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Quaderni 2: Amazzonia - seconda parte

Argomento: Musica

di Giorgio Mancinelli
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Pubblicato il 23/05/2011 12:34:25

QUADERNI DI ETNOMUSICOLOGICA 2 - di Giorgio Mancinelli.

“AMAZONAS: testimonianze di una cultura in via di estinzione”, (seconda parte).

(Dalla ricerca per “Folkoncerto: Maschere Rituali”, trasmissione radiofonica in due puntate messa in onda da RAI-Radio3, e inoltre “Il Canto della Terra” e “Itinerari Folkloristici”, reportage trasmesso dalla RSI – Radio della Svizzera Italiana).

Romano Battaglia (1) scrive:

“Stupirsi di fronte a ciò che vediamo, (che ascoltiamo), non basta: bisogna avere il tempo per meditare, altrimenti è come non vedere dove stiamo andando, perché troppo preoccupati a cercare la via per arrivarci. Non devi aver fretta, il buon camminatore arriva ovunque. Tirando lo stelo delle piccole piante, il mais non cresce prima del tempo. Bisogna avere pazienza e guardare la lenta crescita di ogni creatura. La foresta, per essere conosciuta, esige una profonda riflessione perché è il cuore del mondo, regala la libertà di pensare solo a se stessi ed alle proprie paure”.

In queste frasi che sfiorano la liricità del canto, si nascondono in vero, perle di saggezza che sembrano sciogliersi come gocce nelle nostre mani davanti allo spettacolo costante e meraviglioso della natura allo stato “selvaggio” che si apre davanti ai nostri occhi posati ancora una volta sulla foresta amazzonica, da con le quali ho voluto aprire questa seconda parte della mia ricerca etnomusicologica, dedicata, come recita il titolo, all’Amazzonia, alla ricerca delle testimonianze della cultura degli Indios che la abitano intendo dire – erano completamente assenti. Per non tediarvi, inizio col raccontare una preziosa scoperta antropologica fatta da un italiano, un alpinista vicentino, Franco Perlotto (2) che, dopo un lungo viaggio con gli indios Yanohami, è riuscito ad avvicinare i Kunapumatheri, la tribù più misteriosa dell’Amazzonia:
“Risalivo il rio Marauià fino alla sua sorgente dove, credendo d’essere da solo, avrei fatto qualche arrampicata. Quando, d’improvviso, sono apparsi dal nulla decine di Indios. Non ero solo, dunque, ma non posso nascondere che provai quantomeno una certa preoccupazione nel vederli. E poi, mi aveva colpito una loro stranissima particolarità. Era un gruppo formato esclusivamente da ragazzi giovanissimi e da uomini anziani, le persone di mezza età erano completamente assenti. I miei timori, comunque, erano infondati. Poco dopo, ricongiuntomi con gli altri, ci portarono al loro villaggio e riuscimmo a capire che ci spiavano da oltre quattro ore, spesso emettendo versi di animali. Ancora, però, non sapevamo a quale tribù di Yanohami appartenevano. La risposta arrivò al nostro ritorno al villaggio di Marauià. Ed era una risposta che avrebbe lasciato stupiti gli stessi Karawethari che ci ospitavano e per i quali stavamo lavorando. Quei selvaggi senza … l’età di mezzo che ci avevano spiato e poi bloccato alla sorgente del rio, erano Yanohami Kunapumatheri; i più restii a fermarsi in qualsiasi luogo: nomadi che hanno avuto scarsissimi contatti con l’uomo bianco e, pre questo anche detti “la tribù invisibile”.”
Di loro si sa poco o nulla, certamente, però, fra le tribù Yanohama, è quella che ha mantenuto più a lungo i segreti della vita di villaggio, degli usi, dei costumi e delle tradizioni, dediti alla caccia e alla raccolta. Favoriti dal loro essere a uno stato nomade, i Kunapumatheri hanno sempre mantenuto la loro caratteristica tribale, davanti all’incessante avanzata della civiltà delle macchine. Vissuti sempre all’interno della foresta amazzonica da nomadi, non si conoscono e non è possibile prevedere i loro spostamenti, né si conosce il numero esatto dei quanti la compongono. Ed è proprio per questo che anche tra gli altri Indios che la abitano è considerata la “tribù del mistero”. Aggiunge ancora Perlotto (3) – “Raramente dissero di averli incontrati e, sempre i Kunapumatheri, erano scomparsi nel nulla, dopo una breve apparizione. Riuscivano a dileguarsi come se la vegetazione li avesse assorbiti, o forse, ingoiati, per riapparire, quando erano certi che non si avevano intenzioni ostili nei loro confronti. E lo facevano improvvisamente, in folti gruppi, al punto che non si riusciva a capire come avessero potuto nascondersi così bene e a lungo. Si può solo immaginare che il loro vagabondare per la giungla sia dettato non solo dalla ricerca di cibo ma dalla consapevolezza di non avere un posto sicuro dove vivere, edificare capanne e stabilirsi come una vera e propria comunità”.
Ma andiamo alle notizie che si hanno di loro. Questa piccola e arcaica tribù costituisce insieme ad altre un mosaico difficilmente quantificabile fatto di nomi sconosciuti e di intrecci tra gruppi, talvolta molto diversi tra loro. Si calcola che siano presenti almeno 170 differenti tribù che parlano qualcosa come 270 dialetti. Tra esse, quelle ancora sopravvivono vanno certamente annoverati gli Yanohama (circa 10.000 nell’area brasiliana, e 22.000 in tutta l’Amazonas). Inoltre c’è da considerare che la situazione dei gruppi etnici presenti su tutto il vastissimo territorio amazzonico è, purtroppo, in continuo movimento mantenendo comunque una drammatica costante: la lenta ma progressiva diminuzione della popolazione delle varie tribù. Molte di esse sono ormai date per scomparse del tutto e quasi sempre la causa è stata il contagio da malattie portate dagli occidentali (soprattutto dai cercatori d’oro). L’entità del genocidio nei confronti degli Indios emerge chiaramente da questo dato: erano circa 5 milioni nel 1500, sono poco più di 200.000 oggi, considerando anche quelli semicivilizzati.
Una nota più che dolente, di cui forse un po’ dovremmo vergognarci, ma sarebbe comunque troppo poco. Tuttavia questa lunga chiacchierata contribuisce a darci la dimensione che la ricerca avviata, in qualche modo, sta dando i suoi frutti. Ed è lo stesso Perlotto (4) a darcene conferma. Infatti, quella che sembrava solo una straordinaria avventura di viaggio, si trasforma in una grande festa di tutta la tribù: “Il “wahamou” che fu celebrato quella sera stessa in nostro onore, è un rito di amicizia che si svolge durante tutta la notte, una sorta di canti e nenie nelle quali si racconta le gesta e la storia della tribù, difficile da riportare in tutti i suoi gesti, le parole, gli idiomi che l’hanno caratterizzata. Inutile dire che, oltre al piacere di essere stati coinvolti in qualcosa di irripetibile, c’era in noi la soddisfazione di essere venuti a contatto con una delle più sconosciute fra le tribù Yanohami che, per la loro stessa nomade, ci sarà molto difficile poter incontrare ancora”.
Ma la ricerca non si ferma qui, per capire fin dove essa può spingersi, ho pensato di farvi partecipi di alcune leggende orali relative alla vita tribale, di cui va riconosciuta la capacità rituale, e che ho qui intervallato con le pagine di un personale “Diario di viaggio” (5) un po’ sconnesso, e che servono da introduzione alla scoperta delle tradizioni di alcune tribù indigene da me realmente incontrate.

Leyenda antes, (o del mito de la creación). (6)

“In principio regnava nell’universo l’oscurità, perché non vi erano né il sole né il giorno. Quando albeggiava, era come una notte di luna. Eppure, nei tempi dell’oscurità, già esisteva Yaya, il nostro Gran Padre Iddio. Egli, nostro padre, creò l’uomo, plasmando la sua forma con la terra. perché tutti avessero il gran dono dell’esistenza, plasmò la creta e generò i runas (i futuri Indios); li fece eretti e sul loro capo soffiò l’alito divino, così essi divennero esseri pensanti. L’uomo modellato da Dio, nostro Padre, viveva, camminava, pensava e parlava. Vi era anche un demonio, il supay, il quale, per imitare Dio, prese anch’egli della terra e tentò di modellarla. Ma invece del runa, formò una wangana. Più volte rinnovò i tentativi, il supay, ma tutti fallirono. Nostro Padre Iddio invece così fece: mise della terra in un recipiente e lo chiuse con del cotone. Poi: “Apri!” disse al figlio. Il figlio lo aprì e ne uscirono tanti omettini, “migliaia di verdi creature dai lunghi capelli”, piccoli ma vivi, dotati del giudizio, che parlavano e camminavano. Così, avvenne la creazione dei runas, i primi esseri viventi,e di alcune razze animali che per prime si mostrarono alla vista uscendo dall’acqua, e che presero a camminare sopra la Terra”.

