voll., Fratelli Melita, Genova 1988
“Il Ramayana”, a cura di R. K. Narayan, Guanda, Milano 1991 (nell'originale è una riduzione in inglese del capolavoro della letteratura classica).


















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