In realtà tutto ciò che riguarda l’Amazzonia può essere raccontato in chiave di leggenda, poiché tutto è estremamente aleatorio, e le parole lo sono più d’ogni altra cosa. È questo il regno del silenzio, seppure lo si ascolta scorrere, mormorare, gridare, cantare e suonare come nessun altro luogo. Dove finanche gli Indios che l’abitano, “allo stato di natura”, appaiono e scompaiono nel folto della foresta a loro piacimento, quasi fossero esseri invisibili, facendosi raramente avvicinare anche dagli abitanti degli altri villaggi. Alcuni gruppi dimoravano già vicino ai grandi fiumi della foresta amazzonica, e lì vivevano indisturbati sotto la protezione di Yaya (il Sole), e di Killa (la Luna) e delle altre stelle, cacciando, pescando, coltivando e raccogliendo i frutti selvatici che una natura generosa produceva per loro.
Probabilmente generati da quegli stessi vegetali che crescevano copiosi e che avevano dato luogo al “grande verde” delle origini, i “runas” erano strettamente legati agli elementi vitali della natura, quali la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco, e ai supremi “spiriti” che loro stessi avevano creato. Molto tempo prima della loro comparsa c’era soltanto Yaya (il Sole), divinità suprema che aveva generato la Pacha Mama (la Terra) con un semplice soffio, scagliandola nell’infinito ove dimora. Questa scivolò nello spazio come nebulosa infuocata e continuò a bruciare fino a che il dio Tuono ordinò che vi cadessero sopra mille anni di pioggia che la sommersero completamente, confinando il dio Fuoco dalla cresta allagata della Terra e penetrando nelle sue viscere, dove risiede in eterno.
E poiché la Terra era così diventata molto fredda, il dio Tuono chiese al Sole di tornare a illuminarla e riscaldarla di tanto in tanto, dando inizio così alla successione del giorno e della notte. Dacché i fiumi e i laghi si colmarono di pesci e nacquero i primi vegetali che ben presto si trasformarono in molteplici piante e una gran quantità di fiori dalle forme variegate e moltissimi colori. Le piante e gli alberi tutt’intorno si riempirono di uccelli dalle piume variopinte e di scimmie barbute che insieme facevano un’indicibile gazzarra; e coccodrilli, api, ragni, serpenti, iguane, tartarughe, tapiri, giaguari e un numero esorbitante di farfalle colorate che s’inoltrarono a cercare riparo nella folta vegetazione che cresceva a dismisura sopra la linea dell’orizzonte, offuscando, talvolta, l’azzurro del cielo e i raggi del Sole imperioso.
Poi, all’improvviso, i giorni si fecero scuri, e le notti nella foresta divennero fredde. Il dio Tuono era tornato, irato non si sa per quale motivo, apparentemente senza una ragione, con tuoni che esplodevano uno dopo l’altro e che spaccavano il cielo facendolo precipitare verso il basso. Il diluvio che ne seguì, sconvolse ogni cosa, i grandi fiumi e i laghi, i mari e gli oceani, per cui i pesci si nascosero nelle profondità lontane degli abissi. Distrusse gli uomini e le cose, l’intera foresta e la selvaggina, fino a spegnere tutti i colori, fino a raccogliere in un unico frastuono, tutti i suoni, nell’urlo infuriato dell’uragano. Fu così che gli Indios sopravvissuti alle ansie apocalittiche, divennero i protagonisti di un’avventura umana che, attraversando il luogo impervio e inaccessibile della foresta, s’incamminarono attraverso il cuore verde del mondo: “la terra dove non si muore”.

Dal “diario di viaggio”: 23/24/25 Giugno 1986.

È appena terminata la stagione delle piogge e i grandi fiumi che attraversano l’Amazzonia sembrano aver rallentato la folle corsa che fin dal mio arrivo mi aveva impressionato per l’eccezionale portata d’acqua, il cui rombo sommesso, sembrava infuriare spaventosamente. Quasi che la “grande anaconda verde” – così gli Indios chiamano il Rio delle Amazzoni – stesse per uscire dall’alveo primordiale in cui è confinata, per inondare la terra che la circonda, e volesse strappare, con la sua furia impetuosa, la folta vegetazione della foresta e travolgere ogni essere vivente, umano e animale che avrebbe incontrato sul suo cammino, apparentemente senza fine. Il rumore emesso dall’enorme massa d’acqua in movimento sovrasta quello del piccolo battello a motore sul quale viaggiamo, dal nome surrealistico quanto fatuo, la Estrella de Azul che, solo più tardi, avrei scoperto essere riferito ad altro nome con cui gli Indios sono appellati, “il popolo delle stelle”.
Il battello quasi arranca da sembrare, in certi momenti, fermo nel mezzo della massa d’acqua che si oppone alla ferrea volontà dell’imbarcazione, ostinata più che mai, a risalire la corrente. Tutt’attorno, i luoghi sono quelli sconosciuti e certamente straordinari che attraversano la più grande distesa verde del mondo, ricca di colori vivacissimi che esplodono improvvisi, e di richiami melodiosi di uccelli e di versi di animali sommessi, nascosti alla vista, che altrettanto fulminei irrompono nel silenzio come grida. Una natura lussureggiante che erompe dagli argini e si getta nell’acqua di un colore verde smeraldo in cui si sprigiona tutta la forza del creato che, secondo la profondità del fondale e alla pendenza scoscesa del fiume, trascina tutto con sé, fino a diventare una sorta di via maestra verso l’ignoto.
Qui il silenzio, se si esclude il rombo sommesso del fiume, è profondo, quasi che neppure l’aria abbia consistenza alcuna, tale da procurare fastidio finanche il solo voltare la pagina del quaderno dove appunto le mie impressioni di viaggio, e tutte le altre cose “meravigliose” che fanno di questa mia “avventura” un prezioso riassunto di quello che d’ora in avanti vado a descrivere. Dove anche quelli che sono i racconti e i particolari usi che apprendo oralmente, e che Horacio, la guida del gruppo di cui faccio parte, traduce per noi direttamente dal racconto diretto di alcuni Indios più anziani, che incontriamo durante una prima sosta in un villaggio costiero, e che accoglie un numero esiguo di indigeni per lo più appartenenti a tribù diverse, sopravvissuti allo sterminio programmato, che li ha ridotti a poche migliaia, e costretti alle ristrettezze di una vita di stenti, all’interno della riserva del Parco Nazionale dello Xingu, cosiddetto dall’altro grande fiume che s’inoltra nella foresta amazzonica.
Si tratta di racconti mitici riguardanti la cosmogonia amazzonica, in cui si narra di luoghi che potrebbero essere o, essere stati reali, da qualche altra parte, in un altro tempo, forse lontano, molto lontano dalla civiltà di cui tutti noi “altri” facciamo parte. E di figure e personaggi fantastici, di eroi semi divini, animali della foresta e spiriti buoni e malvagi significativi delle inquietudini, delle speranze e dei terrori che albergano nell’animo di queste popolazioni tribali che pure, conservano un patrimonio culturale molto considerevole, da ritenersi solo per certi aspetti “primitivo”, quanto dettato invece dall’esigenza primaria della sopravvivenza delle specie.
Ritenuti i discendenti di popolazioni autoctone precolombiane, gli Indios superstiti abitatori della foresta amazzonica, hanno mantenuto consuetudini e costumi del tutto distinte da quelle della moderna popolazione brasiliana, proveniente dall’Africa e dall’Europa e stabilitasi sul territorio in epoche più recenti, dando luogo a una sorta di gruppo etnico multirazziale. Si ritiene che la popolazione amazzonica si sia consolidata sull’attuale territorio, in successive epoche diverse risalenti fino a 14.000 anni fa. Tra le testimonianze più antiche vi sono alcuni manufatti in pietra, come armi e utensili dalle forme assai raffinate, risalenti a epoca precolombiana. Non sono mai oggetti grandi e non superano i 50 centimetri di lunghezza che rappresentano pesci, uccelli in riposo o in volo, e altri animali noti, come armadilli, tartarughe, rane, coccodrilli e pappagalli, imitati con sapienza dall’osservazione della natura. Spesso si sono trovate asce a forma di luna crescente con l’impugnatura riccamente ornata.
Altre testimonianze hanno valore sia documentario che artistico, e riguardano le iscrizioni rupestri che si possono vedere in diverse zone del territorio, in particolare sulle rocce e nelle grotte vicine alle vallate dei grandi fiumi. Si tratta di iscrizioni incise sulla pietra grezza tra i cui colori predomina il rosso sanguigno, spesso dipinte su superfici precedentemente levigate e che, a volte, indicano la presenza nei dintorni di sorgenti d’acqua, o di particolari animali. I segni impressi sono per lo più simboli commemorativi, o forse di significato religioso, le cui linee essenziali si ritrovano non di rado nelle pitture eseguite dagli Indios sul proprio corpo, nei tessuti come nelle ceramiche di loro produzione.

Dal “diario di viaggio”: 26/27 Giugno 1986.

Il tempo scorre assai lento e durante la navigazione ci ritroviamo spesso in balìa di spaventosi gorghi formati dalle acque dei tanti affluenti che si mescolano a quelle del Rio delle Amazzoni e che trovano in esso il loro condottiero audace, che le spinge alla conquista dell’Oceano. Un ostacolo, quello determinato dal tempo, che in questi luoghi sembra non aver ragione di essere, per il semplice motivo che alla fin fine i giorni sull’acqua sembrano tutti uguali, “persi nell’infinito verde”, alla ricerca di un possibile orizzonte che non si vede, forse solo perché non c’è. Capita invece di chiedermi se oltre quell’interminabile via d’acqua e quell’insormontabile vegetazione, il resto del mondo, che pure conosco, continua a esistere, oppure …? E se c’è, dove? Come pure, se lo scorcio di cielo che appare tra una riva e l’altra sia reale, e non sia invece lo spazio bianco di una tela che, per una qualche ragione che non conosco, si colori delle sfumature dell’azzurro e del verde abbagliante, come di riflessi di un incanto dorato che si trova e si perde nella luce accecante del giorno? E ancora, che fosse proprio a causa della durata incommensurabile del tempo, che in passato marchiò a fuoco gli occhi dei Conquistadores spinti nella ricerca furibonda di un Eldorado che forse avevano soltanto sognato nel segreto della mente, a farli impazzire? Tempo, dunque, colpevole e consapevole delle domande che, in mancanza di un orizzonte visibile, vengono a porsi come semplici interrogativi sull’infinito o l’onnipotenza di Dio, quando desideriamo comprendere lo spazio intorno a noi, il fluttuare delle ore, dei giorni e delle notti, dei mesi e degli anni, come se fossero minuscoli granelli di sabbia, o gocce di rugiada. Per dirla con William Blake, quando si vuole comprimere “… un mondo e un cielo in un fiore selvatico, tenere l’Infinito sul palmo della mano, e l’Eternità in un ora”.
Tanto più grande è il potere che ci arroghiamo, tanto più ci sentiamo capaci di far accadere cose impossibili, come spesso è narrato nelle fiabe amazzoniche che qui propongo, come una sorta di narrazione cantilenante che gli Indios verosimilmente inventano per intrattenere i bambini e non solo, e che spesso parlano di eventi straordinari che hanno come protagonisti i diversi animali della foresta. Infatti, in quasi tutti i popoli amazzonici è diffusa la credenza che la creazione degli animali e delle piante abbia preceduto quella umana e che, pertanto, gli uomini discendano da essi. L’anima, “Aya”, è essenza indefinita, e si presenta come divinità del raccolto, insegna ai runas a seminare e a coltivare, dona loro la manioca e il banano, alla base della dieta amazzonica. Interpretata in senso dualistico, nasce dalla credenza che il corpo e l’anima del runa appartengono non solo a lui, ma anche a un animale della foresta, e che tutto ciò che concerne la vita di quest’ultimo influisce sulla vita dell’uomo, compresa la morte.
Esiste un’altra credenza indigena secondo la quale certi animali posseggono il mama (potere magico) e ci si appropria di tale potere uccidendoli e ingerendoli nelle porzioni rituali o indossandone parti come amuleti; nella cerimonia di puma-tukuna, per fare in modo che gli yachak gli stregoni, divengano fieri come il puma, si sfregano i denti e gli occhi dell’iniziato con polveri di denti dell’animale e peperoncino e gli si fa bere una sostanza segreta (pumayuyu-tabaco, puma-piripiri). In questo modo nella foresta la sua anima crescerà nel corpo di un puma e che, alla morte dello stregone, continuerà a vivere nel corpo dell’animale, spaventandolo e mangiando gli uomini. È così che i miti e i racconti del Napo (abitanti delle rive del fiume) esprimono una lotta perenne tra spiriti-animali-uomini-morte e trovano un senso nelle difficili condizioni di vita della foresta, dove l’uomo è soggetto al rischio quotidiano di distruzione.

Leyenda tercera (o de los animales). (7)

Nel fiume Napo, in un luogo chiamato Macao, esisteva fino a poco tempo fa un gran mulinello. Molti runas vi erano spariti in maniera improvvisa, senza che nessuno avesse potuto sapere qualcosa di loro: i loro corpi non erano affiorati dal fondo del fiume né erano approdati a riva. Sembra che vivesse sul colle vicino al mulinello, nel punto più alto, un gran pappagallo Macao dalle piume rosso fuoco: questi sorvegliava attentamente il fiume e quando avvistava qualche canoa da lontano, lanciandosi dal colle, si tuffava nel mezzo del vortice. Le acque gli si chiudevano dietro e, quando arrivava il pescatore, il vortice si apriva tra spaventosi ruggiti, facendo apparire un boa gigantesco che lo divorava. Un giorno il boa scomparve e non è rimasta traccia del pappagallo Macao. Ha lasciato solo il suo nome in ricordo dei rivieraschi morti.
Un altro giorno, un runa che risaliva il fiume Maranon si capovolse con la sua canoa e venne mangiato da un boa chiamato Porahua. Quando l’uomo arrivò nel ventre del boa, vide molti animali: wangane, cervi, ogni sorta di uccelli e di pesci. Gli animali che dimoravano lì da più tempo avevano perso il pelo, mentre gli ultimi arrivati lo conservavano ancora lucente. Dentro vi era buio: tutto era scuro come nella selva. Il cuore del boa pulsava, nel mezzo del ventre, legato con una fune. Due uccelli, un passero e una gazza, dissero all’uomo: “Tu hai frecce e faretra, fratello, tu sei un runa. Se apri il fianco del boa Porahua, vi entrerà l’acqua del fiume e noi tutti affogheremo. Ma se fai un coltello con il bambù della faretra, potrai tagliate la fune che gli lega il cuore”. L’uomo allora fece un coltello molto affilato. La gazza e il passero salirono fin sopra e si posero nella bocca del boa per guardare fuori e dirigere le operazioni: videro che si stava avvicinando alla riva. Quando sentirono il ventre del serpente strisciare sulla rena, avvisarono l’uomo che tagliò la fune che legava il cuore del boa e gli aprì poi il fianco. Tutti gli animali ne uscirono: molti correndo, altri più lentamente, fiacchi e mezzi pelati.
Si racconta che all’interno della foresta, lungo il Rio delle Amazzoni, abita da tempi immemorabili il Curupira, uno strano genio, nano un po’ deforme e con i piedi a rovescio, che è il nume tutelare dell’immenso verde e l’autore di strani sortilegi. Può capitare infatti che, inoltrandosi nella foresta, all’improvviso tutto si confonda nel labirinto della vegetazione: dovunque alberi, muraglie vegetali, fantasmi evocati dai riflessi della luce e il ricomporsi continuo di nuovi arabeschi nel regno della perenne metamorfosi. La maledizione del Curupira, a questo punto, non perdona …”.

Dal “diario di viaggio”: 28 Giugno 1986.

Le leggende appena narrate rappresentano, in modo evidente, la proiezione simbolica di una lotta costante con l’ambiente, in quello che è ritenuto il più grandioso scenario d’acque e di foreste che esista sulla terra, l’Amazzonia. Oltre sette milioni di chilometri quadrati che racchiudono i due terzi di tutte le foreste tropicali del globo; concepito come un unico interrotto fiume lungo più di seimila chilometri, che con i suoi 1.100 affluenti forma il più grande bacino idrografico del mondo e scarica nell’Atlantico il 20 per cento delle acque dolci di tutto il pianeta. Decine di migliaia di specie animali e vegetali, molte ancora sconosciute, che rappresentano la testimonianza più concreta del nostro passato ancestrale.
Ce n’è abbastanza per concludere, con Euclides da Cunha, che l’Amazzonia rappresenta davvero «l’ultima pagina ancora da scrivere della Genesi biblica». Qui infatti la natura continua a sprigionare, con energia creativa continua, primordiali forme di vita che si accumulano caoticamente, e meravigliosamente, fino a rendere impossibile qualsiasi organizzazione (esplicita e mentale), a dar vita a una realtà talmente “eccessiva” da originare spontaneamente, nel corso del tempo, la scintilla della trasfigurazione mitica. Così quando la pororoca, l’onda di marea alta alcuni metri, risale con il suo rombo assordante il corso del grande fiume, gli Indios parlano di Ipupiara e del Cobra Grande, gli spiriti del fiume che si agitano nella loro dimora acquatica, mentre geni e divinità diverse abitano l’interno della foresta, là dove, protetto dal folto della vegetazione, l’uirapuru eleva il suo melodioso canto alla felicità.
Horacio è alle prese con alcuni Indios che abitano sulla costa, e sta cercando di concordare con essi di farci da guida nell’attraversamento dell’impervia palude equatoriale che si allarga nel tratto di foresta in cui il Rio Negro si immette nel Rio delle Amazzoni. Non c’è ragione di temere alcunché – dice – poiché le acque basse e meno turbolente di alcune vie d’acqua non rappresentano un pericolo, e per di più, si possono fare delle bellissime fotografie alle iguane che arrampicate sugli alberi s’adagiano agli ultimi raggi di sole. Ci trasferiamo sulle loro ubàs (canoe), così leggere che sembrano fatte di carta, e che gli Indios, uno per ogni imbarcazione, manovrano in piedi usando un solo remo, lentamente ma con destrezza, conducendole in silenzio attraverso un labirinto di arbusti e grossi tronchi che spuntano dall’acqua, facendo attenzione a non prenderci contro. Ed è proprio in questo silenzio arcano che la foresta sprigiona tutto il suo incantesimo arboreo e vegetale, che bulbi dalle dimensioni mai viste e fiori dai colori straordinari, sbucano improvvisi entro uno spazio esiguo; che il fogliame assume dimensioni inimmaginabili e s’arrampica sui fusti degli alberi, cui gli ibiscus cangianti fanno da corona.
L’Indio-runa che mi fa da guida, m’indica due iguane assopite al sole, sono enormi, magnifiche nella loro regalità … quasi appartengano al regno delle fiabe, quel mondo estremo che ci conduce dove l’eventuale impossibile e il probabile sono entrambi aspetti di una realtà/irrealtà sospesa nel colore dorato e trasparente del cielo che s’inchina al tramonto. Ferma la canoa! – chiedo al runa che penso comprenda la mia lingua – e lui lo fa, si siede sulla prua della canoa mentre io mi sollevo in piedi con entrambi gli occhi nel quadrante della Yashica - Matic pronto a scattare la mia foto ricordo, neppure che un obiettivo possa vedere più dei miei occhi incantati davanti allo spettacolo incredibile che mi offre la natura. Ce l’ho entrambe nella medesima inquadratura, sto per scattare la foto che il click s’inceppa, quando avverto dietro la mia testa e nell’orecchio scivolare dell’acqua che non è stata smossa, impossibile che fosse così vicina.
Tutto accade in un istante, con la coda dell’occhio vedo un tronco robusto su cui l’acqua scivola silenziosa, il boa Porahua (anaconda) è lì, emerso fuori dalla palude, pronto a stringermi nelle sue spire e trascinarmi nell’acqua torbida. Ho uno scatto istantaneo, come il click mancato della macchina fotografica che lancio verso l’alto con un grido, e poiché ce l’avevo legata al collo, mi ritorna sullo stomaco facendomi piegare in due sulla canoa. Il grido disumano, improvviso, risuona d’intorno come una nota acuta fuori del pentagramma, che gli animali e gli spiriti della foresta, colgono come un avvertimento di pericolo e subito s’allontanano. Finanche il boa Porahua, allorché il runa audace in bilico sulla canoa lo colpisce con il remo, si lascia cadere con un tonfo assordante nell’acqua e scompare. Ho appena il tempo di riprendermi che Horacio, sopraggiunto dietro di noi, mi consola dicendo che se fossi caduto in acqua avrei forse corso un altro pericolo più tremendo ancora, quello di finire in pasto ai famelici pirànas, in cerca di acque meno profonde e turbolente, ove depositare le loro uova.
Che anch’io sia incappato nella maledizione del Curupira?, arrivato a questo punto mi è cominciato a sorgere qualche dubbio … Dal ché si può ben comprendere la risposta che pure è racchiusa nel messaggio stesso. Due sono i modi di come si può affrontare un viaggio nella foresta amazzonica: uno esclusivamente pratico, che si presenta difficoltoso e oltremodo pericoloso se non si ha la possibilità di farsi guidare da un esperto conoscitore dei molti pericoli in cui si può incorrere, come: attacchi di animali, morsi di serpenti, punture d’insetti sconosciuti, febbri insane ecc., sfidando inoltre la possibilità di aggressioni feroci da parte di tribù agguerrite che fanno uso di frecce avvelenate col curaro, e per ciò che è rappresentato dalla quasi impossibilità di avere contatti diretti (del resto vietati dai vari stati) con gli Indios autoctoni delle regioni equatoriali più interne e quindi inavvicinabili. Il secondo modo, decisamente più insano, di fregarsene di tutto quanto è stato detto e quindi astratto, di affrontare l’impenetrabilità degli idiomi parlati, e avvicinarsi al loro modo di essere “primitivi”, schivi dei pericoli che la foresta può rappresentare e che vivono in stretto rapporto con la natura che li circonda. Andare alla ricerca, cioè, di quel “paradiso perduto” presente nella cultura di molti popoli, memori di un diluvio che li ha spazzati via e condannati a sopravvivere. Fino a quando?

Dal “diario di viaggio”: 29/30 Giugno 1986.

Costretti a nascondersi nei meandri più remoti della foresta e a vivere con rassegnazione all’interno delle riserve istituite dai karajana, come essi appellano i colonizzatori bianchi e in genere gli occidentali, gli Indios hanno subito a tutt’oggi, una decimazione sistematica da parte dei governi (e delle multinazionali) che si spartiscono il territorio amazzonico quasi senza interruzione dai tempi della Conquista, e tuttora, a seguito del taglio della grande arteria Transamazzonica che coinvolge una vasta regione, che va dal Perù, alla Colombia, al Venezuela, al Brasile, i cui governi, dopo l’assoggettamento occidentale, iniziato e mai terminato, sono tornati alla ribalta per l’importanza ch’essi ricoprono nell’ecosistema mondiale, e che permettono oggi, lo sfruttamento dei cospicui giacimenti minerari e l’estrazione del caucciù, vera e propria ricchezza del territorio.
Una recente stima, tuttavia molto approssimativa, ha rilevato la presenza di ingenti gruppi Indios allo stato nomade presenti lungo i corsi dei fiumi Xingu in territorio brasiliano e, dell’Orinoco in quello venezuelano, nonché di altri gruppi più esigui quali i: Karajà, Javahé, Juruna, Kraho, Tukuna, Shukarramae, Suyà, e molti altri ancora isolati nelle valli più interne, che vivono in condizioni pressoché precarie, lontani gli uni dagli altri, mantenendo scarsissimi contatti col mondo esterno e che, tuttavia, non mancano di occasioni di conflitto cariche di un’ostilità non soltanto micidiale e selvaggia, ma addirittura incessante. È questo il caso degli Yanoama dell’Orinoco, una popolazione eccezionalmente bellicosa e feroce, che ha permesso, ai ricercatori che vi si sono introdotti, un’occasione preziosa di poter studiare il fenomeno della violenza allo stato spontaneo. Tale che, se un gruppo, raramente formato di più di 200 persone, non riesce a trovare nessun indizio evidente di attacco da parte di un altro villaggio, escogita ragioni più sottili per contrattaccare ugualmente, per esempio, lamentandosi del fatto che il villaggio avversario ha provocato, mediante fatture stregonesche, malattie e accidenti vari ai propri abitanti.

Ogni villaggio costituisce un’entità politicamente indipendente, costantemente suscettibile di essere attaccata per ragioni diverse da uno qualsiasi dei suoi numerosi vicini, e che vanno dal furto di cibo, all’adulterio, all’offesa di mancanza di coraggio di qualcuno, ogni gruppo cerca continuamente di esibire la propria forza e ostentare la propria ferocia cercando di ispirare paura nei propri nemici. Tuttavia, poiché la situazione politica continuamente tesa è foriera di discordie, i combattimenti tra singoli rientrano a far parte integrante del quotidiano e, seppure lo stato di guerra cambia secondo i tempi e i luoghi, le circostanze sono ben definite e chiare per tutti.
Attualmente però, il grande dramma degli Yanoama dell’Orinoco che fanno paura, sembra essere scemato in atteggiamenti più vicini al vivere pacifico, anche a causa dei sopravvenuti problemi sociali e ambientali che si trovano ad affrontare, sia per le difficoltà legate alla sopravvivenza, portate dall’inquinamento e dai batteri che infieriscono sul loro stato di salute; sia dovute allo sfruttamento energetico perpetrato dalle multinazionali, interessate all’approvvigionamento del legname e quant’altro derivato dalla deforestazione, già causa dello depauperamento del territorio, che vede molte piante morire, molte delle quali già estinte, e che, non in ultimo, toglie agli Indios raccoglitori, quel sostentamento che la foresta fornisce loro. Fatti questi che minacciano, inesorabilmente, anche la sopravvivenza di migliaia di animali che in essa vivono e che si trovano ad affrontare sempre nuove difficoltà di conservazione, cosa questa, che arreca danni irreparabili all’equilibrio biologico che comprende anche tutti noi.

Leyenda cuarta, (o del espìrito natural). (8)

“All’inizio dei tempi accanto al dio Yaya, nostro Padre, vi era anche Yaya-Apustulu. Alcuni dicono che ce ne fosse uno, altri, due, altri ancora quattro o sei. Non si sa con certezza quanti fossero. A quei tempi Yaya-Apustulu andava in giro per il mondo; si dice che fosse veloce come il vento. Era quasi un dio, quasi come nostro Padre Yaya. Vi sono molti racconti che parlano di lui. Io ho sentito raccontare di due Yaya-Apustuli, che si resero visibili sulla nostra terra: erano due fratelli. Ascesero al cielo dopo aver insegnato ogni sorta di lavori ai runas della selva: forse ora sono con dio. Gli Yaya-Apustulu vissero all’inizio del mondo ai tempi di Killa, la luna; conoscevano tutti i tipi di alberi della foresta, soprattutto il cedro, chiamato “Albero Sacro”. Dal cedro si fabbricavano le immagini intagliate, dette “santi” forse perché il cedro fu benedetto dal dio, che decretò: “Questo è l’albero di Dio”. Le immagini di legno che gli Apustuli fabbricavano perché ci si ricordasse di Dio, oggi non ci sono più sulla terra: tutto è andato perduto. Allora vi erano anche gli spiriti o supays. Contro di loro gli Apustuli lottarono perché non dominassero su Dio. Li fecero fuggire molto lontano, in modo che vivessero appartati nella foresta. Alcuni di essi appaiono ancora come serpenti, scimmie o altri animali selvatici e, se li uccidiamo, incorriamo in gravi pericoli o moriamo.
Molto tempo dopo aver generato il popolo dei runas, Yaya disse: “Che farò adesso? Procurerò il cibo per nutrire il mio popolo; creerò il nutriente frutto del piwayo”. Deciso quest, creò una quantità di frutti commestibili: il piwayo e tanti altri, perché tutti avessero di che nutrirsi. Alla vista di tutto ciò, il supay, invidioso, tentò di imitarlo. Ma dai suoi tentativi uscivano solo palme wiririma, muru-muru, cioè piante spinose e prive di frutti commestibili. È infatti colpa dei dèmoni se vi sono spine nella selva. Un Apustulu volle provarci, ma non riuscì a fare che la chambira, un altro riuscì a creare solo chontilla e un altro ancora kuri-kiwa. Queste palme producono anch’esse dei frutti del tipo piwayo. Tutti questi spiriti, che all’inizio erano degli aiutanti di Yaya, non avevano però i divini poteri del dio e solo in parte riuscivano a imitarlo. Solo Yaya poteva fare tutto quello che voleva.
Un giorno Yaya se ne andava appoggiandosi a un bastone, che aveva ricavato dal legno di manioca , canna da zucchero, e si soffermò a guardare come la gente era in difficoltà. Andava in giro aiutando chiunque avesse bisogno e facendo tutto a vantaggio del popolo dei runas. Da questo arbusto nodoso tagliò dei pezzi che poi consegnava ai runas. “Prova a seminare questo, figlio – diceva – e mettilo nel mezzo del tuo campo”. Il runa lo seminava e il giorno dopo, di buon mattino, il campo appariva già pieno di frutti maturi, pronti per essere mangiati. Yaya stesso andava in giro seminando manioca e la pianta del piripiri, che serve per controllare le piogge e ha molti altri poteri magici. Per questo, quando seminiamo, ancora diciamo: “ Yaya, nostro padre, fai crescere la manioca sui nostri terreni! Ordina alla mia piccola pianta di crescere!”. Quando, nel momento della semina, pronunciamo queste parole, la pianta cresce bene e in abbondanza”.

Dal “diario di viaggio”: 1/2 Luglio 1986.

Oggi entriamo per la prima volta in un vero villaggio Tukuna, accolti dai runas con molti sorrisi ma che comunque nascondono una certa diffidenza. Al contrario dei più giovani che accennano a quelli che sembrano dei saluti di convenienza, le donne e i guerrieri della tribù ci osservano in silenzio, come fossimo nuovi animali di una razza che non conoscono, e che forse si aspettano di cacciare. I due anziani che ci vengono incontro, e che potrebbero avere da cento a mille anni, parlano con le guide indie, loro simili, o al massimo si rivolgono a Horacio che, essendo di pelle più scura della nostra, anche se ai loro occhi non può essere paragonato ai karajana, ma che si fa capire nella loro lingua. Noto che le abitazioni sono disposte in cerchio e differiscono tra loro per forme e misure, e ciò – spiega Horacio – avviene a seconda delle esigenze sociali, difensive, igieniche e religiose di ogni tribù o addirittura di ogni singolo gruppo linguistico. Il tipo di abitazione, oca o maloca, di un dato gruppo è il risultato di una lunga tradizione e dell’esperienza di vita in un determinato luogo, entrata a contatto con un terreno, un clima e una natura specifici.
Il linguaggio parlato dagli Indios amazzonici si fa risalire a quattro principali gruppi linguistici: Tupì, Aruak, Karib e Macro-Ge. Ognuno di questi comprende varie lingue e la loro influenza è presente nel portoghese parlato oggi in Brasile, specie nei nomi degli animali in genere, delle piante e degli oggetti domestici. All’interno di ogni tribù i gruppi di parentela dipendono dalle regole relative alla discendenza che possono riassumersi in tre gruppi principali: regole basate sulla discendenza patrilineare, cioè sul fatto che si considerano parenti solo coloro che hanno legami di sangue col proprio padre; regole basate sulla discendenza matrilineare che classificano come parenti solo quanti hanno legami di sangue con la madre; regole basate sulla discendenza bilaterale che riconoscono la parentela con i consanguinei di entrambi i genitori. Queste differenti regole dipendono dall’idea che un determinato gruppo tribale ha nella riproduzione biologica: secondo alcuni infatti il ruolo predominante nel concepimento spetta alla donna, secondo altri all’uomo e secondo altri ancora a tutti e due. Anche per quanto riguarda il matrimonio le regole variano da tribù a tribù. In alcuni gruppi ad esempio è permessa la poligamia, ovvero un uomo può sposare varie donne contemporaneamente, in altri è permessa la poliandria, cioè una donna può sposare più uomini allo stesso tempo, altri gruppi ancora permettono soltanto la monogamia e infine ci sono casi in cui un gruppo di uomini sposa un gruppo di donne e viceversa. Uomini e donne si suddividono il lavoro in parti uguali, ma dedicandosi ad attività nettamente distinte per gli uni e per le altre. I primi cacciano, pescano, puliscono il terreno, raccolgono il miele, preparano la cera utile ai lavori artigianali, si tengono sempre pronti per eventuali combattimenti. Le donne piantano la mandioca, il grano, le patate, il cotone, le spezie, le piante medicinali, raccolgono i frutti selvatici e spesso i lavori riservati a un sesso sono tabù, cioè sono severamente proibiti, per l’altro.

Dal “diario di viaggio”: 3/4 Luglio 1986.

Horacio ci ragguaglia sul luogo ove costruire un villaggio tipico che i Tukuna solitamente scelgono sulla base dei comuni interessi di sicurezza e di sopravvivenza, per lo più costruito con il sistema delle palafitte, al fine di risultare ben difeso dalle terribili piene del Rio delle Amazzoni. Dapprima si esamina la posizione strategica, la pendenza adatta o meno allo scorrimento delle acque piovane, la fertilità dei campi circostanti da riservare alla piccola agricoltura, la distanza dalla foresta, o mato, ricca di risorse vegetali e animali, la presenza di acqua potabile. Scelto il terreno, si passa al disboscamento per creare uno spazio abbastanza grande da costruirvi il villaggio. Una volta liberata la zona da cespugli e dalle erbacce e altri vegetali facile da estirpare, lasciano tutto a seccare. In un secondo momento danno fuoco all’area così circoscritta e alla fine restano sul terreno solo ceneri e i tronchi anneriti degli alberi più grandi. Attorno a questi ultimi riuniscono allora una gran quantità di rami secchi e accendono enormi falò, fino a distruggerli completamente.
Il disboscamento è in genere compito degli uomini, l’incenerimento delle piante è invece fatto da uomini e donne insieme. La costruzione dell’intero villaggio, in grado di ospitare complessivamente da 100 a 300 individui, è comunque il risultato di un intelligente lavoro collettivo e vi si accede mediante scale o piani inclinati sollevati dal suolo, e protetto all’esterno da una lunga e fitta palizzata che lo difende dagli animali e da ogni eventuale attacco nemico. Le abitazioni, poste in circolo, sono tutte aperte verso un’unica grande piazza centrale leggermente rialzata, in modo che nel periodo delle grandi piogge l’acqua scorra all’esterno del villaggio attraverso una sapiente rete di canalizzazione che evita l’impantanamento del terreno.
Solitamente, lo scheletro di ogni abitazione è costituito da grossi tronchi d’albero collegati tra loro con liane (cipò), ai quali sono appoggiati obliquamente dei lunghi rami flessibili e resistenti (vara) che formano il tetto e le pareti. La parte superiore di queste abitazioni è concava e coperta dall’alto in basso con foglie di un tipo di palma detta buritì. L’interno di ogni capanna, è privo di suddivisioni e vi si accede attraverso due porte molto basse, abitato da un certo numero di famiglie che vivono servendosi di un unico fuoco comune e, come al solito, le amache per dormire sono appese ai pali di sostegno, mentre dal tetto pendono oggetti di vario tipo e scorte alimentari.
Diverso è il villaggio degli Yanohàma (xapuno), una tribù che vive nell’alto Orinoco, altro grande fiume amazzonico, preso da Horacio a confronto, è formato da una serie di capanne costruite in cerchio che superano a volte i 100 metri di diametro, coperte ciascuna da un enorme tetto quadrangolare spiovente, prive di pareti e inclinate verso l’esterno in maniera da seguire la forma circolare o ovale della piazza centrale, capaci di ospitare un intero gruppo tribale. Le zone dove sorgono sono raramente esposte alle intemperie, il che spiega la loro elementare struttura che permette a loro di ridurre o ampliare le dimensioni del villaggio secondo le necessità, di grande importanza nel caso si debba ospitare qualche nuovo gruppo per motivi di difesa. Sempre per motivi di difesa il villaggio può essere circondato da una o più palizzate di protezione e inoltre, durante la notte, le sue entrate principali vengono sbarrate con rami spinosi per impedire agli animali di entrare.
Tra i diversi villaggi, quelli dei Tupinambà sono disposte in gruppi di quattro o al massimo di sette e sono costruite in genere nelle vicinanze di un fiume o in regioni coltivabili, difesi esternamente da una palizzata di tronchi d’albero conficcati nel suolo a breve distanza l’uno dall’altro, così da lasciare delle feritoie per gli arcieri pronti alla loro difesa. Sistemate in modo da creare una piazza rettangolare (ocara) dove trascorrere indisturbati la vita sociale della tribù, queste abitazioni sono quasi sempre rettangolari di grandi dimensioni, dai 50 ai 200 metri quadri in ampiezza, così da poter accogliere più famiglie tribali. Il piazzale centrale del villaggio infine, è un luogo comune a tutti dove si svolgono feste, ma anche competizioni sportive o riti religiosi, solitamente celebrati da uno sciamano (xamano).
Lo stile delle (chocas) abitazioni dalla forma conica, spesso decorate con pannelli ricavati dalle cortecce e dipinti a vivaci colori, varia ovviamente da tribù a tribù, e mentre alcune capanne hanno la base rinforzata da un cerchio di bassi tronchi, ve ne sono altre fornite di una specie di torretta utile per agevolare la ventilazione nei giorni più caldi. Altre ancora, con base circolare, sono costruite legando un certo numero di lunghi rami flessibili a un palo centrale e poi fissando con delle liane a questa struttura di base un fitto strato di foglie di palma. Nella parte interna delle abitazioni vi sono, ciascuno al centro dello spazio riservato a un singolo gruppo, i fuochi delle famiglie che vi risiedono. Sui fuochi vi sono spesso pentole di coccio dove bollono acqua e pezzetti di carne per il pasto quotidiano, mentre nelle vicinanze, infilzata in bastoni, viene messa a cuocere la carne di riserva. Alle pareti interne di ogni choca sono appese pentole di varie misure, frutta, carni e pesci essiccati, conchiglie, amuleti e accessori di vestiario. E inoltre, archi, frecce e altri utensili sono appesi a un’altezza superiore a quella dell’uomo e infine, pelli di giaguaro e di altri animali, oppure oggetti ornamentali, che scendono dal soffitto quasi fino al suolo.
Nella regione amazzonica dove le piogge sono molto abbondanti, le abitazioni sono invece di forma circolare, per difendersi meglio dalle raffiche d’acqua che le colpiscono e che potrebbero allagarle. È molto importante, per queste abitazioni, la scelta delle foglie di palma che servono a ricoprirle. La palma preferita è la paxiuba per la sua grande resistenza all’acqua. Gli Indios si siedono su stuoie o foglie di palma. Il letto è fatto con liane o fibre vegetali intrecciate a rete ed ha forma di amaca (rede). Può essere però anche fatto con quattro paletti di 30 o 40 centimetri di altezza che vengono fissati al suolo e sui quali si appoggiano delle assi, a loro volta ricoperte di foglie di buritì o di pelli di animali. Non manca poi chi dorme direttamente su pelli disposte a terra, vicino al fuoco.
Le tribù nomadi, per lo più formate da gruppi che vivono soprattutto di caccia e di quanto offre loro la natura, costruiscono abitazioni che sono spesso soltanto dei ripari temporanei contro le piogge e l’umidità della notte. Per crearsi questi ripari, gli Oiana, questo il nome di un gruppo esiguo, fissano al suolo due pali o usano due tronchi d’albero vicini che collegano con un palo orizzontale al quale appoggiano un tetto obliquo, fatto di foglie di palma e fissato con solide liane. A volte, se si trovano in zone paludose o sono minacciati dalle belve, costruiscono i loro rifugi tra i rami degli alberi, ben sollevati dal suolo.

Dal “diario di viaggio”: 5/6 Luglio 1986.

Non avendo conoscenza del tornio, che tanto facilita la lavorazione della creta, i Tukuna, come la maggior parte degli Indios dell’Amazzonia usano uno strumento di forma arrotondata che prima inumidiscono con la saliva. La cottura avviene in modo molto semplice: si scava nella terra una buca capace di contenere una grande quantità di pezzi, la si riempie con rami ai quali si dà fuoco e, quando resta soltanto la brace incandescente, vi si collocano sopra gli oggetti ben plasmati e si riattizza il fuoco. A cottura avvenuta non viene toccato nulla finché non si è raffreddato. Tra gli utensili di terracotta i più comuni sono le pentole che servono in primo luogo per preparare la mandioca. Questa va triturata premendola con le mani o con uno strumento particolare e a ciò si deve la forma più diffusa di pentola, non alta e dai bordi ben rinforzati. La grandezza di questi recipienti d’uso quotidiano arriva fino ad 80 centimetri di circonferenza e il peso si aggira sui 13 kg.
Già esistente in tutto il Sud America prima delle conquiste, si usa suddividere l’arte della ceramica in due grandi gruppi: la peruviana, prodotta oltre che in Perù anche nella regione occidentale del Brasile, in Argentina e in Bolivia; e quella amazzonico -messicana prodotta nel Messico, nelle Antille e nelle valli dell’Amazzonia, tra cui la più famosa è quella trovata nell’isola di Marajò alla foce del Rio delle Amazzoni. Sono essenzialmente le donne ad occuparsi della ceramica e le più famose sono quelle Waruara – una tribù di cui ci parla Horacio con cognizione di causa – che modellano nella terracotta, bambole e piccole immagini che vengono dette “santi”. Le più antiche sono singole e figurano quasi sempre in piedi. La capigliatura è rappresentata da un cono di cera e i disegni dai sobri colori riproducono la pittura che gli Indios usano fare sui propri corpi. Le statuette più recenti hanno due o tre teste, figurano spesso sedute nell’atto di compiere azioni quotidiane e i colori con cui sono dipinte sono molto vivaci.
Altre tribù si contendono però questo primato, per lo più che abitano in prossimità del fiume Botovì ricco di materie organiche – aggiunge ancora – usano una creta speciale arricchita con polvere di spugne. Questa creta, già di per sé particolarmente liscia, viene levigata con le foglie di una pianta dopo aver modellato l’oggetto che si è deciso di fare. Sulla superficie ben liscia si spalma poi un impasto fatto con un vegetale (urucu) e con olio di palma e subito si eseguono i disegni in rosso scuro, nero e bianco, passando nella parte interna dell’oggetto uno strato di fuliggine nera. Tra i tanti tipi di vasi, originali sono quelli zoomorfi, cioè a forma di animali. I loro bordi rappresentano le zampe, la testa, la coda di un dato animale che risulta così capovolto. Esistono anche recipienti di terracotta che servono da sonagli per i bambini o per le feste: dentro vi si mettono delle palline di terracotta che non possono uscire da nessuna delle sue parti.

Leyenda bastidor,(o de la primera canoa). (8)

“Yaya-Apustulu per prima cosa, si mise in cerca di un grande cedro. Prese poi l’arco magico che aveva il potere di tagliare gli alberi e, decise le dimensioni della canoa, conficcò una freccia nell’albero, all’altezza desiderata, traas!... la parte colpita divenne la prua. Indi tagliò l’albero e, mentre esso lentamente cadeva, corse avanti e se lo lasciò piombare sulla testa.. ta!... ta!... Ed ecco, dall’impatto, venne fuori una canoa ben delineata… senza molto sforzo. Decise così di insegnare questa tecnica al fratello minore, ma costui non seguì tutti i suoi suggerimenti: prese l’arco, colpì il cedro e cominciò a tagliarlo, ma quando iniziò la caduta egli, preso dalla paura, invece di rimanere ad aspettarlo e lasciarselo cadere sulla testa, si scansò e corse lontano. Il tronco allora cadde intero e non si trasformò più in canoa… Yaya-Apustulu lo rimproverò aspramente e predisse che mai più i runas avrebbero costruito canoe senza fatica, bensì sarebbe stato necessario un duroi lavoro con l’ascia, poiché anche l’arco perse gran parte del suo potere magico”.

Dal “diario di viaggio”: 7/8 Luglio 1986.

Presso la tribù Kamayuras, da noi raggiunta nei giorni successivi, e che vive più a nord risalendo il Rio delle Amazzoni, ho modo di assistere alla costruzione di alcune canoe che vedono l’utilizzo della corteccia dello jatobà (specie di cedro), un albero dal tronco largo, ben diritto e alto. Già durante la stagione delle piogge, in quanto è più facile staccare la corteccia dal tronco gonfio di umidità, gli uomini della tribù scelgono i tronchi che serviranno all’uso, secondo una conoscenza consolidata nel tempo. Quindi, staccano dapprima un pezzo di corteccia per vedere se vi si potrà ricavare una buona canoa; poi creano intorno all’albero uno spazio libero dalla vegetazione e infine aprono un solco lungo la parte centrale del tronco, partendo dalla base. Man mano che si arrampicano verso l’alto, gli uomini aprono altri solchi per formare il disegno della canoa da poppa a prua e costruiscono un’armatura d’appoggio (jirau) per poter procedere al lavoro d’intaglio. Dunque, collocano dei cunei di legno tra la corteccia e il tronco, e alla fine staccano la corteccia con l’aiuto di liane. Quando la canoa è a terra, la bagnano e correggono eventuali difetti, e definiscono le necessarie curvature. Una volta portata al villaggio, la canoa viene riscaldata in modo da far asciugare il grasso animale che ne conserverà l’impermeabilità e, una volta raffreddata, l’imbarcazione è pronta.
Diversamente, un’altra tecnica di costruzione delle canoe, consiste nello scavare l’interno del grosso tronco, bruciandone dapprima la parte non necessaria e poi completando il lavoro con l’ascia di pietra (machado). Entrambe le canoe così concepite, sono molto resistenti e non si spaccano, né al sole né alla pioggia, ai quali sono continuamente esposte. La loro poppa affusolata facilita la navigazione veloce e favorisce stabilità ed equilibrio. I remi usati sono anch’essi di legno e differiscono molto gli uni dagli altri, ma il più comune è quello a forma di lancia (pagaia). Si tratta di imbarcazioni molto agili difficilmente ribaltabili dalla corrente dell’acqua, sempre che le si sappia condurre, ovviamente, e in grado di intrufolarsi silenziosamente attraverso il dedalo intricatissimo delle numerose vie d’acqua che mantengono rigogliosa l’Amazzonia. Difficilmente l’Indio rinuncia alla propria canoa e, sebbene ve ne siano alcune adibite a uso della comunità, ne possiede una personale, talvolta più piccola, con la quale andare a pesca. Sono però gli Juruna, una tribù nota per l’attività agricola (estensiva e intensiva), con ricchi raccolti e che vivono sopra le grandi rapide che separano l’alto dal basso Xingu, davvero gli unici che sappiano attraversare le rapide con le loro robuste canoe e raggiungere le piane dove il fiume si placa e dove essi vanno a pescare.
La pesca è una delle attività fondamentali degli Indios che risiedono in zone ricche di acque. Tra le tante tecniche usate, è assai diffusa quella per cui si impiegano sostanze vegetali che hanno la proprietà di uccidere o stordire i pesci senza essere nocive per l’uomo, come il tinguì o il timbò. Questo tipo di pesca è sempre di carattere collettivo perché necessita della presenza di più persone. Gli uomini tagliano e legano in fasci di liane del timbò, poi le pestano con pietre o pali e infine le immergono nell’acqua al fine di impregnarla di succo vegetale. In un secondo momento, ponendosi in semicerchio, i pescatori smuovono con dei rami la superficie dell’acqua spaventando i pesci e facendoli fuggire in direzione dello sbarramento costruito in precedenza nel lago o nel braccio del fiume. Quando arrivano nella zona dove si trova il liquido del timbò, i pesci storditi seguono la corrente fino al punto dove li aspettano i pescatori, che però, difficilmente possono afferrarli a mani nude in quanto, benché storditi, una volta toccati guizzano via con violenza. Si usa perciò trafiggerli con frecce che hanno la punta d’osso o una punta di legno speciale (pau roxo) appositamente seghettato e tale da non lasciare la presa.
Quando le acque sono calme e trasparenti è possibile prendere il pesce con le frecce senza ricorrere a tossici speciali. In questo caso il pescatore aspetta pazientemente la preda dall’alto della canoa o su alberi i cui rami arrivano a toccare l’acqua e i cui frutti sono esche per i pesci. La pesca avviene di giorno, ma può avvenire anche nelle ore del tramonto o in quelle notturne. Di notte gli uomini pescano illuminando la superficie dell’acqua con una fiaccola che sostengono con la mano destra, mentre con la sinistra stringono l’arco tendendone la corda con la bocca e, sempre con la bocca, trattengono la freccia della lunghezza di un metro, pronta a scoccare. In altre occasioni però, costruiscono trappole ingegnose a forma conica, legate in cima a una lunga canna flessibile. Questa la si immerge sott’acqua e la si lega assieme all’esca ad un appoggio fatto con tre paletti. Il pesce per prendere l’esca deve entrare nella gabbia e fa così scattare il meccanismo che riporta la trappola all’esterno.
Una pesca particolare è quella che si svolge vicino alle cascate dove gli Indios costruiscono sbarramenti fatti di rami nei quali i pesci, trasportati dalla corrente, devono necessariamente incappare. Un altro tipo ancora di pesca è quello in cui si usano esche avvelenate che uccidono solo gli animali di sangue freddo e che sono fatte impastando dei pezzetti di carne con foglie di cunabim. I pesci vengono mangiati subito arrostendoli sul fuoco oppure, se si vogliono conservare, vengono moqueados, cioè messi a essiccare sopra una graticola speciale detta moquem.

Dal “diario di viaggio”: 10 Luglio 1986.

Oggi all’alba, seguiamo un gruppo di Indios a caccia del caititu, il cinghiale della selva amazzonica. È uso dei cacciatori eseguire riti magici di accompagnamento, come bere o spalmarsi il corpo con sostanze speciali ritenute di buon auspicio, fare molta attenzione a non offendere gli esseri soprannaturali, scrutare nei sogni per vedervi annunci di fortuna o di sfortuna. In tutte le società indigene la caccia è un’attività maschile primaria che può essere fatta sia individualmente che collettivamente. È ovvio però che non tutti i gruppi indigeni danno alla caccia la stessa importanza o la eseguono nello stesso modo. Canti iniziatici per la caccia sono lasciati alle capacità interpretative degli esecutori, piuttosto che a una sostanziale diversità di contenuto. Lo scopo ultimo è quello di portare al villaggio la selvaggina sufficiente al mantenimento del gruppo tribale. La notte prima della partenza per l’inizio della caccia, gli uomini della tribù improvvisano una danza rituale di tipo propiziatorio, a imitazione dell’animale che intendono cacciare l’indomani: ogni singolo cantore ripete dunque il verso dell’animale mentre gli altri del gruppo ripetono a mezza voce le sue parole. Si tratta di un canto “mormorato”, basato sulla cacofonia delle parole, senza accompagnamento di strumenti o sonagli.
Le tecniche della caccia dipendono in primo luogo dal tipo di animale che si vuole cacciare. Il caititu, simile al cinghiale, viene ad esempio atteso all’uscita dalla sua tana o stanato col fuoco. Per altri animali gli Indios si costruiscono dei rifugi o si arrampicano sugli alberi dove si appostano soprattutto di notte. Nella stagione piovosa, poi, l’allagarsi del terreno obbliga gli animali ad andare in luoghi asciutti dove è più facile catturarli. Una tecnica di caccia consiste nel circoscrivere col fuoco una zona fitta di vegetazione costringendo così gli animali a fuggire spaventati da un’apertura lasciata libera appositamente, la cui uccisione avviene nel momento della fuga.
L’attività della caccia impone agli Indios di sapere assai bene quali sono le abitudini degli animali e per questo essi conoscono i loro percorsi, i loro gusti alimentari, i loro rifugi preferiti. L’arco è sempre fatto con un legno molto duro e difficile da lavorare con strumenti rudimentali. La fatica che costa la sua fabbricazione spiega perché l’Indio è tanto attaccato al suo arco e perché solo di rado lo usa come merce di scambio. Il legno impiegato può essere quello di un albero che si chiama braùna scelto per la sua flessibilità, oppure quello di un tipo di palma che si chiama airi e che è duro, compatto, pesante, o ancora quello di una pianta che si chiama la begonia, anch’esso duro e compatto.
L’arco dei pescatori, a differenza di altri, è invece fatto con il gambo legnoso delle foglie di palma e c’è poi un particolare arco, detto bodoque, che serve per lanciare pietre o palle di terracotta. La grandezza degli archi è in genere di circa due metri, ma quello della tribù Patachos può anche superare i due metri e mezzo, mentre gli archi per la pesca superano di poco il metro. Le corde sono fatte con tre fili di cotone attorcigliati che vengono strofinati con foglie per farli diventare forti e lucidi. Un tipo di corda più sottile è fatto con una pianta che si chiama gravata e in questo caso la corda è strofinata con frutti freschi dell’araeira contenenti un succo nero protettivo contro l’umidità. Le tribù della regione del Maranhao si caratterizzano per avere un’arma più degli altri: una lancia che termina con una punta di legno duro.
Di particolare importanza le frecce si distinguono in almeno tre specie: le frecce da guerra, con punta di bambù concava, le frecce per la caccia di grandi animali, con punta concava ma fatta di legno e seghettata in modo che i serpenti non la espellano dopo la ferita; le frecce per la caccia agli animali più pericolosi, con punta schiacciata che termina in un tondino simile a un bottone e che produce una forte contusione. Un quarto tipo di freccia, migliore delle altre, termina con una punta liscia e si usa per la pesca. Il legno delle frecce è imbevuto di cera e poi passato varie volte nel fuoco per farlo indurire. Una volta attuato questo procedimento l’Indio inizia a intagliarlo e modellarlo. La lunghezza delle frecce è in genere di due metri, ma varia ovviamente secondo l’ampiezza dell’arco di cui si dispone. Le frecce sono sempre ornate con piume di animali tra le quali si preferiscono quelle dell’arara vermelha, della jacutinga, dello jacupemba o quelle della coda del mutum.
Le tribù del rio Napo, ad esempio, hanno lo stesso tipo di lancia descritta ma vi mettono una punta di un particolare bambù: il taquarassu ma, più solitamente le tribù che si dedicano in particolar modo alla pesca non usano fare la caccia collettiva e prendono soltanto alcuni uccelli con particolari cappi fatti con le liane o, occasionalmente, dei piccoli mammiferi, rispettando i tabù che vietano il consumo della carne di animali coperti di pelo. Le numerose e differenti tribù amazzoniche sono molto spesso in lotta tra loro e per questo la guerra è un evento fondamentale con funzioni economiche e sociali, a seconda che riguardi la difesa e l’allargamento del territorio, oppure la salvaguardia di un prestigio collettivo. I nemici non sono considerati tutti uguali, ma si differenziano in relazione al loro specifico codice guerriero che può essere giudicato di maggiore o di minore valore. Per questo motivo gli Indios del litorale non considerano avversari importanti quelli dell’interno che hanno tecniche di guerra assai inferiori alle loro, specializzati tra l’altro a combattere a bordo delle canoe e a far susseguire con ordine le varie fasi del combattimento.
Un combattente ferito deve essere capace di strapparsi la freccia dalla carne, spezzarla e morderne i pezzi e di continuare a muoversi e a battersi senza indietreggiare e senza voltarsi. Chi non è capace di fare questo è considerato un combattente di scarso valore e non rappresenta un gran merito il fatto di prenderlo prigioniero. Durante la prigionia i guerrieri hanno diritto di vivere in libertà dentro il territorio controllato dai vincitori fino a che giunge il momento del sacrificio che consiste nell’uccidere e mangiare il prigioniero ritenuto più coraggioso da parte del suo diretto vincitore. Tale sacrificio è seguito da una festa della durata di due giorni durante la quale si compiono complessi rituali, tutti volti a significare che le virtù del vinto sopravvivono nei vincitori. Conoscitori – come abbiamo avuto modo di apprendere – delle proprietà specifiche delle numerose piante medicinali, gli Indios sanno usare il curaro, potentissimo veleno naturale capace di bloccare la trasmissione neuro-muscolare e quindi provocare la morte istantanea, in modo strepitoso. Per questo hanno sempre impiegato il potente veleno per la caccia e a volte anche come arma da guerra, specializzandosi nella sua preparazione. Il curaro, noto come wourari o ourari, è estratto da alcune liane appartenenti a piante del genere “strychnos” e ha la caratteristica assai importante per un veleno da caccia, di agire solo se iniettato nella cute e non invece per via orale.
Usato per spalmare le frecce, ecco come ne è descritta la preparazione da un esploratore dei primi del ‘900: “… Un vecchio Indio stava estraendo il curaro da piante appena raccolte. Era l’alchimista della regione e aveva dei grandi vasi s’argilla in cui faceva bollire i succhi vegetali, dei vasi meno profondi in cui li faceva evaporare e delle foglie di banano arrotolate che servivano a filtrare i liquidi più o meno mescolati con fibre vegetali. Nella sua capanna regnava il più grande ordine e la più grande pulizia… la pianta utilizzatra era il bejuco de mavacure che si raccoglie abbondantemente lingo la riva sinistra dell’Orinoco e che si può usare sia fresca che essiccata badando al fatto che solo la corteccia e parte del midollo contengono il terribile veleno. La corteccia viene raschiata con un coltello e quindi ridotta in sottili filamenti triturandola sulla stessa pietra su cui si lavora la farina della manioca. Siccome il succo del veleno è giallo, tutta la massa assume quello stesso colore”.
Non esiste comunque un metodo unico per preparare il curaro, né un unico tipo di curaro e c’è chi li distingue a seconda dei recipienti dove sono conservati: canne di bambù, zucche, vasi di terracotta. In generale, e riassumendo le diverse osservazioni di numerosi ricercatori, il procedimento consiste nel far essiccare al fuoco la corteccia velenosa di una pianta, nel polverizzarla poi tra le mani attraverso un forte sfregamento, nel versarvi sopra acqua bollente e nell’usare direttamente sulle frecce il liquido così filtrato.

Leyenda sexta, (o del espíritu de la música). (9)

“Uakti (wah-ke-chee), una creatura enorme con tanti buchi sparsi sul corpo che ogni qualvolta attraversa la foresta, il vento che vi passa attraverso emette suoni meravigliosi e intriganti. La magia della musica amazzonica comincia da qui, da questa leggenda che vuole Uakti levarsi e mettersi a correre col vento che lo attraversa, portando scompiglio e gioia nel villaggio, tra gli Indios in attesa per la “festa del cauim”, che si svolge in occasione di particolari cerimonie come cerimonie religiose, di passaggio quali nascite, riti della pubertà, matrimoni, funerali, i cui preparativi hanno inizio alcuni giorni prima con l’approntamento del necessario affinché la “festa” riesca in ogni suo aspetto collettivo. E che va dalla preparazione delle paste che servono per dipingere il corpo (body-art), alla raccolta dei materiali per la fabbricazione delle maschere (nature-art), alla ricognizione dei materiali di ogni tipo, come noci, tuberi essiccati, tubi di canna, metallo, pietre, conchiglie, gomma, acqua, foglie, e di qualsiasi cosa produce suono, che permetta loro di fabbricare gli strumenti (music-art) davvero originali, che gli Indios utilizzano nel momento in cui Uakti fa risuonare la sua musica attraverso i fori che ha sul corpo”.

È scientificamente dimostrato, che la musica è in grado di scaturire emozioni simili in particolari gruppi di ascolto, sia che vivano in comunità, che in altre forme individuali. Va con sé che la musica e i canti degli aborigeni, presi ad esempio, e nati per una certa ritualità: una nascita, un matrimonio, un funerale, ecc. presentano caratteristiche e riescono a trasmettere emozioni diverse. Va detto inoltre che, l’emotività strumentale in cui una certa musica è suonata, e se vogliamo composta, è trasmissibile all’emotività attraverso i suoni che ne derivano, sia per le scelte tonali, sia per la lunghezza delle note, cantate o eseguite con uno strumento, pertanto, funziona da motore di sentimenti, un po’ come avviene per la maschera che si mette sul viso (o che ricopre il corpo di un danzatore), ha potere di trasformazione di una realtà che non è tale, capace di trasferire l’individuo in un “altro” (o in animale) e, in qualche modo, migliorarlo o peggiorarlo, a seconda dei casi, in qualcosa che lo “sublima”, rivestendolo di tutte le accezioni possibili, che vanno dall’idealizzazione, all’elevazione spirituale, all’esaltazione psicologica.
Ma è questa una storia che non è mai stata scritta e che qui ho cercato di raccontare (a mio modo) nell’ambito di un’esperienza di viaggio che ha lasciato un segno indelebile nel mio voler “viaggiatore sulle ali del tempo” che, tra clamorosi abbagli e straordinarie illuminazioni, cerca di scandagliare nei misteri che ci riserva questo nostro mondo, di misurarlo, utilizzarlo e comprenderlo nella sua nozione di infinito. Di ripercorrere, per così dire, le intuizioni e le follie che hanno costellato il cammino dell’uomo, cercando di svelare l’enigma della più importante delle sue invenzioni: quella “musica” che più lo accomuna con la natura cosmica del tutto. Quel “grande verde” in cui tutto, è affidato all’indicibile, a ciò che a noi riesce indescrivibile, inenarrabile e, in gran parte intraducibile, a causa delle lingue parlate dalle diverse etnie, sebbene il quechua (10), portato dagli Incas durante i loro falliti tentativi di conquista e, in un secondo tempo, dopo la scoperta dell’America, imposto e diffuso dai missionari cattolici per facilitarne l’evangelizzazione attraverso l’uso di un linguaggio comune, ha in certo qual modo, unificato molti dei linguaggi esistenti sul territorio. Lingue usanze e costumi di popolazioni che avremmo desiderato accompagnare nei misteri della loro stessa esistenza all’interno di quel paradiso terrestre che stiamo distruggendo con l’indifferenza e il silenzio.

Ecco, il nostro viaggio è giunto alla fine. E mentre ci scorrono davanti agli occhi ancora le immagini di un paradiso della natura che avremmo voluto incontaminato. Fermiamo tutto questo, prima che sia troppo tardi. Io mi fermo qui, prometto che torneremo ancora in Amazzonia, le tribù che la abitano sono numerose e di alcune non si conosce assolutamente nulla, neppure i loro nomi. Se bastassero le parole per dire ciò che vorrei, allora si aprirebbe un colloquio “disperato” sulla situazione: “una guerra di cui non si parla, non è neppure una guerra” dicono taluni giornalisti che fanno ben altro mestiere dal mio. Infatti siamo davanti a un ennesimo “genocidio” di cui nessuno parla. Dopo gli Indiani d’America, i Rom, i Berberi (tuareg), i numerosi “popoli” africani, gli Aborigeni australiani, dopo gli abitanti di Avatar, forse arriverà un giorno il nostro turno. Allora preferisco salutarvi con poche frasi intrise di sano profetismo tratte ancora una volta dal romanzo di Romano Battaglia (11) e che faccio mie:

“Il mistero della vita è nascosto nella foresta; camminando nell’imprevedibile conoscerai la saggezza dell’incertezza e capirai che cercare lontano significa scoprire verità ch’erano già dentro di te”.


Discografia:
Pubblicazioni in Italiano:
Ettore Biocca: “Viaggi tra gli Indi: Alto Rio Negro – Alto Orinoco” – CNR – Roma 1966
Diego Carpitella: “Yanoama: tecniche vocali e sciamanismo” (I Suoni – Su 2003) – Collana I Suoni – Cetra.
Harold Schultz e Vilma Chiara “Musica degli indiani del Brasile”, – Albatros – VPA 8452.
Vincentt Carelli, “Musica Indigena del Brasile”, SudNord Edit. – 1992. Centro de Trabalho Indigenista: Tribù Guaranì, Asurini, Walapì, Nambiquara, Aapanjèkra, Parakatejè, Bororo, Zuruaha.

Bibliografia essenziale:
Fritz Trupp, “The Last Indians: South America’s Culturall Heritage”, Perlinger Verlag -1981.

Peter Rivière “I popoli della terra: Amazzonia, Orinoco e Pampas” – Mondadori Milano 1973.
AA.VV. “La civiltà e i popoli dell’Amazzonia” – F.lli Melita Ed. – La Spezia 1992.

Note:
(1)Romano Battaglia, “Il dio della foresta” – Rizzoli Milano 1998.
(2-3-4) Franco Perlotto (fotografo) e Claudio Minoliti (reporter), articolo in “CapoHorn”, rivista specializzata in reportage di viaggio, di libri di avventura, di mare, di viaggi
e non solo...

(5) Giorgio Mancinelli, “Diario di viaggio”, (inedito), alcuni reportage utilizzati in diverse trasmissioni radiofoniche.

(6.7.8) AA.VV. “Miti e leggende degli Indios dell’Amazzonia” – Arcana Editrice – Milano 1987.

(9) Uakti (wah-ke-chee), il suo nome ripete quello del Tukano che ha dato luogo alla leggenda che porta lo stesso nome. Uakti appartiene al mito degli Indios che abitano le rive del Rio Negro. Il suo corpo è pieno di buchi in cui quando passa il vento, produce suoni che incantano le donne. Gli uomini della tribù cui Uakti si presenta, lo cacciano e lo uccidono e fanno del legno della palma che lo ha nascosto il legno per i flauti che portano lo stesso nome.

(10) Academia Peruana de la Lengua Kechwa (quechua) “Diccionario Castellano / Kechwa / Castellano” - Cuzco 1967.

(11) Romano Battaglia, op. Cit.

Cinema:
Tutti coloro che volessero farsi un’idea di quello che l’Amazzonia rappresenta in natura, può visionare i seguenti, oltre ad alcuni documentari della National Geografic specifici di alcune aree, i seguenti film d’autore che, oltre al successo riscosso per le tematiche trattate, permettono di vedere scorsi di ciò che di “meraviglioso” e di “pericoloso” l’Amazzonia rappresenta.

“Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, un film di Rolf De Heer, dal capolavoro di Luis Sepulveda, interpretato da Richard Dreyfuss.
“Fitzcarraldo”, di Werner Herzog, con la musica dei Popol Vuh, interpretato da Klaus Kinski e Claudia Cardinale.
“Aguirre furore di Dio”, di Werner Herzog, musica dei Popol Vuh, interpreti Klaus Kinski e Helena Rojo del Negro.
“Mission”, un film di Roland Joffe, con le musiche di Ennio Morricone, interpreti Robert De Niro e Jeremy Irons.


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